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Eucarestia e racconto. Note a partire da Emmaus di Alessandro Baricco

di Giampietro Ziviani (2 ottobre 2012)

Se i cristiani sembrano aver perso per strada molti dei contenuti e delle evidenze che fanno parte del loro patrimonio biblico e simbolico -- come testimonia qualsiasi quiz televisivo --, la letteratura ed il mercato continuano ad attingervi per inserire le loro proposte in una metanarrazione più ampia. Vale la pena ignorare questi affondi, combatterli come banalmente commerciali o non piuttosto verificare se anch'essi non possano risvegliare qualcosa dell'immensa ricchezza racchiusa nell'eredità cristiana? Emmaus di A. Baricco, è un romanzo che rimanda ad un incontro che è pasquale, cristologico, eucaristico ed ecclesiale. È un'icona che va al cuore della fede, quindi, ma ri-narra anche la fragilità ambigua di un riconoscimento che l'umano da solo non sembra possedere. Esso riguarda coloro che faticano a riconoscerlo come il Vivente, sia per la troppa distanza, come per eccessiva vicinanza.

1. Un romanzo sul non-riconoscimento

Il talento affabulatorio di A. Baricco non poteva sfuggire alla suggestione di una delle pagine evangeliche più intriganti dal punto di vista letterario, com'è quella dei discepoli di Emmaus, cui egli dedica il titolo del suo romanzo penultimo,1 attingendo alla giovanile frequentazione parrocchiale e all'eredità di fede trasmessagli dai suoi genitori, «cattolici conciliari», come lui stesso li ha definiti, ossia aperti ottimisticamente verso il mondo e le sue novità, cifra negativa che l'evento conciliare sembra ormai contenere. E male finiscono tutti i protagonisti del romanzo, i giovani sedicenni di un gruppo parrocchiale, «comunità ritagliata via dal mondo», che animano con i loro strumenti l'eucaristia domenicale, ma portano nell'ordinario della vita una tale inconsapevolezza e fragilità da soccombere ad ogni avversità, comprese quelle più banali. Uguali gli amici, uguali le trasgressioni, solo uno più estremo degli altri perché «chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo», famiglie sghembe e inadeguate e la solita ragazza bella e maledetta che trascina nel suo vortice. Religione, amore, sessualità e morte: ingredienti da fast-food letterario, come ha acutamente analizzato A. Spadaro,2 per un'opera che ha deluso chi rimpiange i primi lavori di Baricco, anche se regala qualche sorprendente defrag del quotidiano e passaggi di indubbio gusto introspettivo. Per questi ragazzi c'è la sorpresa di scoprire «che nell'assenza di senso, il mondo tuttavia accade, e in quell'acrobazia di esistere senza coordinate c'è una bellezza, perfino una nobiltà, talvolta, che noi non sappiamo -- come una possibilità di eroismo a cui non abbiamo mai pensato, l'eroismo di una qualche verità» (p. 86). La cornice cattolica dovrebbe ottenere l'effetto ottico di far stridere ancor di più questa storia di insensatezza. Cosa c'entra Emmaus in tutto questo? Nulla, come citazione o allusione, tutto, come gravido sfondo inconsapevole. Perché ogni cosa avviene dentro questo non riconoscimento della realtà e della sua gravità, delle relazioni e della loro serietà, della fede e della sua resa quotidiana, di Dio e della sua verità. Tutto accade in un altrove nel quale è lecito supporre ogni cosa, anche che la divinità possa camminare con noi -- perché escluderlo, chi siamo noi per proibirglielo? -- ma sempre inconsapevolmente; perché: «non abbiamo nessuna possibilità di capire nulla, di niente, in nessun momento. Dei nostri genitori, dei nostri figli -- forse di tutto» (p. 121). Vera cecità, o penombra, in ogni caso indistinzione. Questo giustifica il rimando biblico. I due amici di Emmaus camminano con il Risorto, parlano animatamente con lui «ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» (Lc 24, 15-16). Questo ossimoro di vicinanza e inconoscibilità è il primo espediente narrativo che cattura il lettore e lo porta dentro la storia, a chiedersi come sia possibile discutere con una persona conosciuta senza neppure comprendere chi è. La storia si dipana da qui, poiché gli avvenimenti che verranno, il viaggio, l'invito a restare ed il pasto condiviso saranno tutti coperti da questa coltre di mistero. Fino a quando i loro occhi resteranno ciechi? A che punto lo sconosciuto si rivelerà? Sappiamo che il tessuto narrativo si distende e si comprende su un disegno di fede, ma non vogliamo scivolare troppo affrettatamente verso la soluzione. Per questo abbiamo preso a pretesto un romanzo per iniziare. Siamo intrigati nella vicenda dei due discepoli, icona ambivalente di inconsapevole ottusità o semplice coppia di delusi-depressi? Fragili uomini in fuga dai rischi del discepolato o eroi per caso dello svelamento più luminoso ed intimo della Pasqua, perché è svelamento eucaristico?3

2. Il «narratore narrato»

Il racconto di Lc 24 scorre a molteplici livelli: si tratta, in questo senso di un testo aperto, concepito per più possibili lettori ed interpretazioni.4 La destinazione ecclesiale del terzo Vangelo ci fa pensare anzitutto ad un trapasso di chiesa, un vero passaggio pasquale che la comunità deve fare dall'incredulità delusa e fuggitiva alla fede matura, riscoperta nel gesto eucaristico capace di significatività «a ritroso» e quindi di rimessa in gioco, azzeramento di ogni scarto e nuova partenza. L'accorgimento di isolare «due di loro», uno a malapena chiamato per nome, coinvolge il gruppo dei lettori come quando un attore cattura qualcuno nel pubblico e lo fa salire sul palcoscenico: di colpo tutti gli altri sono lì, immedesimati. Luca precisa ogni particolare (luogo, distanze, tempi), ma dimentica il motivo principale, segnatamente simbolico: perché sono in viaggio? Qual è il loro obiettivo? O non è piuttosto il viaggio stesso a costituire il motivo: un tragitto che ogni discepolo ha dovuto compiere -- quello dalla delusione alla fede -- e che l'evangelista Giovanni affida invece alla figura di Tommaso, messo anch'egli alla prova in quel vespro pasquale.5 Nel gioco tra manifestarsi e non, farsi riconoscere o meno, ritorna sovrana la libertà di un Dio antico, che da sempre ama giocare a rimpiattino coi potenti per mostrarsi invece aperto ai piccoli, ma anche il modo nuovo della sua presenza gloriosa, quello che anche la comunità lucana deve riconoscere come corpo pasquale. Non c'è tempo da perdere e non c'è tempo migliore di questo: il gesto eucaristico per sua natura dimora in quel giorno, che sembra esserne ospitato come Israele credeva di custodire il sabato, per riconoscere invece di essere egli stesso custodito da lui e costituito nella sua identità di popolo. L'eucaristia ospita la Pasqua, come il rito ospita la fede e la compone. Entrambi edificano un popolo dalle loro relazioni, ma esso non lo riconosce e si convince anzi di essere lui a custodire tutto: riti, fede, Parola, sacramenti. Per questo qualcosa manca fin dall'inizio, anzi molto: mancano ai due il coraggio, la memoria e la speranza, ma soprattutto manca il terzo, colui che darà una svolta al loro cammino insensato, finendo addirittura per dare forma trinitaria all'incompletezza che si scambiano, ma che per il momento non è dato di ri-conoscere e che noi invece sappiamo dall'inizio. Perché de te fabula narratur: c'è un destinatario di questo racconto, che deve far propria l'esperienza pasquale e viene perciò implicato nel piccolo «giallo» di Emmaus. Cleopa e il suo compagno incontrano uno «così straniero» da non conoscere neppure le vicende del Nazareno di cui tutti parlano: la sua morte, il complotto, le voci di risurrezione o di furto del cadavere e le chiacchere di alcune donne, «delle nostre» ma forse poco credibili. Luca ci ha avvisato subito: «Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo»; l'handicap iniziale enfatizza lo svelamento che avverrà poi, come accade spesso nella letteratura poliziesca.6 Il lettore si chiede dove il narratore voglia portarlo; è in bilico tra i protagonisti non sapendo quale prevarrà alla fine. In realtà, il gioco non è scontato: mentre loro si stupiscono dell'estraneità di questo forestiero agli avvenimenti che hanno scosso Gerusalemme, ritenendosi perciò superiori a lui in informazioni e aggiornamento, noi sorridiamo insieme all'evangelista davanti alla loro limitatezza che li mette in scacco: conoscono le Scritture, dovrebbero possedere le chiavi per capire, invece non hanno saputo interpretare nulla. Se li assolviamo dal non-riconoscimento, ruolo che Dio ha scritto per loro, non possiamo perdonarli di questa cecità presuntuosa, che riguarda i molti che camminano accanto a Cristo, convinti di sapere tutto di lui, ma in realtà incapaci perfino di vederlo, e seccati che lui sia così poco interessato delle cose e dei drammi del mondo. In due battute, il dialogo potrebbe suonare così: «Ma come, tu non sai?» e la risposta del Maestro: «E tu sai e non ti converti?». Invece l'approccio dello sconosciuto è molto più graduale: si lascia conoscere anzitutto come Rabbi, esercitando appunto l'attività tipica di interpretazione della storia attraverso le Scritture. Anche i lettori compiono un normale procedimento di cooperazione interpretativa: guidati dal testo si muovono verso la ricerca del punto topico del racconto, individuato prima nel viaggio, poi nello strano incontro, poi nei discorsi, successivamente nell'invito ad entrare, fatto sul calare delle tenebre e aperto ad un cattivo presagio (chi porterebbe in casa uno sconosciuto di notte?), per accendersi invece quando tutto sembrava finito, nella feriale condivisione del pasto. Ad ogni avanzamento del racconto egli si chiede «e adesso che succederà?», convinto di essere giunto al punto determinante; viene richiesta «una cooperazione del lettore che deve decidere dove ampliare e dove bloccare il processo di interpretabilità illimitata».7 Nasce quella che U. Eco, sulla scorta dei formalisti russi, chiama fabula, per distinguerla dal normale intreccio, che distende il racconto: «la fabula è lo schema fondamentale della narrazione, la logica delle azioni e la sintassi dei personaggi, il corso di eventi ordinati temporalmente».8 Essa costituisce il senso di ciò che accade ed è a quel livello che il lettore coopera in profondità. In questo caso dunque noi riceviamo la fabula di quel racconto che ha un'altra fabula al suo interno, ossia Gesù che porta i due al senso profondo degli avvenimenti, letti alla luce delle Scritture. Loro hanno il vantaggio della presenza fisica del protagonista, noi abbiamo quello di saperlo. Giungeremo alla fine allo stesso punto, perché anche loro capiranno, ma proprio nel momento in cui non vedranno più. È come se il senso e le cose non potessero incontrarsi in pubblico: ogni volta che uno dei due entra in scena, l'altro scompare e tutto poggia solo sul racconto, in questo caso su Gesù, per eccellenza il «narratore narrato» e ha coinvolto tutti noi. Così E. Salmann: «anche noi dobbiamo imparare a rileggere le Scritture, ma anche la nostra esperienza quanto mai ambigua, alla luce di questo compagno nascosto che è Cristo. Solo lui ci dischiude il senso delle Scritture e spezza il pane. Ci sono tanti falsi messianismi nella nostra storia, tante delusioni e illusioni, nel mondo ebraico come nel mondo cristiano. È per questo che sempre e di nuovo, in ogni epoca, ci vediamo ricondotti e ridotto allo statuto e stato dei discepoli di Emmaus. Siamo con-eletti, ma ognuno di noi è anche riprovato. Nessuno è all'altezza della rivelazione della parola e dell'amore di Dio».9

3. L'intreccio tra racconto e celebrazione eucaristica

Qualcosa avviene nel racconto, qualcosa che coinvolge «l'evento narrato, la vita e la fede del narratore e della comunità narrante, i problemi e la speranza di coloro ai quali il racconto si indirizza. Questo coinvolgimento assicura la funzione performativa della narrazione».10 La stessa funzione avviene anche nella celebrazione eucaristica, dove il succedersi dei riti -- in sé stessi significanti ciascuno la propria verità -- costruisce una sequenza connessa che corrisponde ad un percorso dell'anima, che è possibile anche non riconoscere, ma che tutto sostiene e motiva. Il rito salva la Legge dall'inaridimento ed il popolo dalla bieca sottomissione ad essa: «permette la narrazione della ferita e della frattura che pongono il pio israelita di fronte al fatto del suo essere ontologicamente straniero, forestiero a se stesso».11 L'actio liturgica è presenza ed azione di Cristo, oltre e attraverso i segni (SC 6-7), che si attua nel velarsi-svelarsi e nel passaggio continuo da una fede iniziale ad una maggiormente pasquale e risorta. Avrebbero potuto i due riconoscere nei gesti eucaristici il Risorto, se prima egli non avesse loro scaldato il cuore portandoli alla conoscenza del senso? Forse no. Certamente quei gesti sarebbero stati autoreferenziali se avessero rimandato solamente alla Cena e non al sacrificio pasquale, questo è evidente, ma sembra di cogliere anche un'implicazione reciproca tra ciò che di Cristo si narra, si annuncia o si spiega -- nelle molteplici forme del dire -- e ciò che di Lui si celebra: il fare della liturgia. Non sono la stessa cosa, non sono neppure separati, ma si illuminano reciprocamente. Non è un caso se nel cuore della celebrazione eucaristica permangono, lungo tutta la stratificazione dei secoli, il racconto della Cena e le parole sul pane e sul vino. La maestosa costruzione dossologica delle varie preghiere eucaristiche, nate in epoche e contesti diversi, si interrompe per inserire un genere letterario meno nobile e inadeguato al divino, com'è il racconto. La V preghiera eucaristica con i suoi quattro formulari variabili, recepita dal Sinodo delle chiese svizzere, mostra bene questo tentativo di narrazione dossologica che si àncora proprio all'episodio di Emmaus. Si tratta sempre di un «racconto fondatore», secondo lo stile dalla grande liturgia ebraica, dove le narrazioni sono da sempre il linguaggio più idoneo per dire un Dio che si è fatto storia. P. Beauchamp individua questi «racconti inquadrati» che spezzano la grande narrazione e vi si inseriscono per isolare un avvenimento preciso, da fissare oltre il tempo.12 «Che cosa distingue questa sera da tutte le altre sere?» deve chiedere il bambino più piccolo all'uomo più anziano, per avviare il grande racconto della Haggadah di Pesach; gli verrà risposto con l'esposizione dell'intera storia del conflitto con il faraone, delle dieci piaghe e della fuga dall'Egitto;13 lì nacque il popolo che ora, in questo incrocio verbale tra generazioni e nei gesti rituali della cena riprende vita. L'eucaristia, come ogni azione rituale, richiede questo sviluppo narrativo e per questo essa stessa lo custodisce. Ciò non è indifferente per l'esistenza di chi lo celebra, tanto a livello personale quanto comunitario. Analogamente ad essa, la chiesa-sacramento esige che parole e gesti si incrocino: «se il sacramento deriva del gioco dell'uomo con il mondo e con Dio, allora la struttura del suo linguaggio non è argomentativa, ma narrativa. Non argomenta, né vuole persuadere. Vuole celebrare e narrare la storia dell'incontro dell'uomo con gli oggetti, le situazioni e gli altri uomini dai quali è stato provocato a trascendere e che gli hanno evocato una Realtà superiore, resa presente attraverso a loro, con-vocandolo all'incontro sacramentale con Dio».14 Anche il racconto dà forma alla chiesa, raduna il popolo, lo apre oltre il proprio orizzonte, lo porta fuori dalla schiavitù del sensibile e del limite, lo conduce verso una terra nuova, mai conquistata del tutto. È un continuo riscatto da pagare alla nostra parzialità colpevole. Lo sperimentano i due di Emmaus come pure la donna al pozzo di Samaria, che si interroga su quale sia il giusto santuario e riceve in cambio un dialogo che la disseta per sempre. Ora Dio si adora in modo nuovo: nel corpo risorto, nel dialogo spregiudicato e nel racconto fondatore, nel pane spezzato e nella fraternità radunata. In realtà nessuna anafora si restringe al memoriale dell'ultima cena, ma tutte parlano del mistero pasquale nella sua interezza, perché l'eucaristia non è un pasto rituale, ma la memoria della pasqua, nel segno del banchetto del Cristo glorificato. Il racconto sottrae l'eucaristia all'ipoteca dell'autoreferenzialità e la apre all'ascoltatore, anche casuale, che voglia coinvolgersi in essa, collocandolo dentro una storia che gli scalda il cuore e rivive davanti ai suoi occhi nella memoria dei gesti. L'ultima revisione conciliare fa parlare alla celebrazione la lingua di chi la incontra, ma il coinvolgimento interpretativo per giungere alla fabula del discorso non è meno esigente della disciplina arcani richiesta da un celebrare con parole arcaiche. Benché forestiero, Gesù parla ai due discepoli nella loro lingua, ma non per questo la loro incomprensione diminuisce. Il senso del mistero -- quello eucaristico come quello ecclesiale -- non ha bisogno di custodie linguistiche: basta la nostra ignoranza e inadeguatezza, il poco che sappiamo e che capiamo, perché Gesù ha abbattuto ogni muro di separazione (Gal 3), lingua compresa, ma non quello della nostra cecità. Non vi sarà actuosa participatio, ossia partecipazione attiva al rito, finché non saremo entrati con due piedi anche nel racconto e non ci saremo lasciati trasformare da esso, come il pane e il vino fanno di noi un corpo di comunione. Per questo, il corpo glorificato, l'Agnello che sta sul trono, ci viene incontro: «Ti consiglio di comperare da me collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista» (Ap 3, 18). Perché vale la pena ripeterlo: per i due di Emmaus, come per i giovani di Baricco, il problema non è l'incontro, ma il riconoscimento. Così per il lettore e la comunità lucana, non si tratta più di attendere una venuta, ma di individuare una presenza, nascosta sotto nuova forma. Il pane spezzato altro non è che l'esplicitarsi di un velo che cade: il racconto si compie nel gesto, come la vita di Gesù si era compiuta nell'oblazione di sé e come l'eucaristia porta in profondità quanto è transitato solo verbalmente ed ora non può più essere taciuto, perché visto e toccato (cfr. 1Gv 1, 1). Non può non essere accolto e riconosciuto ciò che ci è stato narrato ed ha già scaldato il nostro cuore. W. Benjamin ritiene che la caduta di valore del racconto e dell'arte stessa del narrare rimonti al secondo conflitto mondiale -- e la sua biografia lo testimonia drammaticamente --: «la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile».15 La guerra approderà sui libri senza essere raccontata dalle persone. Così ora forse catechesi e annuncio, ma anche teologia, liturgia e testimonianza dovrebbero ritrovare la forma del racconto e ripartire da qui, quasi implicate in quel frettoloso ritorno notturno dei due a Gerusalemme. Gesù si manifesta nelle diverse fragilità dei discepoli e delle donne, ma non assume né la forma del consolatore dei loro dolori, né quella del condonatore dei dubbi e delle paure che ancora perdurano. La sua nuova presenza non indugia sul passato, ma spinge decisamente verso il nuovo, quasi che non vi sia più una posizione neutrale tra l'essere missionari o dimissionari dalla fede. In questa dinamica di incontri, relazioni ristabilite, ri-creazione dell'ekklesìa dei dispersi si manifesta questa nuova presenza che poggia su una rete di parole, testimonianze, racconti, spiegazioni e annunci che scorrono sottesi a tutta questa parte di Vangeli «dell'assenza», per esplodere incontrollati dopo Pentecoste, come testimonia il discorso di Pietro in At 2, esemplare intreccio di kerygma e narrazione. Altrove ho provato a riflettere sulla forma che la celebrazione eucaristica -- oltre al sacramento in sé stesso -- imprime al popolo di Dio;16 qui volevo suggerire qualcosa di analogo riguardo al racconto, alla spiegazione, all'annuncio, al kerygma: eucaristia e racconto si contengono l'un l'altro, regalandosi luce vicendevolmente. Emmaus di A. Baricco, è un romanzo che rimanda ad un incontro che è pasquale, cristologico, eucaristico ed ecclesiale. È un icona che va al cuore della fede, ma ri-narra anche la fragilità ambigua di un riconoscimento che l'umano da solo non sembra possedere. Esso riguarda coloro che faticano a riconoscerlo come il Vivente, sia per la troppa distanza, come per eccessiva vicinanza.

Il popolo dei credenti trova nella reiterazione della vicenda di Gesù di Nazareth non solo la matrice del proprio racconto fondatore in senso sociologico-istituzionale, ma anche la forma attuale della sua testimonianza, ciò che ne rimane ed attesta, insieme con i soggetti che in esso si implicano, la verità del legame ecclesiale che si costituisce intorno a questa vivente paradosis della quale permane la primaria funzione dossologica e perciò direzionalità eucaristica. La chiesa esiste anzitutto in lode di Dio, e come memoria viva e grata del Risorto essa continua a dire Lui e a vivere di Lui.

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Note

  1. A. Baricco, Emmaus, Feltrinelli, Milano 2009. Testo

  2. Cfr. A. Spadaro, Emmaus di Alessandro Baricco. Analisi di un libro vuoto, CivCatt 3834 (2010) 531-636. Totalmente condivisibile l'analisi di Spadaro, che porta in luce quel nichilismo light che attraversa la nostra koinè culturale e vuole pervadere tutto, ma senza assumersene le conseguenze. Testo

  3. Non si può non pensare alle raffigurazioni artistiche di Rembrandt dell'episodio di Emmaus: la tela che prende luce dal pane spezzato, nell'intimità stretta di una amicizia duale, da Gesù aperta alla forma trinitaria. Testo

  4. «Si ha un testo «aperto» quando l'autore sa tutto il partito da trarre dalla figura 1. Decide sino a che punto deve controllare la cooperazione del lettore, e dove essa va suscitata, dove va diretta, dove deve trasformarsi in libera avventura interpretativa»: U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano 1994, 58. Importante è anche la riflessione di: P. Ricœur, Tempo e racconto. 1-2, Jaca Book, Milano 2008 e Id., Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2002. Testo

  5. Più ancora è interessante il parallelo con Gv 21, ugualmente costruito con una parte narrativa seguita da un pasto che ripete i gesti eucaristici: cfr. M. Marcheselli, «Avete qualche cosa da mangiare». Un pasto, il risorto, la comunità, EDB, Bologna 2006, 257-264. Testo

  6. Si pensi alle figure di Ercule Poirot o Mrs. Marple in A. Christie, di Padre Brown in G.K. Chesterton, o più familiarmente alle serie televisive del Tenente Colombo o di Jessica Fletcher: tutti vengono presentati come inadeguati, sottovalutati dagli altri protagonisti e snobbati dalla polizia, ma sorprendentemente capaci nel finale di individuare la soluzione grazie alla loro acutezza. Testo

  7. U. Eco, o.c., 87. Testo

  8. U. Eco, o.c., 102. Più teologicamente si possono vedere le distinzioni di G. Lohfink citate in: H. Weinrich, La funzione primaria della 'narratio' nelle scritture del Nuovo Testamento, in: B. Wacker, Teologia narrativa, Queriniana, Brescia 1981, 69.71. Testo

  9. E. Salmann, La teologia è un romanzo. Un approccio dialettico a questioni cruciali, San Paolo, Milano 2000, 100. Testo

  10. R. Tonelli, La narrazione nella catechesi e nella pastorale giovanile, LDC, Torino-Leumann 2002, 68. Testo

  11. E. Andreuccetti, La locanda dei Racconti. Una pastorale in stile narrativo, EDB, Bologna 2007, 27. Il testo offre una sintesi di narratività biblica e teologica, con qualche suggestione per la pastorale modulata sul racconto di Emmaus. Più specifico biblico: J. Licht, La narrazione nella Bibbia, Paideia, Brescia 1992. Testo

  12. Cfr. P. Beauchamp, L'uno e l'altro testamento. 2. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001, 366. Testo

  13. Anche durante il qiddush, la liturgia che apre lo shabbat, il capofamiglia recita la grande benedizione prescritta in Dt 8, 10 che ricorda gli avvenimenti della creazione. Testo

  14. L. Boff, I sacramenti della vita, Borla, Assisi 1985, 12. Nel suo celebre saggio breve il teologo brasiliano tenta di dare forma ad una teologia narrativa dei sacramenti a partire dalla sacramentalità inscritta nell'esistenza quotidiana. Testo

  15. W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995, 248. Testo

  16. Cfr. G. Ziviani, Un popolo in cammino, Rivista di pastorale liturgica, 3/2011, 18-24. Testo