La «memoria» nella Scienza nuova di Vico

Oggi, molto spesso si dice che una persona è «smemorata», che è difficile memorizzare molte informazioni in poco tempo oppure che avere una buona memoria è un gran dono di natura. Ma che cos’è la memoria? E, perché è così tanto importante sia per noi, uomini moderni, sia per i pensatori di ogni epoca? Analizzando, ad esempio, la Terza edizione della Scienza nuova1 di Gianbattista Vico,2 si evince chiaramente la centralità della nozione di memoria. Menzionando la prima occorrenza di tale termine, si coglie il legame che, più avanti, Vico tenderà a rafforzare tra memoria e fantasia. Infatti, nell’Idea dell’opera, in cui l’autore vuole fornire una Spiegazione della dipintura proposta al Frontespizio che serve per l’introduzione dell’opera, si legge:

Quale Cebete tebano fece delle morali, tale noi qui diamo a vedere una Tavola delle cose civili, la quale serva al leggitore per concepire l’idea di quest’opera avanti di leggerla, e per ridurla più facilmente a memoria, con l’aiuto che gli somministri la fantasia, dopo di averla letta.3

Vico, dunque, utilizza la Tabula Cebetis, attribuita erroneamente a Cebete, come una rappresentazione favolistica della vita umana,4 per sottolineare il miglioramento della facoltà mnemonica e la possibilità di immagazzinare un maggior numero di informazioni attraverso la dipintura5 e le immagini. Vico sembra, dunque, attribuire una duplice utilità a tale Tavola: da un lato, prima di addentrarsi nell’opera, essa serve al lettore per comprendere sinteticamente e visivamente, a priori, il contenuto della sua Scienza nuova; dall’altro lato, tale rappresentazione iconica diverrà, con l’ausilio della fantasia, un efficace strumento di memorizzazione degli argomenti trattati nel testo, una volta terminata la lettura di quest’ultimo.6 D’altronde, la nozione vichiana di memoria, agli antipodi rispetto al ricordo di matrice hegeliana,7 si situa nel legame tra l’anamnesis e la mneme aristoteliche, in quanto sempre ancorata all’immagine, all’iconico.8 In un altro passo, Vico sostiene:

Dentro il qual tempo venne Omero, che […], lasciò i suoi poemi alla memoria de’ suoi rapsodi perché al di lui tempo le lettere volgari non si erano ancor truovate.9

Egli si richiama, dunque, a Omero, figura eroica presente anche nella dipintura poc’anzi menzionata, volta a rappresentare non un singolo individuo storicamente determinato, bensì una poeticità collettiva emersa quando ancora la scrittura non era stata inventata,10 uno stereotipo poetico universale in base al quale tutti i Greci erano soliti considerarsi creatori dei poemi omerici.11 Di fatto, nella prospettiva vichiana Omero viene interpretato come «un incomparabil poeta»,12 attivo nell’età eroica, ossia «nell’età della vigorosa memoria, della robusta fantasia e del sublime ingegno […]»;13 pertanto egli non è soltanto un filosofo.14 In definitiva, si tratta di un riferimento alla memoria orale, antecedente alla scrittura. Infatti:

[…] nel tempo nel quale non si fussero ancor truovati i caratteri della scrittura volgare, le nazioni parlassero frattanto in versi, i quali coi metri e ritmi agevolassero lor la memoria a conservare più facilmente le loro storie famigliari e civili.15

Tra le Pruove filologiche per la discoverta del vero Omero, Vico descrive la natura propria dei rapsodi, capaci di trasmettere di generazione in generazione, oralmente e a memoria, i libri omerici: «[…] i suoi rapsodi, i quali furon uomini volgari, […] partitamente conservavano a memoria i libri de’ poemi omerici».16 Più avanti, Vico ripete:

[…] ponendosi Omero a’ tempi di Numa, pur dovette correre lunga età appresso ch’i rapsodi avessero seguitato a conservar a memoria i di lui poemi17[…] un tal Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla guerra troiana fin a’ tempi di Numa […].18

E, rinsaldando il legame tra cecità e memoria, Vico sostiene che:

E la cecità e la povertà d’Omero furono de’ rapsodi, i quali, essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse «omero», prevalevano nella memoria, ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d’Omero per le città della Grecia de’ quali essi eran autori, perch’erano parte di que’ popoli che vi avevano composte lo loro istorie.19

Soffermandosi poi sulla figura del cieco, Vico sottolinea che: «Ed è proprietà di natura umana ch’i ciechi vagliono maravigliosamente nella memoria20». Ricollegandosi a Democrito che, secondo la tradizione, si sarebbe volontariamente accecato per riflettere in modo più concentrato, Vico enfatizza le straordinarie capacità mnemoniche dei ciechi,21 dichiarando inoltre che i rapsodi di solito erano caratterizzati da una grande memoria proprio perché erano ciechi.

Avendo lasciato ai posteri dei testi scritti, la letteratura di Esiodo, contrariamente a quella di Omero,22 invece, non è stata trasmessa a memoria dai ciechi-rapsodi; «Talché Esiodo, che lasciò opere di sé scritte, poiché non abbiamo autorità che da’ rapsodi fusse stato, com’Omero, conservato a memoria, e da’ cronologi, con una vanissima diligenza, è posto trent’anni innanzi d’Omero […]».23 «Per questa stessa ragione lo stesso è da dirsi d’Ippocrate, il quale lasciò molte e grandi opere scritte non già in verso ma in prosa, che perciò naturalmente non si potevano conservare a memoria[…]».24 E, tra le Pruove filosofiche per la discoverta del vero Omero, Vico aggiunge:

Che tali storie si dovettero naturalmente conservare a memoria da’ comuni de’ popoli, per la prima pruova filosofica testé mentovata: che, come fanciulli delle nazioni, dovettero maravigliosamente valere nella memoria.25

Del resto, in un passo tratto dai Principi si comprende la rilevanza della trasmissione di una lingua non scritta; «Gli arabi, ignoranti di lettera, come riferisce l’autore anonimo dell’Incertezza delle scienze, conservarono la loro lingua con tener a memoria i loro poemi finattanto ch’inondarono le provincie orientali del greco imperio».26 Finché i poemi arabi non sono circolati presso le province orientali della Grecia, venendo così a contatto con una lingua scritta (la lingua greca), essi sono stati conservati e trasmessi solo attraverso la memoria. E, più avanti:

In confermazione di ciò ch’abbiamo detto di tutte e due queste lingue, aggiungiamo l’osservazione che tuttavia si può fare ne’ giovani, i quali, nell’età nella qual è robusta la memoria, vivida la fantasia, e focoso l’ingegno, ch’eserciterebbero con frutto con lo studio delle lingue […].27

Occupandosi delle differenze sussistenti tra la lingua francese e quella greca, Vico comprende che i giovani sono i più adatti ad imparare una nuova lingua, in quanto dotati di una «robusta memoria». Nella Degnità L, infatti, Vico aggiunge che: «Ne’ i fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivida all’eccesso la fantasia, ch’altro non è che una memoria o dilatata o composta».28 Da questa asserzione assiomatica, è possibile dedurre il carattere composito della memoria, alla quale Vico riconduce anche altre due facoltà, la fantasia e l’ingegno.29

Onde la memoria è la stessa che la fantasia, la quale perciò «memoria» dicesi da’ latini […]; e «fantasia» altresì prendesi per l’ingegno.[…] E prende tali tre differenze: ch’è memoria, mentre rimembra le cose; fantasia, mentre l’altera e contrafà; ingegno, mentre le contorna e pone in acconcezza ed assettamento.30

Per Vico, dunque, la memoria, la fantasia31 e l’ingegno ci consentono di osservare un determinato oggetto da tre prospettive differenti, anche se in realtà esse non sono tre facoltà separate, ma andrebbero considerate come un «complesso di facoltà», che a partire dalla sensorialità, elabora il dato esperito attraverso la creatività e lo memorizza. Occorre, tuttavia, notare che nella prospettiva vichiana la fantasia, «l’organo dell’ingegno», ingigantisce e deforma i dati sensibili e plasma le immagini degli oggetti esperiti non in maniera veramente riproduttiva. La memoria invece è in grado di restituire in modo fedele e riproduttivo l’oggetto esperito. L’ingegno, infine, è quell’indole naturale che può essere «aguzzata» per necessità al fine di «cogliere l’identico nel diverso», elaborando traslati, in quanto «homo non intelligendo fit omnia».32 Pur considerando tali differenze, Vico tende comunque a rafforzare la complementarietà operativa di queste tre distinte facoltà. A tal proposito, Vico sostiene che:

[…] in tal umana bisogna i popoli, i quali erano quasi tutti corpo e quasi niuna riflessione, fussero tutti vivido senso in sentir i particolari, forte fantasia in apprendergli ed ingrandirgli, acuto ingegno nel rapportargli a’ loro generi fantastici, e robusta memoria nel ritenergli. Le quali facultà appartengono, egli è vero, alla mente ma mettono le loro radici nel corpo e prendon vigore dal corpo.33

La memoria, dunque, pur essendo una facoltà della mente, trae origine dal corpo ed è profondamente radicata in esso,^[34] così da consolidare nel ricordo e nella rimembranza quei dati sensibili di natura particolare che sono stati appresi attraverso la fantasia e confrontati tramite l’ingegno al fine di costituire degli universali fantastici.34 Oltre ad essere garante della storia, del linguaggio e della cultura,35 la memoria risulta essere allora alla base della conoscenza umana, ponendosi come intermediaria tra l’immaginazione e l’intelletto. A tal proposito, Vico afferma: «[…] della memoria, la quale non ha che fare ov’i sensi non le somministrano i fatti […]»;^[37]la memoria, dunque, indipendentemente dai dati sensibili e dai fatti che le vengono offerti, non potrebbe operare. Nel Capitolo intitolato Della fisica poetica intorno all’uomo o sia della natura eroica, Vico spiega che «i poeti teologi»:

«Riducevano tutte le funzioni interne dell’animo a tre parti del corpo: al capo, al petto, al cuore. E dal capo richiamavano tutte le cognizioni; che perciocch’erano tutte fantastiche, collocarono nel capo la memoria, la quale da’ latini fu detta per “fantasia”. E a’ tempi barbari ritornati fu detta “fantasia” per “ingegno”, e, ‘n vece di dir “uomo d’ingegno”, dicevan “uomo fantastico”; qual narra essere stato Cola di Rienzo l’autore dello stesso tempo il qual in barbaro italiano ne descrisse la vita».36

Vico sostiene allora che memoria, fantasia e ingegno differiscano tra di loro soltanto per ragioni terminologiche o per il diverso uso che di queste parole è stato fatto nei secoli. Secondo i Latini, infatti, la memoria è situata nel capo ed è da loro equiparata alla fantasia; in seguito, con il ritorno di un’epoca di barbarie,37 l’ingegno è stato identificato con la fantasia e i Medievali, invece di dire «uomo d’ingegno», erano soliti dire «uomo fantastico». Questa è l’espressione con cui propriamente è stato descritto anche Cola di Rienzo,38 «eroe»a capo della rivolta romana del 1347. Proprio per questo motivo, «[…] a ragione, i poeti teologi dissero la Memoria esser «madre delle muse», le quali sopra si sono truovate essere l’arti dell’umanità».39 La memoria vichiana, dunque, è madre di tutte le arti umane. A partire da questa asserzione è possibile comprendere «l’avvicinamento di Vico» alla nozione retorica di «memoria».

Avendo acquisito all’età di trentuno anni la cattedra di Retorica presso l’Università di Napoli, la nozione vichiana della memoria è fortemente influenzata dalla «memoria», intesa come terza fase nel processo di elaborazione del discorso retorico. In seguito all’inventio,40 attraverso la topica, ossia l’ars inveniendi, il retore si pone alla ricerca degli argomenti maggiormente persuasivi che lo porteranno ad ottenere il consenso del proprio uditorio. Durante la fase della dispositio, tali argomenti vengono ordinati dal retore, così da facilitarne la memorizzazione. Durante la fase della «memoria», infatti, egli si impegna per «mandare a memoria» il proprio discorso nella sua interezza, costruendosi mentalmente una sorta di «rete visiva», all’interno della quale i topoi, di cui egli si serve per conferire maggiore persuasività al discorso, si connettono a delle immagini.

«Accostando l’ingegno alla memoria», Vico tende ad avvicinare progressivamente la memoria alla topica, all’inventio, insomma alla creatività; del resto, queste facoltà, memoria-fantasia-ingegno, «appartengono tutt’e tre alla prima operazione mentale (ossia la perceptio), la cui arte regolativa è la topica, “l’arte del ritruovare” […]».41

In conclusione, nella Scienza nuova Vico attribuisce alla memoria un ruolo piuttosto significativo. È attraverso la memoria, infatti, che precedentemente all’invenzione della scrittura i poemi omerici e le lingue non scritte potevano essere divulgate e trasmesse ereditariamente ai posteri, venendo così a rinsaldare nel corso del tempo una vera e propria «cultura orale e mnemonica». Spesso erano proprio i ciechi a divenire rapsodi, ossia cantori vaganti nelle varie città greche capaci di una straordinaria memoria, a divulgare il «vero Omero»

Del resto, secondo Vico, la memoria è la facoltà del rimembrare e del riprodurre fedelmente gli oggetti esperiti; al contrario, la fantasia, intesa come memoria dilatata, ripropone i dati sensibili alterandoli e ingrandendoli. L’ingegno, infine, è quell’indole naturale che può essere «aguzzata» per necessità al fine di cogliere l’identico nel diverso, elaborando traslati. Per Vico, dunque, pur considerando tali differenze, esiste un complesso di facoltà, «memoria-fantasia-ingegno», che affonda le sue radici nella corporeità e che consente al genere umano di comprendere e di interagire con il mondo esterno nel quale esso è situato. Essendo docente di Retorica, Vico sottolinea anche l’importanza della «memoria», intesa come fase di sviluppo del discorso retorico; tuttavia, ad un certo punto della propria vita, egli tende ad «astrarre» la memoria dalla retorica per avvicinarla sempre di più all’inventio, alla topica, alla creatività.


  1. Occorre, infatti, considerare che la Scienza nuova di Vico ha avuto una diffusione travagliata ed è stata pubblicata in tre edizioni distinte: nel 1725, nel 1730 ed, infine, nel 1744. Per quanto concerne quest’ultima edizione, ossia quella che di solito viene utilizzata anche negli ambienti didattici e culturali attuali, essa ha visto la luce solo in seguito alla morte di Vico. ↩︎

  2. N. Badaloni, Introduzione a Vico, Laterza, Roma-Bari, 2008. ↩︎

  3. P. Rossi (ed.), Scienza nuova, Bur Rizzoli, Milano, 2012, p. 73. ↩︎

  4. Ibidem, nota 1. ↩︎

  5. È Vico stesso a definire l’immagine del Frontespizio con cui si apre la Scienza nuova una dipintura, riferendosi all’abituale uso di raffigurazioni allegoriche poste nell’incipit di testi filosofici e letterari a lui coevi; ibidem. Dipinta da Domenico Antonio Vaccaro e incisa da Antonio Baldi, la dipintura rappresenta la magistrale fusione della genialità artistica di questi ultimi e della genialità filosofica di Vico. Del resto, Vico stesso tende a ragionare in termini di «cultura visiva», connettendo la memoria all’icona, come è solito fare il retore durante il processo di elaborazione dei propri discorsi. ↩︎

  6. Tuttavia, in J. Trabant, La Scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 175, Trabant stesso confessa: «Dopo aver seguito la riduzione del libro all’immagine, rammemorando il frontespizio, anche se il mio ricordo era incompleto, tuttavia non ho affatto mal compreso la «idea dell’opera», il pensiero fondamentale della filosofia di Vico. Giacché quel che importa non è l’immagine stessa, che io, cioè, mi ricordi con precisione quel che può vedersi sul frontespizio, ma piuttosto il ricordo del procedimento: la condensazione del libro in una rappresentazione allegorica per immagini». ↩︎

  7. Ivi, pp. 175-178. ↩︎

  8. Ivi, p. 176. ↩︎

  9. P. Rossi (ed.), Scienza nuova, cit., p. 78. ↩︎

  10. Vico sostiene, infatti, che la scrittura nasce quando diventa sempre più impellente la necessità di mettere per iscritto i calcoli matematici e i conti quotidiani riguardanti i beni pecuniari e fondiari posseduti dagli uomini; Ivi, p. 232. ↩︎

  11. Per approfondire la concezione vichiana della memoria emersa nel Libro sul vero Omero, vedi J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., p. 171; infatti, si legge che: «Gli stessi popoli greci sono il vero Omero»; ibidem. Inoltre, per un riscontro testuale diretto, vedi P. Rossi (ed.), Scienza nuova, cit., p. 109. ↩︎

  12. Ivi, p. 571. ↩︎

  13. Ibidem. ↩︎

  14. Ibidem. Agli occhi di Vico, Omero è l’universale fantastico che simboleggia la figura del poeta eroico; proprio per questo motivo, tutti i poeti greci si sentono come Omero e, per Vico, addirittura essi sono tanti Omero. ↩︎

  15. Ivi, p. 554. ↩︎

  16. Ivi, p. 557; in questo caso, il pronome possessivo «suoi» è riferito a Omero. ↩︎

  17. Ivi, p. 559. ↩︎

  18. Ivi, p. 567. ↩︎

  19. Ivi, p. 567. ↩︎

  20. Ivi, p. 564. ↩︎

  21. Per approfondire, vedi p. 564, nota 23. ↩︎

  22. Occorre sottolineare che nella Scienza nuova Vico non presenta Omero come l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, marginalizzando del tutto tale aspetto ancora oggi controverso e massimamente dibattuto.Egli focalizza la propria attenzione su Omero non come individuo storicamente esistito, ma come universale fantastico e antropologico, i cui poemi sono stati trasmessi grazie alla memoria e alla parola dei rapsodi. A tal proposito, consulta il presente lavoro a p. 5. ↩︎

  23. Ivi, pp. 559-560. ↩︎

  24. Ivi, p. 561. ↩︎

  25. Ivi, p. 550. ↩︎

  26. Ivi, p. 318. ↩︎

  27. Ivi, pp. 171-172. ↩︎

  28. Ivi, p. 186. ↩︎

  29. Per approfondire il rapporto tra queste tre facoltà, vedi J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., in particolare il Capitolo VII. Per comprendere il ruolo assunto dall’ingenium in Vico, vedi S. Gensini, Ingenium e linguaggio, in J. Trabant (ed.), Vico und die Zeichen, Akten des von der Freien Universität Berlin, der Volkswagenstiftung und dem Instituto per gli Studi Filosofici (Neapel) veranstalteten internationalen Kolloquiums (Berlin, 23-25 September 1993), pp. 237-255. ↩︎

  30. Ivi, p. 550. ↩︎

  31. P. Rossi (ed.), Scienza nuova, cit., p. 482, nota 8. ↩︎

  32. Ivi, p. 273. ↩︎

  33. Ivi, p. 550. ↩︎

  34. Per approfondire la concezione vichiana dell’universale fantastico, vedi la Degnità XLIX; Ivi, pp. 185-186. ↩︎

  35. In J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., pp. 161-164, si comprende che nel passaggio dalla memoria vichiana alla memory inglese, si assiste ad una forma di riduzionismo della memoria, in virtù della quale emerge la perdita del legame tra tale facoltà con la storia, la cultura e il linguaggio. La memory è, infatti, puntiforme, individualistica e isolata dal contesto globale. ↩︎

  36. Ivi, pp. 481-482. ↩︎

  37. In questo caso, probabilmente Vico si sta riferendo all’epoca medievale, da lui considerata il ritorno della barbarie primitiva, all’origine dell’intera umanità. Per comprendere tale aspetto della filosofia vichiana, occorre tenere in considerazione la concezione della temporalità e l’articolarsi del processo storico attraverso corsi e ricorsi; a tal proposito, vedi P. Rossi (ed.), Scienza nuova, cit., pp. 656-684. ↩︎

  38. Vico evoca un passo tratto da F. Cusin (ed.), Vita di Cola di Rienzo, Firenze, G.C. Sansoni, 1943, p. 17. ↩︎

  39. P. Rossi (ed.), Scienza nuova, cit., p. 483. In questi termini si era espresso Thomas Hobbes: «gli antichi favoleggiarono non assurdamente facendo della Memoria la madre delle muse»; T. Hobbes, English works, I, London, John Bohn, 1839, p. 13. ↩︎

  40. Durante la fase retorica denominata inventio, il retore si appresta a scegliere il tema del proprio discorso. Per approfondire le fasi di elaborazione del discorso retorico, vedi C. Costa (ed.), De oratore, Torino, Società editrice internazionale, 1925, in particolare il Libro II. ↩︎

  41. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., p. 168. Occorre, tuttavia, considerare che Vico arriva a formulare tale teoria soltanto in seguito alla «svolta» degli anni 1715-1720, mentre, invece, in precedenza, procedendo in accordo con Matteo Pellegrini (M. Pellegrini, Delle acutezze, RES, Torino, 1997), Vico era solito associare l’ingenium e l’elaborazione ingegnosa delle metafore (e, dunque, il complesso memoria-fantasia-ingegno) non al primo momento della conoscenza, bensì al terzo, corrispondente al ragionamento. ↩︎