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Recensione a Pietro Maranesi, La clausura di Chiara d'Assisi. Un valore o una necessità?

di Benedetta Selene Zorzi (28 febbraio 2013)

Pietro Maranesi, La clausura di Chiara d'Assisi. Un valore o una necessità?, Porziuncola, Assisi 2012.

Il volume affronta dal punto di vista storico la relazione tra la vita clariana e la vita claustrale. Si domanda cioè se la vita claustrale abbia costituito un motivo fondativo ed essenziale della vita condotta a San Damiano dalle sorelle di Chiara d'Assisi o se tale scelta sia stata legata ad un contesto socio-religioso. «Insomma: la clausura di Chiara è stata un valore da lei scelto fin da subito o una necessità accettata come necessaria per integrare la sua proposta di vita dentro la società medievale?» (p. 5).

D. Pietro Maranesi, cappuccino, docente di teologia dogmatica e specialista di studi francescani, Direttore dell'ISSR di Assisi, si misura con un tema storiografico molto ampio e passibile di interpretazioni ideologiche, attualmente motivo di dibattiti all'interno della spiritualità francescana e non solo.

Il volume si presenta suddiviso in due capitoli e una conclusione.

Il primo capitolo analizza la situazione sociale femminile nel medioevo (La questione sociale e religiosa medievale: clausura e verginità femminile). Qui viene mostrato come l'ideale della reclusione fosse funzionale all'immagine di donna vergine e madre, ovvero alla donna considerata principalmente dal punto di vista sessuale, tutta relativa al maschio. L'autore ricorda la mutua dipendenza tra forme religiose e culturali e la tendenza in ambito religioso ad una sacralizzazione di queste ultime. Nel tema specifico lo studioso è convinto che «le forme religiose previste per le donne costituiscono la base valoriale per confermare e fissare i ruoli culturali e sociali assegnati alla donna medievale» (p. 9).

Maranesi studia (1. I: Ideale medievale: una donna rinchiusa per essere vergine e madre) le caratteristiche culturali della concezione della femminilità del periodo medievale e l'impatto di questa concezione sulle categorie rispettivamente religiose e clariane.

La ripartizione dei ruoli sociali di quel tempo implicava una considerazione delle donne solo dal punto di vista della loro funzione riproduttiva e di conseguenza per il legame della (loro) sessualità al peccato.

Le uniche scelte a disposizione di una donna erano anche esse legate alle funzioni sessuali: vergine o madre.

Il concetto di verginità veniva interpretato in senso rigidamente sessuale, ovvero di integrità fisica e purezza del corpo femminile in una concezione antropologica che la chiesa cattolica ha finalmente abbandonato e che riteneva la sessualità secondaria alla costituzione originaria dell'essere umano, per cui bisognava tornare allo stato di perfezione paradisiaca prima del peccato originale. Lo stato di verginità permetteva la maternità senza doglie, quella della procreazione paradisiaca; anche questo stato tuttavia legava la donna esclusivamente alla sua funzione procreativa.

Affinché il corpo della donna potesse diventare fonte di vita e non di peccato, la vergine doveva vivere rinchiusa. La condizione della donna infatti, ritenuta debole e instabile, necessitava la custodia, una chiusura nel corpo e nei vestiti, una dimensione domestica nel matrimonio o nel convento (è famoso l'adagio aut maritus aut murus) anche per evitare l'impatto del suo corpo sulla tentabilità del maschio. Il ruolo maschile si palesava come custode del corpo della donna per preservarne l'onestà.

Il contegno della donna era molto importante perché aveva ricadute sull'onore del marito, della famiglia e della società.

La verginità nella cultura medievale era ciò che una donna potesse di meglio offrire quale valore e dote da conservare (cfr. p. 15).

Spostando l'attenzione sull'impatto che questa datata concezione dei ruoli sessuali ha assunto nella spiritualità clariana, Maranesi si misura con i testi del processo di canonizzazione di Chiara (1. I. 2 La conferma delle testimonianza su Chiara dal processo). Qui si mostra come tale costruzione sociale venga retroproiettata sull'esperienza giovanile di Chiara. Della santa vengono infatti esaltate le caratteristiche che allora identificavano la santità per una donna: l'onestà nella conversazione, la verginità, la gentilezza, lo stile di vita e il modo di vestire, il suo stare sempre in casa, celata, il suo non essere desiderosa di essere veduta.

Si tratta però di notizie provenienti da un'agiografia ricostruita più sull'ideale della perfezione femminile di quel tempo, che non sulla storia della donna concreta che Chiara fu; non a caso tale agiografia scorda di menzionare la fuga di Chiara per incontrarsi con Francesco.

Il prof. Maranesi illustra poi (1. II: Il progetto religioso femminile: rinchiuse per lo sposo) in che modo la visione religiosa della donna nel medioevo derivi da quella culturale: la religiosa dovrà essere rinchiusa per lo sposo, stavolta divino. Maranesi dimostra (1. II. 1: La clausura per la verginità nelle forme di vita femminili) che «la scelta claustrale diventava la forma religiosa nella quale si sublimava l'ideale femminile legato alla verginità» (p. 21). È sconcertante il confronto con lo stile di vita monastica maschile: «nel contesto ... del mondo monastico maschile la clausura e la stabilità, mai stata totale e assoluta, era legata ad una fuga dal mondo per poter trovare un luogo adatto, un'officina che permettesse di produrre opere buone, simili ad opere d'arte, sotto la disciplina di una regola e obbedendo alla guida dell'abate quale artifex dell'opera da compiere» (p. 24). L'autore si domanda il perché di questa fondamentale «diversità nel pensare e organizzare la vita monastica maschile e quella femminile» (p. 30).

Il legame infatti tra vita monastica e clausura diventa per le donne normativo con il solo fine della preservazione della verginità «quale perla preziosa da offrire allo sposo celeste» (p. 24). «La clausura è proposta quale valore costitutivo della vita delle monache» (p. 26). L'insana trasposizione della relazione nuziale tra la monaca e Cristo, implicava che la monaca dovesse «riservarsi esclusivamente e totalmente per il suo sposo» che era considerato molto «geloso» (p. 24). Mi si permetta di aggiungere che questa trasposizione non manca di alimentare corto circuiti nell'immaginario collettivo e nella spiritualità delle religiose quali quelli dell'idea di un harem di Cristo, di una ipersessualizzazione della vita religiosa, di una falsificazione dei rapporti umani tra i sessi che diventano ricettacolo di proiezioni mitizzanti; essa non rende giustizia né alle donne, ancora considerate alla stregua di oggetti sessuali, anche se di possesso divino, né al messaggio evangelico sulle donne, né ad una sana spiritualità, né ad una giusta valorizzazione del ruolo delle monache all'interno dei rapporti intraecclesiali.

Nell'idea della clausura quale spazio dell'esclusività della sponsalità con Cristo si inserisce anche una tematica per niente cristiana ma del tutto gnostica: la clausura sarebbe la tomba dove le monache vivono con Cristo la loro morte al mondo.

Le metafore si fanno fastidiose quando per esempio la clausura viene paragonata allo scrigno la cui custodia è in mano al vescovo (!), la cui porta deve essere chiusa fortiter e le cui chiavi sono sotto la sua giurisdizione, il quale dà potere di entrare e uscire. La trasposizione di questa relazione delle monache da Cristo al vescovo si fa quanto mai imbarazzante e quando le finestre sbarrate del monastero o le sue grate richiamano metafore sessuali del Cantico dei cantici capiamo ancora la pericolosità di tale immaginario.

«La clausura religiosa femminile porta a compimento l'ideale sociale medievale in cui l'onestà della sposa era garanzia e prova dell'onore dello sposo» (p. 31).

Questi valori sociali diventano valori religiosi per le donne allorché la verginità si identifica alla stessa scelta religiosa. Esse necessitavano quindi un luogo adatto per preservare questa virtù sicura e intatta (cfr. p. 21).

L'assolutizzazione della clausura in vista del mantenimento della verginità diviene centrale nella visione di uomini come Ugolino, che come Papa Gregorio IX scriverà nel 1219 il primo testo della Santa Sede teso a regolamentare la vita religiosa femminile (1. II. 2: La centralità della clausura nella visione di Ugolino). In questa disamina risulta evidente quanto la struttura socio-culturale abbia influito sulla visione e sull'organizzazione della clausura attuata più da parte degli uomini di chiesa e dei papi che non da parte di Chiara e delle donne in generale.

La Forma vitae di Ugolino del 1219 è «il primo testo emanato direttamente dalla Sede Apostolica per regolamentare la vita religiosa femminile» (p. 32). L'imposizione della Regula Benedicti e l'operazione della riunificazione dei gruppi femminili del centro Italia che facevano vita comune, implicò l'ingiunzione della clausura come forma predominante per regolare la vita monastica: connessa al silenzio continuo, la clausura diventa stretta, separa le monache dal resto del mondo con mezzi quali grate, panni, chiavi e spranghe. Anche le costituzioni di Innocenzo IV del 1247 e poi di Urbano IV del 1263 radicalizzano tali norme: si arriverà fino alla gestione della porta e della collocazione della ruota; alle grate spunteranno chiodi sporgenti per impedire l'avvicinarsi troppo delle persone nei colloqui.

Con Urbano IV si ha la definitiva sacralizzazione della clausura, quando essa diventa per le clarisse un voto religioso aggiunto ai tradizionali. La via di santità si identificherà così da allora allo «stare dentro».

Maranesi denuncia giustamente la totale «assenza di motivazioni teologiche e spirituali fondative del valore della clausura» (p. 39) e ricorda che l'unico riferimento ricorrente per motivarla è quella che la lega alla verginità, intesa come bene da preservare.

Al centro della preoccupazione di tali norme non si trova mai il valore della preghiera, della ritiratezza per la contemplazione, da difendere con il silenzio e la solitudine, ma solo la preoccupazione per evitare i pericoli che mettano in questione l'onorabilità della consacrate (cfr. p. 41).

La monaca così non potrà mai restare sola con nessuno e perfino la confessione sacramentale dovrà avvenire alla presenza di altre due sorelle.

Il non essere viste si trasforma nel non vedere gli altri.

Afferma lo studioso: «le forme claustrali non vogliono tanto evitare la distrazione alle suore dalla preghiera, ma il rischio di un contatto sospetto e pericoloso da evitare mediante mezzi di separazione e di controllo, capaci di custodire la perfezione verginale delle consacrate con la loro onestà» (p. 43).

Le lettera papali dimostrano una tendenza verso una esasperazione del tema della clausura che viene sostenuta dalla metafora della nuzialità. Dal 1227 emerge per la prima volta la nuova denominazione per il gruppo delle sorelle povere di Chiara e cioè quello di recluse: la clausura perpetua come condizione costituisce da questo momento la differenza essenziale del gruppo clariano e la reclusione assume in questi testi magisteriali valore identitario.

La clausura in questi testi appare come il luogo e tempo «dell'attesa in cui la monaca preserva la propria persona, la propria verginità» (p. 45).

Nella Conclusione (III.: La clausura per la verginità sponsale) di questa prima parte l'autore afferma che «il processo a cui si assiste nella scelta della clausura, quale forma privilegiata per la vita religiosa femminile, può essere interpretato come sublimazione religiosa della forma sociale dell'esser donna medievale. Ciò che valeva come ideale supremo della donna nella società del tempo, quello cioè di preservare intatta la sua onestà per l'onore del marito, riservando per lui la sua verginità, diventa l'ideale supremo applicato al rapporto con lo sposo divino» (p. 51).

La seconda parte del volume (La clausura dentro il progetto di Chiara: una necessità o un valore? ) analizza il progetto della clausura all'interno della visione clariana.

Maranesi persegue un'analisi storica rigorosa che fa apparire chiaro come agli inizi dell'epopea francescana, Chiara e le sorelle protagoniste dell'esperienza di San Damiano fossero spinte in primis dall'ideale della povertà, lo specifico appunto di Francesco, mentre il concetto di reclusione e clausura erano se non estranei almeno assai secondari.

L'analisi dei testi dimostra che Chiara non aveva prioritario l'ideale della clausura, ma la povertà e la sorellanza, secondo la forma di vita di Francesco.

Maranesi mostra che il progetto di Chiara originariamente non era fissato sulla clausura o sulla reclusione, come poi divenne a causa degli interventi papali, ma sulla povertà e la sorellanza. Non c'è dubbio quindi sulla risposta alla domanda del titolo del libro: per Chiara la clausura fu una scelta necessaria che anzi si opponeva al suo ideale innovativo.

Il modello di Francesco era quello di essere povero tra la gente, e tale non poteva che essere anche l'intuizione di Chiara. L'agiografia e i testi successivi invece spingeranno sull'ideale delle nozze con Cristo, sulla pudicizia verginale, sulla sacralizzazione della verginità.

Maranesi discute le fonti che mostrano Chiara vicina alla spiritualità di Francesco e come la società del tempo fosse inquadrata in una ripartizione rigida dei ruoli anche religiosi proveniente dalla distinzione sociale tra uomini e donne.

La stessa scelta di San Damiano deriva da una ricerca di un luogo adatto a concretizzare meglio per le donne (di allora) l'adesione all'ideale di Francesco. Tale luogo non aveva come caratteristica principale quella monastico/claustrale di una reclusione volontaria ma quella semplice e aperta di una comunità minoritica (cfr. p. 77).

La monasticizzazione dell'esperienza di Chiara è opera del papato che retrodatando l'esperienza iniziale la legge in chiave claustrale sganciandola dall'esperienza di Francesco (cfr. p. 79).

La primitiva vita di S. Damiano a parere dello storico fu una vita a servizio dei poveri e di condivisione anche se questa ipotesi è meno testimoniata dalle fonti rispetto alla linea della reclusione. La struttura stessa di S. Damiano però e varie riflessioni di carattere storico, lasciano pensare che Chiara avesse contatto con il movimento penitenziale del centro Italia e che S. Damiano permettesse di mediare tra l'intuizione di Francesco, che avrebbe voluto le donne presenti tra la gente, e la situazione socio-religiosa delle donne di quel tempo che certo non avrebbe permesso loro di vivere sulla strada «alla stregua dei frati» (p. 85).

Secondo Maranesi quindi Francesco e Chiara cercarono di conciliare «povertà itinerante e condizione femminile religiosa» (p. 87). A suo parere «le forme di clausura che sembrerebbero doversi registrare a S. Damiano fin dagli inizi, non possono da se stesse indicare una scelta identitaria assoluta connessa alla conversio Iesu Cristo ma debbono essere legate ad una necessità» socio-religiosa alla quale né Francesco né tanto meno Chiara potevano sfuggire. In S. Damiano si è tentato di conciliare i due valori: quello legato alla novità evangelica scoperta da Francesco e abbracciato da Chiara e quello sociale che imponeva ad una donna nobile forme di protezione» per la sua onestà religiosa» (pp. 87-88).

Nel secondo capitolo della seconda parte (La proposta di Chiara: senza la clausura) Maranesi tenta di ritrovare nelle fonti cosa effettivamente abbia affermato Chiara sulla clausura. Ella si esprime sempre con i termini «sorelle» e «povere» mai con quello di «recluse». Il cappuccino afferma che anche laddove l'argomentazione è centrata sulla nuzialità, si registra una «assenza del tema claustrale dentro le lettere della Santa di Assisi» (p. 91), egli rileva come il tema della nuzialità non si lega a quella socio-culturale del rinchiudersi per lo sposo, piuttosto a quello dello spogliarsi per l'amore reciproco (cfr. p. 94). Anche la metafora sponsale quindi riceve da Chiara una diversa accentuazione rispetto a quella sociologica e ne assume una più evangelica, biblica (quella del Cantico) e propriamente francescana (cfr. p. 96).

Lo studioso arriva a concludere quindi che «la clausura non costituiva il centro identitario dato da Francesco alle sorelle, né dunque la parola essenziale della loro esperienza» (p. 103). Questa ipotesi è suffragata paradossalmente nella fondazione del monastero di Praga: lì sembrano scontrarsi due progetti, due stili di vita, quello di Chiara che voleva espandere la forma di vita di S. Damiano e quello di Papa Gregorio che voleva imporre la forma ugoliniana.

La centralità degli argomenti di Chiara verte sempre sulla povertà, mai sulla clausura (p. 92).

«... Chiara mostra di ritenere che la forma vitae ricevuta da Francesco era sì semplice latte, ma un latte il cui nutrimento evangelico restava l'unico vero cibo capace di dare solidità e stabilità ala sua identità, e senza il quale ogni altra formula di vita, legata alle esigenze di tipo socio-religioso, anche se giudicate dal papa «solide» e non liquide», non potevano dare vera vita evangelica alla sua esistenza e a quella delle sorelle» (p. 116).

Per Maranesi insomma ci sono «molti indizi (o forse più che indizi), che ... impediscono di ritenere che Chiara, contrariamente a quanto sosteneva Gregorio IX nella sua lettera del 1238, abbia aderito alle Costituzioni ugoliniane, cioè che abbia accolto il programma papale centrato sula clausura riconoscendolo come formulazione adatta per la sua identità» (p. 117) e che dimostrano che «la clausura non rappresentava per Chiara un valore di riferimento assoluto» (p. 118).

Ancora: «La clausura non rientra tra le parole e i valori prioritari sintetici della proposta generale avanzata al papa da Chiara» (p. 121).

Anche nella bolla Solet annuere vi sono due temi quello della clausura e quello della forma di vita ottenuta da Francesco ed è chiaro che per la Santa l'essenziale è in «povertà e umiltà» non nella clausura, che sembra tema aggiunto dal cardinale (cfr. p. 123). Mentre per le Costituzioni papali la vita si deve realizzare nella clausura, per Chiara è il Vangelo l'unico vero punto di riferimento dei tre voti» (p. 127).

La stessa gestione e comprensione della clausura da parte di Chiara fu possibilista e duttile, perché si tratta di elementi «funzionali e non identitari» della forma di vita clariana.

Le due forme sono quella «minoritica-clariana della povertà fraterna e quella monastica ugoliniana-papale della recusione volontaria per lo sposo» (p. 131).

«Per l'abbadessa di San Damiano la clausura non rappresenta la parola fondativa della sua esperienza, lo era invece per le Costituzioni papali» (p. 130).

«La clausura era per Chiara una scelta necessaria per dare corpo ad una scelta «liberamente accolta» nell'obbedienza a Francesco» (p. 138).

Anche nel Testamento non si utilizza mai il termine di abbadessa ma di «madre» o «colei che avrà l'incarico delle sorelle» che sembra un «rifiuto esplicito di un termine monastico» (p. 151); anche altre qualifiche legate alla reclusione sono assenti.

Si arriva così ad un paradosso storico: la comunità di Assisi apparteneva ad un Ordo e osservava una regola diversa da quella dell'Ordo monasteri santae Clarae (cfr. p. 152-153).

Nella conclusione Maranesi riassume la sua tesi: che la terminologia della reclusione che identifica la monaca deriva da un fondamento socio-culturale, dal modello cioè delle relazioni maschio-femmina della società feudale. Esso viene sacralizzato tramite la metafora della sponsalità ed entra in ambito religioso per le monache. «La monaca di clausura costituiva la sublimazione di un meccanismo sociale dove la donna aveva la sua autocomprensione solo in rapporto alla sua fecondità per la famiglia e dunque in relazione allo sposo. In fondo si può dire che la struttura claustrale confermava la struttura sociale dandole un valore anche mistico e teologico» (p. 154).

La terminologia di Chiara invece che tende a parlare di «sorelle povere» sottolinea che carattere essenziale della vita francescana non è la solitudine ma la relazione e la povertà diventa categoria cristologica. Mentre la terminologia della clausura stabilisce priorità allo sposo dove la donna è posta in atteggiamento subordinato in quanto lo attende lo onora e gli si riserva totalmente, nella terminologia della povertà al centro c'è la relazione reciproca e paritaria.

La povertà è uno spazio aperto di relazioni, una modalità specifica di essere nel mondo «mentre la clausura non ha bisogno del mondo, la povertà ne è assolutamente legata perché solo lì trova il suo modello e il suo specchio» (p. 155).

Maranesi ritiene che la totale condivisione dello stato di vita francescano avrebbe comportato per Chiara una «radicale rottura con la posizione assegnata nella struttura sociale ad una donna nobile» (p. 156).

Chiara sceglie quindi di conciliare la vita minoritaria con la clausura con una fatica e una tensione costante che perdureranno durante tutta la sua vita. Con Urbano IV si concluderà il processo «di claustrazione del movimento femminile intrapreso dalla sede apostolica con le costituzioni ugoliniane» (p. 156) e si arriverà a proclamare «la clausura quale contenuto radicale dell'esperienza religiosa femminile, stabilendo di conseguenza che l'identità delle donne che apparterranno all'Ordine di Santa Chiara non sarà quella di «sorelle povere» ma di «monache recluse» (p. 157).

Maranesi esorta a ripensare le forme della clausura e della vita monastica femminile per liberarla dai residui derivanti da una concezione della donna oggi superata.

Il testo offre non solo alle clarisse, ma a tutto il mondo monastico un contributo per un radicale ripensamento della vita monastica alla luce del Vangelo e delle sfide di oggi.

Ringraziando l'autore per aver sintetizzato le consapevolezze e i relativi disagi di molte, auguriamo a questo testo una grande storia della ricezione, perché oggi come oggi non c'è forse tema più urgente che quello della clausura per una riflessione sul futuro del monachesimo femminile.

Se ci fosse un consiglio da dare all'autore sarebbe quello di evitare domande o frasi che sembrerebbero messe con la funzione di attenuare la sua tesi dirompente e mai implicita che egli ripete dall'inizio alla fine con chiarezza ed efficacia: la clausura, appartenendo ad un retroterra antropo-teologico fondamentalmente gnostico, legato ad un mondo socio-culturale definitivamente superato, inducendo a proiezioni religiose e psicologiche insane, non può più continuare ad essere considerata parte della struttura del monachesimo femminile del futuro.

La monaca non è l'inarrivabile donna di nessun altro, ma la donna di tutti.

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