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Dall'intelletto amoroso plotiniano all'eros liturgico dionisiano. Tra ragione e mistica nella tradizione neoplatonica

di Benedetta Selene Zorzi (11 ottobre 2013)

Da non pochi fronti disciplinari, anche prettamente scientifici, emerge oggi una spinta a ripensare i limiti della ragione, evidenziando la relazione intrinseca, complessa e vincolante che essa ha con gli affetti, i sensi e l'esperienza religiosa. Si ricorderà a questo proposito la Lectio Magistralis di Benedetto XVI tenuta a Regensburg il 12 settembre 2006. A partire infatti dall'epoca moderna, la ragione si è come ridotta ad una sola funzione di essa, quella analitica, perdendo così la possibilità di «dare ragione» della complessità dell'umano e della sua esperienza. In questo saggio si intendono presentare due esempi, tratti dalla tarda antichità, Plotino e Ps.-Dionigi Areopagita,in cui i confini della ragione sono stati pensati in modo fortemente connesso con l'esperienza della fede e dell'amore.

1. Eros e filosofia

È stato Empedocle il primo ad introdurre il concetto di eros in filosofia. Egli lo intese come forza cosmica di attrazione di tutte le cose, opposto al principio di odio che è il principio di separazione.1 Fu tuttavia Socrate il primo filosofo nella storia della filosofia ad aver fatto dell'eros una questione centrale per la filosofia morale: la sua stessa relazione con i discepoli non era considerata da lui come qualcosa di esteriore al fine della comprensione della vita filosofica.2

Nella successiva tradizione platonica, la ragione resterà segnata da questo inizio «erotico» e sarà sempre strettamente connessa all'amore. L'eros, infatti, sveglia e dirige la ricerca filosofica, mostrandosi come forza motivante della ragione umana, sempre minacciata dall'akrasia -- una sorta di debolezza intrinseca -- nel processo di individuazione e raggiungimento del vero e del bene.

In Platone il percorso dell'anima, mossa dal desiderio della bellezza, alla ricerca della Verità si risolve in un'esperienza impersonale, una contemplazione che, a causa della natura stessa del Bene -- come limite perfetto -- implica una separazione tra contemplante e contemplato, tra il filosofo e l'Idea. Infatti, il filosofo al sommo della scala platonica contemplerà la Bellezza in sé come fuori di lui, e inoltre le Idee non hanno intenzionalità nei confronti dell'uomo.

Nonostante una grande diffidenza nei confronti delle emozioni (pathe), la filosofia antica, perfino nello stoicismo,3 riuscirà difficilmente a sganciarsi del tutto da questo inizio erotico della filosofia e se lo farà, lo farà a prezzo di grandi rimodellamenti del concetto di eros.4

Quando nel medioevo, a causa di un crescente fraintendimento antiplatonico di Agostino, la volontà inizierà ad essere concepita separata dall'amore, come una facoltà a sé stante, iniziò quel percorso che portò Cartesio a separare la ragione dal resto dell'esperienza umana e che che ha portato -- come oggi -- la filosofia e la ragione stessa ad un impasse.

In quanto maggiormente connessa con l'amore e gli affetti, con la via estetica ed estatica, la filosofia di stampo platonico ha sempre mantenuto un forte afflato religioso. Qui l'intelletto ha continuato ad avere, anche in epoca tardo antica, un ruolo primario nell'esperienza religiosa, ristrutturando in una diversa modalità l'antico collegamento che Platone aveva intravisto tra eros e le altre facoltà umane (Rep. IX).

2. La ristrutturazione plotiniana

Benché Plotino sia qualche volta considerato l'iniziatore (involontario)5 che darà vita al neoplatonismo,6 tuttavia egli è convinto di essere semplicemente un platonico.7 Si veda la sua affermazione:

Perciò le nostre teorie non sono né nuove né di oggi, ma sono state pensate da molto tempo anche se non in maniera esplicita, e i nostri ragionamenti sono l'interpretazione di quegli antichi, la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone. (V, 1, 8)

Del resto Plotino si riferisce a Platone come ad una autorità, utilizzando il termine autós (IV, 8, 1). Egli si accorge certo di alcune incoerenze del maestro, come si legge in questo testo:

Sembra che egli non insegni ovunque le stesse cose in maniera che chiunque possa conoscere facilmente le sue intenzioni; Intorno alla scienza di lassù, a quella che anche Platone ha di mira quando dice «non quella che è altra in altro» (ma come sia da intendere egli ha lasciato a noi il compito di ricercare e scoprire), sarà meglio forse -- poiché vogliamo esser degni del nome di platonici -- prendere di qui il nostro punto di partenza. (V, 8, 4)

Tuttavia non aveva quel senso della coscienza storica come noi moderni, che gli avrebbero permesso di attribuire queste «incoerenze» ad un'evoluzione del pensiero di Platone. Egli cerca perciò di interpretare il pensiero del maestro e la sua comprensione probabilmente passò anche per il filtro dalle risposte che egli dovette dare ai critici di Platone.8 È chiaro che Plotino usa Aristotele per comprendere Platone, ma anche per interpretarlo e criticarlo.9 Si possono forse ridurre a due le fondamentali idee che in un certo senso arrivano a spiegare tutte le diversità tra il sistema platonico e l'originalità plotiniana, le quali determinano quasi un effetto a catena di una ricomposizione degli elementi platonici in una forma completamente nuova e coerente:

Si aggiungano alcuni concetti aristotelici del dio come oggetto di desiderio di tutti gli esseri, del nous che pensa se stesso e dell'adagio empedocleo che il simile conosce il simile, e avremo il nuovo sistema.

La questione «se i pensieri siano fuori dal Nous» fu grandemente dibattuta prima e dopo Plotino:10 ce ne parla Porfirio in VP 18. Infatti, in Platone le Forme sono esterne all'anima (cfr. Parm. 132B-c), ma già secondo una tradizione precedente a Plotino (Albino, Alessandro di Afrodisia), il noetón aristotelico era identificato con i noetá platonici, cioè le Forme. Il platonismo medio è probabilmente un antecedente di Plotino nel ritenere le Idee pensieri di Dio e Filone stesso collocava le Idee nella mente di Dio.11 A volte l'intelletto è identificato da Plotino con il demiurgo del Timeo platonico (altre volte lo identifica però con la psyché) e le Forme invece con i noetá.12 Ma per Plotino il Nous di Aristotele non può essere il primo principio, perché secondo lui altrimenti non si spiega la molteplicità come afferma Gerson «Plotino rigetta l'intelletto come principio primo, postulato da Aristotele, perché l'attività dell'intelletto implica complessità e ciò che è complesso non può essere arché di tutto».13 Egli subordina perciò l'intelletto e gli intelligibili all'arché di tutto, cioè al primo principio. Quest'ultimo normalmente nella tradizione filosofica greca antica era stato identitificato con il nous (per esempio da Senocrate, Aristotele e dagli stoici), ma qui Plotino si risolse per un'interpretazione discostantesi da questa tradizione e probabilmente anche dalle intenzioni platoniche. Armstrong ipotizza infatti che Longino si opponesse a Plotino proprio perché non ritrovava questa idea negli scritti di Platone.14 C'è da dire che i testi sui quali Plotino però può essersi basato per intendere le Forme come pensieri di Dio sono Resp. X, 597d; Tim. 39e (cfr. Enn. II, 9, 6; III, 9, 1); Tim. 92c; Ep. II (considerata a quel tempo autentica); Rist15 in modo particolare rileva come nella storia delle idee sia probabilmente Filone -- per ciò che sappiamo -- ad aver impiegato le Idee in un contesto demiurgico. L'idea espressa nella Seconda Lettera 312e, considerata autentica, in cui si parla delle «tre realtà divine», ha contribuito a sistemare il pensiero di Plotino.16

2.1. Plotino e la religiosità

Plotino fu un uomo con un forte senso della presenza divina nel mondo (si ricorderanno le sue parole sul punto di morte: «io mi sforzo di ricondurre il divino che è in me al divino che è nell'universo» VP 2 26-27) e Porfirio ci dice che non abbandonava mai la sua vigilanza interiore («rimaneva in se stesso pur essendo con gli altri» VP 8, 19-20) parlando di lui come di una anima dalla straordinaria potenza (VP 10, 6) ma questo non significò per lui aderire ad una qualche forma di religione istituzionale che comportasse cerimoniali teurgici, a quel tempo tanto in voga. Si ricorderà l'episodio raccontato da Porfirio:

Amelio era amante dei sacrifici e non tralasciava alcuna cerimonia della luna nuova e nessuna festa; un giorno volle condurre con sé Plotino, m questi gli disse: Devono essi venire a me e non io a loro (VP 10, 34-38).17

Porfirio ci dice che Plotino raggiunse l'estasi quattro volte nella sua vita, seguendo i metodi consigliati da Platone nel Simposio, mentre lui stesso una sola (VP 23). Come vedremo in seguito, questo dettaglio va letto anche alla luce dello sviluppo successivo della tradizione neoplatonica. Il cammino filosofico coincide per Plotino con quello verso la propria unificazione interiore, la cui mèta non può essere descritta o trasmessa dall'esterno, ma solo esperita da ciascuno, a causa della natura stessa del sommo principio.

2.2. L'Uno: apofatismo e catafatismo

Il sommo principio plotiniano risulta caratterizzato dal seguente ragionamento sugli elementi della tradizione platonica: le Forme sono Essere (Phaedr. 250d1) e l'essere (ousia) è finito (Resp. 484d), ma il Sommo Principio è oltre l'essere (Resp. 509b) perciò in Plotino esso è infinito, non ha limite (V, 5, 10, 18-22; V, 5, 11, 2-3; VI, 5, 12, 5; VI, 9, 6, 10).18

Benché chiamata da Plotino normalmente Uno, Bene, Primo, Eros (VI, 8, 15), in realtà tali nomi non si addicono del tutto alla prima ipostasi plotiniana.19 L'Uno è detto primo principio (prote arché V, 1, 7) e la causa di tutto (proton aition, aition aitiou V, 8, 18), secondo una terminologia che si rifà a Platone, Resp. VI 511b6-7 e Aristotele, Met. 1072a15, b1;b11, b14. In questo senso egli è anche causa di se stesso, perché non ha cause, cfr. VI, 8, 13, 55; 14, 41; 16, 14-15. Ma come abbiamo visto, Plotino critica Aristotele nell'identificazione che questi fa tra principio primo e nous divino.20 L'Uno è assolutamente semplice (aploun, V, 5, 10), privo di parti (ameriston, V, 1, 7; ameres, VI, 9, 2), del tutto autosufficiente (autarkes V, 3, 13, 17). Egli è al di là dell'essere (secondo Resp. 509b) e quindi risulta imparagonabile (hyperbebekos, V, 5, 12), diverso da tutto ciò che è dopo di lui (V, 4, 1) . Egli è anche al di sopra dell'intelligenza e dell'essere perché è principio generatore (epekeina nou kai epekeina ousias, V, 1, 8; pro panton kai pro nou, V, 3, 11) e in quanto tale è un non-essere (ouk nou V, 2, 1; cfr. VI, 9, 3. 5) . Questo non significa che esso non esista: tale negazione vuole significare una intensificazione, una superiorità all'essere, un essere in modo diverso dagli esseri, imparagonabile. Egli racchiude in sé l'intelligenza o essere (nous en allo V, 5, 9) per la famosa legge aristotelica per cui ciò che è superiore contiene l'inferiore e non è contenuto da esso. L'Uno è allo stesso tempo dappertutto e in nessun luogo (V, 5, 9; VI, 8, 16).21 Infatti ciascun essere è partecipe dell'Uno, che non abbandona nessun essere e racchiude tutto con la sua potenza immensa (al pari del Logos stoico) senza esserne racchiuso. In questo Plotino interpreta in modo originale la prima ipotesi del Parm. di Platone, secondo la quale l'Uno deve essere in nessun luogo (oudamou), assieme a quella della seconda ipotesi, che invece dice che l'Uno che è, è in ogni parte (pantachou) . Vi si aggiunge il concetto di luogo aristotelico (che è ciò che circonda un essere) assieme all'idea -- sempre aristotelica -- che il primo principio assoluto è l'entità che tutto comprende. L'Uno è, come una fonte, al di sopra dello spazio (in nessun luogo) e la sua energia permea tutto l'universo (dappertutto). Tuttavia a differenza del nous aristotelico, anche se può chiamarsi theos è di fatto qualcosa di più di un theos (VI, 9, 6).

Sono forti le similitudini che ancora oggi molti studi dimostrano esserci tra Plotino e il pensiero orientale. Porfirio ci racconta che dopo aver aderito alla filosofia di Ammonio, Plotino si propose di conoscere «direttamente» la filosofia «che si professa fra i Persiani e quella che viene onorata presso gli Indiani» (VP 3, 15-20). Per questo Plotino si unì alla spedizione di Gordiano che ebbe l'esito che sappiamo. Perché questo desiderio? Come aveva conosciuto Plotino qualcosa di quella filosofia che avrebbe voluto conoscere meglio in loco? Si può ipotizzare che l'Alessandria ellenistica, porto commerciale e luogo di scambi, avesse già avuto contatti con la filosofia orientale? Dodds dimostra che il concetto di Uno plotiniano, invece che a influssi orientali o estranei alla cultura greca è debitore in prima istanza all'interpretazione del Parmenide di Platone, probabilmente per tramite di Speusippo: «It seems to me that with Speusippus we are already well started on the road to Neoplatonism; and nobody has yet alleged that Plato's nephew was anything but a "true Greek"».22 Certo però è difficile escludere del tutto qualsiasi legame soprattutto alla luce della notizia di Porfirio.

Plotino giustifica addirittura un certo linguaggio equivoco a riguardo dell'Uno: «dovremo uscire, nei nostri discorsi, dal rigore logico del pensiero» (VI, 8, 13, 3).23 Lo stesso termine Uno sarebbe inadatto perché a lui propriamente «non si addice alcun nome» (VI, 9, 5, 31); la mente umana infatti non può concepirlo, né nominarlo (esso è arrheton), tuttavia Uno è il termine meno inadatto. Per esprimerlo Plotino usa superlativi o termini preceduti da hyper ad indicare la sua trascendenza. Anche tramite immagini si può parlare di lui: «ciò che ci istruisce sono le analogie» (VI, 7, 36, 7). Il filosofo infatti se ne serve (fonte inesauribile, albero, padre, radice, sorgente, luce, splendore) e questo mostra l'importanza dell'intuizione immaginativa in Plotino24 per parlare dell'Uno. La via negativa apofatica, però viene considerata la più adatta a parlare dell'Uno.25 La via negativa infatti «rende il nostro intelletto più affine agli aspetti illimitabili della divinità»,26 poiché l'Uno è al di là del limite. L'uno quindi è Egli è inconoscibile (oude gnosin, V, 3, 14), ineffabile (arrheton, V, 3, 13), senza nomi (VI, 9, 5) e non se ne può parlare (V, 4, 1; VI, 9, 4), essendo superiore al discorso; lo si può contemplare solo in assenza delle attività noetiche sovrarazionali (V, 6; VI, 7, 35), perché sfugge alla categoria del pensiero, secondo l'idea di conoscenza per cui solo il simile può conoscere il simile. Si tratta di una modalità che tuttavia serve solo a noi, ovvero dice ciò che è appropriato a Lui dal nostro punto di vista. Infatti, ciò che sostanzialmente possiamo solo fare e facciamo è supporlo nel discorso perché di lui non si può propriamente parlare:

Se dunque non è possibile pensare le cose senza l'uno o il due o altro numero, come sarà possibile che non esista proprio quello senza il quale non si può né pensare né esprimersi? Non è permesso negare l'esistenza di quell'uno, poiché se questo non esistesse, non si potrebbe né pensare né dire nessun'altra cosa. Ciò che è universalmente indispensabile per la nascita di ogni pensiero o parola, deve esistere prima del pensiero e della parola: solo a questa condizione si può ammettere la loro nascita. (VI, 9, 3, 49-55)

Se dicessimo che esso è il Bene e il Semplicissimo, noi, pur dicendo il vero non esprimeremmo nulla di chiaro e di evidente, finché non avessimo qualcosa su cui appoggiare il nostro ragionamento. Infatti, poiché la conoscenza delle cose ha luogo mediante l'Intelligenza, e mediante l'Intelligenza si può conoscere un essere pensante, con quale immediata intuizione si può afferrare ciò che è al di là della natura dell'Intelligenza? (III, 8, 9, 17-22)

Ma è lecito chiedersi: questo Uno a cosa corrisponde a qualcosa di esperibile nella nostra vita quotidiana? In base ai testi citati sopra dobbiamo comprenderlo come l'ipotesi di ogni nostro ragionare, quella che la fa stare in piedi, ma che non è mai visibile direttamente. È l'ipotesi che muove la ricerca di ogni scienziato, che se vera rende vera la tesi, ma che in sé non può essere dimostrata. È l'invisibile base e presupposto di ogni nostro ragionamento, quello stesso che ci fa ragionare, che rende possibile un ragionare, ma che non rientra nella sequenza delle parole e degli stessi ragionamenti poiché ne è l'origine. È la supposizione del nostro giudizio, presente anche quando non l'abbiamo consapevolmente chiara e presente, ma di fatto c'è ed è lì o non parleremmo, non formuleremmo alcun pensiero. Per Plotino, il sommo principio quindi non è oggetto di conoscenza e può essere intuito solo con un'attività superiore al pensiero stesso:

Se tu lo afferri facendo astrazione dall'essere rimarrai stupito. Ma se ti dirigi verso di lui e raggiungendolo riposi in lui, potrai concepirlo meglio penetrandolo col tuo sguardo e contemplerai la sua grandezza attraverso gli esseri che sono dopo di lui e per lui. (III, 8, 10)

Se infatti il primo principio non è ragione, ma è al di là della ragione, il linguaggio discorsivo non lo afferra.

Solo l'intuizione erotica (VI, 7, 35, 23) lo intuisce. L'Uno può essere esperito nell'unione mistica, nell'identificazione con Lui, il quale è assolutamente semplice, e cioè fondamentalmente con quella potenza presente nell'uomo che viene sviluppata e accresciuta in noi, come diceva Platone, con l'eros come divina mania. Questa potenza è una tonalità particolare del nous: l'intelletto amoroso.

2.3. Intelletto amoroso

Si è spesso questionato su quale sia il termine migliore per tradurre il nous plotiniano.27 Difficile scegliere tra i vari sensi che il greco permette: senso comune, pensiero, intelletto, intelligenza, ragione, riflessione, mente. Infatti non si tratta di una facoltà logica, meramente discorsiva o proposizionale. Probabilmente spirito non sarebbe inadeguato, ma bene potrebbero adattarsi anche termini come «coscienza» o «percezione spirituale».

Come in Origene,28 anche in Plotino troviamo una dottrina dei sensi spirituali che trova spiegazione qui. In VI, 7 Plotino parla di facoltà capaci di percepire il mondo noetico, che sarebbero i sensi dell'anima: «le anime avevano già le facoltà percettive quando [Dio] diede loro gli organi» (cfr. tutto il ragionamento in VI, 7, 1, 10-20), i quali precedono la formazione stessa dell'organo corporeo; si tratterebbe di facoltà sensoriali nell'anima, create prima che essa lasciasse il mondo intelligibile.29 È come se nel regno del Nous vi fosse in qualche modo la capacità di una percezione spirituale, una «scienza di ciò che non è sensibile» (VI, 7, 1, 25): non si tratta di anticipazioni del mondo sensibile nel mondo noetico, semmai è il mondo sensibile a rispecchiare in modo diminuito il mondo noetico (cfr. III, 7 e 8) infatti in quel mondo tutto è percepito in un modo più vivido ed esaltato.30

C'è insomma nel mondo noetico una capacità di percezione vivida, anzi più forte di quella presente nel mondo sensoriale: «Anche quaggiù una vita saggia è una cosa bella e venerabile, benché la sua visione sia un po' annebbiata; ma lassù la sua visione è purissima. [...] Quaggiù lo sguardo si posa di solito su cose senz'anima e, se anche si volga su cose vive, gli si presenta dinanzi ciò che di non vivo è in esse. Così mescolata è la nostra vita nel suo fondo. Ma lassù tutte le cose sono vive e vivono di una vita integralmente pura» (VI, 6, 18, 23-30).31 Plotino ne parla come di «una facoltà percettiva delle cose impercettibili».

Come c'è dunque una sensibilità in quest'Anima superiore? Sì, ma la sensibilità è rivolta ai sensibili di lassù ed è come essi sono. [...] Se dunque lassù ci sono questi corpi, l'Anima li sente e li percepisce; e c'è l'Uomo intelligibile e c'è l'Anima capace di percepire. (VI, 7, 6, 1-2; 8-10)

In Enneadi VI, 7 troviamo un testo interessante, unico nel suo genere, che parla di una capacità erotica del nous. Il nous infatti, spiega Plotino, è di due tipi:

L'Intelligenza dunque deve possedere la facoltà di pensare, con la quale vede ciò che è in se stessa, e un'altra facoltà ancora, con la quale vede, con una intuizione ricettiva, ciò che è al di là di sé, e con essa prima vede soltanto e poi, mentre vede, possiede e si fa una: perciò la prima facoltà è la visione dell'Intelligenza saggia, l'altra è l'Intelligenza amante. Infatti, quando l'Intelligenza, fuori di sé è ebbra di nettare diventa amante poiché si abbandona in una beata sazietà e per lei essere ebbra vale di più della sua venerabile sobrietà. (VI, 7, 35, 20-27)

P. Hadot parla di questi due tipi di Nous come di «due tonalità della vita spirituale».32 Una è la capacità di pensare, saggia, l'altra è una forma di intuizione ricettiva, amante, quando l'Intelletto -- platonicamente -- ebbro, va fuori di sé, desideroso del Bene e solo questo permette l'unione con l'Uno quando l'anima è trasportata dal flutto:

A questo punto egli getta via ogni insegnamento, finché, condotto come un fanciullo e posto in senso alla bellezza in cui si trova, sino a questo punto egli pensa; ma quando è strappato via dalla stessa onda dell'Intelligenza ed è sollevato in alto dal flutto che incalza, egli vede improvvisamente e non vede come, ma la visione riempie i suoi occhi di luce e non fa vedere nient'altro attraverso di essa, perché la sua visione è proprio luce. (VI, 7, 36, 17-21)

L'anima è condotta in alto dal suo amore, anzi da Colui che le offerse amore:

Ma quando su di lei scende il calore di lassù, essa riprende le sue forze e si ridesta e mette veramente le ali e, pur essendo stordita per la presenza dell'oggetto bramato, s'innalza verso qualcosa di più grande per opera della reminiscenza. E sino a quando ci sia un oggetto più alto di quello presente, essa s'innalza, portata naturalmente da Colui che le offerse amore. E s'innalza sopra l'Intelligenza ma non può proseguire la sua corsa al di là del Bene, poiché al di là del Bene non c'è nulla. (VI, 7, 22, 15-20)

L'ascesa viene fatta tramite l'eros (VI, 7, 31, 17-24: «come quaggiù l'amante si ingegna di assomigliare all'amato... così anche l'anima ama il bene poiché sin dal principio fu sollecitata ad amare; anzi l'anima disposta ad amare, non attende il richiamo delle bellezza di quaggiù, ma poiché possiede l'amore pur non sapendo di possederlo, cerca continuamente e, desiderosa di essere condotta a Lui disdegna le bellezze terrene». «L'anima dunque è innamorata per sua natura di Dio e desidera unirsi a Lui» VI, 9, 9, 33-44) e l'anima diventa eros (VI, 7, 22, 7-10: L'anima allora accoglie l'influsso di lassù, si agita come una baccante e, perversa da acuti desideri, si fa tutta amore»; 31, 8-9: «essa vede con immensa meraviglia ed è cosciente di avere in sé qualcosa di Lui e, in questa disposizione è tutta presa dal desiderio, come coloro che commossi dal ritratto della persona amata, bramano di vedere la persona stessa»): il suo amore infinito è ciò che resta nell'unione con l'Uno (VI, 7, 32, 24ss: «L'oggetto desiderato di cui non puoi cogliere né figura né forma, è il più desiderabile e il più amabile, e qui l'amore non ha misura: quaggiù l'amore non conosce limiti né li conosce l'affetto amato ma l'infinito è amore del Bene perché la sua bellezza è di un'altra specie ed è bellezza superiore a qualsiasi altra bellezza»). Eros è oggetto di amore (VI, 9, 9, 44: «Soltanto lassù è il vero oggetto del nostro amore, al quale è dato unirsi veramente partecipando di lui e possedendolo veramente, non già dall'esterno per mezzo dell'amplesso carnale»).

Di che tipo di esperienza si tratta? Di cosa si sta parlando qui? È come quando una persona legge un libro e viene raggiunta da una telefonata di un amico che gli dice che tra mezz'ora egli dovrà trovarsi sotto casa per un incontro. Il nostro personaggio è d'accordo ma si rimette a leggere ed entra nella lettura a tal punto che non si accorge più del tempo che passa e perde l'appuntamento con l'amico. La sua lettura è passata dalla fase soggetto-oggetto a quella in cui egli si è a tal punto identificato con la lettura da perdere il contatto col resto della realtà perché egli stesso si era fatto «lettura».33

L'anima si eleva poi lassù, dov'è capace ormai di scoprire Colui che ama e non se ne allontana se prima non lo ha scelto, a meno che qualcuno non le porti via, in qualche modo, il suo amore. (VI, 7, 31, 29-31)

Infatti qui l'eros diventa senza misura (VI, 7, 32, 26) per cui «divenire simile a dio» («È necessario diventare Intelligenza e farci visione», VI, 7, 15, 33) significa unirsi all'Uno nel punto in cui non c'è barriera tra Nous e Uno, («L'intelligenza si eleva lassù e vi rimane, lieta di essere presso di Lui», VI, 7, 31, 6), ma non c'è più barriera nemmeno tra Forme e Nous.34 L'eros è anche il punto di unione tra un approccio positivo e negativo alla divinità,35 infatti si deve abbandonare tutto nella salita, ma di fatto non si può abbandonare l'eros che è l'unica cosa che deve restare per fare l'ultimo salto, perché è con esso che noi cerchiamo il Bene e perché solo questo spinge oltre i confini del proprio io. L'anima nell'estasi, dice Plotino, come una baccante, si fa tutta amore:

Ogni essere intelligibile è ciò che è in se stesso, ma diventa desiderabile quando il Bene lo colora di se stesso, donando, grazia agli esseri intelligibili e impulsi d'amore a coloro che desiderano. L'ani ma allora accoglie in sé il flusso di lassù, si agita come una baccante e, pervasa da acuti desideri, si fa tutta amore. (VI, 7, 22, 9-10)

2.4. Metafora sessuale ed estasi

Ora, se l'estasi può avvenire solo tramite l'eros, vuol dire che questa unione ha qualcosa di personale, non è panteista: nell'unione resta infatti il nostro eros personale. Plotino afferma in VI, 7, 25, 12: «Chi desidera non va in cerca del Primo Bene ma del suo bene».36

La questione ci porta ad analizzare il concetto di unione mistica in Plotino Secondo una classificazione diventata classica, R.C. Zaehner37 distingue quattro tipi di mistica: la prima è quella naturale o panteista, in cui l'anima si fonde col mondo naturale; la seconda è quella dell'ascesi e dell'isolamento nella solitudine; la terza è quella monistica in cui l'anima si identifica al potere universale -- Atman è il Brahman -; la quarta è quella teista ove l'anima è resa una con il Dio ma non necessariamente identica.

Vi sono due modi di interpretare l'unione mistica plotiniana, strettamente dipendenti dalla concezione dell'eros. Il primo ritiene che l'Uno non abbia eros, perché l'eros implica una mancanza e l'Uno non può avere mancanza perché non ha bisogni (VI, 7, 23), né l'Uno può essere diretto a qualcosa sopra di lui, come invece è la spinta che caratterizza l'eros. L'unione quindi implica un assorbimento completo dell'anima nell'Uno, una sorta di fusione completa e di perdita da parte dell'anima della sua individualità, del genere di estasi delle mistiche indiane, non-dualistica (advaita), alle quali del resto Plotino si sarebbe ispirato.38 Questa interpretazione di Plotino è sostenuta da M. Andolfo, J. Bussanich, C. Osborne.39

La seconda tende a considerarla invece un'estasi teista e non panteista, che non implica cioè un totale annullamento dell'anima.40 Questa seconda ipotesi è sostenuta da E.R. Dodds,41 P. Hadot e J.M. Rist. Questa seconda ipotesi si basa su una valutazione più attenta della natura dell'Uno e dell'eros. Nell'estasi stessa infatti non resterebbe che l'eros, che in Plotino risulterebbe così arrivare alla pienezza della sua ambizione originariamente platonica.

Come ha tentato di dimostrare Rist, si può supporre che quella di Plotino sia un tipo di mistica teista,42 dove cioè l'anima individuale arriva all'unione essendo «resa una» con la divinità, la quale che resta trascendente, anche se di fatto essa non è del tutto identica con tale dio.43 Infatti, il fatto stesso che Plotino parli di ascesa e parli della trascendenza dell'Uno, implica che vi sia uno iato tra l'Uno e l'anima, anche se superabile.

Se seguiamo lo sviluppo del tema dell'eros vediamo in effetti che in Plotino vi è una concezione dell'eros modificata rispetto a quella strettamente platonica, anche se egli esplicita alcune caratteristiche già presenti nell'eros platonico. Secondo questa idea, l'eros dell'Uno (VI, 8, 15) non può avere mancanza, ma è solo atto creativo, generazione nel bello e non è teso al di sopra di sé.44 Ne consegue che l'estasi mistica non avviene propriamente con l'Uno assolutamente trascendente, il che sarebbe impossibile, visto lo iato che divide l'Uno dal resto dell'universo, ma avverrebbe nella prima e più immediata sua effusione, il Nous amante, nella sua facoltà ricettiva, che Plotino identifica con l'Uno, chiamandolo kalloné. Non a caso c'è una insistenza fortissima sul tema della luminescenza (aglaia cfr. VI, 9, 9, 57; VI, 9, 4, 18; o anche augé VI, 7, 36, 23) ogni qual volta Plotino cerca di spiegare o parlare dell'unione.

È necessario dunque che l'anima si trasformi in Intelligenza e tutta si affidi e riposi in lei per poter accogliere, pienamente desta, ciò che l'Intelligenza vede e, con questo, poter contemplare l'Uno senza ricorrere a nessuna sensazione o a cosa che derivi dal senso: è necessario con pura Intelligenza, anzi col principio stesso dell'Intelligenza (nous protos), contemplare il purissimo. VI, 9, 3, 23-27)

Non è un caso che per descrivere l'unione estatica, Plotino usi l'immagine della ricerca erotica degli amanti:

Ora, se uno non giunge alla visione, se l'anima sua non sa comprendere il suo splendore, se essa non sperimenta e no racchiude in sé la passione amorosa che ne è la sorgente e non riposa in Lui come l'amante riposa in colui che ama. (cfr. VI, 9, 4, 18-19)

Questa immagine è molto ricorrente in Plotino:

Ne è testimonianza ciò che sentono gli amanti; finché l'amante si attiene a ciò che appare nel sensibile, egli non ama ancora; ma quando da quella figura, egli genera se stesso, nella sua anima indivisibile, un'immagine invisibile, allora nasce l'amore; e se egli desidera vedere la persona amata, è per ravvivare l'amore che sta per venir meno. Ma se comprende che bisogna risalire a ciò che è ancora più spoglio di forma, allora potrà tendere a Lui, poiché l'amore che egli sentì da principio non era che il fioco raggio di una immensa luce. (VI, 7, 33, 23-30)

Si tratta dell'esito della struttura stessa del suo sistema45 che implica che il contatto (V, 3, 10) sia preferito all'immagine della più platonica visione (VI, 7, 39):

Nulla c'è oramai tra l'anima e il bene, né essi non sono più due ma una sola cosa; e nemmeno potresti distinguerli finché Egli è presente; ne sono quaggiù un'immagine gli amanti che desiderano fondersi insieme nel loro amore. (VI, 7, 34, 14-15)

Rist ha rimarcato l'interesse di Plotino per le immagini dell'amore eterosessuale e il suo poco interesse in generale per quello omosessuale. Come vediamo anche dal passo che segue Plotino predilige raffigurazioni femminili per parlare dell'anima (V, 5, 12, 37, come una vergine) ; l'anima è Afrodite (VI, 9, 9, 31ss) ; in generale la metafora nuziale delle nozze tra Dio e l'anima (VI, 9, 9, 25-46), da Filone in poi diventa uno dei temi convenzionali della mistica.

L'anima, dunque, è innamorata per sua natura, di Dio e desidera unirsi a Lui, come una vergine ama nobilmente il suo nobile padre (VI, 9, 9, 40): il riferimento al padre potrebbe essere interpretato in senso casto (infatti subito dopo il contrasto esclude la brama dei pretendenti). Ma sembra dirci qualcosa anche in riferimento alla natura dell'unione mistica. Benché si parli di unione, la differenza sessuale implicita nell'immagine comporta che non si può parlare di non-dualità. Si tratta quindi di un'unità in cui senza confusione e mistura, non viene persa completamente l'alterità eppure si entra in una vera unione.46

Al di là dei significati che Platone aveva dato all'omosessualità all'interno del cammino erotico,47 che Plotino faccia uso maggiormente di una metafora eterosessuale può avere implicazioni a favore della seconda ipotesi che abbiamo rilevato, andando a favore dell'idea che Plotino non sostiene una mistica non-dualista. I desideri dei due amanti infatti diventano un unico desiderio: il desiderio dell'altro (genitivo oggettivo) in un amante coincide con il suo desiderio dell'altro (genitivo soggettivo), perché il desiderio dell'amante è lo stesso desiderio dell'amato e l'uno non vuole che soddisfare quello dell'altro, perché coincide col suo anzi con la sua stessa persona.48 Questa idea è stata ripresa e profondamente analizzata dal pensiero lacaniano.49

Dunque, sono due eros eppure sono lo stesso desiderio. I due inoltre sono differenti (relazione eterosessuale)50 quindi nell'unione non avviene fusione col simile, e allo stesso tempo avviene una intima unione reciproca. Si tratta dunque, come si diceva, di un'unione di due diversi; nell'unione insomma resta una certa individualità e l'anima non viene annullata.

Che non si parli di matrimonio, ma di amore (etero-) sessuale o addirittura di relazione padre-figlia, implica nel primo caso che non vi sia supposta la categoria di subordinazione inclusa normalmente dallo schema matrimoniale del tempo, nel secondo caso che l'unione non vuole dare adito a nessuna sorta di desiderio in qualche modo considerato «impuro» o basso, insomma «pandemio». La seconda immagine implica inoltre l'idea di «generazione» laddove si mantiene l'idea che l'anima è «proveniente» dall'Uno come padre. Con questa immagine, cioè, comprendiamo in modo privilegiato, che l'estasi plotiniana non è di tipo monista perché uno degli assiomi fondamentali di Plotino è che il Bene è produttivo di altri e quindi una completa identità tra il sé e l'Uno è impossibile. Questa unione avviene nel punto più vicino alla prima rivelazione dell'Uno, nella gioia, nel riverbero dell'aglaia che è il suo primo momento di esistenza.51 Quindi davvero l'anima diventa dio.52

Si è spesso parlato dell'influsso della mistica indiana sul pensiero di Plotino. Sebbene non si possa negare un influsso generico, come un po' su tutta l'Alessandria del tempo,53 esso era anche molto superficiale. Infatti il concetto plotiniano di Dio resta fondamentalmente greco.

Questo immaginario inoltre dice che questa esperienza rientra nell'ambito delle possibilità umane, dell'amore umano, delle sue emozioni e del suo intelletto.54 Plotino esige meno di Platone dal mondo affettivo anzi sembra elevarlo ad un più alto grado di dignità spirituale. Cosa resta infatti dell'uomo in questa unione con l'Autore della vita, del Nous e dell'essere? Una esperienza non priva di emozioni:

Oh quale delizie d'amor e quali brame avrà colui che l'abbia visto e voglia fondersi con Lui; e quale voluttuosa scossa! ... traboccante gioiosa meraviglia; la percossa che non reca dolore. E costui se ne innamora di vero amore... (I, 6, 7, 34)

Resta l'eros. Esso è il «tra», che dice l'interdipendenza costitutiva delal relazione prima della essenzialità del soggetto. Il carattere quasi-personale dell'Uno si ripercuote positivamente sul mondo emotivo umano che -- a differenza che in Platone -- può essere integrato maggiormente nell'unione mistica. Tuttavia, per Plotino, l'intensità dell'amplesso con l'Uno è superiore anche all'amplesso carnale:

Se l'uomo ignora questa esperienza, rifletta su questi amori terreni e si chieda he cosa voglia dire raggiungere ciò che si ama più di tutto il mondo, pensando che questi sono amori di creature, mortali e caduchi, amori di fantasmi, poiché non sono ciò che veramente è amabile, né sono il nostro bene, né quello che andiamo cercando. Soltanto lassù è il vero oggetto del nostro amore, al quale è dato unirsi veramente partecipando di lui e possedendolo veramente, non già dall'esterno per mezzo dell'amplesso carnale. (VI, 9, 9, 40-47)

Insomma il concetto di intelletto amoroso in Plotino spiega la natura stessa dell'estasi.

3. Eros liturgico in Ps.-Dionigi

3.1. La crisi nell'etica neoplatonica

Per capire come questo tema si sviluppi in Ps.-Dionigi, bisogna dapprima brevemente parlare di quella che è stata chiamata la «crisi dell'etica neoplatonica».55 Dopo Plotino, i suoi successori, come Giamblico e Proclo, cominciarono a nutrire sempre più dubbi sul fatto che l'uomo possa da solo tornare a Dio, che cioè l'anima abbia in sé tutte le condizioni per compiere l'ascesa fino all'unione con lui. Si ricorderà che nella VP Porfirio testimonia che Plotino avrebbe raggiunto per ben quattro volte l'estasi, seguendo i metodi descritti da Platone, mentre lui stesso una sola volta. Tuttavia Plotino stesso aveva detto che dopo aver percorso il cammino ascetico-estetico, l'ultimo passaggio all'unione con l'Uno non è in potere dell'uomo. Questi non deve far altro che attendere. E si ricorderà anche la risposta che Plotino diede ai suoi discepoli che volevano invitarlo ad andare con loro per compiere pratiche rituali di qualche tipo: «sono loro che devono venire a me non io da loro» (VP 10).

Nella tradizione neoplatonica ad un certo punto si inizia a mettere in dubbio la capacità del nous di arrivare a questa unione tramite la sola strada della filosofia. Si comprende da qui il valore sempre maggiore che assumerà la teurgia fino agli epigoni della Scuola. Nel II secolo il termine teurgia significava compiere degli atti divini di tipo rituale che non implicavano il pensiero. Il termine non distingueva il soggetto dell'azione che poteva essere divino o umano. I benefici di tali azioni tuttavia comportavano il superamento del primo livello di purificazione, in quanto purificavano il «corpo astrale» in modo da rafforzare l'anima per permetterle di raggiungere il divino.

In realtà, già a partire da Platone, ci si era posti il problema di come poter accrescere la vita spirituale e morale. Platone riteneva che l'anima non fosse totalmente corrotta (si ricorderà il mito di Glauco marino nella Repubblica X, 17).56

Plotino, da parte sua, riteneva che una parte dell'anima non fosse mai «decaduta» (En IV, 8, 8, 1-6) ma probabilmente non vede ancora il problema. Nelle Enneadi si parla a volte di una preghiera per la salita (V, 1, 6, 10-11) ma questa sorta di aiuto esterno sembra avere unicamente la funzione di dirigere le energie in una sorta di automiglioramento.

Per Porfirio però non è più così. L'anima è irrimediabilmente danneggiata e difficilmente inizia l'ascesa da sola. Giamblico ritiene addirittura che l'anima non sia affatto simile a Dio. L'anima non è in grado di iniziare l'ascesa senza un'assistenza divina (DM 96),57 senza un intervento da parte del dio (non meraviglia che manchi una riflessione sull'etica). L'aiuto dall'esterno si configura come una sorta di illuminazione del dio, una illuminazione che però deve avere caratteri esperienziali e non meramente teorici (si conoscevano usi di pratiche rituali, cristalli etc.). In questo caso, la teurgia implica non solo l'attività dell'uomo ma anche l'azione del dio: un intervento che dall'esterno aiuti l'anima e restauri la sua capacità di unirsi al dio, senza l'uso del pensiero.58

Secondo Alexander Golitzin59 è proprio questa intuizione del neoplatonismo dell'epoca a spingere Ps.-Dionigi a fare di questo sistema lo strumento principale per delineare la sua proposta cristiana. Seguiamo questo autore nella sua ipotesi di identificazione del contesto e delle finalità del corpus dionysiacum.

3.2. Dall'autore il significato dell'opera

I tentativi di identificare il personaggio che si nasconde dietro il nome di Dionigi autore del Corpus, sono ancora lontani da una soluzione condivisa. Il misterioso autore che si nasconde dietro il nome di Dionigi e che intende identificarsi con un discepolo di S. Paolo, il personaggio di At 17, 34, considerato da Eusebio il primo vescovo di Atene (EH III, 4, 11), viene citato per la prima volta ufficialmente nel contesto della polemica cristologica dai monofisiti severiani contro i cattolici calcedoniani al Concilio Costantinopolitano II del 532. Ipazio di Efeso, della parte dei calcedoniani, mise in dubbio l'autenticità degli scritti di Dionigi avanzati dai severiani come prove autorevoli della loro posizione.60 Alla prima apparizione nella storia quindi, l'autenticità di questi scritti viene subito messa in questione.

Nonostante altri dubbi e questioni controverse, con Gregorio Magno e soprattutto Massimo il Confessore questo anonimo verrà citato, letto e commentato sia in Oriente, sia (tradotto) in Occidente, dal momento che l'autore verrà ritenuto il primo vescovo di Atene. A partire da Lorenzo Valla ed Erasmo, però, la sua identità sarà definitivamente messa in discussione. I tentativi di chiarire chi sia l'autore che si cela dietro questo corpo di scritture sono stati intrapresi da molti e molte sono state le ipotesi, nessuna risolutiva.61 Non staremo qui a ripercorrere la rassegna delle attribuzioni che altri hanno fatto in modo eccellente o a tentare nuove ipotesi.

Basti forse annotare solo che non è stata risparmiata nemmeno Ipazia, l'illustre capo della scuola filosofica di Alessandria, recentemente venuta alla ribalta del grande pubblico a causa del bel film, intelligentemente fazioso, di A. Amenábar (2009). Benché tale attribuzione sia stata fatta in tempi non sospetti, quando cioè nessuno ancora cavalcava Ipazia con mire polemiche, essa regge su ipotesi aleatorie (Ipazia e Ps.-Dionigi sono entrambi personaggi del V secolo, entrambi neoplatonici e poco altro).62 Si capisce che per una teologia così particolare, l'operazione di attribuzione non è senza conseguenze. Riuscire a identificare l'autore e il suo contesto inciderà fortemente sull'interpretazione degli scritti.

Gli studiosi sono abbastanza concordi nel vedere in Ps.-Dionigi un cristiano, forse vescovo (cfr Ep. VIII, 4 dove si rivolge al monaco Demofilo in questi termini: «Al servizio di chi pensi di essere stato ordinato da noi come monaco?» 1093C e più ancora in D), di origine siriaca che ha seguito ad Atene Proclo e Damascio.63 Nel Corpus sono state rinvenute infatti dipendenze da Proclo (che forse si cela dietro lo pseudonimo di Ieroteo, cfr. DN 11, 9 e in DN III, 2); in DN 11, 5 si fa riferimento alle Istituzioni Teologiche di Proclo, che sarebbero quelle stesse di cui si fa riferimento a DN III, 2; l'autore conosce l'Henotikon, promulgato nel 482, e dimostra anche una approfondita conoscenza dei riti della liturgia siriaca come si vede in HE V, 7. Si spiega così anche la grande fortuna che il corpus dionisiacum ebbe in questo ambiente. SI tratterebbe insomma di un cristiano di origine siriaca che ha probabilmente seguito come discepolo Proclo e Damascio quali maestri di filosofia ad Atene.

Recentemente in Italia è stato pubblicato un saggio di C.M. Mazzucchi che attribuisce il corpus dionysiacum nientemeno che a Damascio, attribuzione destinata a sollevare dibattito. Secondo questo filologo, sulla base di corrispondenze di assonanze a nomi che si nasconderebbero dietro altri nomi, di oscuri riferimenti a personaggi e di parallelismi di situazioni svelate, il corpus sarebbe una finzione letteraria di Damascio, epigono della scuola di Atene, nel disperato tentativo di una estrema controffensiva del paganesimo contro il pensiero cristiano oramai predominante. Mazzucchi ritiene la pseudepigrafia un tentativo da parte di Damascio di

far diventare il neoplatonismo la sostanza, l'ousia, del cristianesimo, rispetto alla quale tutto il resto [...] non sarebbe che un accidente. Un'arma estrema nella battaglia contro i cristiani, prossima a concludersi con una sconfitta certa, a meno che un meticoloso genio non riuscisse a trasformare i vincitori in vinti.64

L'idea pecca di un'impostazione -- circa lo sviluppo della teologia cristiana -- che abbiamo altrove contestato (alla Harnack, per intenderci). Ma in attesa di una conferma a questa ipotesi che non può reggere se non verrà suffragata da un approfondito confronto della terminologia, dei sistemi filosofici (non senza somiglianze) e dei temi trattati dai due pensatori, seguiamo l'interpretazione comune che ritiene Dionigi un autore (forse vescovo) di ambiente siriaco, e in particolare la tesi di A. Golitzin che prospetta un quadro per la ricostruzione dell'identikit del Nostro, come segue.

L'opera sarebbe stata scritta nel contesto della spiritualità siro-palestinese, dove era stato molto forte il movimento messaliano. Si tratta di una corrente spirituale che riteneva necessaria solo la preghiera incessante, screditando l'efficacia dei sacramenti. I seguaci di questa corrente, pche sarà dichiarata eretica, presumevano i poter avere una esperienza fisica della Trinità, come anche di potersi unire a Dio tramite la sola preghiera, indipendentemente dai sacramenti. Dionigi ritiene che la tradizione neoplatonica, di Giamblico e Proclo (con la suddetta crisi dell'etica neoplatonica) potesse bilanciare questa spinta eccessiva degli asceti cristiani verso l'esperienza soggettiva, e ripropone così l'esperienza «teurgica» (ma liturgico-sacramentale) della chiesa: una esperienza fortemente spirituale ma in cui la presenza di Dio in Cristo è mediata. L'intento di Ps.-Dionigi sarebbe quindi quello di equilibrare la tradizione monastica siriaca troppo spiritualizzante offrendo uno statuto più oggettivo alla preghiera.

Egli sceglie di offrire questo contenuto in una struttura intellettuale che ammicca ai pagani65 ma che ha come ultimo intento la riconciliazione intraecclesiale tra vescovi e monaci, ovvero tra istituzione e carisma, liturgia e misticismo, perché la conoscenza delle cose divine è necessariamente mediata.

3.3. Akrasia e teurgia

Ps.-Dionigi condivide con i neoplatonici più tardi la credenza nella incapacità del nous di arrivare da solo all'esperienza di Dio:

perché non è affatto possibile che la nostra mente (nous) ci elevi verso quell'immateriale imitazione e contemplazione delle gerarchie celesti senza l'uso di una guida materiale alla sua portata... per questa deificazione proporzionata a noi, il principio amante degli uomini, che inizia al mistero, ci manifesta le gerarchie celesti e istituisce la nostra gerarchia in modo che sia associata al ministero di quelle per la somiglianza, secondo la nostra possibilità, con il loro ministero deiforme. (CH, 1, 3;124A)

Dionigi non crede in un intelletto autonomo. L'intelligenza non comprende tutto (568A). Come Platone anche Dionigi parla di «deboli occhi» (393B; 501C),66 «deboli pupille» incapaci di fissare il sole del Bene (cfr. 392c) e per poter ricevere la luce divina dobbiamo essere forniti di «altri occhi» (556D), gli «occhi immateriali e immobili dell'intelligenza» (121A).

Come per la tradizione neoplatonica più tarda, anche Ps.-Dionigi ritiene necessario un intervento esterno, una teurgia, perché l'anima sia aiutata a pervenire alla contemplazione e imitazione delle cose divine. Ma qui egli inserisce una precisa distinzione. Vediamola.

3.4. Terminologia della «teurgia»

Il linguaggio di Ps.-Dionigi è stravagante, iperbolico, barocco. Spesso egli conia nuovi termini o dà nuovi significati a termini filosofici.67 Soprattutto tramite l'uso di prefissi (hyper-, apo-, archi-, meta-, pros-, syn-) e suffissi (-tatos) dilata il significato delle parole. Qualcuno dice che questo linguaggio così ridondante sarebbe segno del fatto che non abbiamo a che fare con un greco madrelingua.68 Proprio nell'uso del termine theurgia questa creatività linguistica di Dionigi sarebbe massimamente all'opera.

La terminologia di Dionigi in questo campo è stata molto studiata, anche recentemente, e si è notato che, a differenza dei tardi platonici, egli distingue tra azioni umane dell'opera divina e l'opera divina stessa. Mentre Proclo e Giamblico usano la parola theurgia per dire entrambe, cioè sia l'azione di Dio che quella dell'uomo, Dionigi usa due parole diverse per ciascuna: theurgia e hierourgia. Il motivo per cui compie questa distinzione va cercato probabilmente nella sua intenzione di distinguersi dai filosofi e/o non essere tacciato di eresia. Dionigi usa il termine theurgia 29 volte con il significato preciso e univoco dell'azione che proviene da Dio. Per Dionigi theurgia indica quindi l'azione di Dio, l'atto di Cristo stesso e quindi la sua incarnazione in quanto compimento della parola (theologia). Viceversa la hierourgia (che appare 59 volte nel corpus) è l'azione che gli uomini compiono in direzione di Dio, ma che nel sistema dionisiano viene ad indicare la cooperazione della loro azione alla salvezza divina. In questo caso Dionigi usa la parola hierourgia per significare ciò che i tardi neoplatonici intendevano con theurgia. Anche per lui l'unione con Dio si ottiene tramite l'amore di Dio: «il primissimo movimento intellettuale verso le cose divine è l'amore (agape) di Dio, ma la prima condizione perché il sacro amore possa santamente eseguire i divini comandamenti è l'ineffabilissima creazione del nostro essere divino». Dionigi sta qui parlando del battesimo che è la «forma nelle facoltà della nostra anima l'attitudine a ricevere le altre sante parole e sante operazioni, che ci apre la strada alla salita verso la quiete sovraceleste» (392a).

Il battesimo è dunque il sacramento che dona la capacità spirituale per la visione della luce divina. È perciò questa nascita divina a dare la capacità di ogni esperienza delle «cose sacre», è questo a donare la facoltà dei sensi spirituali (cfr. 400AB).

Così il santo sacramento della nascita divina, siccome rende partecipi della prima luce ed è il principio di tutte le divine illuminazioni, l'onoriamo con il vero nome dell'illuminazione che deriva dalla sua propria operazione. (EH 3, 1, 425A, p. 223)

Tramite i sacramenti il cristiano riceve quegli occhi della mente capaci di percepire il mondo divino:

la luce divina beneficamente si estende sempre agli occhi intellettuali (organi capaci di ricevere).69

I riti sono simboli, nel senso che la legge dell'incarnazione (theurgia) continua nei riti e nelle cose materiali (corpo!) quale reale presenza in esse di Cristo, come il tocco materiale che continua, nella storia, la philanthropia di Dio.

In Ps.-Dionigi questa funzione è ricoperta dalla liturgia. I riti sono infatti istituiti affinché tramite figure corporee che sono a noi più facilmente accessibili «potessimo ascendere su verso le altezze semplici e non figurate e verso le similitudini» (cfr. 121C). Questi riti infatti sono attuati dalla gerarchia terrestre che Dionigi intende strutturata ad imitazione di quella celeste. Nella gerarchia celeste, Cristo è l'apice, il capo, che ispira e istituisce una via di accesso per noi alla luce divina tramite la sua philantropia.

Il termine philanthropia era stato usato nella tradizione alessandrina fin da Clemente per dire l'amore discensivo di Cristo per noi, allo stesso modo lo aveva usato Gregorio di Nissa e in tale significato lo usa anche Dionigi.70

L'amore infinito (apeirotate philanthropia) per gli uomini della bontà divina non ci negò per nostro bene l'azione propria della provvidenza: ma divenuta in verità partecipe di tutte le nostre cose tranne il peccato e unita alla nostra miseria, mantenendo perfettamente inalterato e immacolato lo stato delle sue proprietà, donò finalmente a noi la possibilità di comunicare con lei, come a lei congiunti, e ci ha dichiarato partecipi dei propri beni. (HE 3, 441AB)

L'incarnazione è quindi è la prima e principale opera di Dio, la teurgia, quell'azione efficace di Dio per farci tornare a lui.

Ma poiché la liturgia, con l'istituzione gerarchica che la garantisce, non è altro che la riproposizione umana dell'azione di Dio, cioè la cooperazione alla salvezza che Cristo attua, possiamo individuare in essa, il ruolo che nella tradizione platonica era stata riservata all'eros (si ricordi il discorso di Diotima, Symp. 210), quello appunto della «guida» a Dio.

Noi abbiamo già santamente detto che lo scopo della nostra gerarchia è l'assimilazione e l'unione con Dio, per quanto è possibile. Questa unione, come gli scritti divini insegnano, noi l'otterremo solo con l'amore (agape) e la sacra osservanza dei comandamenti santissimi. (HE II, 1, 392A)

È stato già analizzato l'impatto dell'entrata del concetto di eros in ambito cristiano,71 qui basti richiamare brevemente che il primo ad inserire il concetto di eros nella tradizione cristiana sembra sia stato Ignazio d'Antiochia. Nella sua Lettera ai Romani egli afferma «il mio eros è stato crocifisso», frase che in seguito Origene, nel suo prologo del Commento al cantico dei Cantici, interpreterà come riferito a Cristo.72 Lo stesso Origene nel commentare tale testo affermava che «non c'è alcuna differenza se nelle Sacre Scritture si parla di amore (agape) o di desiderio (eros)» (43) e quindi non fa differenza chiamare Dio eros o agape, perché il contenuto delle parole è lo stesso, anche se la Bibbia usa termini diversi. Eros e agape indicano entrambe, secondo Origene, la stessa realtà divina. La differenza di terminologia sarebbe stata inserita per evitare che gli inesperti trovassero nella Bibbia il pretesto per una condotta dissoluta . Così «la Scrittura ha evitato il termine eros» (44) e lo ha usato solo nei casi (secondo Origene due) in cui il significato non fosse passibile di fraintendimenti.73

Anche Metodio è un testimone della rielaborazione della tematica dell'eros in campo cristiano anche se con una operazione di assunzione di esso nella terminologia dell'hagneia che implica a sua volta un ampliamento semantico di quest'ultimo concetto.74 In Metodio un solo termine, il termine hagneia, comprende i significati insieme di eros celeste platonico, agape neotestamentaria, continenza e verginità, temperanza, discipina delle passioni. L'eros platonico in qusto modo viene assunto, ma anche trasformato dal concetto di hagneia metodiana, la quale a sua volta dall'accostamento all'eros si vede dilatare il suo significato.

Gregorio di Nissa continua l'accostamento delle tematiche platoniche legate all'eros e individua nella incessante brama dell'uomo la capacità umana di apertura all'infinito di Dio: con la cosiddetta dottrina dell'epektasis, Gregorio descrive l'estendersi incessante della creatura umana verso l'infinito di Dio in cui l'uomo trova il solo vero corrispettivo. Sempre di nuovo colmato da Dio, il desiderio umano porta e porterà sempre creaturalmente il limite ma allo stesso tempo la traccia di una tale infinità.75 Sulla scia di Origene anche in Gregorio l'agape sembra assumere le stesse funzioni dell'eros platonico, ma più marcatamente in lui l'epithymia, complice l'intreccio sempre più sviluppato di questo filone filosofico con le tematiche bibliche del Cantico dei Cantici, arriva ad avere una connotazione del tutto positiva, perché esprime la fondamentale struttura relazionale della costituzione umana la cui apertura all'infinito può essere soddisfatta solo da un Tu divino.

Su tutto questo ci si è soffermati in dettaglio altrove.76 Non essendo stato tuttavia messo in luce un interessante passaggio di Basilio, ci soffermiamo ora un po' più in dettaglio su di lui.

3.5. Un interessante passaggio: amore di Dio nell'istituzione comunitaria basiliana

La tematica dell'eros per la bellezza in Basilio, che sembra essere un po' assente, si concentra in pochi testi alla luce dei quali tutta questa lunga tradizione platonica acquista un significato particolarmente interessante in ambito cristiano ed ecclesiale. Basilio colloca questa tematica, infatti, non senza rielaborarla e aggiungervi tratti peculiari, all'inizio delle Regole Ampie. È un motivo importante. Ponendo i fondamenti e le chiavi di volta della vita cristiana e monastica, dopo essersi chiesto quale e se vi sia un ordine e una successione ai comandamenti (AM 1), Basilio apre l'impianto della sua istituzione monastica con la tematica dell'amore di Dio (AM 2). Qui ritroviamo una rielaborazione delle tematiche dell'eros platonico.

Collocato però a questo punto del sui AM Basilio sembra dire che il desiderio della bellezza che è Dio prende forma e si realizza concretamente nella vita e nell'istituzione monastica. La vita monastica, insomma, non è nient'altro che l'espressione spazio-temporale data all'eros di Dio. Questo ci sembra un passaggio importante per comprendere anche Ps.-Dionigi, come vedremo.

Anche Basilio applica al termine agape le caratteristiche dell'eros. Per Basilio l'amore (agape) di Dio non lo si può né insegnare (adidaktos) perché esso è «innato» nell'uomo. Per dire questo Basilio usa la categoria stoica del «germe del logos» (spermatikos logos) introdotta in campo cristiano già da Giustino. Tale germe contiene in se stesso «la predisposizione alla familiarità con il bene». L'idea di oikeiosis, era stoica, vi si intendeva un naturale legame di tutta l'umanità che impediva di fare del male all'altro. I padri trasportano questo concetto al legame tra l'umanità e Dio. Questo germe è come una «scintilla [...] nascosta» nell'uomo: qui il concetto non assume il senso deterministico che aveva negli gnostici. Essa è come un principio in germe che va coltivato, secondo la legge del progresso (che Ireneo aveva opposto agli stoici) che può essere compiuto con la grazia di Dio (charis theou). La scintilla del desiderio tuttavia è come sopita, e solo la grazia dello Spirito in sinergia con lo zelo dell'uomo può risvegliarla. In questo l'uomo è aiutato dai comandamenti, che sono un'opera unitaria (Basilio ha appena risposto alla domanda dei discepoli se vi sia un comandamento più importante di un altro) e tutti collegati tra loro.

Nel comandamento l'uomo riceve anche la forza per compierlo. La capacità di amare Dio (genitivo oggettivo) è quindi insita in noi perché altrimenti non avremmo ricevuto il comando di amare Dio. Qui Basilio sembra riferirsi alle tematiche platoniche che tuttavia riesce a collegare armonicamente con la prospettiva cristiana. Quelle stesse forze date da Dio per compiere i comandamenti possono essere utilizzate bene per una vita secondo virtù oppure possono trascinarci al male. Qui sembra esserci un'eco del concetto di eros pandemio ed eros uranio. Affermando strenuamente la libertà dell'uomo, Basilio dice infatti che il male è l'uso malvagio di quanto ci è stato dato da Dio. L'amore è tra queste forze (dynamis) il cui uso secondo rettitudine (anche Platone diceva che il cammino di eros bisognava condurlo orthos) e conformemente ai comandamenti può portare l'uomo al bene.

L'uomo prova infatti naturalmente il desiderio del bene: chiunque fa l'esperienza di essere attratto dalle cose familiari e affini (torna ancora la prospettiva stoica cristianizzata) e di rispondere con benevolenza a chi ci fa de bene (qui sembra una ripresa del concetto di anteros platonico). Ma ecco che entra ora potentemente la tematica platonica dell'eros: nessuna bellezza -- dice Basilio -- desta maggiore meraviglia (thaumasioteron) di quella di Dio; nessun pensiero (ennoia) è più gradito; nessun desiderio (pothos) è più insostenibile (aphoretos) di quello che Dio fa sorgere nell'anima purificata. Come si ricorderà anche per Platone l'eros è negativo o positivo a seconda dall'oggetto. Dio è la bellezza e oggetto del pensiero dell'anima. Questi oggetti fanno sorgere quella meraviglia che avvia il cammino e una percezione affettiva nel pensiero (dolcezza). Inoltre, come per Platone anche in Basilio l'eros è positivo quando espressione di un soggetto purificato. Questo spostamento sul soggetto deriva però anche dal fatto che Basilio avendo appena identificato l'agape con l'eros, non ha due eros, ovvero non ha un eros negativo. Di qui deriva il fatto che Basilio inserisce la citazione di Ct 2, 5: io sono ferita d'amore, riferita all'anima.77 Il fatto che questo amore possa portare ad esiti negativi dipende dall'uso distorto dell'uomo e non dall'origine, perché l'origine dell'amore è Dio. Come in Origene e in Gregorio, anche qui il tema della «ferita d'amore» collegata all'eros platonico aggiungeva un tratto caratteristico: viene così formulato il motivo che spiega la gratuità dell'amore e la sua origine divina. L'uomo ne è trafitto, l'amore cioè è ricevuto.78

A questo punto Basilio comincia a esprimersi in toni quasi plotiniani: «Assolutamente ineffabili e indescrivibili sono i raggi della bellezza divina».79

Plotino aveva collocato il Principio Primo, secondo l'affermazione platonica di Rep 509b epekeina tes ousias. Questo comportava la sua assoluta ineffabilità e indescrivibilità e l'applicazione dell'apofasi in quanto più adeguata per parlare dell'Uno. Ma Plotino aveva anche riesumato l'antico concetto di Aglaia, lo splendore fisico della bellezza (che già in Metodio era diventato spirituale) per dire l'Uno nel suo effondersi, nella sua emanazione che nel suo generare non si estingue (come l'alone del sole e della luna) e come luogo -- se così si può dire -- o possibilità del contatto mistico con l'uomo. Nel concetto di aglaia si coglie l'intuizione di quel ché di gratuito che si ha nell'esperienza della bellezza, e Basilio sembra rielaborare questo concetto parlando di splendori e raggi delle luci create (augas, lamprotes, phos, doxa) che sarebbero come notte fonda e tenebre (nyx, skotomene) se paragonati a quella. In modo interessante vediamo in Basilio un accostamento paradossale tra mistica della luce e mistica delle tenebre. Non siamo più nella mistica della luce Origeniana ma non siamo ancora nella mistica del «raggio sovraessenziale della tenebra divina» di Dionigi. Siamo vicini certo alle tenebre di Gregorio, ma al contrario di Gregorio, abbiamo ancora la presenza di raggi, luminosità quali emanazioni di quella natura. Senza il diastema insuperabile di Gregorio, il raggio della divina bellezza di cui Basilio narra può illuminare (perielampse) -- anche se raramente -- i santi, con raggi non afferrabili da occhi fisici ma dell'anima e del nous (psychès, dianoia). In questi santi Dio lascia il pungolo (kentron) di un ardente desiderio (pothos) insopportabile (aphoretos) così che essi devono esprimersi pregando, con formule di richiesta di estinzione del desiderio.

Questa vita a causa di questo desiderio diventa (non lo è come per l'antico filone orfico!) per essi un (platonico) carcere (desmoterion). L'incontenibilità di questa hormè ricorda quella di Gregorio, quando teorizzava la cosiddetta doppia infinità: il continuo desiderio dell'uomo può essere pienamente colmato solo dall'infinito amore di Dio. «Incontenibile era l'ardore di quelli la cui anima era stata toccata dal desiderio di Dio. » Il «contatto» ricorda la mistica di unione plotiniana.

Le tematiche dell'epektasis gregoriana si affacciano anche nella chiusa di questo testo basiliano:

Ed essi, mai sazi di contemplare la divina bellezza, supplicavano che fosse prolungata per tutta la vita eterna la contemplazione delle delizie del Signore.

Questa finale ricorda dei testi della parte finale del secondo libro della vita di Mosè di Gregorio dove si dice che Dio risponde alla domanda di Mosè di mostrargli il suo volto, senza dargli sazietà.

Nei Cappadoci questi raggi divini sono espressioni della divinità dai caratteri personali della rivelazione ebraico-cristiana.

Comprendiamo così perché la trattazione di Basilio si apra quindi (RM 2, 2) a sottolineare l'idea che Platone aveva intuito nel concetto di anteros dell'uomo, cioè quel normale attaccamento che viene a coloro che ricevono del bene. Basilio fa l'esempio del bambino con i genitori, ma è poi afferma che si tatta di qualcosa insita in tutte le creature (lo dimostra la citazione di Is 1, 3a) a ribadire che «creazione» è la struttura relazionale con Dio. Passando poi ad elencare questi benefici dalla creazione alla storia degli interventi benevoli per il suo popolo, Basilio termina con la morte di Cristo. Per questo si rende necessario che l'uomo si impegni nell'allontanare da sé divagazione e oblio quali primi motivi di perdita dell'amore di Dio: «dobbiamo restare sospesi al ricordo di lui». Basilio passa quindi a parlare in RM 3 dell'amore del prossimo dicendo che sono due amori assolutamente congiunti.

Collocato a questo punto delle AM Basilio sembra dire che l'amore (di Dio, inteso in senso soggettivo ed oggettivo insieme) prende forma e si realizza concretamente nell'istituzione monastica. La vita monastica, insomma, non è nient'altro che l'espressione spazio-temporale data all'eros/agape di Dio.

Seguiamo lo sviluppo di questo tema in Ps.-Dionigi. Come in Basilio la vita monastica era il modo concreto in cui si educava il desiderio di Dio e lo si esprimeva, così in Ps.-Dionigi l'«istituzione»liturgico-sacramentale si presenta come l'attività che permette e plasma il desiderio dell'uomo, desiderio che sarebbe da solo troppo debole per garantire una unione mistica. La liturgia educa il desiderio, lo struttura e lo rende capace di arrivare a quell'unione tanto sospirata.

Anche l'ascesa, la conformazione, l'unione saranno quindi proporzionali alle nostre capacità (121C; 165A) e la stessa comunicazione e rivelazione divina sarà proporzionata alla nostra natura (140A) alla nostra misura (177C) e non in relazione alla misura di Dio.

Con Ps.-Dionigi l'eros non riguarda solo più l'anima o la mente, ma entra nelle istituzioni e riguarda anche il corpo dell'uomo, corpo ecclesiale, sociale e personale. Dio diventa così una esperienza possibile anche per il corpo.

L'eros è liturgico perché la liturgia è allo stesso tempo azione di Dio -- contiene infatti ancora la forza dell'azione trasformante della philantropia di Dio, nell'incarnazione -- ma è anche il luogo del desiderio dell'uomo di unirsi a lui. I termini «tendere» aspirare» denotano l'epistrophé come forza attrattiva al pari di eros. Nella liturgia però l'eros si struttura, prende forma e si risana, perché l'azione di Dio in essa lo rende capace di giungere alla sua vera mèta. L'amore di Cristo discensivo (philantropia) permette all'eros dell'uomo tramite la gerarchia e i sacramenti (il luogo che mantiene questo «tocco» tra Cristo e l'umanità) di tornare a Lui. La liturgia infatti è un atto simbolico, che quindi riguarda anche il corpo stavolta -- «guida materiale», dice Dionigi -- che continua la filantropia e l'eros divino nella liturgia. È questa che ci dà la garanzia della comunione con l'ineffabile (che Dionigi interpreta in termini di «tenebre» sulla scia di Gregorio di Nissa).

3.6. Una mistica liturgica?

Questa interpretazione si desume in modo chiaro, secondo Golitzin, dalla lettura del corpus nella successione in cui esso ci è stato tramandato, senza dividere quindi come alcuni commentatori fanno, tra uno Ps.-Dionigi cristiano -- che sarebbe quello di EH e CH -- da uno Ps.-Dionigi neoplatonico che sarebbe quello di DN e TM (come fanno J. Vanneste e P. Rorem, per esempio). L'ordine degli scritti è per Golitzin anche un ordine interpretativo. La gerarchia ecclesiastica (HE), ovvero la chiesa durante il culto, riflesso della liturgia celeste (CH), trova il suo fine nel permettere l'esperienza religiosa «simbolica» e comunitaria -- perché Dio è Trinità (DN) -- del singolo membro della comunità.

Sulla scia della lunga tradizione monastica e spirituale siriaca (già in Macario-Simeone, il Liber Graduum e Ephrem il Siro), anche per Ps.-Dionigi questa simbolicità ha tre livelli:

  1. gli elementi materiali del culto (liturgia, ordini ecclesiali, i sacramenti)
  2. la liturgia angelica invisibile e spirituale (noetos)
  3. il mondo interiore e invisibile del cuore (nous) del credente

Ogni ordine è infatti immagine e simbolo di un altro (quello cosmico di quello della chiesa e quello della chiesa di quello interiore). Dunque il trattato TM non indica -- come vorrebbe Rorem -- la metodologia apofatica con cui leggere gli altri trattati, ma descrive ciò che avviene nel cuore del singolo allorché egli partecipa alla liturgia della Chiesa, riflesso di quella cosmica. In nessun manoscritto del resto, nota Golitzin, TM si trova all'inizio del corpus, così da avvallare l'idea che si tratterebbe di una «metodologia» con cui leggere il resto.

Il fine della gerarchia è l'assimilazione e l'unione a Dio per quanto è possibile: ha Dio come guida di ogni sacra scienza e operazione e, guardando indeclinabilmente verso la sua divinissima bellezza e per quanto è possibile uniformandosi a lei, rende anche i propri seguaci immagini divine e specchi chiarissimi e immacolati adatti a ricevere il raggio della prima luce e tearchico, ed essi poi santamente riempiti della luce data, sono capaci di infondere abbondantemente lo splendore nelle cose che seguono secondo leggi tearchiche. (CH III, 2; 165A)

Benché la tradizione latina medievale, probabilmente per aver staccato il testo della TM dal resto del corpus, abbia letto Dionigi in senso fortemente individualistico e sulla falsariga della mistica spagnola successiva, in Dionigi è il contesto liturgico e sacramentale a costituire la base di qualunque esperienza o visione di Dio.

La simbolicità non va compresa al modo moderno, quasi come segno puramente convenzionale o rimandante ad altro. In Dionigi la simbolicità della liturgia implica una forza trasformante, senza la quale nessuno può accedere all'incontro con Dio. In questa prospettiva si comprende la Lettera VIII in cui si biasima il monaco Demofilo che ha rotto la sua armonia interna e ha così infanto anche quella gerarchica, in quanto essa è immagine di quella interna (1088C): così egli è un essere «diviso contro se stesso». Viceversa l'eucaristia essa «porta ad unità la divisione che è in noi» (EH 3, 1). L'eucaristia quindi ha una doppia valenza, unifica noi stessi, poiché il nostro cuore è diviso, e così facendo ci unifica con gli altri, tra noi, oltre ad unirci a Dio:

È stata chiamata comunione e riunione (koinonia, synaxis) dato che ogni operazione sacramentale riconduce le nostre vite divisibili verso l'unica deificazione e mediante il divino congiungimento delle cose divisibili dona la comunione e l'unione (koinonia, henosis) con l'uno. (EH 3, 1, 424C)

Né infatti è possibile che si riuniscano verso l'Uno e partecipino all'unità pacifica dell'Uno coloro che sono divisi l'un l'altro. Se infatti illuminati dalla contemplazione e dalla conoscenza dell'uno ci unifichiamo riguardo all'uniforme e divino raccoglimento noi non soccomberemo mai alle passioni che dividono. [...] L'azione sacra sancisce, io credo, questa via uniforme e indivisibile avvicinando il simile al simile. (EH 3, 3, 8, 437A)

Ovviamente la parola «mistica» (mystikos) in Dionigi non ha il significato che ha preso nella controriforma, di una esperienza straordinaria, dai fenomeni paranormali o extrasensoriali, ma significa in senso antico, «nascosto» o meglio -- come intendeva Origene -- «spirituale». Per Dionigi designa la vita della stessa Trinità quando è conosciuta per esperienza personale nella liturgia e nei sacramenti. Ciò che di «misterioso» è ciò avviene nel cuore, e quindi non è nient'altro che quell'unico mistero celebrato nella liturgia, allo stesso tempo celeste, ecclesiale (comunitario) e spirituale (individuale).

3.7. Dio come eros

In Platone l'aspetto ascendente e appetitivo dell'eros non implicava una totale mancanza di un aspetto espansivo, fecondo dell'eros (si ricorderà il parto nella bellezza del discorso di Diotima). Non è strano che la tradizione platonizzante cristiana avesse fatto di eros una caratteristica prima di Cristo (Ignazio) poi di Dio (Origene). Nello stesso Gregorio di Nissa, benché sia la philanthropia a costituire la modalità discensiva dell'amore di Cristo, l'eros pur mantenendo l'aspetto ascensionale è considerato più divino di agape, traducendo meglio l'eccesso dell'amore (Oratio I, 773; XIII, 1048). In Plotino abbiamo l'Eros era diventato un nome del primo principio (VI,8,15) e motivo ultimo anche dell'unione estatica. Proclo non aveva identificato l'eros col primo principio, tuttavia ne aveva fatto una forza discendente e provvidente, effusiva e salvatrice, oggetto d'amore. Per Proclo l'eros perfeziona e mantiene nell'essere (In Alc. 181-182; ET 122) benché non avesse però posto l'eros al cuore del Bene, come potenza estatica, unica e unificante, come darà Dionigi.

Sulla scia della tradizione cristiana (platonizzante) prima di lui, anche Dionigi chiama Dio sia eros, sia agape.80 Vi aggiunge caratteristiche tipiche come esito di uno sviluppo e una rielaborazione propria della tradizione precedente anche neoplatonica pagana.

Come in Platone, anche in Dionigi l'eros è un fattore unificante; come in Proclo, anche in Dionigi esso assume una caratteristica provvidente e discensionale; come in Gregorio (ma ancora di più in Agostino) esso caratterizza le relazioni tra Dio e l'uomo. Tuttavia come non era ancora stato esplicitato in Gregorio, per Dionigi l'eros è forza relazionale anzitutto in quanto è la stessa forza intratrinitaria. L'aspetto traboccante di eros, intuito da Platone ed esplicitato da Plotino, rende l'eros in Dionigi una forza altruistica e relazionale al sommo grado.

Dionigi è quindi il primo autore cristiano a identificare Dio con eros in senso neoplatonico, ma anche a dare a questo eros, ancora più compiutamente che in Plotino, la caratteristica di essere ekstatikos, ovvero di uscire da sé, tipica caratteristica del Dio cristiano il quale ama per primo. Finora l'eros non era ancora stato detto ekstatikos. Questa fuoriuscita da sé non è nient'altro che la bontà con cui Dio crea, provvede, converte e santifica, cioè l'amore con cui e di cui amano le tre persone trinitarie. De Andia vede nell'eros dionisiano anche una dipendenza dagli Oracoli Caldaici dove eros è considerato una forza unificante e armonizzante.81

Il passaggio in cui Dionigi elabora questa formulazione è il famoso testo DN IV, 701C-713D. Dionigi inizia la sezione affermando come questa forza presiede alla monè, alla prohodos e alla epistrophè:

La stessa causa di tutte le cose per la sovrabbondanza di bontà ama tutte le cose, le crea tutte, tutte le perfeziona, le contiene tutte, le converte a sé tutte. L'amore divino è buono a causa del bene verso il Buono. In fatti questo amore che fa il bene di tutte le cose che sono, preesistendo nel Bene in maniera eccellente, non ha permesso che Dio rimanesse sterile in se stesso; e lo ha spinto ad operare secondo una sovrabbondanza generatrice di tutte le cose. (159-160)

Questo eros infatti nella monè è amore intratrinitario, nella prohodos si profila come creazione (l'eros è estatico) e nel momento della epistrophè funziona come redenzione, portando anche a compimento e a perfezione: quest'ultimo è appunto il ruolo dei sacramenti e della liturgia.

In un passaggio successivo (160-161) Dionigi, riproponendo di fatto le argomentazioni di Origene del Prologo al In Ct, giustifica l'uso del linguaggio dell'eros e spiega come questo termine non sia usato contro le Scritture. Conclude al pari del grande genio alessandrino che il linguaggio spesso prevede parole dal significato uguale ma dalle parole diverse. Egli prosegue mostrando la caratteristica unitiva di eros:

così pure le facoltà intellettuali, quando l'anima, divenuta simile a Dio mediante l'unione sconosciuta, s'introduce nei raggi dell'inaccessibile lume con sguardi privi di vista.

Si tratta qui dei «sensi spirituali» qualcosa di molto simile al nous eron di Plotino, che permettono l'unione superiore alla conoscenza. Infine cita gli stessi passi di Origene (Proverbi e Sapienza) nei quali la Bibbia usa la parola eros allargando tuttavia l'applicazione del significato di questo termine a «qualsiasi altro passo in cui viene celebrato l'amore di Dio».82 Seguendo ancora da vicino il testo di Origene anche Dionigi ricorda la distinzione tra agape ed eros, menzionando Ignazio e poi ancora la S. Scrittura (Sapienza). Conclude anche lui dichiarando: «a me sembra che i sacri autori diano lo stesso significato ai nomi amore e predilezione». Anche secondo Dionigi il senso è «unico», sebbene il volgo si lasci prendere da amori parziali, divisi, corporei che non sono vero amore. Superato il motivo già presente in Origene del fraintendimento, per confermare che i termini agape ed eros hanno lo stesso contenuto, Dionigi introduce un elemento che non era presente in Origene:

Ciò è proprio di una potenza unitiva e congiungitrice e comprensiva che preesiste nel bello e nel buono... dona il bello e il buono... contiene gli esseri coordinati per una comune e reciproca connessione che muove gli esseri superiori a prendere cura di quelli inferiori, e che lega le cose inferiori a quelle superiori, mediante una conversione.

Torna la triplice caratteristica dionisiana dell'eros con il rilievo della reciprocità tra uguali. Se negli autori precedenti, eros permetteva la reciprocità tra Dio e l'uomo (per es. in Gregorio), mai era stato usato per sottolineare la reciprocità tra uguali in Dio: si tratta ora dell'amore stesso che scaturisce in Dio tra le persone divine. Il concetto fondamentale che sta dietro questa idea è quello della diathesis.

C'è una ulteriore novità che Dionigi apporta all'elaborazione del tema dell'eros nella tradizione cristiana. L'amore divino è estatico. Va vista in questa affermazione la primarietà dell'amore divino. Esso infatti «non permette che gli amanti appartengano a se stessi, ma a quelli che essi amano». L'immagine l'abbiamo vista già in Plotino e sarà ripresa da Tommaso allorché parlerà del reciproco appartenersi delle persone trinitarie (sicut in amante amato), immagine che verrà usata per spiegare la processione dello Spirito sull'analogia di quella della volontà: «Secondo poi l'operazione della volontà si trova in noi un'altra processione; cioè quella dell'amore, per la quale l'amato si trova nell'amante (secundum quam amatum est in amante)» (STh I, q. 27 a. 3).

Questo stesso amore dimostra secondo Dionigi che «le cose superiori sono fatte per provvedere a quelle inferiori e le uguali per contenersi a vicenda e quelle inferiori per un conversione più divina verso le superiori». Si noterà di nuovo il movimento dell'amore come prohodos, monè ed epistrophé, un movimento che per Dionigi è circolare. Ed ha «un'orbita impeccabile, rimanendo nello stesso stato e seguendo lo stesso modo e sempre procede, rimane e ritorna» (713A). Quindi anche l'eros umano può essere estatico e avere questo aspetto di eccesso e uscita da sé per bontà, un aspetto di gratuità:

Perciò anche il grande Paolo, tutto posseduto dall'amore e sotto la partecipazione di una forza estatica dice non sono più io che vivo [...] come un vero amante che, come lui stesso dice, è passato in Dio e non vive più la sua vita ma quella dell'amato (eraston) perché infinitamente amabile (agapeten).

Fin qui l'affermazione risulterebbe ancora accettabile per i neoplatonici, ma non questa che segue:

L'autore di tutte le cose, per amore buono e bello di tutte le cose, nell'eccesso della sua Bontà amorosa va fuori di sé per provvedere a tutti gli esseri.

Il primo principio per i platonici non ha bisogno di nulla dunque non potrebbe uscire da sé. Tuttavia qui non si tratta di bisogno, ma è l'amore stesso che lo determina a voler provvedere agli esseri. Si tratta di una «potenza estatica soprasostanziale che non può scindersi da lui» tramite la quale egli ama, crea, completa, unisce e converte. Non è più Socrate ma Paolo l'amante che va fuori di sé e non si possiede come nella divina follia (DN 7, 1, 865).83

Egli dunque in quanto causa, muove e attrae a sé (perché ha le caratteristiche del principio primo aristotelico), è preesistente nel bene, emana dal Bene e di nuovo torna al Bene. Questa perfetta unione con sé è l'unità trinitaria per la quale l'eros diventa anche fattore unificante del cosmo. De Andia sottolinea che Dionigi dice qualcosa che Platone non aveva detto e cioè che eros mette in moto il bene. Esso è quindi

una forza unitiva e connettiva che muove le cose superiori a prendersi cura delle inferiori, quelle uguali ad un comune rapporto reciproco e quelle inferiori, situate all'ultimo posto a rivolgersi verso quelle migliori e poste in alto. (713B)

Si tratta quindi per l'uomo di «accogliere il padre di tutti questi amori» e di ricondurre questi amori che sono molti e che dividono, ad un unico amore congiunto. De Andia ha dimostrato che si tratta qui di una henosis come risultato dell'unione, una unità quindi che prevede diakrisis non una fusione (come intende Vanneste). Una unione senza confusione. Si tratta di una unione come riduzione ad uno della molteplicità dei vari amori. Non si tratta di una opposizione tra eros e agape, ma semmai dell'opposizione tra amore parziale e quello unico.

È vero anche che la stessa De Andia ha sottolineato che Dionigi non parla di desiderio dell'Uno ma di conversione all'Uno. Il ritorno e il desiderio che tende e aspira al bene ha una funzione liturgica, non a caso Ieroteo scrive degli inni estatici. Il Bello è il principio di movimento dell'eros (7, 704AB). Per Proclo (In Alc 53, 4) esso era inferiore al Bene.

La liturgia quindi è opus dei, nel suo doppio movimento: è opera di Dio perché appunto, come dice in DN IV, questa forza divina che fuoriesce da sé è eros, ma è anche la ricostruzione (guarigione) dei nostri amori divisi verso l'unica forza amorosa «che è al di là di tutti e verso la quale si estende nella misura propria a ciascun essere, il totale amore di tutti gli esseri» (713C).

Ecco perché diciamo che l'eros in Dionigi diventa «liturgico». Esso non riguarda solo l'intelletto ma entra nelle istituzioni, e così facendo riguarda anche il corpo: corpo del singolo e corpo ecclesiale, corpi diventano ora capaci di accogliere e di unirsi a Dio. Si tratta di una esperienza trasformante, sofferta e passiva. Non è più il progresso spirituale tramite la Bibbia, come in Origene o la castità, come in Metodio, né la via della sola e impalpabile esperienza spirituale come nella preghiera dei messaliani, tantomeno è il percorso del solo nous: si tratta invece dell'esperienza fatta da tutta la persona nel punto focale dell'eucaristia.

Dionigi non dimentica la parte soggettiva ed estatica della preghiera e anzi dice che non basta la presenza alla liturgia per garantire l'esperienza divina; ci deve essere una estasi nella liturgia. Il cammino privilegiato per l'incontro è soprattutto una passività, qualcosa che si subisce:

quando noi la invochiamo [la Trinità] con santissime preghiere con una intelligenza limpida e con l'attitudine all'unione divina, allora anche noi siamo presenti a lei. (DN 3, 1, 680b)

Dionigi ci descrive Hieroteo, il suo maestro, allorché egli ebbe una esperienza estatica:

Essendo completamente rapito, completamente fuori di sé e prendendo parte e soffrendo l'estasi delle cose che cantava, da parte di tutti coloro che lo ascoltavano e lo vedevano... fu stimato araldo divino ispirato da Dio. (DN 3, 3 681D)

Si tratta chiaramente di una esperienza che avviene in un contesto liturgico e comunitario (cfr Ep 8, 6 1097BC e TM 1, 3). Il singolo infatti ha bisogno della liturgia, della comunità ecclesiale che lo renda capax dei. La liturgia per i padri monastici è considerata la via principale per l'incontro con Dio. L'estasi mistica con le sue note di passività avviene secondo Dionigi proprio in contesto liturgico. È ancora l'eros la forza che guida Mosè all'ascensione in TM.

3.8. Il divino raggio della tenebra sovraessenziale: il mistero che è Gesù

Se, come afferma Golitzin, il corpus va letto così come ci è stato consegnato dalla tradizione, esso si presenta come un percorso mistagogico che spiega e costituisce al tempo stesso l'entrata nel mistero uno ed unico che è Cristo. Infatti è «solo Cristo che ci dischiude l'accesso al Padre» delle luci (CH 1, 2, 121A), e se entriamo in unione con Dio lo possiamo fare solo tramite Dio, cioè Cristo (cfr. 484d-5a):

La teurgia trascende i cieli ed è superessenziale. Essa è l'origine, l'essenza e la forza perfezionante di ogni nostro atto divino che porta alla santificazione. In nostro altare divino è Gesù. (EH 4, 3, 12, 484d-5a)

In questo mistero vi entriamo con tutto noi stessi, anche col corpo, infatti questo sarebbe il significato del riferimento alla trasfigurazione di Cristo in questo testo:

Sempre saremo col Signore, riempiti della sua divina presenza, visibile in santissime contemplazioni che illumina di luci splendidissime come i discepoli quella divinissima trasfigurazione partecipando della sua donazione di luce intelligibile con una intelligenza imperturbabile e distaccata dalla materia e dall'unione che supera la intelligenza nelle effusioni inconoscibili e beate di raggi fulgidissimi. (DN 1, 4, 592C)

Cosa sono allora le tenebre? Secondo la tradizione che risale al testo base della mistica cristiana che è la Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, esse sono lo speciale modo di conoscere Dio: «conoscerlo significa non avere di lui nessuna conoscenza che si abbia secondo l'umana comprensione» (VM 166).

Anzi possiamo dire che se l'unione è la capacità divina di ricevere Dio, l'inconoscenza è l'aspetto cognitivo di quella direzione di tutta la personalità di cui l'eros è il lato affettivo. Senza desiderio di conoscere infatti non si raggiunge la conoscenza. In 1000c quasi un commento a Gregorio di Nissa:

La causa buona di tutte le cose si può esprimere con molte parole e con poche, ma anche con l'assenza assoluta di parole; infatti per esprimerla non c'è parola, né intelligenza, perché posta soprasostanzialmente oltre tutte le cose, e si rivela veramente e senza alcun velame soltanto a coloro i quali trascendono tutte le cose impure e pure e superano tutta la salita di tutte le sacre vette, e abbandonando tutte le luci divine e i suoni e i discorsi celesti e penetrano nella caligine di là di tutto. [...] [Mosè] tocca la sommità delle divine salite e ivi non ha rapporto diretto con Dio e non lo vede (essendo invisibile) ma solo vede il luogo dove egli era.

E penetra nella caligine veramente segreta dell'ignoranza in cui fa tacere ogni percezione conoscitiva e aderisce a colui che è completamente impalpabile e invisibile, appartenendo completamente a colui che tutto trascende e a nessun altro, né a sé né a un altro, unito in modo superiore a colui che è completamente sconosciuto, mediante l'inattività di ogni conoscenza, e capace di conoscere al di là dell'intelligenza con il non conoscere nulla.

Si tratterebbe di henosis cioè di una capacità totalmente passiva del nous dove l'intelletto diventa un vaso pronto a ricevere la luce della Trinità. Le affinità con il nous eron di Plotino sono molte. L'ultimo atto dell'uomo di fronte a Dio è un arrendersi per entrare alla divina presenza sono le tenebre della luce della Shekinah. Non va dimenticato infatti che la spiritualità di Dionigi nonostante parli di caligine e tenebre, resta fortemente segnata dalla luce.84 È la luce, più che la tenebra, ad essere associata alla visione di Dio nel CD (di qui il collegamento forte con Giovanni dell'Apocalisse). Le tenebre sono solo l'effetto sull'uomo di una luce abbacinante:

Le tenebre diventano invisibili di fronte alla luce e ancora di più ad una luce abbondante. (1065A, Ep. I)

La divina caligine è la luce inaccessibile nella quale si dice che abita Dio. Questa luce è invisibile a causa del suo splendore supereminente e non si lascia penetrare per l'eccesso della sua effusione di luminosità soprasostanziale. In questa oscurità si trova chiunque è stimato degno di conoscere e di vedere Dio, proprio con il fatto di non vedere e conoscere. (Ep. V, 1073A)

Infatti Cristo (Ep. III), «l'amore di Cristo per gli uomini» (philanthropia) resta occulto anche dopo la sua manifestazione:

Nella sua stessa manifestazione siffatto mistero di Gesù rimane nascosto e non può essere spiegato in se stesso da nessuna ragione e da nessuna intelligenza, ma anche quando se ne parla, rimane ineffabile e quando si pensa rimane ignoto. (1069B)

Golitzin fa una finale allusione a questa visione con l'icona della trasfigurazione di Gesù dove la nube che avvolge Gesù ha diversi cerchi concentrici che vanno dal chiarore verso la tenebra più oscura. Il corpo di Cristo che dal centro di questa tenebra emerge possiede e brilla di una luce che vince le tenebre. Il raggiungimento del grado di partecipazione della creatura al Creatore non è secondo la possibilità del creatore ma secondo la limitata capacità della creatura (di qui i gradi delle gerarchie, strutturate appunto secondo il merito). Dionigi insiste fortemente su questa parzialità della accoglienza, partecipazione, dell'assimilazione della creatura.85

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Note

  1. Nelle teorie di Empedocle vi era una sorta di teoria dell'eros (su queste è costruito il discorso di Erissimaco, cfr. Symp. 186 ss), nella dottrina dei due principi di attrazione e repulsione (Amicizia e Contesa), cfr. Presocratici. Testimonianze e frammenti. I, H. Diels -- W. Kranz (edd.), Bari 1981, 339-421, DK 31. Testo

  2. Cfr. D. O'Connor, «The erotic Self-Sufficiency of Socrates», in: P.A. van der Waerdt, The Socratic Movement, Ithaca -- London 1994, 152-153, in particolare cfr. 173, n. 25 contro l'interpretazione di G. Vlastos e di M. Nussbaum. Testo

  3. Cfr. R. Sorabji, Emotion and Peace of Mind. From Stoic Agitation to Christian Temptation, Oxford 2000; M. Nussbaum, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell'etica ellenistica, (Temi metafisici e problemi del pensiero antico. Studi e testi 63), Milano 1998 (tit. or.: The Therapy of Desire, Princeton 1996). Testo

  4. Cfr. B. Zorzi, Desiderio della Bellezza (eros tou kalou) da Platone a Gregorio di Nissa: tracce di una rifrazione teologico-semantica , (Studia Anselmiana 145. Historia Theologiae 1), Roma 2007, 126-154. Testo

  5. Cfr. E. Krakowski, Plotin et le paganisme religieux, Paris 1933, 168. Testo

  6. Debitore nei confronti di elementi aristotelici e stoici, cfr. Porfirio, VP XIV,6. Testo

  7. Per l'approccio particolare di Plotino al testo di Platone, come fonte oracolare di saggezza cfr. F.M. Schroeder, «The Platonic Text as Oracle in Plotinus», in: T. Kobusch -- M. Erler (hrsg.), Metaphysik und Religion. Zur Signatur des spätantiken Denkens. Akten des Internationalen Kongresses vom 13.-17. März 2001 in Würzburg, München-Leipzig 2002, 23-37. Testo

  8. Cfr. L.P. Gerson, «Introduction», in: Id. (ed.), The Cambridge Companion to Plotinus, Cambridge 1996, 1-9, qui 4. Sulle fonti di Plotino resta fondamentale il saggio di E.R. Dodds, «The Parmenides of Plato and the Origin of the Neoplatonic 'One'»: Classical Quarterly 1928 (22) 129-142. Testo

  9. Cfr. L.P. Gerson, Plotinus. Arguments of the Philosophers, London, 1994, 43. Testo

  10. Cfr. A.H. Armstrong, «The Background of the Doctrine 'that the Intelligibles are not Outside the Intellect'», in: Id., Plotinian and Christian Studies, London 1979, IV studio (orig. in: P. Henry -- P. Hadot et al. (edd.), Les Sources de Plotin, Vandoeuvres-Genève 1960, 393-413), in particolare 408-410. Testo

  11. Cfr. Armstrong, The Background, 394-395; 402. In generale Armstrong sottolinea che quest'idea era già presente prima di Plotino nella tradizione platonica, 398 e ipotizza un influsso di Albino e Alessandro di Afrodisia sulla dottrina dell'intelletto di Plotino, cfr. 404-408. Testo

  12. Cfr. Gerson, Plotinus, 43-44; Armstrong, The Background, 393; 398. Testo

  13. L.P. Gerson, Plotinus, 25, trad. mia; cfr. anche 21; 42-64. Testo

  14. Armstrong, The Background, 394. Testo

  15. Cfr. J.M. Rist, Eros e Psyche. Studi sulla filosofia di Platone, Plotino e Origene, (Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi 6), 1995 (tit. or.: Eros and Psyche. Studies in Plato, Plotinus and Origen, Toronto 1965), 79-92. Testo

  16. Per l'importanza anche di Eudoro nella formulazione del concetto di Uno, cfr. J. Dillon, The Middle Platonists. A Study of Platonism 80 B.C. to A.D. 220, London 1977, 114-135. Testo

  17. P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Torino 1999 (or.: Plotino ou la simplicité du regard, Paris 1997), 10-11. Testo

  18. I,8,2,8: «Al di là di tutto ciò che è ottimo»; V,3,17,12 (le Forme sono finite); l'Uno è aneideon amorphon eidos; V,5,6,4; VI,7,33,4; VI,7,32; cfr. Rist, Plotino, 56-57; 60-61; Id., Eros, 95-96; Gerson, Plotinus, 25; A.H. Armstrong, «Plotinus's Doctrine of the Infinite and its Significance for Christian Thought», in: Id., Plotinian and Christian Studies, London 1979, V Studio (orig. in: The Downside Review 73, Bath 1954/55, 47-58). Testo

  19. Sulla formazione del concetto di Uno plotiniano resta fondamentale Dodds, The Parmenides, 129-142. Testo

  20. Cfr. J.M. Rist, «The One of Plotinus and the God of Aristotle»: The Review of Metaphysics 27 (1973) 55-87. Testo

  21. cfr. Platone, Symp. 211a; Parm. 138a; 138b; 145b; 145c; Aristotele, Phys. 203b10-11; Met. 1059b28-30. Testo

  22. Dodds, The Parmenides, 140 Testo

  23. Spesso Plotino nel definirlo usa hoion. Testo

  24. Cfr. Rist, Eros, 100-101. Testo

  25. Cfr. II,9,1,1-8; V,5,6,26-30; VI,7,38,4-9; VI,9,5,29-34; Bussanich, «Plotinus's Metaphysics of the One», in: Gerson (ed.), The Cambridge Companion to Plotinus, 38-65, qui 40-41. Testo

  26. Rist, Eros. Testo

  27. Cfr. Back to the mysticism of plotinus: Some more specifics: Journal of the History of Philosophy 27/2 (1989), 183-197, qui 190-193. Testo

  28. Cfr. K. Rahner, «Le début d'une doctrine des cinq sens spirituels chez Origène»: Revue d'ascétique et de Mistique 3 (1932) 113-145. Lo studio di Rahner resta fondamentale in modo particolare per il dossier di testi che riporta; cfr. anche SCh 376, 752-753. Si veda però anche E. Cattaneo, «La dottrina dei sensi spirituali in Origene: nuovi apporti»: Adamantius 11 (2005) 101-113, che presenta testi da Rahner non conosciuti. Testo

  29. Cfr. J. Dillon, «Aisthesis Noete. A Doctrine of Spiritual Senses in Origen and Plotinus», in Id., The Golden Chain. Studies in the Development of Platonism and Christianity, Aldershot 1990, 443-455, qui 455. Testo

  30. Cfr. Dillon, Aisthesis, 453. Testo

  31. Quaggiù c'è solo una traccia di vita e di intelligenza cfr. VI,7,7,15,5-10. Testo

  32. Hadot, Plotino, 37. Testo

  33. J.M. Narbonne,«Epekeina tes gnoseos: Le savoir d'au-delà du savoir chez Plotin et dans la tradition néoplatonicienne», in Th. Kobusch und M. Erler (hrsg), Metaphysik und Religion: Zur Signatur des spaetantiken Denkens. Akten des internationalen Kongresses vom 13.-17. März in Wurzburg,München-Leipzig 2002, 477-490. Testo

  34. Cfr. Rist, Eros, 124. Sia in Eros, 125, n. 159, sia in Plotino, 12 che ritratta 93 e 256-257, Rist spiega il suo fraintendimento di IV,8,1,3, nell'averlo letto in riferimento alla salita all'Uno e non al Nous (come è), sulla base della traduzione araba. Testo

  35. Cfr. Rist, Eros, 127. Testo

  36. Cfr. Rist, Eros, 136. Testo

  37. Mysticism, Sacred and Profane, Oxford 1957, discussa in Rist, Plotino, 280 Testo

  38. Questa ipotesi è moderna, cfr. Dodds, Pagani e cristiani, 87. In antichità, tutti quelli che hanno letto Plotino lo hanno interpretato in modo «teistico», cfr. Armstrong, «Plotinus and India»: The Classical Quarterly, 30 (1936) 22-28 che criticando l'idea di Bréhier, che ammetterebbe influssi dalla filosofia indiana, afferma che la filosofia di Plotino è radicata fortemente nella filosofia ellenistica. Anche Dodds ha dedicato un saggio per collocare Plotino all'interno della più genuina cultura greca, cfr. The Parmenides, 129-142. Testo

  39. «Neoplatonism and the Love of God in Origen», in R.J. Daly (ed.), Origeniana Quinta, Papers of the 5th International Origen Congress (Boston College, 14-18 August 1989), Leuven 1992, 271-283, qui 271. Testo

  40. Questa interpretazione è quella di Rist e Hadot, Plotino, 52. Testo

  41. Cfr. The Parmenides, 140-142. Dodds dimostra che non è l'esperienza mistica che determina la concezione dell'Uno di Plotino, che invece è più antica di Plotino, ma che la sua concezione dell'Uno determina l'interpretazione che Plotino dà della sua esperienza mistica. Dodds insiste nell'affermare che il principio ultimo dell'unità dell'universo è accessibile solo da un qualche principio ultimo di unità presente nell'uomo. Questo accesso al divino può essere sovra-razionale, e l'atto supremo di conoscenza può trascendere la conoscenza ma deve consistere in una attualizzazione momentanea di una qualche identità tra l'assoluto nell'uomo e l'assoluto fuori dell'uomo ed è questa la base logica del misticismo di Plotino, cfr. 141. Essa risale bene all'idea di Empedocle che il simile conosce il simile e assume una terminologia che non ha nulla di estraneo alla cultura greca, perché anche la terminologia dell'illuminazione è un simbolo naturale della divinità, in tutte le culture. Piuttosto essa in Plotino sembra un'eco di alcuni passi platonici (Resp. VI e Ep. VII,341c). Dodds esclude anche dipendenze dalla concezione dell'estasi di Filone, cfr. 142. Testo

  42. Plotino nega il panteismo in V,5,12,47 e VI,8,19,18. L'estasi plotiniana non è una unione con tutte le cose ma una ascesa al di là di ogni cosa finita, cfr. Rist, Plotino, 282; cfr. Rist, Back, 184-190 e Plotino, 278-300. Testo

  43. Dodds attribuisce a Plotino una forma di mistica «introversiva» secondo la definizione di Stace, cfr. Cristiani e pagani in un'epoca d'angoscia. Aspetti dell'esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, Firenze 1997 (tit. or.: Pagan and Christian in an Age of Anxiety. Some Aspects of Religious Experience from Marcus Aurelius to Constantine, Cambridge 1965), 79-84. Testo

  44. Questo testo andrebbe meglio riferito al Nous amante e non propriamente all'Uno. La presenza del di sé dovrebbe mettere in guardia: non c'è assoluta semplicità. È con questo che l'anima si unisce, cfr. infra. Testo

  45. Cfr. Zorzi, Desiderio della Bellezza, 392-401. Testo

  46. Dodds, Cristiani e pagani, 79-84 Testo

  47. Come ha messo in evidenza A.W. Price, Love and Friendship in Plato and Aristotle, Oxford 1990, Platone vede nell'amore omosessuale pederastico una maggiore possibilità di essere sublimato (228), cioè di diventare un'unione mentale in una comunione di vita (226), ovvero una crescita spirituale. Per questo l'amore eterosessuale non è mai punto di partenza per l'ascesa spirituale in Platone. Testo

  48. A questo proposito, anche se non riguardante Plotino, si veda la bella pagina di Sissa, Eros Tiranno. Sessualità e sensualità nel mondo antico, Bari 2003, 8 sul «desiderio di desiderio» come ciò che libera dalle false opposizioni attivo-passivo e soggetto-oggetto. Testo

  49. M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Milano 2012. Testo

  50. Cfr. Rist, Plotino, 288-300. Testo

  51. Cfr. Rist, Back, 197. Testo

  52. Si parla di consustanzialità, affinità, identità, somiglianza (VI,9,8,29), per dire che l'anima si unisce al livello dell'intelligenza amante diventando divina. Infatti questo stato è quello che vivremo dopo la morte. Testo

  53. Cfr. Krakowski, Plotin, 195. Testo

  54. Cfr. Rist, Eros, 133. Testo

  55. J.M. Rist, «Pseudo-Dionysius, Neoplatonism and the Weakness of the Soul», in From Athens to Chartres: Neoplatonism and Medieval Thought. Studies in Honor of Edouard Jeauneau, ed. H.J. Westra (Leiden--New York 1992) 135-161. Testo

  56. «E non dobbiamo credere poi che nella sua più vera natura l'anima sia tale da presentare, rispetto a se stessa, grande varietà, dissimiglianza e differenza. -- Come dici?, chiese. -- Non è facile, ripresi, che sia eterno un oggetto composto di molti elementi e che non presenti la composizione più perfetta, come invece ora ci è apparsa l'anima. -- Non è naturale davvero. -- Dunque l'anima è immortale. E' la conclusione necessaria del nostro recente discorso e degli altri E per vederla quale è nella sua vera natura, non bisogna contemplarla, come invece la contempliamo noi ora, lordata dal contatto con il corpo e da altri mali. Dobbiamo invece osservare attentamente con il raziocinio quale essa è allo stato di perfetta purezza. Il raziocinio la troverà molto più bella e splendida e ne distinguerà le varie forme di giustizia e ingiustizia, e tutte le qualità che or ora abbiamo elencate. Però ora abbiamo detto il vero rispetto al modo in cui essa ci appare presentemente. L'abbiamo vista in quella condizione in cui si trova Glauco marino; chi lo vedesse non ne riconoscerebbe più tanto facilmente la pristina natura, perché le parti antiche del corpo sono in parte spezzate, in parte corrose e completamente sfigurate dai flutti. Altre poi vi sono aggiunte, conchiglie alghe sassi; e così rassomiglia più a una bestia qualsiasi che al suo essere naturale. Anche l'anima noi la contempliamo così ridotta da innumerevoli mali.» (611b-e). Testo

  57. cfr. J. Dillon «Hierourgia and Theourgia in Sacramental Activity», in S.K. Wear -- J. Dillon, Dionysius the Areopagite and the Neoplatonist Tradition. Despoiling the Hellenes, Ashgate, Aldershot 2007, 99-115, qui 111. Testo

  58. In Wear -- Dillon, Hierourgia, 99-115. Testo

  59. A. Golitzin, «Dionysius Areopagita: A Christian Mysticism?»: Pro Ecclesia (2003) 12/2, 161-212. Golitzin lamenta che l'approccio della tradizione cattolico-romana a Ps.-Dionigi sia stata piuttosto parziale, non ha cioè tenuto conto degli scritti nella loro globalità. Per esempio, la mistica medievale ha guardato sempre con molto favore a Ps.-Dionigi, ma soprattutto alla sua TM. Golitzin però legge il corpus nell'ordine in cui esso ci è stato consegnato, in polemica con P. Rorem, ritenendo che esso abbia una sua logica interna. Sulla base di questa interpretazione Golitzin ha analizzato il misticismo di Ps.-Dionigi dal punto di vista liturgico. Testo

  60. Il riferimento, qui di seconda mano, è a Acta Conc. Oec. 4-2,172. Testo

  61. Si veda la rassegna di R. Roques, L'Univers dionysien: structure hierarchique du monde selon le Pseudo-Denys, Paris 1954; C. Moreschini, Storia della filosofia patristica Morcelliana, Brescia 2005; E. Bellini, Saggio introduttivo a Dionigi Areopagita, Tutte le opere, a cura di P. Scazzoso - E. Bellini, Bompiani, Milano 2009, 33-42; Dillon, Dionysius and Neoplatonic Tradition, 2007. Testo

  62. Cfr. A. Maeger, Hypatia. Die Dreigestaltige Philosophin, «Kirchenvater», Heilige, Hamburg 1992. Testo

  63. Cfr. S.Lilla, Dionigi l'Areopagita e il platonismo cristiano, (Letteratura cristiana antica), Morcelliana, Brescia 2005. Testo

  64. C.M. Mazzucchi, «Damascio autore del corpus dionysiacum e il dialogo peri politikes epistemes»: Aevum LXXX (2006) 299-334, qui 317. Testo

  65. Significativa a questo proposito risulta la seguente affermazione: «Io so che non ho mai polemizzato né con i greci né con gli altri, in quanto io credo che sia sufficiente agli uomini buoni se possano conoscere e esporre la verità tale quale essa è realmente... Convinto, io credo, di questo, non ho mai avuto la voglia di parlare contro i greci o contro altri, ma è cosa per me sufficiente, e Dio mi conceda questo, anzitutto di conoscere la verità e poi, conoscendola, di parlarne come si deve.» (Ep. VII,1, 1077B-1080A, = Ramelli 639); l'argomento continua in Ep. VII,2, 1080B e ripresa in 3, alla fine della stessa lettera. Testo

  66. Il tema risale a Platone, cfr. Phaidr. 255E; Resp. 508C. Testo

  67. Dillon, Dionysius, 11-13; K. Ruh, Storia della mistica occidentale. I. Le basi patristiche e la teologia monastica del XII sec, Milano 1995, 77-80. Testo

  68. Dillon, Dionysius, 12. Testo

  69. Infatti «i catecumeni [...] sono ancora in stato di gestazione sotto la direzione paterna delle Scritture e [...] si vanno plasmando all'accesso verso il principio di vita, di luce e beatitudine che deriva dalla nascita divina» (EH 3,3,6,432D-433A). Testo

  70. Gesù è «il mistero della philanthropia» (DN 2,640c) da leggere in parallelo all'azione del vescovo che inizia all'eucaristia (EH 3,441); 124A; 181B; 209B; 393A; 44B; 592A; 648D; 953A; 1072AB. Testo

  71. A. Nygren A., Eros e agape. La nozione cristiana dell'amore e le sue trasformazioni, Bologna 1990 (tit. or.: Den kristna kärlekstanken genom tiderna. Eros och Agape, Stockholm 1930); Rist, Eros e Psyche; M.B. Zorzi, «La reinterpretazione dell'eros platonico nel Simposio di Metodio d'Olimpo»: Adamantius 9/2003, 102-127; Ead., Desiderio della Bellezza. Testo

  72. Sul significato del passo in Ignazio, si veda l'interpretazione di Rist, «A note on Eros and Agape in Pseudo-Dionysius»: Vigiliae Christianae 20 (1966) 235-243., 243; F. Cocchini, «Eros in Origene. Note su una dottrina dell'ardore», in S. Pricoco (ed.), L'eros difficile. Amore e sessualità nell'antico cristianesimo, Catanzaro 1998, 35. Testo

  73. Secondo Origene i passi sono Prov. 4,6.8 e Sap. 8,2, ma in realtà se ne trovano altri in cui invece il significato è passibile di fraintendimento, in quanto riservato proprio ai piaceri sessuali anche illeciti (cfr. Prov. 7,18; 30,15-16; dubbio in Ct. 8,6), cfr. Mauro Perani, «Ebraismo e sessualità fra filosofia e Qabbala. La Iggeret ha-Qodesh (Lettera sulla santità)», in Annali di Storia dell'Esegesi 17/2 (2000) 463-485, qui 478-480. Forse per questo Origene non li cita? Oppure dobbiamo ipotizzare che avesse sotto mano versioni del testo biblico diverse dal nostro. Testo

  74. A questo riguardo si vedano i fondamenti filosofici di una tale operazione, che normalmente accade in ogni lavoro di traduzione, rilevati da John M. Rist, «On the Very Idea of Translating Sacred Scripture»: The Slovenian Academy of Sciences and Arts, Interpretation of the Bible, Ljubliana 1998, 1499-1511, in particolare 1508. Testo

  75. Desalvo C., L'«Oltre» nel Presente: la filosofia dell'uomo in Gregorio di Nissa, (Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi 9), Milano 1996. Testo

  76. Cfr. M.B. Zorzi, Desiderio della bellezza... Testo

  77. Cfr. anche le Omelie sui Salmi: «Le tue frecce sono acute (Sal 44,6). Da questi dardi sono colpite le anime che hanno accolto la fede e che dicono di ardere del sommo amore di Dio, come la sposa: Io sono ferita dall'amore (Ct 2,5). Inenarrabile e ineffabile la bellezza del Verbo, lo splendore della sapienza, la forma di Dio nella sua immagine. Beati quindi coloro che amano contemplare quella vera bellezza. Essi infatti sono come ad essa congiunti attraverso l'amore, e amando l'amore celeste e beato si dimenticano dei parenti e degli amici, si dimenticano della casa e di ogni bene, sono dimentichi pure di ogni necessità corporale, come il mangiare e il bere, e sono legati sol tanto a questo amore divino e puro» (Hom. in Ps. 41,6, PG 29,401C-404A). Testo

  78. Cfr. Osborne, Eros unveiled, 22-23; 71-72; cfr. anche E. Prinzivalli, «Fuoco»: DO, 177-181, Zorzi, 322, n. 74. Testo

  79. Asceticon magnum 31.909.36 -31.909.37 Testo

  80. Cfr J.M. Rist, «Love, Knowing and Incarnation in Pseudo-Dionysius»: Traditions of Platonism. Essays in Honour of John Dillon, J.J. Cleary (ed.), Aldershot 1999, 375-388; Id., Pseudo-Dionysius, 135-161. Testo

  81. Y. De Andia, Henosis. L'Union avec Dieu chez Denys l'Aréopagite, Leiden 1996, 160. Testo

  82. Ha notato Ruh, Storia della mistica occidentale che Dionigi non usa mai la parola dire, parlare. Sempre Dio si celebra, si loda... «Se è vero che le considerazioni teologico-spirituali di Dionigi hanno la propria sede nell'intelletto, è altrettanto vero che la loro mediazione linguistica non si svolge per discussioni e argomentazioni. Egli piuttosto presenta i prori oggetti in forma descrittiva, celebrativa, anzi invocativa», 88. Testo

  83. De Andia, Henosis, 164. Testo

  84. I riferimenti alla divinità come luce 120B; 145C; 260D; 261A; 261C; 272C; il raggio divino 301C; 337°; ancora di raggi parla 392C; 504B; 504C; luce immateriale in 560C; raggi fulgidi in 592C; 700D; aglaia 700°; Dio è luce 865C; dialettica luce-tenebre 869AB; 872B; il raggio delle tenebre 1000°; la divina caligine 1000C; 1001°; le tenebre luminose 1025°; ancora luce in 1065°; 1069B; 1073°; 1092B. Testo

  85. Secondo la sua possibilità, per quanto può, parzialmente, proporzionalmente: 121C; 137B; 140A; 165B; 180C; 212C; 237D; 240A; 273C; 292C; 293B; 301A; 336C; 372C; 373A; 376A; 392A; 397C; 433C; 445B; 477C; 532C; 537B; 537C; 557A; 588A; 649C; 589B; 717D; 1092B; 1085B; 1092B. Testo