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Recensione a Guidalberto Bormolini, La barba di Aronne. I capelli lunghi e la barba nella vita religiosa

di Paolo Trianni (21 marzo 2012)

Guidalberto Bormolini, La barba di Aronne. I capelli lunghi e la barba nella vita religiosa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pp. 155.

Un testo teologico dedicato alla barba e ai capelli lunghi solo apparentemente può risultare stravagante. Ciò lo si deve precisamente alla disinformazione diffusa che c'è sul tema, che è appunto poco frequentato dalla ricerca teologica, sebbene non per questo meno significativo e meno rilevante nel suo ampio prospetto di studio. Il primo grande merito di Guidalberto Bormolini, pertanto, è proprio quello di aver riportato l'attenzione su questo aspetto della vita ascetica e spirituale che è trasversalmente diffuso in tutte le religioni, ed ha oltretutto radici evidenti nella stessa patristica cristiana. L'obiettivo dichiarato del libro, infatti, come viene detto nell'introduzione, non è il compilare una ricerca storica sull'argomento, e «nemmeno comporre un trattato di "teologia della barba". Si tratta semplicemente di affrontare un argomento, molto trascurato, di "storia del costume", riferendosi in particolare alla vita monastica cristiana» (p. 16).

L'autore, membro della comunità religiosi dei Ricostruttori nella preghiera, ha compiuto i suoi studi teologici alla Pontificia Università Gregoriana e alla Facoltà teologica dell'Italia Centrale, e, oltre a collaborare regolarmente con la Rivista di ascetica e mistica, ha scritto nel 2000 un saggio su I vegetariani nelle tradizioni spirituali.

Inserito in una collana prestigiosa che raccoglie testi e documenti di spiritualità comparata fondata da padre Giovanni Vannucci, «La ricerca del Graal», il testo, solo per fare un esempio, segue pubblicazioni dedicate alla Filocalia, all'Imitazione di Cristo, alle riflessioni di Divo Barsotti e dello stesso Vannucci, ma anche saggi che hanno per tema lo Yoga cristiano, i pensieri di Gandhi e la formazione dei monaci zen. Il volume di Bormolini, da questo punto di vista, si inserisce ed arricchisce una collana di testi che manifestano un approccio alla spiritualità trasversale ed interreligioso, com'era nello stile, del resto, dell'eremita dei Servi di Maria ideatore della stessa.

Un aspetto caratteristico del libro che deve essere rimarcato, del resto, legato appunto alla natura della collana, è quello di non limitarsi all'orizzonte cristiano, ma di allargare lo sguardo oltre i confini della tradizione evangelica, con dei richiami all'antico Egitto, all'ebraismo, alla cultura greca, all'islam e al mondo orientale. Il titolo, tuttavia, che evoca direttamente la figura del sacerdote Aronne ed il salmo 133, menzionando esplicitamente, come viene scritto, «la barba più celebre della Bibbia», rivela come la ricerca contenuta nel libro si concentri prevalentemente sul mondo ebraico-cristiano. È indicativo, a questo riguardo, che immediatamente dopo la figura di Aronne evocata nel titolo, il testo richiami, quasi a mo' di legittimazione ultima, l'immagine della Sindone.

Il libro, dunque, già dalle sue prime pagine, si presenta come una ricerca ed una riflessione teologica che ha come oggetto un tema trascurato ma non per questo privo di rilevanza. A questo riguardo, per la loro pregnanza, riteniamo opportuno riprodurre le più importanti citazioni bibliografiche menzionate da Bormolini, anche perché, in fondo, sono limitate nel numero e spesso non in lingua italiana. Ciò è esattamente una conferma ulteriore di come, su questo argomento religioso, ci sia effettivamente una lacuna di studi, denunciata peraltro dall'autore stesso ricordando come anche Italo Calvino, sulle colonne del Corriere della sera, se ne sia rammaricato. In effetti, al di là di alcuni articoli sulla barba e sui capelli che si possono rintracciare nel Dizionario Biblico ed in quello dei Simboli, mancano, o sono difficilmente reperibili, degli approfondimenti dal taglio sistematico e i volumi fondamentali. Il testo più autorevole menzionato dall'autore, a tal proposito, è quello curato da G. Constable in Apologia de barbis dell'abate Burcardo, discepolo di san Bernardo di Chiaravalle, ed inserito nel Corpus Christianorum. Soprattutto gli studiosi di monachesimo, pertanto, non possono non leggere con attenzione le considerazioni di Bormolini. Un'altra opera segnalata dall'autore che riflette puntualmente sul ruolo della barba e dei capelli nella vita religiosa è poi il Pro sacerdotum barbis defensio dell'umanista rinascimentale Valeriano Bolsani. Vale infine una segnalazione il De clericorum barbis di Cesare Baronio, che reagiva precisamente alla lettera pastorale De barba radenda di Carlo Borromeo, la quale era appunto tesa ad imporre la rasatura a tutto il clero.

Sebbene divulgativo e di facile lettura, il libro ha una struttura che riflette un approccio metodologico rigoroso. L'indice del saggio, infatti, che si compone di quattro capitoli, rivela una sorta di direzione concentrica mirata all'analisi della questione della barba e dei capelli all'interno del cristianesimo partendo però da una premessa antropologica e religiosa più ampia. Nel primo capitolo, per esempio, dal titolo «Barba e capelli nella storia e nelle tradizioni religiose» si prende in esame questo tema passando in rassegna le principali civiltà del mondo antico, richiami diretti anche all'induismo e all'islam. Nel secondo, in linea con questo percorso di avvicinamento al cristianesimo, vengono invece studiate le tradizioni ebraiche e l'ebraismo. Nel terzo, che è una sorta di passaggio antropologico, si dimostra la trasversalità dell'attenzione alla barba e ai capelli in varie culture del mondo, ed ha appunto per titolo «L'uomo come microcosmo». Il quarto ed ultimo capitolo, infine, proprio come compimento di questa lettura universalistica, affronta dettagliatamente il cristianesimo, analizzando in modo particolare la tradizione patristica. Bormolini, al riguardo, dimostra una notevole consuetudine con la letteratura cristiana antica, sia quella occidentale che quella orientale, perché all'interno di essa individua un numero notevole di autori e scritti che hanno affrontato la questione. Del tutto impressionante, infatti, e vero cuore del libro, è appunto la lista dei Padri della Chiesa citati che si sono occupati del tema, al punto che, effettivamente, sorprende alquanto che l'usanza della barba e dei capelli lunghi non sia maggiormente dibattuta in ambito teologico. L'elenco riportato da Bormolini, da questo punto di vista, contempla un numero di autori considerevole, denotando appunto una ricerca pregressa precisa ed accurata. Partendo dall'iconografia di san Giovanni Battista, e ovviamente da quella di Gesù, il testo si sofferma però sulla figura di Paolo che sembra avversasse, nonostante o a causa del suo passato voto di nazireato, le lunghe capigliature maschili. Proprio facendo riferimento a ciò, e come giustificazione e mitigazione delle sue critiche, nel libro viene appunto scritto che si «deplorava l'usanza di acconciarsi i capelli non perché si avversava la lunghezza della chioma in sé, quanto piuttosto perché era considerata una manifestazione di vanità» (p. 76).

Passando più direttamente all'epoca patristica, la lista degli autorevoli autori nei cui scritti è presente il tema è, come si accennava, sorprendente. Si potrebbe anzi dire che nessuno dei principali Padri abbia eluso la questione della barba. Bormolini, per menzionare solo alcuni nomi, riporta citazioni da Clemente Alessandrino, da Tertulliano, da Girolamo, da Esichio di Gerusalemme, da Ambrogio, da Agostino e da molti altri ancora. Particolare attenzione, comunque, è rivolta al monachesimo primitivo, nella convinzione che «il monachesimo delle origini adottava la barba come segno distintivo, rifacendosi alla tradizione apostolica, tradizione che in Oriente si è mantenuta immutata fino ai giorni nostri» (p. 88). Sono appunto numerosi gli aneddoti riguardanti la barba ed i capelli che vengono tratti specificatamente dal mondo monastico dei primi secoli. In primo luogo, al riguardo, sono significative le indicazioni contenute nelle prime regole monastiche: da quella di san Pacomio, fondatore della vita monastica comunitaria che faceva appunto divieto ai monaci di tagliarsi i capelli senza il permesso del superiore, a quella che troviamo nella Regula Tarantensis e in quella di Pauli et Stephani, dove è esplicito il divieto di tagliarsi i capelli troppo corti se non per motivi terapeutici (p. 96). A questo proposito l'autore puntualizza che «la regola benedettina, precisa e particolareggiata su molti argomenti, non fa invece alcun cenno a quello da noi trattato. Tuttavia nelle più antiche miniature del Monte Cassino i monaci e lo stesso san Benedetto, son effigiati con la barba» (p. 98). Del tutto curioso, poi, è il riferimento ad alcune barbe femminili nell'ambiente monastico primitivo: «Ad alcune monache, o vergini, come santa Paula di Avila e la martire portoghese santa Liberata, spuntò all'improvviso sul volto una barba piena e lunga, che teneva miracolosamente alla larga i malintenzionati» (p. 94). Su questa stessa linea il testo ricorda anche che persino alle donne non era prescritto di tagliarsi i capelli: «san Niceta d'Aquileia ci informa che alle vergini non è richiesto di tagliare i capelli ma solo di velarli, a meno che una monaca non abbia peccato con un uomo, nel qual caso le si richiede, tra i gesti di penitenza, di farsi tagliare i capelli» (p. 101). Per quanto riguarda il velo, anzi, quasi a confronto con la tradizione islamica, viene presentata una sorta di giustificazione di esso in chiave cristiana mediata dal trattato di Tertulliano su La preghiera: «D'altronde è "a motivo degli angeli" (1 Cor 11, 10) che san Paolo consiglia il velo alle donne. Era credenza comune del cristianesimo delle origini che gli angeli decaduti fossero attirati dai capelli delle donne» (p. 87). Tra gli altri aneddoti, ad esempio, si ricorda, sempre con Tertulliano come principale protagonista, «l'avversione particolare nei confronti delle parrucche» (p. 84). Ad ulteriore sottolineatura dell'importanza della peluria si menzionano poi «i giuramenti e accordi medioevali stipulati impugnando la barba» (p. 108), e non manca il riferimento ad autori medioevali, come Anselmo d'Aosta, del quale è riportata la frase asserente che «in una società l'assenza di giustizia è indecorosa come l'assenza di barba in un uomo» (p. 104).

Nel saggio viene quindi analizzata la causa del cambiamento di prospettiva che, rispetto al monachesimo antico, a partire dal VI secolo, ha prodotto un'inversione di tendenza, ovverossia ha alimentato la consuetudine religiosa di radersi la barba e di portare i capelli corti. Ciò viene soprattutto attribuito ad una versione manipolata degli Statuta Ecclesiae antiqua, testo largamente male interpretato che ebbe però grande diffusione.

Venendo, in conclusione, ad alcune considerazioni critiche, è indubbio che il limite più stringente di un libro di appena centocinquanta pagine, che si pone l'obiettivo di affrontare una tematica così ampia, è dato appunto dalla sua eccessiva sintesi. Il taglio divulgativo e il limitato numero di pagine, infatti, se hanno il merito della fruibilità, limitano però la scientificità della ricerca, che risulta un po' troppo veloce in alcuni passaggi storici che meriterebbero invece ben altri approfondimenti e dettagli contestuali. A prescindere dal genere letterario e dalla formula editoriale scelta, in ogni caso, il testo è forse un po' debole in quella che è la questione centrale: dove si fonda il valore spirituale della barba e perché essa è da preferirsi alla rasatura? Il libro, per esempio, menziona qua e là le pagine di taluni Padri che sembrano ricondurre i capelli ad un canale di collegamento con le forze superiori o ad uno spirito di potenza preposta alla capigliatura, e tuttavia rimane una convinzione scarsamente argomentata e poco giustificata nel suo fondamento ultimo. È ovvio, a questo riguardo, che, al di là del richiamo autorevole ai Padri, sarebbe necessario da un lato analizzare il contesto dei loro stessi scritti e dall'altro ritornare esegeticamente sui fondamenti scritturistici citati dallo stesso Bormolini. Risulta opportuno, in altre parole, prima ancora di uno studio patrologico, valutare quale sia l'opportuna ermeneutica che è legittimo dedurre dalla Bibbia. Il saggio, da questo punto di vista, sebbene non prevedeva di esserlo, non è esaustivo e non chiude la questione di quale debba essere l'atteggiamento teologico nei confronti della barba e dei capelli lunghi, ma, semmai, la apre ed invita ad indagini successive ed ulteriori.

Una sintesi sulla questione, in ogni caso, non c'è, sebbene il libro, a mo' di ricapitolatura, riporti le conclusioni de gesuita F. Oudin, il quale, nel 1765, cercando appunto di tirare le somme di una discussione protrattasi per secoli, sosteneva che lo spirito cristiano ritiene indifferente avere la barba o raderla, ma che corrispondeva a verità la sottolineatura che i Padri hanno ritenuto che un mento barbuto fosse più appropriato di un mento rasato (p. 131). Rimane comunque il fatto che è un grande merito dell'autore quello di aver riportato in auge una tematica religiosa e teologica per certi aspetti rimossa. Il saggio di Bormolini, sotto questo aspetto, non soltanto è ben scritto e di piacevole lettura, ma provoca e stimola delle sollecitazioni che biblisti, patrologi e teologi della spiritualità dovrebbero raccogliere.

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