Recensione a Salvatore Lavecchia, Oltre l’uno ed i molti. Bene ed essere nella filosofia di Platone

Salvatore Lavecchia, Oltre l’uno ed i molti. Bene ed essere nella filosofia di Platone, Mimesis, Udine 2010.

Se nella manualistica scolastica, e talvolta anche accademica, siamo stati abituati a studiare Platone considerandolo come il massimo rappresentante del dualismo filosofico, è anche vero che c’è stato nella storia della filosofia un lungo periodo in cui egli era addirittura venerato come il campione di un monismo assoluto; mi riferisco, in quest’ultimo caso, all’interpretazione che della sua filosofia diede il Neoplatonismo. Sembra, tuttavia, che sia possibile uscir fuori da questa rigida e, soprattutto, sterile contrapposizione monismo-dualismo, grazie ad un interessantissimo volume edito da Mimesis (2010), Oltre l’Uno ed i Molti. Bene ed Essere nella filosofia di Platone, il cui autore è Salvatore Lavecchia.

Si tratta di un libro che propone una lettura radicalmente diversa, rispetto a quella tradizionale, della Protologia di Platone, a partire dal, peraltro già noto, concetto di Bene (to agatòn) come «diffusivum sui», in quanto intrinsecamente áphthonos, privo-di-invidia. Lavecchia sostiene, da un lato, alcune tesi davvero inusitate riguardo alla natura più profonda del Principio assoluto secondo Platone; dall’altro, un’interpretazione complessiva che riesce a rendere conto dell’organicità di fondo del pensiero platonico relativo ai Principi Primi, riuscendo, tra l’altro, a dipanare egregiamente il nodo teorico del tipo di rapporto intercorrente tra i due Principi Bipolari (Uno e Diade Indeterminata), e tra questi e il mondo degli enti. L’autore, inoltre, fa riferimento anche ai cosiddetti àgrapha dògmata (ovvero alle Dottrine non-scritte), nei quali Platone avrebbe esposto oralmente il proprio pensiero riguardo appunto all’Uno e la Diade Indeterminata, supremi Principi oltre l’essere e il mondo intelligibile stesso. A supporto delle sue tesi, Lavecchia individua con lodevole perizia filologica (da rilevare, a questo proposito, la formazione filologica classica dell’autore) dei nessi intertestuali, raramente considerati dalla letteratura secondaria, tra i vari dialoghi platonici, operando anche dei pregevoli riferimenti a fonti reperite nel panorama dei filosofi antichi «minori», fra i quali notevoli sono i richiami ad Aristosseno, Siriano, Simplicio, e ad altri. Ma ciò che forse colpirà di più il lettore è il fatto che Lavecchia compia un’ardita quanto, a mio avviso, estremamente convincente operazione ermeneutica, tentando un confronto a prima vista sconcertante tra la Protologia platonica e la dottrina dei Principi presenti nel Rig-Veda, traendo spunto dall’esame (e dalla traduzione direttamente dal vedico) di un Inno cosmogonico del 1100 circa a. C.

Uno sguardo più dettagliato ad alcuni degli snodi concettuali più significativi del testo di Lavecchia, riportando anche alcune citazioni del suo lavoro, ci consentirà di poterne dare meglio, alla fine, una valutazione complessiva.

La tesi di fondo del libro di Lavecchia è che in Platone il Principio Primo, che è meglio denominare Meta-Principio, non è Uno Non-Uno (o Molti), ossia esso è davvero «oltre» l’Uno e il Non-Uno (dunque, al di là di qualsiasi monismo e di qualsiasi dualismo). L’autore, discutendo anche una gran mole di studi della letteratura secondaria straniera, fonda la propria interpretazione sull’analisi del concetto del Bene in Platone, utilizzando e valorizzando tutti i luoghi dei dialoghi platonici in cui il filosofo ateniese fa dei riferimenti, più o meno espliciti, al Bene. Lavecchia ricorda che per Platone il Bene «non è identificabile con nessuna manifestazione dell’Essere», che «dimora oltre la determinazione stessa di Essere»,1 e che quindi «mai dovrebbe esser concesso racchiudere in concetti o immagini».2 In quanto «diffusivum sui» esso è «intrinsecamente produttore di relazionalità»,3 e pertanto «il Bene sarà un Principio eminentemente relazionale ed iconopoietico».4 Proprio questo implicare «immediatamente la relazionalità, ovvero l’impulso a generare una immagine di sé, un Altro»,5 fa sì che il Principio stesso «porrà in se stesso, nella maniera più radicale, la possibilità di una differenza da se stesso, ossia di una autonegazione».6 Infatti, proprio perché il Principio è Bene, ossia aperto all’immediato auto-comunicarsi, esso «pone immediatamente in sé la possibile negazione di sé, ovvero è Uno e Non-Uno».7 In tal modo, il principio «è quell’Unico oltre l’Uno ed i Molti che, privo di invidia, […] pone in maniera parimenti radicale tanto se stesso quanto la negazione di sé», e così è, «oltre ogni forma di essere […] radice tanto dell’Uno quanto del Molti, […] tanto dell’Uno quanto della Dualità Indeterminata».8 Il Principio è, allora, «incondizionato riversarsi oltre se stesso»,9 e, «pur essendo il supremo Uno»,10 altrettanto originariamente esso pone in se stesso immediatamente l’auto-negarsi.

Si possono scorgere, in alcune di queste argomentazioni, delle notevoli affinità (peraltro evidenziate da Lavecchia stesso) concettuali e terminologiche con le letture che della Protologia platonica hanno fornito anche alcuni filosofi italiani come Massimo Donà, Massimo Cacciari e Luigi Pareyson, sebbene Lavecchia declini, poi, il discorso in direzione della salvaguardia di una paradossalità del Meta-Principio, da intendere come radicalmente al di là di una sua possibile identificazione con il monistico Uno-Uno, di cui si discute nella prima ipotesi del Parmenide platonico.

Tant’è vero che Lavecchia afferma testualmente che «paradossalmente, oltre ogni relazione di autoidentità, il Bene-Uno non è tale se non come Uno-Non-Uno».11 Ma ciò che preme di più sottolineare è che tale non-dualità con la aòristos duàs viene pensata come un «punto di discontinuità rispetto al Primo», che tuttavia è insito entro lo stesso Primo, dato che «il Secondo è […] la radicale negazione dell’Unità, negazione posta dal Bene in se stesso».12 Ed è a tal punto nello stesso Primo Principio, tale Dualità Indeterminata, questa radicale Non-identità con sé, che «il secondo Principio è piuttosto […] l’immediata discontinuità rispetto a se stesso che il Bene presuppone in se stesso […], l’originario autonegarsi che, prima di ogni forma di essere, sussiste nel Bene (non accanto o fuori dal Bene!) ».13 Quindi, non accanto o fuori, ma nello stesso Principio, in perfetta coincidenza simultanea, in una radicale non-dualità. Mi sembra di poter affermare che siamo in presenza di un’interpretazione dell’essenza del Principio a dir poco distante da quella che usualmente propone la maggior parte degli studiosi. Ciò suggerisce, infatti, l’idea che il Nulla, la Negatività, la Non-Identità, il Non-Uno non siano momenti né temporalmente, né logicamente, né ontologicamente successivi al Principio, ma assolutamente insiti in esso, in una indistinguibilità paradossale con esso. Tant’è vero che Lavecchia ritiene di poter parlare anche di «sovraipostatica coincidentia oppositorum»14 a proposito del Principio-Bene. Proprio per auto-comunicarsi, per essere relazionale, è necessario, infatti, che il Principio-Bene «apra in se stesso un abisso di auto-negazione», un vero e proprio «aspaziale vuoto», un autentico «fecondo nulla»,15 che lasci «spazio» per l’auto-concepirsi nell’esistenza. Il Bene, dunque, si riversa senza invidia nell’abisso dell’auto-negazione che è tutt’uno col donare la propria potenza all’Alterità, all’Altro-da-sé.

È estremamente interessante accennare anche all’esegesi che Lavecchia propone della famosa locuzione platonica «epèkeina tes ousìas», VI 509 b. Egli afferma che con questa espressione Platone intende il Bene come effettivamente «oltre l’essentità»,16 vale a dire intende sostenere una trascendenza radicale rispetto all’Essere, ma in modo che rimanga salvaguardata una potenza poietica del Bene, in modo che esso faccia sì che le cose siano, pur senza essere esso stesso «una qualche forma dell’Essere». Questa lettura è molto suggestiva, per almeno due motivi: il primo è legato alla questione controversa della natura del Bene-Principio, dibattuta anche dal punto di vista filologico per il senso da dare all’espressione «epèkeina tes ousias» (per es. Berti non sostiene per niente l’idea che con questa espressione Platone intendesse un Principio assolutamente oltre l’Essere, insomma qualcosa che sia in un modo o nell’altro una sorta di Nulla); il secondo chiama in causa, seppur indirettamente, la cosiddetta dottrina «meontologica» di Pareyson e di Givone, la quale sostiene la coincidenza di Bene e Male in Dio, sebbene il Male sia inteso solo nel senso di possibilità eternamente sconfitta; ma l’aspetto specifico a cui effettivamente si può fare riferimento di tale dottrina è l’idea del Nulla assoluto presente nell’originaria auto-concezione di Dio, non un nulla relativo, un non-essere di qualche cosa, ma assoluto, sebbene venga «annullato» esso stesso da Dio (il Meta-Principio, comunque, annulla il Nulla, dunque, in un modo o nell’altro, la sua natura deve necessariamente implicare una coincidenza simultanea col Nulla, una non-distinguibilità, o «non-differenza», come dice testualmente anche Lavecchia). In effetti, l’autore precisa che «il Bene trascenderà quindi non solo ogni ente, ogni on-ousìa, ma anche l’Essere in generale (einai): mentre l’Essere è determinato dalla propria identità, dal fatto che non può non essere, e che quindi è sommo Ente, ousìa, il Bene consiste, lo abbiamo già visto, nel più puro trascendere ed autotrascendersi, nella principiale libertà rispetto ad ogni identità, e dunque rispetto, appunto, ad ogni determinazione, sia essa anche la più assolutamente autofondata».17

Con queste affermazioni, Lavecchia mostra di considerare: a) il Principio-Bene sicuramente oltre l’Essere, in ogni senso inteso, altrimenti a qualche senso dell’Essere il Principio-Bene sarebbe vincolato; b) il Principio-Bene assolutamente privo di Identità, nel senso che non ne ha bisogno, e non di una mancanza, un difetto; infatti è libero di darsela questa Identità o di non darsela, e anche nel senso che comunque non è da niente, con niente, da nessuno e con nessuno identificabile; c) il Principio-Bene, per tutti questi motivi, ma soprattutto per il fatto di non-essere-identico a sé, o comunque di non essere determinato da questa auto-identità, deve necessariamente essere anche oltre il Principio aristotelico di Non-Contraddizione, cioè non è vincolato alla norma del non doversi mai contraddire, del dover essere sempre se stesso ogni volta che è.

Il fatto che, come rileva lo stesso Lavecchia, Platone poi in altri luoghi della Repubblica identifichi il Bene con l’Idea del Bene, e dunque con l’Ente supremo ecc., fatto che porterebbe ad una aporia, viene sciolto riconducendolo alla «antinomicità», che è come dire auto-contraddittorietà, della natura stessa del Principio-Bene.

Questa distinzione non va considerata come una «separazione», come una dicotomia radicale. È vero, infatti, che «sgorgando dall’abisso dell’auto-negazione che il Bene pone in se stesso, il sommo Ente non sarà altro che il primigenio automanifestarsi del Bene, ossia l’assoluto, o, meglio, principiale autonegarsi dell’autonegarsi implicito nel Bene. In assenza di questa negazione della negazione non si potrebbe infatti costituire alcuna essentità, alcuna ousìa». In questo modo, la caratterizzazione della natura del Principio-Bene implica, ancora una volta, la violazione del Principio aristotelico di Non-Contraddizione, dato che il Principio-Bene viene «caratterizzato tanto come al di là dell’Essere quanto come Ente-Idea»; questo essere tanto-quanto è, proprio da un punto di vista rigorosamente logico, una trasgressione di quel principio logico, in quanto le caratterizzazioni del Meta-Principio sono esaustive-esclusive (non si può essere contemporaneamente dentro e fuori dall’Essere), eppure sono compresenti, vale a dire entrambe stanno insieme e al tempo stesso nell’Assoluto: si tratta di una paradossale «metaidentità, quale antinomica identità nella distinzione, o, meglio, coincidentia in alteritate».18

Il Bene per Platone, inoltre, non è soggetto ad alcuna necessità. Il suo auto-comunicarsi non è per Lui vincolante; essendo Incondizionato, «con la stessa radicalità e libertà con cui si comunica potrebbe non comunicarsi, potrebbe non farsi Principio». Esso è «l’in-differenza, la non-differenza del non-aliud, che trascende ogni forma di relazione, incluse identità e differenza».19 Il Meta-Principio «trascende ogni forma di affermazione e negazione, di essere e non-essere»,20 espressioni che mostrano una visione che va al di là persino della teologia apofatica, nel senso che l’Assoluto non è certo nominabile (tranne, forse, che con l’espressione Bene), né definibile, insomma non ha determinazioni positive; tuttavia, non ha nemmeno soltanto determinazioni negative, e non è insomma definibile nemmeno negativamente, ed è proprio per questo di natura assolutamente contraddittoria e paradossale, «collocandosi», in tal modo, persino al di là del Principio del Terzo escluso. Il Meta-Principio «trascendente rispetto all’Uno e ai Molti, all’Essere e al Nulla, alla manifestazione e al vuoto, può, senza invidia, senza perché, […] volersi come quel Nulla nel cui abisso l’Altro, ovvero l’Essere, trova il proprio incondizionato fondamento e attuarsi».21 Tant’è vero che «nel niente di un incollocabile istante, improvvisamente (exaìphnes) s’inabissa nel proprio Nulla, dimensionandosi come assoluto Fondamento».22

Prima di concludere, è interessante fare qualche riflessione finale sulla bella connessione operata da Lavecchia tra il Veda e la Protologia platonica. Nel commento all’Inno vedico cosmogonico (Rig-Veda X 129), Lavecchia evidenzia la natura altrettanto paradossale del Principio assoluto presente nel testo sacro indiano. Egli sottolinea la «condizione di totale in-determinatezza» in cui «allora» era il Meta-Principio o Assoluto, il «Questo».23 Indeterminatezza in cui «nessuna fra le polarità costituenti l’Essere è manifesta: i contrari […] sono ancora indifferenziati».24 Ma, ancor più paradossalmente, nell’Assoluto «sono contenute-affermate e allo stesso tempo eccedute-negate, oltre ogni (anche potenziale) differenziazione e opposizione, tutte le possibilità dell’Essere e del Non-Essere»,25 precisando che «l’in-sussistenza di qualsiasi determinazione, incluse quelle universalissime di essere e non-essere, qui non è difetto, ma eccesso, sovrabbondare di potenza e possibilità».26 Possiamo, qui, notare, una notevole affinità non solo con gli aspetti, fin qui evidenziati, relativi alla natura del Meta-Principio in Platone, ma anche con alcune idee contenute nelle Enneadi di Plotino. Anche in merito alla dottrina dell’«auto-fecondarsi» del Meta-Principio, troviamo molte affinità non soltanto con il principio dell’auto-negarsi intrinseco del Bene in Platone, ma anche con le suggestive idee della kenosi dell’Assoluto in molte delle filosofie orientali (non escluso il Buddismo): il primo nato, infatti, viene detto nel commento di Lavecchia all’Inno del Rg-Veda, «è l’assoluta tenebra, l’assoluto vuoto, il primigenio Non-Essere, da cui traggono origine tutte le forme dell’Essere».27 Dall’assoluta Indifferenza e Indistinzione si può venir fuori inizialmente solo con un assoluto auto-negarsi, che appunto sfocia in un Nulla iniziale, o che perlomeno include in sé la Negatività nella sua purezza, vale a dire l’assoluta assenza di determinazione. L’assoluta Indistinzione dell’Inizio, prima di farsi Essere, vuole fare il vuoto di tutto proprio per far-essere tutto, per lasciare spazio all’Essere; e perché la «prima» possibilità, latente ma sempre incombente, è quella della onni- e auto-distruzione (anche qui è il caso di ricordare un’idea simile di Pareyson: in Dio, la possibilità dell’annullamento è sempre inclusa, seppure sempre vinta dall’eternità). Ora, «questa autogenerazione ha luogo mediante un ardore»,28 il quale «può essere caratterizzato come attività tanto di concentrazione-condensazione quanto di espansione»;29 in effetti, l’atto iniziale ma eterno del Meta-Principio include in sé tutti gli opposti, anzi è originaria Non-Dualità «fra il puntiforme (ma adimensionale) embrione del Tutto […] e lo spazio vuoto […] prodotto dall’autofecondarsi-concentrarsi del Meta-Principio».30 Questo aspetto trova un riscontro, secondo Lavecchia, nella dottrina dello «tzim-tzum», o «auto-ritrarsi» di Dio, elaborata dalla Qabbalah medievale di Lurja.

Mi sembra di poter affermare, conclusivamente, che le questioni discusse e gli aspetti nuovi della Protologia platonica, messi in risalto nel libro di Lavecchia, siano più che sufficienti per poter affermare di essere in presenza di una svolta, sicuramente ancora embrionale, ma colma di potenzialità feconde, negli studi su Platone.


  1. Ivi, p. 11. ↩︎

  2. Ibid. ↩︎

  3. Ivi, p. 12. ↩︎

  4. Ibid. ↩︎

  5. Ivi, p. 17. ↩︎

  6. Ibid. ↩︎

  7. Ivi, p. 19. ↩︎

  8. Ivi, p. 23. ↩︎

  9. Ivi, p. 24. ↩︎

  10. Ibid. ↩︎

  11. Ibid. ↩︎

  12. Ibid. ↩︎

  13. Ivi, pp. 24-25. ↩︎

  14. Ivi, p. 27. ↩︎

  15. Ivi, pp. 37-38, e cfr. tutto il cap. 5. ↩︎

  16. Ivi, p. 47. ↩︎

  17. Ivi, p. 45. ↩︎

  18. Ivi, p. 48. ↩︎

  19. Ivi, p. 60. ↩︎

  20. Ibid. ↩︎

  21. Ibid. ↩︎

  22. Ivi, p. 61. ↩︎

  23. Ivi, pp. 66-67. ↩︎

  24. Ivi, p. 67. ↩︎

  25. Ivi, p. 68. ↩︎

  26. Ibid. ↩︎

  27. Ibid. ↩︎

  28. Ibid. ↩︎

  29. Ibid. ↩︎

  30. Ivi, p. 69. ↩︎