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Il Papato fatto carne. La fuga di Celestino V al Gargano e una nuova lettura della teologia di Bonifacio VIII

di Vito Sibilio (2 marzo 2009)

Le vicende che legano Celestino V (1294) alla terra di Capitanata sono note, e vertono essenzialmente sulla fuga, dolorosa e travagliata, che egli tentò, quando ormai era tornato ad essere solo Pietro Angeleri, detto del Morrone, per sfuggire al soggiorno coatto che papa Bonifacio VIII gli aveva imposto.1 Com'è noto, constatata la sua inabilità al pontificato, a causa della sua grande inesperienza politica, della sua influenzabilità e anche della sua ignoranza, mosso dal desiderio di ritornare solo alla sua vita contemplativa in quell'eremo del Morrone presso il quale aveva trascorso il grosso della sua esistenza di eremita più che ottuagenario, papa Celestino V aveva abdicato, tornando alla sua vecchia identità, e ponendo al suo successore una sola condizione: quella di permettergli di ritornare al suo romitaggio. Dopo il suo «gran rifiuto», che più che vile fu saggio, anche se traumatico per i più, non ricordandosene altri a memoria d'uomo, ed essendo il papa abdicatario molto venerato dai fedeli, fu rapidamente eletto pontefice Benedetto Caetani, che assunse il nome di Bonifacio VIII (24.XII.1294). Personalità del tutto opposta a quella di Pietro, canonista insuperabile e politico esperto di tutti gli ingranaggi della macchina del potere ecclesiastico e temporale, Bonifacio -- considerato l'eminenza grigia della controversa abdicazione del predecessore -- non esitò un attimo ad annullare la decisione dell'ex-papa di ritirarsi in monastero, comprendendo che i nostalgici fautori del suo pontificato avrebbero potuto strumentalizzarlo facilmente per uno scisma. Gli ingiunse pertanto di precederlo a Roma da Napoli, dove erano avvenute sia l'abdicazione che la nuova elezione. Pietro, di malavoglia, fu costretto ad obbedire e partì senza scorta, accompagnato da Angelerio, abate di Montecassino.2 Questi era un monaco della congregazione benedettina della SS. Trinità fondata dallo stesso Pietro in gioventù, e che egli, da papa, aveva nominato abate del grande monastero. La scelta di quest'accompagnatore da parte di Bonifacio VIII era dunque un gesto di benevolenza.

Giunto tuttavia il 5 gennaio 1295 a S. Germano presso Montecassino, Pietro decise di disobbedire a Bonifacio, e s'incamminò verso S. Onofrio di Sulmona. Giunto a Sulmona, gli abitanti lo accolsero con grande devozione e lo condussero al suo romitaggio, presso il monastero di Santo Spirito, dove egli credette di aver ritrovato la pace. Ma Bonifacio, appreso della fuga verso il 15 gennaio, ordinò ad Angelerio e al suo cameriere Teodorico di Orvieto di ritrovarlo. I due intuirono la meta del fuggiasco e giunsero a Sulmona verso il 20 gennaio, dove chiesero al vecchio eremita di seguirli. Questi rifiutò, promettendo tuttavia di non rivolgere la parola mai a nessuno se non ai due compagni che vivevano con lui. Promise inoltre di dismettere quelle vesti preziose che ancora indossava come retaggio della sua passata dignità. Teodorico, impressionato dalla virtù dell'ex-papa, acconsentì. Ma, sulla via del ritorno, gli giunsero ordini perentori di ricondurre Pietro a Roma senza condizioni, ed egli dovette ritornare sui suoi passi. Pietro tuttavia era stato allertato e si era nascosto in un luogo imprecisato, che i monaci di Santo Spirito, sebbene minacciati da Teodorico, non poterono o non vollero rivelare. Ripartito Teodorico dopo due mesi, Pietro decise di allontanarsi da quella zona, ormai troppo «calda» per lui, e s'incamminò verso la Puglia settentrionale, lungo strade non frequentate, lontane dalle piste della transumanza, accompagnato da Tommaso da Sulmona, suo futuro biografo, per trovare rifugio in un bosco dell'Alto Tavoliere, dove vivevano molti eremiti. Era la metà di marzo. Ma anche in questo luogo non trovò pace, perché fu riconosciuto da alcuni pellegrini, che forse erano stati al Morrone anni prima. Pietro allora si rifugiò in un monastero non identificato della Daunia, sfuggendo per un pelo all'abate di Corata che, con sei monaci, lo cercava per conto del Papa. Questa pluralità di rifugi attesta un circuito di ambienti rimasti fedeli alla memoria del breve pontificato di Celestino, non entrati nella storia per omertà, ma che giustificano, a posteriori, le apprensioni politiche di Bonifacio VIII.

Tuttavia, Il giorno della domenica delle Palme, il 27 marzo, Pietro abbandonò il suo imprecisato ricovero e raggiunse, il 4 aprile, il monastero di San Giovanni in Piano, presso Apricena, il cui priore, contattato per tempo dal fuggiasco, gli aveva promesso un aiuto per imbarcarsi per la Grecia e fuggire così definitivamente da Bonifacio, le cui intenzioni apparivano sempre più minacciose.3 I monaci, accogliendo l'ex-papa, ridotto in grave miseria, si misero a piangere. Il priore tenne Pietro nascosto fino alla fine di aprile, in attesa della stagione propizia alla navigazione. Ai primi di maggio l'ex-papa si recò, con i suoi compagni di fuga, presso la costa, presumibilmente a Rodi Garganico, per tentare di prendere il largo, ma il maltempo e la minaccia dei pirati dalmati li dissuasero. Sette giorni dopo riuscirono finalmente a salpare, ma la sera stessa del primo giorno di viaggio dovettero prendere terra a Vieste, sospinti dal maltempo. Era il 10 maggio. Il governatore della città, informato dell'identità dei profughi, li arrestò e comunicò la notizia al re Carlo II d'Angiò e a Bonifacio VIII. Il 16 il re ordinò a Guglielmo Estendard il Giovane, suo servitore, di recarsi a Vieste con il Patriarca latino di Gerusalemme, con il Priore di Sant'Egidio, con un cavaliere e una scorta, per condurre Pietro a Capua. Lungo il tragitto, il santo eremita operò molti miracoli per la folla che, numerosa, si recava a vederlo. Da Capua, dove giunse il 7 giugno, Pietro fu condotto ad Anagni; lungo la strada era stato preso in consegna da Teodorico da Orvieto, inviato dal Papa. Arrivato in città il 14-15 giugno, Pietro incontrò Bonifacio e sostenne dignitosamente il contraddittorio con il successore, che lo interrogò insistentemente sulle ragioni della sua sospetta fuga. Pietro sostenne il suo buon diritto al romitaggio, ma alcuni cardinali affermarono che Bonifacio non poteva essere papa legittimo se il predecessore fosse ritornato dove voleva, per cui il Caetani, troncato ogni indugio -- ammesso che ne avesse -- lo tenne agli arresti domiciliari nel suo stesso appartamento, in una camera vicino alla sua, per due mesi.

Nella seconda metà di agosto fu poi condotto nella sua ultima dimora terrena, a Castel Fumone, proprietà del Papa. Qui, sotto strettissima sorveglianza ma in dignitose condizioni, Pietro rimase isolato da tutti e morì il 20 maggio 1296, dopo una settimana di agonia, causata dall'ulcerazione che aveva sul lato destro del torace. È del tutto leggendaria la notizia che Bonifacio VIII lo facesse uccidere: il foro cranico, che la maligna tradizione antipapale attribuiva a un chiodo conficcato con un martello dal nipote del Papa, altro non è che un ascesso. Certo, la fredda torre di Fumone non era il luogo più adatto per un vegliardo malato di ottantasette anni. In ogni caso Bonifacio, nella sua Anagni, fu forse sollevato del decesso (Vita C, p. 730). Unico papa a portare il lutto del predecessore, celebrò una messa pubblica in suo suffragio e inviò il cardinale Tommaso da Ocre, della congregazione di Celestino V, di organizzare i funerali. La salma, vegliata da Teodorico di Orvieto, da un cavaliere e da parecchi servitori, fu traslata a Ferentino, dove una grande folla assistette ai funerali e alla sepoltura in Sant'Antonio, chiesa appartenente alla congregazione dello scomparso (25 maggio). Di lì a poco iniziò il processo di canonizzazione, terminato sotto Clemente V (Paravicini Bagliani 2003, pp. 91-98; 153-156).

Questi fatti servono di solito ad acclarare la fisionomia di Bonifacio VIII come quella di un persecutore severo e cinico, dominato solo dalla ragion di Stato, peraltro coincidente col suo utile. Nella Vita C del Santo la caccia all'uomo di Bonifacio è una vera persecuzione. Certo il Papa temeva uno scisma, e non a torto, mentre S. Pietro Celestino seguiva il suo forte impulso spirituale. Ad una Ecclesia carnalis egli contrapponeva una spiritualis. Ma davvero non vi è altro che permetta di leggere il comportamento di Bonifacio se non come duro autoritarismo?

A mio avviso, nella sua scelta di inesorabilità, giocò un ruolo importante anche la sua personale concezione teologica del primato di Pietro e dell'ufficio papale, che non poteva ammettere limiti al di fuori di sé, e quindi neanche vincoli preesistenti, come ad esempio le condizioni di abdicazione di Celestino V. In ragione di ciò, non poteva tollerare una residua sacralità nella persona dell'abdicatario -- come mostravano le vesti preziose ancora indossate e i miracoli fatti -- né, tantomeno, obiezioni alla validità della stessa abdicazione -- osteggiata da parte del clero e dalla devozione popolare.

L'idea di pontificato sottesa a questa impostazione non è solo quella che poteva avere un canonista come Benedetto Caetani, peraltro esponente di un curialismo estremo, ma anche quella dell'antica mistica petrina, per cui il Principe degli Apostoli sopravvive in un certo senso nei suoi successori. È l'ideale che si esprime anche nella Magna Charta del Papato gregoriano e ierocratico, il Dictatus Papae di quel Gregorio VII (1073-1085) di cui, non a caso, Bonifacio VIII si sentì e fu uno degli ultimi epigoni, che ampliò e modificò la sua dottrina. In questa visione, il Papa è pieno della santità del suo ufficio, per cui, al di fuori della sua persona, nulla c'è che sia proprio del Papato stesso. Nella teologia gregoriana, il Papa è ancora il Vicario di Pietro, ma in quella di Bonifacio -- che poi è quella dei Papi giuristi della metà del XII sec. in poi -- egli è il Vicario di Cristo in Terra. Papa Caetani, sviluppando delle tendenze presenti nel magistero dei Predecessori, suggerisce con forza un'idea non del tutto nuova, ossia che il Papato non esista se non nel Papa medesimo, istituzione vivente, che si perpetua in tutta la serie dei Vescovi di Roma legittimamente eletti. La vera novità sta nell'abolizione della distinzione tra persona papae e persona dell'eletto, per cui la prima di fatto assume la seconda in una sola sussistenza, anzi in una sola sostanza.

In tale prospettiva, il Pontefice Romano, come individuo, è il suo stesso potere vivente,4 che, a sua volta, è l'emanazione della Potenza vivente che è il Cristo, Figlio di Dio e Dio Egli stesso, Sommo ed eterno Sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec, nonché Re dell'Universo. Il Papa dunque partecipa dell'economia dell'Unione Ipostatica. Gesù Cristo infatti è una sola sussistenza ipostatica in cui sono unite ma non mescolate due nature o sostanze, la divina e l'umana. Per la divina Egli è consostanziale al Padre e allo Spirito Santo, per l'umana è simile agli altri uomini, di cui è Capo non solo per la sua santità e per la Redenzione, ma soprattutto come Dio, perché in quanto tale eccelle nell'una e nell'altra. Ma la sua autorità si esercita attraverso colui che lo rappresenta in temporalibus e in spiritualibus, ossia il suo Vicario in Terra. Egli è lo strumento eletto mediante il quale Cristo regge la Chiesa, e in lui c'è lo stesso potere del Redentore. È come un'emanazione, non modale ma funzionale, del Figlio di Dio. Ma, siccome tale emanazione si identifica di volta in volta con un essere umano, allora questo stesso uomo è in una relazione strettissima sia con la natura umana che con quella divina del Cristo, perché partecipe in pieno di quel potere che Egli ha in quella sua prima natura in virtù di questa seconda. Come il Figlio di Dio regge il mondo a nome del Padre, così il Papa lo governa in nome del Figlio. E come il Padre opera nel Figlio, Questi opera nel Papa. È questa la più alta concezione che si può avere del Pontificato Romano, che verrebbe quindi, nell'ordine delle partecipazioni all'economia dell'Unione Ipostatica, subito dopo la Beata Vergine Maria, Madre di Dio, e San Giuseppe, Padre putativo di Gesù.

Se leggiamo le azioni di Bonifacio VIII contro Pietro del Morrone in tale ottica, esse sono pienamente giustificate, e anzi le vesti preziose che lo stesso ex-papa continuava ad indossare erano un'involontaria ma reale mistificazione del suo stato, i suoi miracoli fuorvianti, la devozione popolare potenzialmente scismatica e la contestazione contro papa Caetani polarizzata attorno a Pietro stesso assolutamente sbagliata, sia canonicamente che teologicamente. L'obbedienza cieca di Teodorico di Orvieto a papa Caetani nella dura «caccia» a Pietro del Morrone era invece rivolta a Cristo stesso e al suo potere ipostatizzato in Bonifacio VIII, quindi doverosa e meritoria. In effetti, il volere divino e quello papale coincidono, non essendo riuscito Pietro a realizzare il suo progetto di fuga per l'opposizione della stessa natura. In quanto poi alle condizioni dell'abdicazione di Celestino, esse potevano essere modificate a piacimento da Bonifacio, in quanto partecipe dello stesso potere del predecessore.

Quali riscontri abbiamo, nel magistero verbale e simbolico di papa Caetani, di questa teologia della materializzazione della plenitudo potestatis nella persona del Papa? Che il suo ipercurialismo si sostentasse di questa particolare concezione del Primato su base cristologica? Molti di più di quanti se ne immaginano, che generalmente non sono messi in corrispondenza con la fuga di Celestino V. Se ne possono desumere dalla tradizione iconografica del Pontefice, specie in quella a lui contemporanea, in cui emerge con chiarezza l'idea che egli voleva autorappresentare di sé e del suo ruolo.

La prima per importanza è costituita dalla Tomba del Papa, realizzata da Arnolfo di Cambio. Quando la costruì, Bonifacio la mise al posto di quella preesistente di San Bonifacio IV (608-615), del quale aveva assunto il nome. Questa rimozione, che a molti parve blasfema, voleva suggerire esplicitamente che tra Bonifacio IV e Bonifacio VIII non c'era alcuna differenza, perché entrambi incarnazioni mistiche del medesimo potere, che, in ogni successiva manifestazione, riassorbe in sé le precedenti. Né faceva specie al Caetani di soppiantare, col proprio sepolcro, quello del Papa santo: la sacralità del Pontefice in quanto tale è obiettivamente superiore, anche se diversa, a quella di qualsiasi uomo canonizzato. Peraltro, papa Caetani mise nell'altare della sua cappella sepolcrale alcune reliquie delle ossa dello stesso Bonifacio IV, a dimostrazione della confluenza della santità individuale dei Papi nei loro successori, in una forma particolarmente intensa della Communio Sanctorum. Del resto, Bonifacio VIII, una volta spianata al suolo Palestrina con la crociata contro i Colonna, nella cattedrale della neonata Città Papale, che sorse sulla città distrutta, volle dedicare l'altare maggiore proprio a Bonifacio IV. Tra papa Caetani e il suo lontano predecessore c'è dunque, agli occhi del primo, un'interscambiabilità di ruolo e una communicatio idiomatum.

Tornando all'iconografia tombale, Bonifacio si fece ritrarre sul sarcofago in una scultura che, più di raffigurare lui, ha lo scopo di rappresentare il Papa ideale. Segno che l'ultimo dei Pontefici è la ricapitolazione dei predecessori, l'incarnazione simbolica del potere delle chiavi (v. figura 2). Se consideriamo poi che il coperchio del sarcofago era posto in una posizione tale che il celebrante all'altare della tomba doveva per forza vedere la scultura, si capisce chiaramente che essa -- e Bonifacio VIII che rappresentava e che un giorno sarebbe giaciuto sotto di essa -- era un simbolo cristomimetico. Si creava così un asse teologico tra il tabernacolo, contenente l'Eucarestia, e la tomba, che ospita il corpo del Papa. Nella prima Cristo è presente sostanzialmente, nel secondo moralmente e formalmente. C'è una teologia precisa del primato, ma anche, chiaramente, una glorificazione postuma del corpo-reliquia del Papa. Nell'esaltazione di sé, Bonifacio va anche al di là del tributo d'onore riservato al Primato stesso. Ma tutto è sempre funzionale al presente, sebbene la tomba sia ancora vuota: Bonifacio glorifica se stesso come papa regnante, anche anticipando il suo stato futuro. In questa apoteosi simbolica, le leggi spazio-temporali sono sovvertite, e il Papa ideale partecipa della dimensione dell'Eternità.

Un'ulteriore elaborazione simbolica del potere incarnato del Papa si ha nel mosaico sovrastante il sepolcro: in esso Bonifacio VIII brandisce le chiavi di Pietro, mentre di solito nelle raffigurazioni i Pontefici le ricevevano, magari dal Principe degli Apostoli stesso, o da Cristo. Il messaggio è quindi ancora lo stesso: ogni Papa è come Pietro medesimo (Paravicini Bagliani 2003, pp. 110-112).

Un'elaborazione ancor più elaborata si ha nella scelta delle dimensioni della tiara utilizzata per incoronare Bonifacio VIII. Secondo Iacopo Caetani Stefaneschi essa aveva la forma della sfera e del cubito. La sfera è la forma del diadema di base, che come corpo perfetto rappresenta il cosmo intero. Il cubito ricorda la dimensione dell'Arca di Noè, tipo della Chiesa. Tale allegoria ricorrerà anche nella Unam Sanctam (1302) .5 Se ne deduce che la Chiesa -- coincidente col mondo -- è il vero oggetto della raffigurazione della tiara; essa sta in testa al Papa, perché egli, a sua volta, è rappresentazione vivente del Cristo, che della Chiesa è il Capo. Non a caso la tradizione attribuisce a Bonifacio VIII l'invenzione del Triregno, ossia di una tiara che implica il dominio del Papa anche sui regni dell'Oltretomba, ossia una piena partecipazione ai poteri di Cristo. Ma è una tiara polisemica nel suo simbolismo: le tre corone possono simboleggiare anche i tre poteri del Papa (pienezza del ministero, giurisdizione universale, magistero infallibile) e la sua assoluta signoria su ogni potestà. Sempre tuttavia suggeriscono che il Pontefice agisce in persona Christi (Paravicini Bagliani 2003, pp. 223-224; 309-312).

Un ulteriore elemento emerge dal tabernacolo donato dal cardinale Giacomo Caetani alla chiesa di S. Clemente a Roma nel 1298. Il tabernacolo era stato fatto da Arnolfo di Cambio, e il donatore era il nipote di Bonifacio VIII. Questi aveva fatto raffigurare nel timpano la Beata Vergine col Bambino e, inginocchiato dinanzi a loro, papa Clemente I, con il nimbo e la tiara. Ma le fattezze dell'antico Pontefice sono quelle di Bonifacio VIII. Sembra che nell'entourage bonifaciano l'unico aspetto legittimamente attribuibile ai Papi sia stato quello del Pontefice regnante, evidentemente per la sua concezione particolare del Primato. Tanto forte è questa convinzione, che persino le caratteristiche iconografiche del Santo sono attribuite a Bonifacio -- o meglio, che le caratteristiche fisiche di costui sono attribuite all'iconografia del Papa santo (Paravicini Bagliani 2003, pp. 225-226).

Ancora Arnolfo ha raffigurato il Papa in piedi benedicente, con le chiavi in mano, esattamente come ha fatto per San Pietro nella Basilica a lui dedicata in Vaticano. E questa statua era anch'essa in Vaticano, presso la Tomba bonifaciana (v. figura 1). Qui la multiformità dell'incarnazione simbolica del Papato tocca la sua vetta più enigmatica e simbolica: Pietro versus Bonifacio, ma anche Pietro uguale Bonifacio, nel luogo, nella posa, nella funzione, persino nell'artista. Papa Caetani si è impossessato persino della memoria dell'Apostolo (Paravicini Bagliani, pp. 226-227).

Questa prassi di raffigurare il Pontefice con tiara e chiavi, ossia come capo visibile della Chiesa, continua anche nella numismatica, come attesta la moneta coniata da Bonifacio nel 1301 a Pont-de-Sorgues nel Contado Venassino. E tale raffigurazione non è solo legata alle coreografie del potere ecclesiastico e civile, ma anche a quelle della devozione, modificata d'autorità dal Pontefice. Questi, ancora nel 1301, a memoria dell'arbitrato da lui esercitato tra il Vescovo di Amiens e i Canonici del suo Capitolo Cattedrale, impose all'uno e agli altri di forgiare due statuette, una rappresentate Bonifacio VIII, l'altra la Vergine Maria. Le due statuette, da esporsi vicine sull'altare della cattedrale nelle occasioni più importanti, dovevano essere criptoritratti rispettivamente del Cristo e della Chiesa, e la loro pubblica vicinanza era il segno del matrimonio mistico tra l'uno e l'altra. Non a caso nel Medioevo il Papa era chiamato sposo della Chiesa. Ora Bonifacio porta alle estreme conseguenze questa concezione cristomimetica: il Pontefice regnante sposa la Chiesa in vece di Cristo, e va sull'altare accanto alla Vergine. L'una è la figlia più eminente della Chiesa, l'altro è la manifestazione più piena del potere del Cristo. Se la corrispondenza biunivoca con Pietro è il punto più enigmatico della teologia iconica di Bonifacio, questo è il momento senz'altro più orgoglioso, forse eccessivo, per cui a molti, come Iacopone da Todi, Caetani apparve come Lucifero, che voleva mettere il suo trono sulle nubi (Paravicini Bagliani 2003, pp. 224; 227-229).

Ma quest'idea della raffigurazione del potere papale in modo votivo veniva da lontano: già da cardinale diacono Benedetto Caetani (4 novembre 1291) aveva, assieme a Gerardo Bianchi, cardinale vescovo, imposto all'Arcivescovo di Reims e ai suoi Canonici di raffigurarli in piccole statue da esporre sull'altare, a memoria perpetua della sentenza emessa nel contenzioso incorso tra l'uno e gli altri. Evidentemente, anche in quanto cardinale Benedetto si credeva «incarnazione» del proprio potere. Ciò suppone non solo una identificazione tra soggetto formale e materiale -- sulla scia di certo aristotelismo -- ma anche una precisa relazione tra i dignitari della Chiesa Romana e il potere che le appartiene, e che culmina nel suo presule, il Pontefice (Paravicini Bagliani 2003, pp. 34-35).

Molte altre raffigurazioni di Bonifacio nel suo pontificato hanno caratteri tipici che lo identificano col Papa ideale o addirittura con Cristo stesso: così a Reims, a Firenze, ad Anagni, a Orvieto, a Bologna, a Padova (Paravicini Bagliani 2003, pp. 229-235).

Riscontri a questa esorbitante concezione del primato si ha pure nel magistero verbale, orale e scritto. Nella bolla Ausculta Filii (Reg. 4424) il Papa si attribuisce il titolo cristologico ed escatologico di Giudice dei Vivi e dei Morti, esattamente come il Figlio dell'Uomo -- ossia Gesù Cristo -- che già nel Vangelo si conferì questa prerogativa che appartiene solo a Dio e che gli era stata profetizzata da Daniele. Segno che Bonifacio si sente la mimesi vivente di Cristo stesso. E aggiunge che egli solo è il Capo del Mistico Corpo, che lo riassorbe tutto in sé. Bonifacio sapeva bene che il solo Capo è Cristo. Ma i lettori della bolla sapevano che Bonifacio era tutt'uno con Cristo stesso, da un punto di vista formale. E non era poco. Per alcuni certo era troppo (Paravicini Bagliani 2003, pp. 282-286).

Ma ciò era coerente con quanto fatto dal Papa in altri momenti. Il bando della crociata contro i Colonna rientrava in quest'ottica: invece di combattere per liberare la Chiesa d'Oriente e il Santo Sepolcro, Bonifacio chiedeva di farlo per liberare la Chiesa Romana e il Trono di Pietro. Roma valeva la Terra Santa, perché il Papa rappresentava Cristo. Anche il divieto di smembramento dei corpi dei defunti, il 27 settembre del 1299, rientra nelle manifestazioni del potere sovrano su vivi e morti che spetta al Papa in nome di Cristo (Paravicini Bagliani 2003, pp. 179-205; 213-222).

Al vertice di questo esarcebato magistero verbale, c'è la solenne asserzione per cui il Papa ha dentro di sé «la pienezza del diritto»: non una formula di mera presunzione, ma la consapevolezza di essere fonte della legge canonica, come fondamento della Chiesa, in virtù della sua intima unione con la Sapienza del Cristo. Il grande canonista fa della sua scienza un'emanazione di quella del Verbo. Ardita sintesi degli opposti, in cui umiltà e superbia convivono! (Paravicini Bagliani 2003, pp. 182-186)

Alla luce di tutto questo, l'episodio della persecuzione di Pietro del Morrone in fuga rappresenta la manifestazione forse più dura e sgradevole, ma anche più rigorosa e consequenziale dell'ideologia di un Papa che non fu solo superbo e ambizioso, ma anche e soprattutto altamente consapevole del suo ruolo e capace di pianificarne il senso in modo inedito, e ancora oggi presente, anche se in modo smussato, nella teologia della Chiesa romana. I luoghi figurati di questa teologia furono bolle e statue, quelli geografici furono anche quelli della Daunia.

Arnolfo di Cambio, Busto di Bonifacio VIII. Città del Vaticano, Sacri Palazzi Apostolici, Appartamenti Pontifici

Arnolfo di Cambio, Tomba di Bonifacio VIII- Particolare del Pontefice giacente. Città del Vaticano, Basilica di San Pietro, Grotte Vaticane

Nota Bibliografica Essenziale

Fonti

Letteratura

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Note

  1. Per questo contributo si segue la falsariga della ricostruzione storica di Paravicini Bagliani A. 2003, Boniface VIII, Parigi-Torino, che, oltre a fornire una ricchissima bibliografia, è lo studio più aggiornato e completo sull'argomento. Testo

  2. La ricostruzione delle vicende della fuga si basa sulla Vita C di Celestino V. Essa è la più antica delle tre versioni della biografia del Santo, tradizionalmente attribuita a lui stesso, almeno nella parte anteriore all'elevazione al Papato. Autori reali ne furono, secondo i Bollandisti, Bartolomeo da Trasacco e Tommaso di Sulmona, religiosi celestiniani, che la scrissero -- o la completarono -- dopo la morte di Bonifacio VIII. Il testo è in S.Pierre Célestin et ses premiers biographes, in «Analecta Bollandiana» XVI (1897), pp. 365-487. Cfr. Paravicini 2003, pp. 91-98. Se la Vita C è ostile a Bonifacio VIII, l'apporto documentario che viene da Iacopo Caetani Stefaneschi, Opus metricum, edito in Seppelt F.X. 1921, Monumenta coelestiniana. Quellen zur Geschichte des Papstes Coelestin V, Paderborn, pp. 1-145, è più equilibrato, sebbene l'autore fosse parente di Bonifacio e quindi volto anch'egli a glorificare il suo eroe. Testo

  3. Almeno per la Vita C. Testo

  4. Questa teologia si nutre di molte concezioni del diritto romano, e attribuisce al Papa molte prerogative imperiali. Ma la loro fondazione è saldamente ancorata alla visione gregoriana del potere pontificio. Testo

  5. Le Bolle di Bonifacio VIII sono in Les Registres de Boniface VIII, a cura di G.A.L. Digard et a., Parigi 1884-1939. Per la Unam Sanctam cfr. nm. 5282. Testo