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Recensione a Massimiliano Zupi, Incanto e incantesimo del dire

(2 marzo 2009)

La recensione di Benedetta Zorzi ha suscitato una lunga risposta dell'autore, che viene volentieri ospitata nello spirito del dialogo (e anche del diritto di replica!).

La logica del paradosso: per un progetto culturale cristianamente qualificato

Ringrazio la mia amica Zorzi per aver recensito il mio libro1 e Reportata per aver accettato di ospitare questo articolo che, raccogliendo alcune provocazioni contenute nella recensione di Zorzi, mi offre l'occasione tra l'altro per individuare gli indici di un pensiero della differenza, nonché per collocare Incanto e incantesimo del dire, esplicitando il progetto culturale che questa pubblicazione vorrebbe avviare.

1. La dialettica di lettera e spirito, ovvero i tre indici metodologici di un pensiero del paradosso

Nella prima parte della sua recensione, Zorzi riassume a maglie larghe il percorso del libro. Quale autore, in quel riassunto davvero non mi ritrovo: non perché esso presenti errori o fraintendimenti;2 piuttosto è l'operazione in se stessa che poteva avere poche speranze di successo. Un riassunto, infatti, trova il suo luogo vitale solo al termine di un percorso, sotto forma di Conclusione e di Sommario. Viceversa, una qualunque sintesi, separata dal corpo del testo di cui vuol essere sintesi, è quasi inevitabilmente un tradimento del testo stesso. È come leggere la trama integrale di un film o il finale di un romanzo: non può trasmettere nulla del valore contenuto nel film o nel libro. La ricchezza di un sommario è il cammino necessario per giungere ad esso: è anche questo il senso del rimprovero mosso da Platone nella Lettera VII (341) a Dionigi, di voler cioè ridurre la sua filosofia a un insieme di proposizioni, prescindendo dalla fatica necessaria per giungere a quei risultati. Insomma, se recensire un libro significa presentarne un riassunto, probabilmente l'operazione non può che fallire.3 È il solito problema: come è possibile ridire lo spirito di una lettera? Nel caso di una recensione, solo avendo fatto proprio quel testo, per affinità elettiva o per lungo commercio con esso: e allora l'eventuale riassunto sarà piuttosto un ridire in prima persona, quale autore prima che recensore.

Tornando all'articolo di Zorzi, quel che mi ha davvero stupito è che non si faccia parola delle tante questioni di esegesi e storiografia filosofica affrontate nel libro: senza presumere di volerlo riassumere per intero, esse da sole avrebbero potuto certo testimoniare l'eventuale valore e interesse del libro -- il che rappresenta senz'altro uno degli scopi principali di una recensione: destare nel lettore il desiderio di leggere quel saggio. Esse, del resto, nella forma più generale, senza entrare nello specifico, sono volutamente scritte nei due risvolti di copertina, le bandelle del libro: qual è il senso del frequente rinvio al non-scritto nei dialoghi platonici? Quale il significato del ricorso ai miti, del motivo dell'ispirazione divina, del diffuso tono ironico nell'economia dei lógoi socratici? Qual è il rapporto tra filosofia e mistica in Gregorio di Nissa? Quale la linea di continuità e discontinuità tra platonismo e cristianesimo, come pure tra origenismo e dogma niceno-costantinopolitano, nel grande Cappadoce? E ancora: qual è la teoria dei nomi guadagnata da Socrate nel Cratilo? Quale il senso del lungo smênos, sciame, di etimologie, come lo chiama Socrate (401e), che occupa la sezione centrale, la più lunga, del dialogo? Come interpretare il rinvio alle cose stesse contenuto nelle ultime battute del dialogo? Quale il rapporto topologico, la trama dialettica che è possibile rinvenire tra il Cratilo e il Sofista? Il Contro Eunomio è un trattato organico o disorganico? La teologia trinitaria, la teoria dei nomi e la cristologia ivi contenute sono sistematiche e ortodosse, o aporetiche? Mi sarei aspettato dunque di vedere ricordate queste questioni e discusso sulle risposte ad esse fornite. O, in alternativa, vedere presentata e discussa la principale chiave interpretativa messa in opera nel lungo saggio, ossia quella che chiamo «logica del paradosso».

Per il resto, poi, molti dei rilievi mossi da Zorzi mi hanno altresì stupito perché hanno la forma di giudizi non giustificati o che ignorano giustificazioni pure date nel saggio.4 Per esempio, annunciando il passaggio nella trattazione da Platone al Nisseno, Zorzi definisce il salto di sette secoli «un po' disorientante» (§1. 1): eppure nella Premessa Metodologica ho giustificato un simile salto in nome di un'interpretazione tipologica, che invece non viene affatto menzionata.5 E poco dopo, parlando della ricognizione del contesto storico-dottrinale della controversia eunomiana, la giudica «fin troppo dettagliata» (ibidem): ma perché mai «fin troppo»? Più in dettaglio, la «ricostruzione del contesto dottrinale», prendendo in considerazione «materiale che affonda nelle questioni trinitarie e che chiama in causa in modo dettagliato Plotino e Origene», darebbe luogo a «un indigesto confronto tra neoplatonismo e cristianesimo» (nota1): ma perché mai «indigesto»? Si tratterebbe di «una digressione che chiede troppo al lettore» (ibidem): ma a quale lettore? O ancora, poco più avanti, «un po' dispersivo» è giudicato il percorso affrontato «per inoltrarsi sui legami tra la concezione del linguaggio di Gregorio di Nissa con quelle di Plotino e Origene» (§1. 2): ora, il percorso potrà pure essere davvero un po' dispersivo, ma un simile giudizio andrebbe almeno un poco argomentato e giustificato. E ancora, all'inizio della seconda parte della recensione, stupisce il rilievo critico secondo cui la riproposizione della polarità logos-mistica nella sua tensione irrisolta non potrebbe essere considerata certo l'unica6 chiave di lettura, «come pretenderebbe l'autore» (§2): ma nell'Introduzione ribadisco più volte che il polo opposto rispetto al logos, oltre alla mistica, sono l'estetica e l'etica.7 O infine, quando è affermato che, pur «accusando altri autori di creare etichette», tornerei poi per primo io «a trattare platonismo e cristianesimo come realtà distinte, chiare e delimitate» (ibidem): ma se mostro di continuo sulla base dei testi quanto siano grandi le affinità tra platonici e cristiani, come pure tra ortodossi e eretici (senza parlare mai, del resto, di platonici, cristiani e eretici in generale, ma sempre solo di quei determinati testi di Plotino, Gregorio e Eunomio)!8

Tra i rilievi critici evidenziati nella seconda parte della recensione, i più significativi sono senz'altro due. Il primo è quello secondo cui la mia modalità di presentazione sarebbe «supponente e autocentrata» (ibidem). In nota Zorzi spiega che un simile giudizio sarebbe giustificato dal mio continuo porre «confronti con l'intelligenza di altri autori» e dal mio continuo «ribadire l'unicità di ciò che si sta dicendo» (nota2). Ora, riconosco che in un simile stile ci sia l'impronta di un pensiero forte, maschile, e di un'opera tutto sommato giovanile. Probabilmente, tra dieci o vent'anni, userei altri toni. Ciò nondimeno, qui mi preme ribadire quelle provocazioni: molte cose, sul Cratilo, sul Sofista e sul Contro Eunomio, mi sembra proprio di averle dette io per la prima volta;9 ancora di più, un'esegesi complessiva e analitica insieme del Cratilo e del Contro Eunomio, soddisfacente, profonda, organica, all'altezza, o come si preferisce dire, mi sembra di averla offerta per la prima volta io, senza temere nessun confronto a tal proposito10: e ribadisco questo proprio nella speranza di vedermi eventualmente contestato a questo livello da esponenti del mondo accademico. Chiedo e mi aspetto questo: niente di più, ma anche niente di meno.

Ma la critica che per Zorzi è più importante è sicuramente una seconda, del resto strettamente legata alla prima: «l'ombra del pensiero dell'identità» tornerebbe «nel metodo di affrontare i due grandi pensatori con una griglia di lettura unica (quando poi vi si aggiunge Wittgenstein, la cosa diventa ancor più preoccupante)» (§2). Ancora una volta: perché mai? Mi sembra di fondare i confronti sempre su una base rigorosamente letterale e teoretica! Anzitutto nel metodo non mi sarei «affrancato dal «vizio» originario della filosofia occidentale» (ibidem), il pensiero dell'identico appunto, sebbene paradossalmente il contenuto della ricerca sia tutto incentrato su un pensiero della differenza.11 Una simile critica si fonderebbe sul rilievo secondo il quale, oltre alla supponenza di cui già si è detto, farei attenzione a non dichiarare mai nessuna contaminazione con il pensiero altrui, se non nella forma di affinità elettive, nessuna dipendenza positiva, nessun debito di formazione. Ora, nella parte centrale dello status quaestionis su Platone, nel paragrafo in cui presento la teoria degli opposti di Romano Guardini (pp. 76-77), cito estesamente in nota coloro nei confronti dei quali, pur a diverso titolo gli uni dagli altri, ho contratto un debito di formazione: Olivetti, Garroni, Salmann, Grillo. Insistervi oltre mi sembrava fuori luogo all'interno di un saggio di esegesi, nel quale per il resto ho preferito dilungarmi piuttosto nella presentazione di autori con i quali mi lega un'affinità elettiva di pensiero (per esempio, sempre in quel Capitolo, Guardini e Krüger), quale messa in opera di quell'interpretazione tipologica di cui si parla nella Premessa Metodologica. Altre saranno le sedi più opportune per esplicitare il mio personale percorso formativo: per esempio qui, subito appresso, nella seconda parte di questo articolo.

Che il mio metodo di ricerca testimonierebbe di essere ancora legato a un pensiero dell'identico è l'accusa che più di tutte le altre mi sorprende. Il mio metodo infatti è filologico, critico, scientifico. Con «filologico» intendo dire della mia esasperata insistenza sulla lettera dei testi interpretati: è solo insistendo sulla lettera che si può sperare di giungere allo spirito. In questo senso, ho scritto di considerare la mia esegesi del Cratilo e del Contro Eunomio una sorta di lectio corsiva di quei testi (pp. 15-16). Non certo nel senso di una lectio divina, come dice Zorzi (ibidem), ma nel senso di una lectio: che è poi garanzia di ascoltare in profondità i testi letti e commentati. E in questo, da un punto di vista metodologico, mi riconosco erede della tradizione monastica: essere studioso nel senso di passare ore al tavolino, nella fedeltà e nel silenzio, in una lectio che è ascolto profondo dei testi studiati. Ciò richiede senz'altro, sia all'autore che ai lettori, tanta pazienza: la pazienza di uno studio che non conosce mai tempi brevi, ma sempre lunghi periodi di gestazione prima di ogni generazione. Zorzi più volte ricorda la pazienza che è richiesta dalla lettura di un volume come Incanto e incantesimo del dire (ibidem): per lei però ciò suona come un difetto del libro, troppo lungo, troppo pesante, con troppe ripetizioni; per me invece è la virtù del libro: la prolissità, le ripetizioni sono espressioni di quel cammino mistagogico che ho imparato alla scuola della lectio divina. So che è un metodo controcorrente oggi, in un mondo consumistico nel quale alla pletora di messaggi che riceviamo corrisponde una fretta e superficialità nell'ascoltarli. Ma è appunto questa la scommessa che come cristiano voglio giocare: una lettura e una scrittura lenta, parola per parola, sono il tesoro della tradizione cristiana che assicurano una profondità e ricchezza che non marciscono.

Un metodo il mio, dicevo, oltre che filologico, anche critico: un pensiero che non vuole essere piano, risolto, bensì rilevare tutti i punti critici, le aporie, le crisi appunto di ogni pensiero, non per polemizzare, certo, ma nella convinzione che nei trapassi critici un testo e una dottrina aprano le proprie profondità.12 Infine un metodo scientifico, nel senso di stare attento a non dire mai nulla, a non dare mai nessun giudizio senza preoccuparmi di giustificarlo minuziosamente.13

Ebbene, proprio questi tre aspetti metodologici, -- attenzione estrema alla lettera, ai trapassi critici e alla giustificazione di quel che si scrive, -- mi sembrano i tre indici di un pensiero della differenza, le tre modalità di ricerca che caratterizzano e garantiscono un pensiero del paradosso. E non temo smentita nel dire che una simile metodologia non solo informi Incanto e incantesimo del dire, ma abbia ormai plasmato la mia stessa carne di studioso.

«Gli esiti dello studio forse dovrebbero essere sintetizzati in una pubblicazione più agile, perché meritano davvero di essere resi accessibili (anche per prezzo) ad un vasto pubblico». Questo auspicio, con il quale Zorzi conclude la propria recensione, è senz'altro anche il mio e mi dà l'occasione per passare senza indugio alla seconda parte di questo articolo, nella quale collocando Incanto e incantesimo del dire, esplicito a mo'di manifesto il progetto culturale cristianamente qualificato che questa pubblicazione vorrebbe avviare.

2. Filosofia come paradosso di logica e/o mistica: per un progetto culturale cristianamente qualificato

Undici anni fa, nel 1997, usciva presso Studia Anselmiana un volume dal titolo Filosofia e Mistica, una raccolta di articoli a cura di Aniceto Molinaro e Elmar Salmann, con cui i due curatori intendevano presentare e inaugurare il nuovo e omonimo ciclo di studi offerto dalla facoltà di filosofia di Sant'Anselmo. Dieci anni dopo, nel maggio del 2007, sempre presso Studia Anselmiana è stato edito Incanto e incantesimo del dire. Nelle pagine seguenti, vorrei esplicitare il legame che unisce idealmente le due pubblicazioni.

Nel 1998, fui il primo studente a iscriversi al terzo ciclo nel nuovo corso di studi nato solo dodici mesi prima a Sant'Anselmo: il dottorato in Filosofia e Mistica rappresentava ai miei occhi la conclusione più coerente, direi quasi sistematica, del mio intero itinerario di studi; rappresentava l'occasione, per dirla più esplicitamente, per pensare, attraverso la dialettica di un logos che si fa carne e di una carne che si fa logos, il mistero di quel Dio che solo dieci anni prima avevo incontrato e la cui ferita d'amore da allora aveva indiscutibilmente orientato e continua a orientare tutte le mie energie vitali.

Nel 2001 difesi la mia tesi di dottorato, di fronte alla censura proprio di Molinaro e Salmann. Poi, dopo un necessario tempo di decantazione e di revisione del lavoro svolto, nel 2007 è arrivata la pubblicazione del libro. Come ricordavo all'inizio, esattamente dieci anni dopo l'inaugurazione del ciclo di studi in Mistica e Filosofia: dal mio punto di vista, un anniversario emblematico, per dire che questo libro intende essere un frutto compiuto di quanto programmaticamente auspicato dal prof. Salmann nel suo articolo intitolato Presenza e critica. Sulle affinità elettive tra filosofia e mistica; il punto d'arrivo e l'inizio insieme di uno stile di ricerca nella cui fertilità qui, per la prima volta pubblicamente, dichiaro con forza di credere e di scommettere.

Il nocciolo di Incanto e incantesimo del dire è la determinazione di una preciso modo di pensare il rapporto tra logica e mistica di cui la filosofia vive, esplicitato in brevissime pagine del libro e per il resto messo in opera quale chiave di lettura nell'affrontare alcune questioni assolutamente centrali nello studio di Platone e Gregorio di Nissa. Vale la pena ricordare qui, sia pur brevemente, quell'impianto teoretico: confesso, con un certo pudore e forzandomi, perché sono convinto che esso possa e debba essere propriamente detto solo attraverso la sua messa in opera nell'interpretazione dei testi; tuttavia in questa sede, in via eccezionale, acconsentendo a riesporlo, per così dire, estrapolandolo, quale manifesto di uno stile di ricerca che spero negli anni avvenire possa divenire luogo di incontro con studiosi di diversa formazione e competenza,14 e di promozione di ricerche e attività di esegesi ben definite.

La filosofia vive della tensione polare tra mistica e logica, ovvero tra indicibile e dicibile, tra spirito e lettera, tra contatto e comprensione, tra impressione e espressione, tra silenzio e parola, tra passività e attività. La tensione polare è la dýnamis della filosofia: condizione di possibilità e potenza della filosofia è infatti un'originaria passività (non solo mistica, ma anche etica ed estetica: un ascolto, una visione, oltre che un tocco) che genera ogni attività (ogni scritto, ogni dottrina), in una dialettica, in un andirivieni nel quale un'attività e autonomia tanto grandi sono frutto di e rinviano a una passività e una dipendenza ancora maggiori.

Una simile tensione polare è declinabile in primo luogo, da un punto di vista logico, come «logica degli opposti»: la «logica degli opposti» viola la logica propriamente detta, quella cioè del logos univoco, formale, della scienza; è una logica infatti che afferma la separazione e esclusione dei termini opposti e al tempo stesso la loro inclusione e compenetrazione reciproca, il loro reciproco concorrere: è una logica della distinzione tanto grande in una unità ancora maggiore. Non la logica della non contraddizione dunque, dell'aut/aut, dell'esclusione dei contrari; né la logica della sintesi, dell'et/et, della riconciliazione degli opposti in una superiore unità pacificata; bensì quella che da un punto di vista trascendentale può essere propriamente definita una «logica del paradosso»: in senso tecnico, filosofico, infatti, con «paradosso» si indica la situazione nella quale l'irriducibile differenza e esclusione tra gli opposti, l'aut, convive con la loro reciproca inclusione e compenetrazione, con il loro concorrere e rinviarsi l'uno all'altro, l'et; «paradossale» pertanto è per eccellenza la tensione irrisolta -- ma proprio per questo fertile! -- tra gli opposti. Una tensione di tal genere è resa bene dall'espressione «l'uno non senza l'altro», ma ancora meglio dall'espediente grafico dell'«e/o»: una «logica dell'equivoco» dunque, perché la medesima vox allo stesso tempo, aeque, dice sé (o) e (/) rinvia all'altro (e). È altresì quella che, con terminologia ebraico-cristiana, può essere a buon diritto chiamata «logica pasquale»: logica secondo la quale sia pensare che vivere consistono nello stare sul crinale, sulla soglia, in un trapassare continuo da un polo all'altro, trapassare salvifico, che salva dalla paralisi mortifera di ogni a-poria, che etimologicamente significa infatti un-venire-meno-del-passare-attraverso. In questo senso, si tratta di quella che può essere definita anche una «logica dell'esperienza», intendendo per «esperienza» l'atto appunto del «trapassare», dell'«ex-per-ire», tra gli opposti, per esempio tra la passività e l'attività, tra la concezione e la comprensione, tra la vita e il pensiero, e così via, in un movimento che conosce un ex, un per, ma non un ad, perché ogni punto d'arrivo coincide con un nuovo punto di partenza, ogni ritorno con un esodo, ogni Odissea con un'Iliade.15 È infine quella che, da un punto di vista teoretico, può essere definita una logica del «paradosso di mistica e/o logica»: filosofia che pensa la non confusione, anzi l'esclusione della mistica rispetto alla logica, e nondimeno paradossalmente il rinvio dell'una all'altra, l'emergenza dell'una nell'altra, cosicché non v'è l'una senza l'altra. Fare filosofia significa niente di più, ma anche niente di meno che mantenersi su questo crinale, percorrendolo e pensandolo in tutti i suoi paesaggi.

Come ampiamente spiego nell'Introduzione del libro, ho trovato un autorevolissimo sostegno alla mia logica del paradosso in Romano Guardini. Scrivendo il Der Gegensatz, l'auspicio di Guardini era di assistere al costruirsi di un'unità critica del sapere che costituisse il rimedio urgente alla scissione tra concetto e intuizione, tra conoscenza scientifica e intuitiva, propria della modernità.16 Ebbene, analogamente, la «logica del paradosso» può essere lo strumento che permetta di superare la scissione moderna fra fede e ragione. È tempo di ripensare una scienza dell'essere, che riconsideri l'essere nei suoi quattro attributi trascendentali di verità (piano logico), bontà (piano etico), bellezza (piano estetico) e unità (piano mistico). È tempo di ripensare criticamente l'essere, di rifondare una metafisica -- nella quale sola propriamente consiste la filosofia -- intesa come rapporto trascendentale e fenomenologico tra logica, etica, estetica e mistica (le quattro dimensioni appunto nelle quali sole si dà da pensare e sperimentare l'essere). Ora, una nuova riflessione sul rapporto polare tra etica e logica, e tra estetica e logica, è stata già ampiamente avviata nel secolo scorso, tra tutti, dai tre massimi filosofi del Novecento: Wittgenstein, Heidegger e Levinas. In Italia poi, negli ultimi vent'anni, aver spinto a un analogo ripensamento del rapporto tra etica e logica, e tra estetica e logica, è stato merito rispettivamente di autori quali Marco Maria Olivetti e Emilio Garroni.17 Un vuoto da colmare resta invece, mi sembra, qui in Italia l'avvio a un ripensamento del rapporto anche tra mistica e logica: una lacuna che Incanto e incantesimo del dire vorrebbe contribuire a coprire.18

Ripensare il nesso che lega mistica e logica significa certo ripensare la dimensione religiosa di ogni autentica filosofia; ma ancora di più, significa qualificare la filosofia come cristiana: pensare fino in fondo il paradosso di mistica e/o logica è infatti la dýnamis specifica del cristianesimo, ovvero la sua potenza e potenzialità, nonché la sua condizione di possibilità e la sua dinamica. Ancora una volta, anche Guardini confessa esplicitamente che la logica degli opposti rappresenta la legge fondamentale del cristianesimo;19 egli del resto, nel corso della sua lunga attività di scrittore, avrebbe utilizzato il Gegensatzsystem proprio per ripensare una filosofia cristiana capace di parlare all'uomo contemporaneo. Ebbene, ritengo che ancora oggi la logica pasquale e cristiana del paradosso sia uno strumento privilegiato per rileggere i massimi filosofi contemporanei e dimostrare che proprio il cristianesimo può portare a compimento le istanze da loro espresse. Che la logica del paradosso sia lo strumento per rileggere la filosofia contemporanea in chiave cristiana, per verificare dunque se e quanto il cristianesimo abbia ancora da dire oggi; che Incanto e incantesimo del dire sia l'inizio di una vasta attività di esegesi che, mettendo in opera la dialettica di lettera e spirito come metodo e il paradosso di mistica e/o logica come impianto teoretico, contribuisca a più livelli a declinare per l'oggi la sapienza del Vangelo, ovvero a comunicare il mistero dell'amore di Cristo, di un'unità nella differenza e di una differenza nell'unità, di una carne che si fa logos e di un logos che si fa carne, di un abbraccio che avvia al cammino e di un cammino che tende all'abbraccio: è questo l'auspicio col quale mi congedo da un libro, frutto di una mia pluriennale fatica. E perché questo auspicio non resti una lettera troppo generica, spirito senza carne, concludo anticipando i libri che ho già pronti nel cassetto, espressione a diverso titolo del progetto culturale che ho appena esposto:

  1. un manuale di latino per gli studenti delle Università Pontificie: ha senso l'obbligatorietà dello studio del latino nelle Università Pontificie oggi? Frutto di un pluriennale insegnamento del latino presso l'Università Gregoriana di Roma, il manuale intende rispondere recisamente di sì, indicando però quale sia il senso specifico di un simile studio oggi: non quello di imparare a parlare latino; nemmeno quello di imparare a tradurre dal latino; piuttosto, acquisendo una prima basilare capacità di comprensione dei testi latini, quello di imparare bene in ogni lingua a fare l'analisi della parola, della proposizione e del periodo di un testo, scritto o orale, nella convinzione che una simile competenza sia assai importante per crescere nella capacità di ascolto di un libro come pure di una persona; l'apprendimento del latino dunque inteso come occasione per essere iniziati o rafforzati nella dialettica di lettera e spirito, qualità specifica di una cultura cristiana, che si traduce in specifica capacità di ascolto e di profondità. Il metodo proposto è innovativo, a metà strada tra l'insegnamento di una lingua viva e quello di una lingua morta: tramite l'ausilio di una traduzione interlineare, lo studente è chiamato ad accostarsi fin da subito ad alcune pagine di san Tommaso, studiando la grammatica e la sintassi latina man mano in base ai testi letti, insistendo come già detto sulle tre analisi. Ogni unità inoltre è introdotta da un commento corsivo all'Ave Maria, al Salve Regina e al Pater Noster, quale messa in mostra dei frutti di un approccio filologico, di una dialettica di lettera e spirito
  2. una lettura corsiva della Teologia Mistica di Dionigi l'Areopagita: Dionigi è più cristiano o più neoplatonico? Attraverso il confronto con parte dell'ampia letteratura secondaria, in particolare con Giuseppe Dossetti e Endre von Ivánka, e soprattutto attraverso l'analisi del testo, si sosterrà la tesi secondo cui Dionigi è, per così dire, letterariamente cristiano, in quanto introduce al mistero della carne di Cristo attraverso i suoi ossimori, la carne di Cristo essendo proprio il luogo di trapasso e di commercio reciproco tra tenebre e luce, ignoranza e conoscenza, silenzio e parola, cosicché paradossalmente l'Areopagita finisce con l'essere più cristologico di chi parlasse tanto di Cristo, ma sempre in modo piano e risolto
  3. un volume dal titolo Dio è amore: sappiamo per fede che Dio è uno e trino; ma cosa vuol dire? Come fa a essere uno se è trino? Analogamente, come è possibile che Gesù sia vero uomo e insieme vero Dio? Come Dio può essere morto in croce? Frutto di lunghi studi sulla controversia eunomiana, il volumetto vuol tentare di rispondere a queste domande, offrendo una riflessione divulgativa sul significato dei dogmi trinitario e cristologico per la vita di ogni cristiano, ovvero sul significato del mistero del Dio che è amore; i dogmi infatti, anziché pretendere di comprendere esaurientemente il mistero di Dio, vogliono introdurre ad esso, affinché il Logos che una volta per sempre si è fatto carne, possa continuare a farsi carne nella nostra carne, fino a che Cristo sia tutto in tutti
  4. un volume dal titolo Per scrivere e studiare: un altro volumetto divulgativo, rivolto, oltre che agli studenti universitari, a tutti coloro che nello scrivere e nello studiare riconoscono un nutrimento essenziale per la propria vita, pur facendo probabilmente altro di professione; guidando il lettore passo passo nella disciplina quotidiana dello studio e della scrittura, fino alla stesura di una ideale regola di vita di un intellettuale cristiano, il libro vuole invitare tutti all'arte squisitamente umana dello scrivere e dello studiare, qualificandola in modo cristiano con il fondarla metodologicamente ancora una volta sulla dialettica di lettera e spirito e sul paradosso di logica e/o mistica/etica/estetica
  5. un commentario esegetico-spirituale sul Vangelo della natività secondo Luca: lectio divina corsiva, la più congeniale messa in opera della dialettica di lettera e spirito, nonché del trapassare reciproco di un Logos che si fa nostra carne e della nostra carne che si fa Logos.

Al Signore affido queste e ogni mia altra attività futura, e tutta intera la mia vita.

Massimiliano Zupi

Note

  1. M.B. Zorzi, Recensione a Massimiliano Zupi, Incanto e incantesimo del dire. Logica e/o mistica nella filosofia del linguaggio di Platone (Cratilo e Sofista) e Gregorio di NIssa (Contro Eunomio), (Studia Anselmiana 143. Philosophica 6), Roma 2007; 800 pp., in Reportata. Passato e presente della teologia, 15 luglio 2008, <http://mondodomani.org/reportata/zorzi09.htm>. Testo

  2. L'unica vera imprecisione riguarda la genesi del libro: Zorzi scrive che «esso giustappone e incastra due studi monografici distinti, maturati in percorsi scientifici autonomi» (§1), ovvero in occasione della stesura della tesi di laurea in filosofia con Simonetti e in quella della tesi di dottorato con Salmann. In verità, invece, le due monografie, su Gregorio e su Platone, si sono sviluppate in stretta sinergia tra di loro, sebbene la prima versione del lavoro sul Nisseno abbia preceduto cronologicamente quello su Platone. Testo

  3. Un esempio emblematico. Riassumendo la ricostruzione della teoria dei nomi di Eunomio, Zorzi afferma semplicemente che essa «sfocia in un pensiero tutto sommato equivoco» (§1.1). Ora, l'equivocità della teologia eunomiana, e non solo della sua teoria dei nomi, è senz'altro il risultato cui approda la ricostruzione da me effettuata: tuttavia, detto semplicemente così, perde l'intera sua portata, che continua a sembrarmi di non poco valore. Lo stesso dicasi per una lunga citazione tratta dall'ultima pagina del Capitolo finale sul Nisseno: «l'approdo a questo esito», ovvero al trapasso dalla logica alla mistica reso possibile dall'incarnazione di Cristo, «avviene - conclude Zorzi - dopo lunghe disamine sulla dottrina trinitaria e cristologica di Gregorio» (§1.3). Ancora una volta, se pure è vero che effettivamente quello è l'esito delle lunghe disamine, di queste ultime però si perde tutta la ricchezza e l'interesse, che mi sembrano assolutamente di non poco conto, se non le si ripercorrono passo passo. Testo

  4. Tra i tanti, riconosco invece senz'altro la pertinenza di due rilievi critici: 1) nell'accostamento fatto tra le figure di Socrate e san Francesco d'Assisi, sarebbe stato opportuno segnalare il riferimento più diretto e testuale «tra la figura di Socrate e quella di S. Antonio fatta da Atanasio, modello poi per l'agiografia stessa di S. Francesco» (§2); 2) ricordando l' «errata» etimologia di «ex-per-iri» sarebbe stato doveroso citare le belle pagine di Fabris nel volume di Studia Anselmiana Filosofia e mistica (1997) (nota11): sono pagine che avevo ovviamente presenti e che era mia intenzione citare: è stata sinceramente solo una dimenticanza. A questo proposito, del resto, credo che mi si riconosca che solitamente sono fin troppo scrupoloso nel citare in nota qualunque autore abbia già detto in qualche modo qualcosa di cui sto parlando nel corpo del testo. Testo

  5. Essa è citata polemicamente all'inizio del §2: in base alla «figura dello spirito» (che ovviamente è un linguaggio debitore di Hegel e non di Salmann, come pure ipotizza Zorzi) «si potrebbe arrivare a comparare - scrive - un ritratto paleocristiano con un dipinto di Chagall sulla base del fatto che usano entrambi dei colori». Una simile critica mi sembra un grossolano disconoscimento dell'attenzione alla lettera che sempre esercito nello sviluppare delle interpretazioni tipologiche. Poco più avanti aggiunge: «Tale metodo arriva però in Zupi a mostrare le sue secche quando cerca per esempio in Levinas, che pure riconosce come un autore che non si ritiene affine a Platone, la giustificazione di ciò che dice Platone». Ancora una volta, detto in questi termini, un simile giudizio mi sembra assolutamente ingiustificato: le pagine citate di Levinas continuano a sembrarmi particolarmente illuminanti per comprendere il senso del primato dell'oralità in Platone e il giudizio che il filosofo francofono ha espresso nei confronti di Platone è un argomento ovviamente del tutto irrilevante rispetto all'esegesi dei testi di entrambi. Testo

  6. Il corsivo è di Zorzi. Testo

  7. Questa critica è ripetuta ben tre volte. Ancora una volta, poi, oltre a dire che quella chiave di lettura non può essere la sola, occorrerebbe certo dire quali dovrebbero essere le altre. Zorzi in verità una volta spiega che «relegare la differenza tra platonismo e cristianesimo e tra ortodossia ed eresia ad un problema teoretico, misconosce ancora una volta l'importanza dello storicità, come se le scelte politiche non fossero anche intervenute a creare la demarcazione»: sinceramente non capisco questo appunto. Non ignoro il peso della politica nella definizione storica del cristianesimo e dell'ortodossia, come dimostro per esempio nell'ampia contestualizzazione storica della controversia eunomiana; tuttavia affrontando la questione da un punto di vista teoretico, mi sembra legittimo evidenziare una chiave di lettura teoretica piuttosto che politica, né d'altra parte mi interessava stabilire se un fattore abbia il primato sull'altro. Ribadendo infine che «risulta restrittiva la dichiarazione che la polarità logos (logica)-mistica sarebbe l'unica capace di spiegare la filosofia o addirittura ogni autentica esperienza umana di verità», Zorzi si domanda «che resta dell'arte e dell'esperienza carnale amorosa»: ma appunto per me la polarità logica/mistica (e nella mistica faccio rientrare anche l'esperienza carnale amorosa) convive con le polarità di logica/etica e logica/estetica (l'arte). Sarebbe invece senz'altro interessante un confronto con le tre vie plotiniane alla mistica ricordate da Zorzi nell'ultima nota. Testo

  8. Analogamente, verso la fine della recensione, Zorzi ricorda polemicamente quanto «le differenze, le sfumature tra un autore e l'altro [...] sono importanti»: non capisco come si possa muovere un simile rilievo a un saggio nel quale l'analisi della lettera dei testi è così meticolosa da evidenziare continuamente le sfumature e le differenze tra un autore e l'altro! La stessa cosa vale per la critica secondo la quale la polarità logos-mistica «non può nemmeno sbrigativamente essere identificata come il rapporto tra fede e ragione» (nota3): ora, se un'accusa difficilmente può essere mossa a Incanto e incantesimo del dire, è di affermare qualcosa «sbrigativamente»! Gli esempi di giudizi ingiustificati o che non considerano giustificazioni pur date nel testo potrebbero continuare. Per esempio quando Zorzi giudica «superato» lo studio di Krüger (nota17): ma perché mai sarebbe «superato»? O ancora, quando polemizza con lo status quaestionis su Platone in quanto oscillerebbe «tra una polemica contro G. Reale, una introduzione alle sue proprie interpretazioni che si lascia andare troppo spesso a commentari analitici [...] pagine dal tono omiletico sull'inizio del Vangelo di Gv [...] nonché vere e proprie brucianti esortazioni dal tono estatico-profetico» (§2): ora, i passaggi da un registro all'altro sono sempre rigorosamente giustificati, all'interno di un'esposizione organica e unitaria; non basta dire che l'insieme è oscillante: a livello di impressioni, ognuno ha quelle che vuole, ma esse non possono essere certo il fondamento per un'eventuale polemica che dovrebbe invece prendere in esame i singoli passaggi e mostrarne l'incoerenza e inadeguatezza. O ancora, Testo

  9. Solo un esempio. Zorzi scrive che nel primo Capitolo della seconda parte si illustra «la confutazione da parte di Platone dell'ontologia ideologica sottesa al naturalismo di Cratilo» (§1.2). Ora, a quanto mi risulta, nessun altro finora ha evidenziato la presenza di una simile confutazione di ordine squisitamente teoretico, trascendentale e fenomenologica, nel Cratilo: questo andrebbe per lo meno evidenziato, valutato e eventualmente contestato. Testo

  10. Ancora solo un esempio. Da quel che mi risulta, uno studio complessivo del Contro Eunomio finora è presentato solo nel mio libro, a parte una monografia di Pottier, con la quale infatti mi confronto e i cui risultati e il cui metodo sono molto lontani dai miei. Anche questo mi aspetterei che venga evidenziato e valutato in modo attento e puntuale, come del resto ho fatto io con lo studio di Pottier. Testo

  11. Scrive infatti Zorzi: «Se una critica gli va fatta [scil., a Zupi] deriva proprio da qui: dal dispiacere di non vedere assunto il contenuto tematizzato nel metodo» (§2). Testo

  12. In questo senso, non comprendo l'interrogativo che Zorzi si pone, se cioè «la «logica del paradosso» non tradisce ancora la paura delle aporie nel pensiero» (§2): la logica del paradosso, lungi dall'avere «paura delle aporie», fa piuttosto delle aporie la propria stessa dýnamis, condizione di possibilità e dinamica. Testo

  13. Diverso invece è il significato che a «rigore scientifico» sembra dare Zorzi: esso sembra sinonimo di scolastico, accademico, logico. Per questo infatti la Conclusione lirica, sotto forma di appunti di una meditazione spirituale su Gv 1,1, non le sembra «di pari rigore scientifico» rispetto alla Conclusione sistematica, senz'altro «più pregevole» (§1.3). Analogamente, valutando «il lunghissimo e forse non necessario status quaestionis su Platone» (detto per inciso: ancora una volta, perché mai «forse non necessario»? Sarà pure vero che la tesi di Reale e dei tubinghesi è poco considerata nel mondo anglosassone, ma essa, oltre che molto diffusa in Italia, ha permesso, come ho dichiarato esplicitamente in più punti nel corso dell'Introduzione, di introdurre a contrariori la mia chiave interpretativa del non-scritto platonico, in quanto tanto vicina e tanto lontana insieme da quella dei tubinghesi), valutando dunque quello status quaestionis lo giudica ancora una volta negativamente in quanto oscilllerebbe tra registri troppo diversi, alcuni dei quali, anzitutto le pagine dal tono omiletico sull'inizio del Vangelo di Giovanni, non dovrebbero probabilmente entrare in questo modo «nello studio accademico» (§2). Ebbene, a mio avviso la presenza di registri diversi, quali quello sistematico e lirico, non contraddicono affatto il rigore scientifico di un lavoro; anzi, rappresentano un'efficace messa in opera della tensione tra mistica e logica. Per questo, per esempio, il primo libro che pubblicai, Le belle ascese (2001), decisi volutamente di introdurlo con un commento lirico al Salmo 84 (83), così come quest'ultimo libro di concluderlo con un analogo commento al prologo di Giovanni. L'importante è che ogni passaggio di registro sia bene ed esplicitamente giustificato: ed è quello che ho sempre avuto cura di fare, per esempio prima di iniziare la Conclusione lirica di Incanto e incantesimo del dire, spiegando che «se un saggio di filosofia del linguaggio non può esimersi dal confrontarsi con la concrezione fenomenologica dell'origine del linguaggio, con il meraviglioso evento del farsi logos della carne umana, a maggior ragione non può non concludersi trasgredendo il piano logico e effondendosi in una preghiera con la quale l'autore possa corrispondere a quel logos che facendosi carne gli ha inflitto una ferita d'amore che è l'origine non-scritta di ogni sua parola». Testo

  14. A questo proposito, ad esempio, negli ultimi due mesi ho avuto la fortuna di leggere due tesi particolarmente promettenti in tal senso: Tra le immagini: l'intervallo cinematografico, di Massimiliano Fierro (dottorato di ricerca in teoria e analisi del testo presso l'Università degli studi di Bergamo) e Il Dio senza volto che sta dietro gli dei. L'immagine di Dio nell'uomo: prospettive, linguaggi ed esperienze a confronto, di Cristina Vigliotti (diploma in Scienze Religiose presso la Facoltà Teologica Pugliese). Testo

  15. A proposito di un siffatto concetto di «esperienza», mi permetto di rimandare all'antologia del Contro Eunomio da me curata e ampiamente commentata: Gregorio di Nissa, Le belle ascese. Antologia del Contro Eunomio, Padova 2001, in particolare alla Parte Quarta, intitolata L'infinita dinamica dell'amore, pp.227-318. L'etimologia di «esperienza» da «ex-per-ire» è suggestiva (a questo proposito, cfr. A. Fabris, Esperienza e mistica, in A. Molinaro-E. Salmann edd., Filosofia e mistica. Itinerari di un progetto di ricerca, Studia Anselmiana 125 Philosophica 2, Roma 1997, pp.17.22.24), ma in verità non è scientificamente corretta. La libertà di fare ugualmente uso di una simile etimologia è tuttavia consentita dal fatto che comunque sia l'italiano «esperienza» che il latino «experior» derivano dal greco, dal sostantivo «pei=ra» e dal verbo «peira/w», che indicano appunto il «passare da parte a parte»: «esperienza» è questo «peira=n», questo «ex-per-ire», questo trapassare reciproco, questo rimanere sul crinale, che è certo occasione di pericolo (oltre a «experior», anche «periculum» deriva da «pei=ra»), situazione di tentazione («tentazione» in greco è «peirasmo/j»), rischio di morte, anzi necessità di morire per passare da un polo all'altro, necessità di morire però che, come nel «dei=» del mistero pasquale, nella necessità della croce nei Vangeli, è la via stretta e imprescindibile per divenire periti (anche «peritus» deriva da «pei=ra»), per divenire appunto esperti. Testo

  16. Cfr. R. Guardini, L'opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, a cura di Guido Sommavilla, Milano 1964, pp.144-145.156. Testo

  17. Cfr. in particolare: M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, Roma-Bari 1992; E. Garroni, Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale, Roma-Bari 1995 (1ª ed. 1986); E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso. Origini, temi e problemi dell'estetica. Una riflessione sul rapporto tra pensiero filosofico e arte, Milano 1992. Non è un caso che anche questi autori utilizzino il termine «paradosso» per dire la tensione polare tra gli opposti. Spiega infatti Garroni (Senso e paradosso ..., pp.132-133) che «è chiaro che per 'paradosso' non si intende qui, come nella tradizione retorica, un 'contrasto' di opinioni, l'una comunemente accettata e l'altra no, sia poi questa vera o falsa. S'intende piuttosto una 'tensione' tra momenti del pensiero, che non possiamo non pensare in qualche modo insieme e che si escluderebbero l'un l'altro solo se pensati come tutti-espliciti nella forma della definizione». Due anni dopo, anche Olivetti (Analogia del ..., p.228; si tratta di un saggio scritto nel 1988 per il volume a cura di A. Halder, K. Kienzler, J. Möller, Religionsphilosophie heute, Düsseldorf, e riportato in Appendice ad Analogia del soggetto) ha spiegato quindi che una situazione è paradossale, e non semplicemente contraddittoria, quando «si tratta di una contraddittorietà che non è statica, che non si traduce nel reciproco azzeramento dei suoi momenti contraddittori, ma è dinamica, ogni momento rinviando per la sua propria crisi interna, alla costituzione dell'altro», cosicché il rapporto paradossale «potrebbe ben essere espresso con il catulliano «nec cum te nec sine te vivere possum»». Testo

  18. Non è un caso nemmeno, ovviamente, che negli articoli scritti per la presentazione della nuova licenza in Mistica e Filosofia, Andrea Grillo (Per una genealogia della libertà. Il ruolo della teologia in una filosofia della mistica, in A. Molinaro-E. Salmann edd., Filosofia e mistica ..., pp.89 e 94) abbia parlato di «connessione polare» e Elmar Salmann (Filosofia e mistica. Presenza e critica, in A. Molinaro-E. Salmann edd., Filosofia e mistica ..., pp.34-35 e 37) di «affinità elettiva» tra mistica e filosofia, intendendo quest'ultimo per «affinità elettiva» appunto una «corrispondenza dinamica», una «interazione attiva», un «legame tensionale» tra l'una e l'altra. L'intento di Incanto e incantesimo del dire è di legittimare ulteriormente e utilizzare come criterio ermeneutico quella «connessione polare» e quella «affinità elettiva» che mi è sembrato più esatto tecnicamente chiamare «paradosso di mistica e/o logica» (preferendo altresì sostituire «filosofia» con «logica», in quanto con «filosofia» intendo piuttosto il paradosso stesso, la tensione polare tra logica e/o mistica, come pure tra logica e/o etica, e tra logica e/o estetica). Testo

  19. Cfr. R. Guardini, L'opposizione polare..., pp.200-203. Testo