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La necessità della contingenza. Logica ed incomprensibilità in Pier Damiani e Anselmo d'Aosta

di Stefano Scrima (2 ottobre 2012)

Lo studio si propone un confronto tra le efficaci proposte teologiche di Pier Damiani (1007-1072) e Anselmo d'Aosta (1033/1034-1109), dottori e santi della Chiesa per il ruolo cardine attuato nel dibattito teo-filosofico del secolo XI. L'attenzione è focalizzata sull'apparente antinomia, risolta dai due pensatori con sostanziali affinità di vedute, tra prescienza divina e libero arbitrio dell'uomo; sulla possibilità di passati e futuri contingenti -- e anche qui si possono riscontrare significative concordanze --; e infine sul ruolo della logica nell'interpretazione del reale: strumento capitale per l'edificazione dell'impalcatura teologica di Anselmo, limitato a questioni mondane per il Damiani. Questa la reale divergenza, di principio -- poiché di fatto, lo vedremo, la questione è assai più complicata -- tra gli autori qui presi in esame.

1. Introduzione

L'XI secolo assume all'interno del percorso della civiltà occidentale, e in particolare di quell'età «chiaroscura» (biasimata e poi sdaziata) detta di mezzo, un ruolo decisivo. Non a caso gli storici concordano nel collocarvi lo spartiacque culturale tra Alto e Basso Medioevo, definendolo, sulla base delle opere a noi tramandate, campo assai fertile per gli sviluppi della teologia cristiana, la quale vedrà alcune delle novità argomentative qui offerte confluire e trovar massima fortuna con l'acme della Scolastica (XIII secolo).

Vennero dunque introdotte nuove argomentazioni, nuovi strumenti a loro supporto e recuperate «vecchie» questioni da porre al vaglio di nuove conquiste filosofiche. L'argomento agostiniano della prossimità tra mente umana -- intesa come riflesso opaco del sommo Intelletto -- e divina, atto a sancire la creazione dell'uomo a immagine e somiglianza di Dio, riprese vigore nel tentativo di una conciliazione di ragione e fede. Alfiere di questa corrente fu Anselmo d'Aosta (1033/1034-1109), divenuto arcivescovo di Canterbury nel 1093, il quale, nell'originale edificazione della sua teologia, non esitò nello sfoderar le armi logiche in suo possesso, procurandosi immancabili critiche da parte di contemporanei e posteri sia sul piano della fede che della logica stessa.

Sembra che le ansie che accompagnarono l'avvento del secondo millennio, ricondotte sulla scorta dell'Apocalisse di Giovanni all'imminente fine del mondo,1 poterono esser mitigate soltanto dalla lucida ragione di alcuni uomini di fede in opposizione alle deliranti superstizioni, che di razionale conservano assai poco. Sembra, ma non è così. Non è corretto ridurre un secolo, i suoi moti e pensieri ad un'unica modalità di interpretazione del reale, nemmeno se questa fosse dominante. Le audaci pretese logiche di conciliazione «forzata» tra ragione e fede, che si affacciarono sulla scena della teologia dell'XI secolo, videro opporsi almeno uno tra i grandi filosofi della religione cristiana di quest'epoca: Pier Damiani (1007 -- 1072), vescovo di Ostia dal 1058. Non che egli rinnegasse tout court l'utilizzo dell'arte dialettica -- le sue apologie sull'onnipotenza divina o sulla ricchezza della semplicità monastica ne palesano pur sempre una raffinata conoscenza -- , ma il suo biasimo è tutto impegnato al disprezzo di quegli uomini capaci, nella loro stoltezza, di accostare all'incomprensibile agire di Dio le proprie infime costruzioni logiche. La dialettica è materia utile nella risoluzione di questioni terrene, non certo strumento per indagare il disegno dell'Essere eterno.

Proponiamo qui un confronto tra le posizioni filosofiche di questi due pensatori dell'XI secolo (entrambi santi della Chiesa cattolica), cercando di mostrare -- limitando l'attenzione a specifici temi quali la possibilità della contingenza e i ruoli affidati a necessità e libertà -- come le loro divergenze siano più apparenti che sostanziali. Non si pretende costruire un'artefatta continuità tra Damiani e Anselmo, bensì mostrarne le affinità, spesso offuscate dalla semplicistica contrapposizione di dialettici e antidialettici.

2. Una libertà conosciuta

Al centro del dibattito filosofico medievale, e di quello cristiano d'ogni epoca, emerge limpido il problema della libertà. Se da un lato l'attenzione non può che farsi attrarre dal polo della divinità, designante un Dio creatore -- ordinatore e donatore dell'essenza d'ogni cosa -- il quale riveste per definizione l'ideale della somma perfezione di cui mai potrebbe esser messa in dubbio l'immensa e incommensurabile libertà; dall'altro, la limitata -- sempre per definizione cristiana -- ragione umana esige disperate e rassicuranti «prove» della possibilità di un reale arbitrio da parte dell'uomo, solo apparentemente in contraddizione con prescienza e predestinazione divina. Del tutto comprensibile risulta infatti la preoccupazione dei fedeli: che abnegazioni e sforzi compiuti per seguir l'illuminata via dalla fede si dimostrino vani, poiché già deciso da Dio (che tutto vede e tutto sa) è il futuro, compresi i minimi movimenti dei fili d'erba -- per non parlare delle azioni umane! E d'altronde l'antinomia tra necessità dello svolgersi di un avvenimento già conosciuto da Dio, che nella sua perfezione non può mancare d'alcuna conoscenza (in questo caso del futuro, così come è inteso dagli uomini), e libero arbitrio dell'uomo, che comporterebbe una possibilità di scelta contrapposta alla rigida necessità, è di assai difficile risoluzione. Il tormento del fedele non è tanto legato alla volontà di vedersi libero, sciolto dalle catene divine, quanto al non aver possibilità di redenzione e accesso alla beatitudine celeste della vera vita, quella eterna: se Dio, prima che nascessi, ha già deciso della mia eterna dannazione, perché «dannarmi» anche in questo breve «soggiorno terreno» nel tentativo di assomigliare al mio irraggiungibile antipodo? Per me fedele la vita stessa non avrebbe più alcun senso; così, meriti e demeriti, peccati e azioni pie sarebbero manovrati a priori dall'alto dei Cieli, in modo tale che nulla possa più esser lodato o deprecato. D'altro canto l'ammissione di una libertà umana potrebbe implicitamente implicare un'impotenza divina: togliendo a Dio la prescienza distruggeremmo l'ideale «perfettissimo»; e ciò non conviene.

In definitiva, abbiamo visto come la libertà di Dio, qualità d'un essere perfetto dall'ineguagliabile grandezza, sia sinonimo di onnipotenza (nel corso del Medioevo poi distinta in potentia Dei absoluta e ordinata -- più sotto avremo modo di approfondire tale distinzione), mentre la libertà umana sia la possibilità di scelta, da parte della creatura, del proprio agire futuro, con un campo d'espressione comunque iscritto nell'ordine sancito dal Creatore; ma queste differenti libertà appaiono inconciliabili. È qui che si inserisce la riflessione del De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae dei cum libero arbitrio di Anselmo, di cui già l'incipit riassume puntualmente la questione:

Sembra che la prescienza di Dio e il libero arbitrio si oppongano, poiché quel che Dio prevede, necessariamente sarà, e ciò che è compiuto per libero arbitrio non ha alcuna necessità. Ora, se si oppongono, è impossibile che insieme vi sia una prescienza di Dio, che prevede tutto, e che qualcosa si compia per libertà di arbitrio.2

Ma la soluzione adottata dal teologo è invero molto più semplice di quanto possa immaginarsi:

se un evento si compirà senza necessità, Dio, che prevede ogni evento futuro, deve prevedere anche questo. Ma ciò che Dio prevede sarà necessariamente così come Dio lo prevede. Dunque è necessario che qualcosa sia senza necessità. [...] è necessario che sia ciò che Dio prevede, e insieme Dio prevede che qualcosa sarà compiuto senza necessità.3

Da queste parole emerge una differente accezione di necessità rispetto a quella che comunemente adottiamo nel pensare e parlare. Anselmo ci propone infatti due necessità distinte: necessitas praecedens e necessitas sequens, e non un'unica rigida necessità condizionante come saremmo portati a pensare sprovvisti di un'approfondita analisi di parole e concetti. La prima ricalca perfettamente la communis opinio riguardo alla necessità come situazione irreversibile: è necessario che Mosè apra le acque del Mar Rosso perché così è deciso da Dio, oppure è necessario, per vincolo naturale, che domani sorga il sole (anche se su questa affermazione, come vedremo, Pier Damiani non sarebbe pienamente d'accordo). Il secondo tipo di necessità, invece, assume una sfumatura diversa riferendosi «semplicemente» alla necessità che segue lo svolgimento di un'azione; essa viene suffragata dal principio aristotelico di non contraddizione, il quale, logicamente, non permette che una situazione sia e contemporaneamente non sia: questa necessità non significa se non questo: ciò che sarà non potrà insieme non essere.4 Dunque è necessario che un avvenimento passato sia stato, che uno presente sia e che uno futuro sarà. Dio «si limita» a constatarne lo svolgimento; egli sa tutto quel che è avvenuto avviene ed avverrà, e soprattutto sa che qualcosa è avvenuto avviene ed avverrà senza necessità, ovvero senza la necessitas praecedens: la necessità segue la posizione della cosa, non la precede.5 Sa che qualcosa avviene per libera volontà da lui stesso conferita.

Partendo da tali premesse non sembra più così impossibile conciliare prescienza e libero arbitrio:

sebbene egli [Dio] preveda tutto ciò che sarà egli non prevede tutto ciò che sarà come necessario, ma prevede che alcuni eventi saranno per una libera volontà della creatura razionale.6

Ma la definitiva conciliazione avverrà soltanto introducendo nel discorso la dimensione eterna in cui permane immutabile il Creatore, giacché

tutto ciò che la Scrittura esprime come necessario, in ciò che dipende dal libero arbitrio, lo esprime secondo l'eternità, nella quale è presente immutabilmente tutto ciò che è vero e solo ciò che è vero; non secondo il tempo, nel quale le nostre volizioni e azioni non sono sempre.7

Quando la Sacra Scrittura si riferisce a Dio utilizzando verbi al passato non significa che per Dio esista davvero un passato né tantomeno una dimensione temporale; le azioni narrate non avvengono in una successione cronologica come saremmo ingenuamente portati a immaginare, ma simultaneamente. L'eternità racchiude in sé tutti i tempi e tutti gli spazi, i nostri passati, presenti e futuri. L'arcivescovo di Canterbury fa notare come i verbi al passato vennero utilizzati, per esempio, dall'Apostolo Paolo solo per mancanza di un verbo che significasse l'eterna presenza, poiché le cose passate sono assolutamente immutabili, e in questo sono simili all'eterno presente.8

Il principio di non contraddizione, lungi dall'esser materia esclusiva delle speculazioni umane, abbraccia, per Anselmo, anche l'ambito della divinità. Il sempiterno presente di Dio, non attraversato dal tempo terrestre, «obbedisce» alla logica facendo sì che al suo interno non sia possibile ammettere il corso di un'azione umana (che sia passata, presente o futura non importa) contemporaneamente al suo non svolgimento: nell'eternità è infatti eternamente il fatto che una cosa sia, e che possa non essere prima di attuarsi.9 È necessario che ciò che è sia e ciò che non è non sia, e nell'eterno ed immenso sguardo divino ciò è fissato indelebilmente senza possibilità d'errore.

La prescienza di Dio e il libero arbitrio non sono affatto incompatibili; e ciò in forza dell'eternità che comprende ogni tempo e tutto ciò che è in qualsiasi tempo.10

Parlare di prescienza divina, a questo punto, non risulta del tutto corretto, giacché Dio non prevede ma vede; lo stesso vale per la predestinazione: Dio non impone niente a nessuno, ma, in virtù della sua onniscienza, conosce già ogni nostra mossa, benché pienamente libera. Prescienza e predestinazione hanno senso solo se rivolte alle grette menti degli uomini che mai potrebbero raggiungere le vette dell'Intelletto divino e arrivare a comprendere la forma dell'eternità.

Da notare come la soluzione di Anselmo (e quella di Pier Damiani che vedremo) confermi le argomentazioni proposte da Severino Boezio nella sua Consolatio Philosophiae: [le] cose, dunque, benché conosciute in anticipo [da Dio] sono libere nella loro attuazione.11 D'altronde il dibattito riproposto nell'XI secolo sulla possibilità di conciliare libertà umana e prescienza divina ha una lunga tradizione che conta tra i suoi partecipanti, ancor prima di Boezio (V-VI secolo), lo stesso Agostino di Tagaste (IV-V secolo).

Tuttavia, la libertà del Dio di Anselmo non appare del tutto soddisfacente. Mentre il libero arbitrio dell'uomo è di per sé limitato, in quanto qualità posseduta da creature interamente dipendenti dal Creatore, e definito dall'arcivescovo come il potere di serbare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa,12 quella che dovrebbe essere una libertà assoluta, tale da risultar degna dell'Essere «perfettissimo», non è poi così assoluta. Essa segue la logica degli umani, la necessità della successione degli avvenimenti, ovvero l'ordine naturale, il quale, pur essendo stato originariamente ed inconfutabilmente istituito dal libero agire divino, non può tuttavia esser infranto da nulla, rivestendo una propria dignità ontologica (e logica) tale da dover essere rispettata ai fini della salvaguardia del mondo stesso.

La distinzione tra potentia absoluta Dei e potentia ordinata Dei, quest'ultima più affine alla logicità anselmiana, verrà approfondita dal pensiero medievale soltanto a partire dal XIII secolo,13 ma è innegabile che già due secoli prima possa ritrovarsi nelle filosofie dei maggiori teologi cristiani -- del resto l'assoluta potenza divina, seguendo gli insegnamenti della Scrittura, si fece fin dagli esordi del Cristianesimo dottrina del Credo niceno (325).

Pertanto, se nell'XI secolo abbiamo, da un lato, un Anselmo d'Aosta volto a sancire il patto tra Creatore e creature nei termini di un ordine necessario garantito dal patto stesso, disegnandoci un Dio «logico», «attento» alle leggi da lui stesso promulgate (perché tutt'uno con esso); dall'altro, nello stesso periodo -- per la verità qualche anno prima -- , l'irruzione sulla scena del De divina omnipotentia di Pier Damiani, interamente dedicato alla riconferma dell'infinita, incrollabile ed inimmaginabile libertà dell'Essere sommamente perfetto. Per Damiani solo un insano di mente potrebbe imputare una qualche impotenza a Dio: a Dio tutto è possibile (Matteo 19, 26), chi crea mantiene costantemente in sé la possibilità di annullare ciò che sussiste per causa sua, di alterarlo, di far di esso ciò che desidera. E se il principio di non contraddizione, così caro ad Anselmo -- e a tutta quella schiera di teologi che si sentirono in dovere di far i conti con la tradizione filosofica antica accostando l'immagine del loro Dio a quella del Pantocrator greco -- , ha di certo un valore, poiché creato dall'Onnipotente come ogni altra cosa, e riveste un'utilità nell'infimo mondo terreste, non potrà però, in alcun modo, condizionare colui che questo domina:

quei che ha dato origine alla natura, facilmente quando vuole, abolisce la necessità di natura [...], anzi, per così dire, ha fatto la stessa natura in certo modo contro natura: non è forse contro natura che il mondo fosse tratto dal nulla, mentre è detto dagli stessi filosofi che niente si fa dal niente [...]?14

E così alla prima delle due domande a cui Pier Damiani si impegna di dar ragioni con l'epistola De divina omnipotentia, ovvero se Dio possa restaurare la verginità a una donna che l'abbia perduta, egli, fortemente infastidito dall'insolenza di chi può credere a un'assurda impossibilità divina, risponde di sì. Certo, Dio può tutto, e quindi anche donare nuovamente la verginità a una donna. In suo aiuto intervengono la Sacra Scrittura, contenente tutti i miracoli15 compiuti da Dio, e, oltre a questa -- che potrebbe tranquillamente valere di per sé -- quei curiosi eventi sovrannaturali degli irrequieti tempi del vescovo di Ostia, attribuiti, forse con eccessiva superstizione, all'intervento divino.

Ciononostante i soli miracoli non convincono gli interlocutori del Damiani che continuano, con una certa temerarietà, per non dire blasfemia, a non credere che Dio possa rigenerare lo stato originario dell'imene femminile.

Ma le invincibili ragioni della fede16 mantengono Pier Damiani fermamente aggrappato alla sua posizione. Continua a ripetersi: a Dio tutto è possibile; egli ha un solo limite: il male. Dio non può compiere il male, ma ciò non designa impotenze d'alcuna sorta, poiché il male non ha essenza, sembra ma non è. Soltanto il bene ha realtà, esistenza, e soltanto il bene viene ed è compiuto da Dio; anche quando siamo noi a compiere opere buone, in verità, esse son tanto di Dio quanto nostre, poiché egli opera in noi, in quanto dà efficacia al nostro operare.17 Pertanto, quando affermiamo che a Dio tutto è possibile, quel tutto è il bene, perché il male non è niente.

Tutti i mali [...], quali le iniquità e le scelleratezze anche quando sembrano essere, non sono, poiché non provengono da Dio, e perciò non son niente, per la ragione che Dio in nessun modo li ha fatti e «senza di esso niente fu fatto».18

E riportare l'integrità della carne è un bene o un male? Un bene, certo. Dunque Dio è sempre in grado di farlo. Ma non è detto che lo faccia, che lo voglia. I beni sono tanti e, come l'uomo, in seguito alla redenzione del Cristo, non riottenne la sua immortalità originaria per impenetrabile e sommo giudizio di Dio -- il quale ritenne la pena della morte maggior bene per la nostra salute19 -- , nessuna donna recuperò mai la verginità perduta per la stessa identica saggezza. Senza alcun dubbio l'irraggiungibile provvidenza divina ritiene migliore agire in altro modo.20 Ciò significa semplicemente che Dio non vuole, non che non può; e tutto questo in ragione di un giudizio sommamente buono e perfetto sì che resti salva la libertà di quella giustissima volontà e non s'attribuisca un'impotenza [...] alla maestà onnipotente.21

Infine, il vescovo di Ostia ci mostra un ulteriore e decisivo argomento, volto a screditare definitivamente le empie coscienze dei dubbiosi, a favore dell'onnipotenza divina. Infatti, per rispondere alla seconda domanda della sua epistola-trattato -- se Dio possa fare in modo che le cose che sono state compiute non siano state compiute (con diretto riferimento al restauro della verginità) -- entra anche qui in gioco, come per Anselmo, l'eternità. Che sciocca pretesa quella di attribuire a Dio le nostre limitate categorie terrestri! E che sciocco -- come già ricordato -- credere che il Creatore debba sottomettersi alla spicciola logica del mondo come noi lo conosciamo! Ma questo argomento verrà esposto e valutato attentamente nel seguito del presente saggio riguardante passati e futuri contingenti.

Per concludere invece questa prima parte dedicata alla concezione della libertà in Anselmo d'Aosta e Pier Damiani è da notare il curioso disinteresse del secondo per quanto riguarda il libero arbitrio umano in favore d'una dichiarata attenzione per quello divino. È comunque da supporre che il Damiani fosse in qualche modo d'accordo col pensiero anselmiano, ovvero ritenesse l'uomo libero di agire e non impossibilitato dall'eventuale necessità imposta dalla prescienza, e che questa libertà non fosse in alcun modo in contraddizione con quella di Dio. In caso contrario perderebbero di significato meriti e demeriti degli uomini, oltre alla possibilità di redimersi o sprofondare.

Entrambi i pensatori sostengono l'impossibilità di Dio di compiere il male, essendo quest'ultimo, in sintonia con gli insegnamenti agostiniani, privo di realtà positiva, e dunque pura negazione; il male è negazione di ciò che deve essere, ossia della giustizia. Ma quest'impossibilità non vale certo altrettanto per gli uomini; altrimenti perché esisterebbe il male? Dio, secondo il De libertate arbitrii di Anselmo, concede all'uomo il libero arbitrio che -- attenzione -- non è la libertà di peccare e non peccare poiché, se questa fosse la sua definizione, né Dio né gli angeli, che non possono peccare, avrebbero il libero arbitrio,22 ma il potere di serbare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa;23 il male viene dalla medesima volontà dell'uomo (e solo da essa può sgorgare), la quale vuol più fortemente questo che il bene. E Dio non lo impedisce. Dunque, l'uomo può volere ciò che la sua volontà non deve volere, smarrendo così la sua rettitudine senza modo di recuperarla, se non attraverso la grazia.

Quando un uomo abbandona la rettitudine che aveva perché è assalito da una tentazione, non è deviato da una forza estranea, ma è la volontà stessa che si volge a ciò che vuole con più forza.24

In definitiva, Dio, benché ad ogni istante abbia il potere d'evitare che la volontà umana voglia il male, nella sua infinita saggezza, non lo impedisce. La dottrina anselmiana va accettata così. Potremmo dire, forse con un po' d'azzardo, che il libero arbitrio, in quanto potere di serbare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa è comune a uomo e Dio, mentre la possibilità del male, negazione della rettitudine, della bontà e della giustizia, è nelle mani esclusive dell'uomo: questi possiede, paradossalmente, una possibilità che Dio non può raggiungere, essendo il male il nulla -- ma come se Dio non avesse creato il mondo dal nulla!

Nonostante i tentativi anselmiani di negare lo statuto di possibilità del male, oltre a quello di realtà positiva -- anch'esso discutibile -- , quella del male, su questa terra, resta una possibilità sempre realizzabile in virtù dell'imperfetta natura umana.

L'utilizzo della distinzione tra potentia absoluta Dei e potentia ordinata Dei diventò d'uso comune solo a partire dal XIII secolo -- come accennato più sopra -- grazie a personalità quali Ugo di Saint Chér, Alessandro di Hales e Pietro Lombardo. Prima di passare oltre e continuare con l'analisi dei Nostri teologi è bene ricordare come l'apparente attrito tra le due concezioni del potere divino, che preoccupa da sempre le intelligenze medievali (Anselmo e Damiani compresi), portò nel corso del XIII secolo a un ridimensionamento del problema impegnato a neutralizzar ogni contraddizione: potentia absoluta e potentia ordinata non sono due poteri distinti ma due modi di parlare della potenza divina. Uno non esclude l'altro, e lungi da entrambi attribuire impotenze al Creatore. La prima racchiude le infinite e imperscrutabili vie che Dio ha la possibilità di attuare, la seconda, invece, quelle in atto o attuate; l'una ha quindi a che fare col piano prettamente logico e potenziale, l'altra con quello reale. Dio può scegliere di agire in infiniti modi, ma ne eleggerà solo alcuni: quelli che andranno a costituire l'ordine delle cose. Se da una parte si salva la libertà puramente logica dall'altra si mantiene la contingenza e la stabilità di un mondo creato per libera scelta divina.25 Così si tenderà a conciliare -- su questa linea troviamo Alberto Magno e Bonaventura -- bontà, sapienza e giustizia divine con l'ordine del mondo, con le leggi naturali liberamente istituite da Dio. Ovviamente -- risulta quasi superfluo ricordarlo -- non tutti i pensatori appoggiarono questa soluzione (vedi Tommaso d'Aquino); essa rimane una proposta destinata ad esser accolta o confutata all'interno del sempre vivo dibattito.

La dialettica potentia absoluta / potentia ordinata rappresenta la prosecuzione storica di quella problematica già abbozzata dai filosofi qui presi in esame e dai loro predecessori. Se Pier Damiani si concentra sulla confutazione di un'eventuale impotenza divina, Anselmo vuole dimostrare come sia privo di senso immaginare un Creatore che vada contro l'ordine da lui stesso creato. In entrambi i casi la soluzione, sebbene esposta con differenti modalità, ha luogo nell'onnipotenza divina.

3. Il problema della contingenza nella temporalità

Tornando alla seconda delle due domande a cui Damiani ritiene d'aver dato inoppugnabili ragioni con il De divina omnipotentia -- se Dio possa fare in modo che le cose che sono state compiute non siano state compiute -- l'argomento più efficace adottato dal vescovo di Ostia è certamente quello dell'eternità divina, impenetrabile dal misero intelletto umano:

Dio onnipotente racchiude tutti i secoli nel tesoro della sua eterna sapienza, per modo che niente può aggiungersi ad esso e niente può sottrarsi a lui nel corso dei tempi. [...] egli contempla tutte le cose con un solo e semplice sguardo, [è] uno e identico, semplice e uguale dovunque.26

Pacifico anche per Damiani, alla luce di tali affermazioni, il dover infine arrendersi e ammettere che ciò che noi chiamiamo passato presente e futuro non ha alcun valore per la sfera del divino, la quale domina il movimento del mondo in un hodie sempiternum,27 abbracciando ogni tempo e spazio, conoscendo tutte le cose in uno stesso e unico «sguardo» che contraddistingue la sua somma perfezione. Dunque anche dall'analisi degli argomenti del Damiani -- come si è già visto per Anselmo -- risulta improprio parlare di una prescienza divina: bisognerebbe bensì riferirsi ad una conoscenza eterna e perfetta di ogni tempo, quest'ultimo creato da Dio stesso, il che non implica affatto un'influenza del primo sul secondo; anzi, le parti risultano esattamente invertite.

Quindi, che senso avrebbe disputare sulla questione 'Dio può o non può «tornare indietro nel tempo» per far si che un avvenimento accaduto non sia accaduto? ' quando nel suo stato eterno sarebbe costantemente in grado di mutare qualsiasi cosa egli voglia -- passata o futura che sia? Il fatto è che se Dio volesse davvero mutare il nostro passato nemmeno potremmo accorgercene, poiché sarebbe come se l'intera nostra esistenza venisse istantaneamente ridimensionata dalla maestosa potenza del Creatore -- che tutto può su creature e creato -- , in modo tale da ritrovarci in un mondo perfettamente armonizzato alle nostre coscienze, come se nulla fosse stato.

Se pertanto Dio può in tutto e per tutto quel che poteva da principio, e prima di creare le cose poteva far sì che quelle cose che ora sono non fossero in alcun modo, può di conseguenza far sì che non siano avvenute le cose che sono avvenute.28

Ma ancor più grave sarebbe nutrire dubbi sull'infinita bontà e rettitudine dell'agire di Dio: che un accadimento sia sì grave da meritare un'«intrusione» -- un miracolo -- appare agli occhi di Pier Damiani quasi come riconoscimento di una sorta d'impotenza divina, un difetto nel dominare il corso del tempo; pertanto illazione inaccettabile. Il permettere agli uomini un'azione, già conosciuta dalla saggezza divina, per poi intervenire all'interno del tempo «cancellando» questa stessa azione, intervento anch'esso già conosciuto dall'onniscienza eterna, non potrebbe che dimostrarsi un tentativo maldestro e insensato da parte di un Essere che non ha alcun bisogno di dimostrazioni di potenza, le quali invece di rinsaldare negli animi umani il sentimento della perfezione, accrescono, al contrario, la convinzione che anche Dio stesso sia soggetto alle nostre categorie temporali, sebbene in grado di infrangerle.

Pier Damiani persevera nel suo monito attraverso le parole di Salomone, riuscendo così, in un breve inciso, a sintetizzare l'intera argomentazione: non indagherai cose maggiori di te, e non scruterai quelle che di te son più alte.29

In definitiva né passato né futuro, custoditi dall'eterno giudizio divino, potrebbero mai esser diversi da quello che sono: tutto è stato com'è stato e sarà come sarà per somma ed ineffabile saggezza; non che questo -- come si è avuto modo di evidenziare trattando del libero arbitrio umano -- costringa ad ammettere implicitamente una necessitas praecedens, bensì delinea semplicemente l'onniscienza di Dio riguardante ogni avvenimento di questo mondo, compresa la nostra libera volontà. Tuttavia Pier Damiani non è preciso a riguardo e nel De divina omnipotentia non assume con altrettanta accuratezza anselmiana posizioni sul libero arbitrio umano legato all'onniscienza; ma stando al presupposto ipotizzato precedentemente, ovvero che anche Damiani possa coerentemente esser avvicinato alle tesi di Anselmo -- considerando l'estrema importanza che meriti e demeriti acquisiti liberamente hanno per la saldezza dell'impalcatura della dottrina cristiana -- , possiamo rintracciare nel vescovo di Ostia la medesima distinzione delineata da Anselmo tra i due diversi tipi di necessità. Infatti, come ben si accorge Holopainen:

Damian [...] has in mind a distinction between two kind of necessity that comes close to Anselm's distinction between preceding and subsequent necessity. There is a kind of necessity that is capable of restricting the freedom of agents and which can serve as a basis of ascribing impotence to them. [...] On the other hand there is a kind of necessity which follows from any true statement, and this necessity is quite harmless, as the fact there are genuinely contingent future events [...] shows.30

Ecco perché sono possibili «genuini futuri contingenti»: la necessità legata strutturalmente all'esistenza di un fatto non è da confondersi con la necessità creata originariamente da Dio e risedente solo ed esclusivamente nelle sue mani. L'eternità divina costringe entrambi i teologi ad affermare, dissolvendo ogni contraddizione logica, che Dio conosce necessariamente la contingenza del nostro futuro (e di conseguenza anche del nostro passato quando ancora non era passato). Per il vescovo di Ostia ciò implica la possibilità di Dio di smentire ad ogni istante l'ordine da lui stesso istituito (la natura stessa delle cose consiste nella volontà di Dio) senza eliminare lo statuto ontologico del contingente31 che caratterizza il nostro vivere. In altre parole: l'onnipotenza divina non è messa in discussione, come non lo è l'ordine promulgato dal Creatore in potenziale costante ridimensionamento (quei che ha dato origine alla natura, facilmente quando vuole, abolisce la necessità di natura);32 tuttavia l'uomo resta libero di agire perché così previsto.

Per Anselmo, invece, la «necessità della contingenza» non conduce ad un'apologia dell'onnipotenza divina, bensì al semplice scioglimento di quella contraddizione che voleva l'impossibilità di coesistenza tra libero arbitrio e prescienza; pertanto anche l'arcivescovo di Canterbury va a sancire la reale possibilità della contingenza. Ciononostante lungi da Anselmo immaginar l'incombente possibilità di un cambiamento dell'ordine naturale in ragione «delle infinite vie del Signore», anzi, quest'ammissione potrebbe al contrario trascinare ad un'ulteriore empietà del pensiero: la volontà non perfettamente retta di Dio. Per Anselmo l'ordine perfetto emanato da Dio con la Creazione non può in nessun modo mutare proprio a causa della sua perfezione, dell'irraggiungibile bontà e rettitudine della volontà divina, la quale, come affermato anche dal Damiani, fa tutt'uno con la natura stessa. E dunque perché l'ordine naturale, che è la volontà del Creatore, dovrebbe improvvisamente spezzare la sua necessità per non voler più ciò che ha voluto in passato? L'arcivescovo di Canterbury non ha dubbi a riguardo: non è possibile. Naturalmente nemmeno Pier Damiani -- come già notato -- vuol proporre un Dio «indeciso» o che «ci ripensa», soltanto non può azzardarsi ad escludere nessuna delle infinite possibilità racchiuse nella Volontà onnipotente. Ciò significherebbe mancanza di fede e sottomissione dell'idea di Dio alla logica degli umani.

4. La potenza della logica

Già si sarà intesa la differente portata che il ruolo della logica assume nel pensiero dei due teologi: determinate e fondativo in Anselmo, importante ma limitato in Pier Damiani. L'incrollabile fiducia di Anselmo in una ragione umana capace di un'adamantina conciliazione con la verità della fede, senza tuttavia pretendere di penetrare il pensiero divino, conduce il teologo verso una speculazione filosofica, a partire dalla celebre formulazione dell'argomento ontologico33 sull'esistenza di Dio, incentrata sulla pura dialettica. Come ci fa notare Mario Dal Pra, in Anselmo

il senso della fede parrebbe potersi quasi risolvere nel rigore del procedimento logico e quest'ultimo parrebbe quasi capace di esaurire la portata essenziale della fede.34

La struttura logica è l'unico modo per procedere nella verità, l'unico che davvero si adegui all'intimità dell'essere e che possa esprimerlo. Per mezzo del pensiero rigorosamente logico l'uomo è in grado di conseguire il piano della realtà35: il discorso, lungi dal possedere un'autonomia (che sfocerebbe in esecrabili concezioni nominalistiche), è intrinsecamente allacciato al pensiero e, di conseguenza, all'essere.

Ammettendo comunque una realtà delle voces (delle parole stesse), benché assolutamente secondaria, Anselmo distingue questa dalla realtà primaria che lega indissolubilmente la vox alla res: l'importanza della parola è ciò che essa significa, ciò che indica, non la sua realtà esteriore. Per cui la realtà della parola «Deus», sia considerata come parlata che come scritta, è secondaria rispetto alla realtà stessa di Dio, considerato in quanto concetto presente alla mente.36 Dunque possiamo distinguere una cogitatio vocum da una cogitatio rerum, conferendo soltanto alla seconda lo statuto di rationis locutio.

Per giungere alla verità col pensiero, attraverso il discorso, è sufficiente quindi che quest'ultimo segua attentamente le regole della logica preservando così la sua adeguatezza all'essere. L'enunciazione è vera soltanto quando tale concordanza viene mantenuta: se dunque la proposizione ha da tener conto dell'ordinamento obiettivo dell'essere, è ovvio che essa deve rispondere allo scopo per cui fu fatta, e pertanto deve significare l'essere così com'è.37 Solo in questo modo la verità dell'enunciazione potrà coincidere con la sua rectitudo, ovvero l'effettiva congruenza di vox e res, l'una indicante l'altra, e questa ragion d'essere della prima.

Il fatto che esistano anche proposizioni false, che significano come reale ciò che invece non lo è, mettendo in dubbio la rettitudine dell'enunciazione così come è stata descritta da Anselmo, si risolve facendo un ulteriore distinguo: una cosa è la rectitudo della proposizione in genere e un'altra la rectitudo della proposizione vera. Nel primo caso la proposizione svolge la sua funzione di significare, affermando o negando, e la rectitudo consiste appunto nell'adempiere a questo suo compito intrinseco; nel secondo, nella proposizione vera, essa fa, per così dire, due volte quello che deve, ossia risponde alla sua funzione intrinseca della proposizione in genere, sia alla specifica funzione della proposizione vera. È pienamente «recta» e pertanto vera soltanto la proposizione che assolve non solo la funzione del significare, ma quella del significare l'essere com'è.38 Anche qui si può parlare dunque di libero arbitrio: è infatti il libero modo con cui la proposizione viene utilizzata che la rende vera o falsa, adeguata o meno all'essere. Per Anselmo la verità dell'essere non ci è proscritta, anzi è perfettamente visibile, ma sta all'uomo e alla sua libertà scegliere se aderire al corretto ragionare oppure no. Ovviamente il criterio primo di questa verità è Dio medesimo, il quale crea e sorregge, in quanto essenza delle cose che sono,39 ogni angolo di mondo in ogni tempo e spazio.

È stato mostrato in sintesi come la logica, il momento raziocinante, sia prevalente nella filosofia anselmiana, arrivando addirittura a trasformare il credo ut intelligam nel suo paradossale contrario «conoscere per credere». La fede deve dunque essere sorretta dalla ragione, qualità ritenuta squisitamente umana a partire da Socrate, unico mezzo atto a conciliare l'animo umano alla somma sapienza divina. Dio ha conferito all'uomo dignità logica per mitigare quell'insanabile distanza che corre tra creatura e Creatore.

Diversa invece si pone la questione nel pensiero di Pier Damiani: non tanto l'utilizzo di armatos dialecticorum syllogismos irrita la fede del vescovo di Ostia, anch'egli come ogni uomo costretto al pensiero logico, quanto la confusione che gli uomini mettono in scena mischiando umano e divino. Gli uomini, ridicolmente convinti che al di fuori della razionalità umana nulla possa sussistere, interpretano azioni e giudizi di Dio come fossero compiuti da qualsiasi essere vivente, in termini di causa-effetto, di non contraddizione, in altre parole, logici. Ma la logica e le categorie umane sono per l'appunto appannaggio umano e così devono restare; le dinamiche divine non possono essere a noi pienamente comprensibili, pena il blasfemo riconoscimento della capacità umana di scrutare il sommo disegno. Nell'introduzione alla traduzione italiana del De divina omnipotentia il curatore Paolo Brezzi scrive:

a giudizio del Damiani le due discipline, quella umana e quella divina, parlavano due linguaggi diversi ed era impossibile ridurre in termini di logica razionale il libero esplicarsi della volontà onnipotente di Dio.40

E nello stesso testo del Damiani possiamo leggere:

le regole che si son trovate per formare dei sillogismi e trar conclusioni dai nostri giudizi, si guardin bene costoro [i dialettici] dal farle valere pertinacemente contro le leggi divine e dall'opporre alla divina virtù la necessità dei loro ragionamenti.41

È per questo che alcuni uomini commettono un peccato molto grave, sfiorano la bestemmia. Il loro compito dovrebbe essere invece quello di credere, pregare, preservarsi nella semplicità e nella purezza rifacendosi esclusivamente alla Scrittura e non portando a vuote e sterili conclusioni l'arte dialettica, preziosa in tutt'altre questioni. Contemplare e non indagare futilmente, lasciar trionfare la fede e lo spirito.

La differenza più palpabile tra le filosofie dei due teologi è proprio la necessaria e ovvia adeguatezza del pensiero all'essere presupposta e raggiunta da Anselmo42 che si capovolge in un'inconciliabile frattura in Pier Damiani: il pensiero logico non raggiungerà mai l'essenza della realtà restando inchiodato alla realtà del discorso.

Se in siffatto modo d'argomentare s'ammette per vero quel che suonan le parole, si verrebbe a provare che in qualsiasi momento la divina virtù è impotente. [...] Siffatta questione, dunque, [...] non trova posto nei misteri della chiesa.43

Ecclesiae sacramentis: queste le fonti del Damiani; queste e la Sacra Scrittura, unica in grado di mantenere l'uomo nella rettitudine a lui richiesta.

Per questo, oltre all'inimmaginabile sapienza di Dio, anche la stessa realtà dell'essere, quella a noi visibile, non può essere scorta nelle sue profondità dal limitato pensiero umano. La critica radicale del vescovo di Ostia arriva addirittura a non riconoscere

un ordinamento unitario e stabile della natura e quindi [a] non crede [re] che vi possano essere neppure delle scienze che ne studino il comportamento e ne fissino le leggi; [...] la volontà divina impera con assoluta libertà e stabilisce, di volta in volta, ciò che le pare.44

È per tal motivo che Dio può ad ogni istante, se solo volesse, ripristinare la verginità a una donna che l'abbia perduta. Non bisogna dimenticare, però, che oltre alla non valenza nel campo divino del principio di non contraddizione, e quindi della logica, nemmeno le categorie terrene avrebbero un senso se associate alla dimensione eterna dell'Onnipotente, l'hodiernum tuum.

In ultima analisi, secondo Pier Damiani, l'azione divina ci è totalmente proscritta, non però il suo benefico effetto nello spirito umano, in grado, attraverso la fede, di ascoltare i passi silenziosi di Dio. Discutere sull'indiscutibile onnipotenza di Dio è un affronto sì insostenibile e assurdo da far desiderare al pacioso Damiani solo sputi in faccia a chi ancora ne disputa; l'incredulo non è degno di alcuna risposta, meriterebbe piuttosto d'esser curato col cauterio.45

5. Conclusioni

Lo scarso potere attribuito da Pier Damiani alle verità logiche in argomenti teologici, in opposizione all'importanza che ne dà Anselmo, non deve indurre a considerare questi due pensatori agli antipodi della riflessione filosofica medievale dell'XI secolo. Come si è accennato nell'Introduzione non è corretto incasellare i pensieri all'interno di uno spirito della storia logico e rivelatore. Le questioni nascono in un tempo e poi si intrecciano continuamente, risorgendo o assopendosi, senza possibilità di controllo da parte degli uomini che le pensano. Vi sono semplicemente pluralità metodologiche e teoretiche che si scontrano producendo differenti punti di vista, i quali non si esauriscono mai definitivamente in un'epoca piuttosto che in un'altra.

Per questo motivo il presente studio si è proposto il rifiuto di generiche contrapposizioni -- ad esempio quella di dialettici e antidialettici -- senza però rischiar di cadere nella tentazione di proporre una continuità, che risulterebbe instabile, tra due pensatori distinti.

Concludiamo però riconoscendo la fondamentale concordanza tra Anselmo e Damiani sulle differenti temporalità -- se così possono chiamarsi -- di Dio e uomo, l'uno eterno e atemporale, l'altro transeunte e soggetto allo scorrere irreversibile del tempo, che colloca i due filosofi in quella tradizione cattolica (d'ascendenza agostiniana) che riconosce lo statuto ontologico della libertà dell'agire umano, concesso alle creature dall'infinito amore del Creatore, in totale accordo con la prescienza -- ora sappiamo esser più corretto onniscienza -- divina. L'onniscienza di Dio negli avvenimenti terreni, la Provvidenza, non è mai messa in discussione né dall'uno né dall'altro pensatore e la loro attenzione è sempre focalizzata sulla necessità della rettitudine della coscienza e dell'esercizio delle virtù cristiane proprio in forza della libertà umana di aderire al bene, l'essere, o al male, il nulla. La via per la salvezza è ovviamente il bene che conduce alla pienezza dell'essere in una ricongiunzione con il Padre -- se non in questa vita nella prossima -- , mentre il male, al contrario, trascina gli uomini in una condizione di disintegrazione dell'identità stessa, in un annullamento del proprio essere allontanatosi volontariamente dalla luce generatrice.46 Dio sa tutto: sa che compiremo azioni probe o reprobe in una piena libertà non condizionata da forze esterne, sa se saremo dannati o accolti in cielo -- ed è necessario che lo sappia perché è Dio!

Anche se Anselmo, quel giorno, se fosse stato invitato nell'abazia di Montecassino al posto di Pier Damiani, avrebbe potuto concordare con l'abate Desiderio sul giudizio di S. Gerolamo che neppure Dio può ridare ad una donna il fiore della verginità quando lo ha perduto,47 non significa che egli non ritenesse onnipotente il suo Dio, bensì semplicemente che una volta conferito un ordine al creato, dettato da un giudizio sì imperscrutabile e infinitamente buono, non avrebbe senso infrangerlo. E questo vale soprattutto per chi quest'ordine lo ha sancito, per chi è tutt'uno con esso.

Ma quel giorno l'invitato speciale all'abazia non era Anselmo, ma Damiani. Quest'ultimo continuerà nei secoli dei secoli a ribellarsi, e senza voler mancare di rispetto a S. Gerolamo -- pur ritenendolo pazzo in segreto -- , prenderà il «senso» di cui parla Anselmo per gettarlo al vento. Chi decide se qualcosa ha senso o no per l'Essere perfetto? Di certo non un arcivescovo.

Uomo di elegante raziocinio Pier Damiani è consapevole dell'improbabilità che Dio possa manifestarsi a noi per ripristinare la verginità a una donna, ma il semplice fatto che ciò non accada non è sintomo della sua impotenza a riguardo. Ispirato dalla Parola del Creatore, Matteo scrisse: a Dio tutto è possibile, e questo dovrebbe bastare per far arrossire il più giovane Anselmo. E i miracoli narrati dalla Scrittura, allora, cosa sarebbero se non un chiaro esempio della possibilità di Dio di scompaginare il corso delle cose? L'Onnipotente non interviene per «cancellare» un accadimento avvenuto -- per quanto spiacevole sia -- non perché la logica non lo permetta, ma perché è così che deve andare, perché così ha deciso l'insindacabile giudizio dell'Essere che tutto accoglie nel suo smisurato Intelletto. Ogni uomo sano di mente, a detta del Damiani, non potrebbe mai mettere in discussione un fatto del genere. Ed ecco come per il vescovo di Ostia la ragione si trasforma nell'irrazionalità più becera, in questo caso così prossima alla superbia, capostipite dei vizi capitali.

Ma a risolvere tutto entra in gioco l'eternità di Dio che niente ha a che vedere con le nostre categorie temporali, per cui anche se il Sommo volesse cambiare qualcosa del suo progetto, noi, sprofondati in questo covo senescente, neppure saremmo in grado di accorgercene.

Pier Damiani avrebbe tranquillamente tacciato Anselmo di blasfemia se solo se lo fosse trovato di fronte durante il pranzo a Montecassino; ma ci piace immaginare che alla fine della giornata si sarebbe ricreduto, scorgendo in lui e nel suo acume un riflesso dell'Intelletto divino, riuscendo così, forse, a contemplare per un momento la bellezza dell'errore umano.

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Note

  1. Nel capitolo XX dell'Apocalisse, si legge dell'angelo che, disceso dal cielo con la chiave dell'abisso, afferra il drago, simbolo di Satana, e l'incatena per mille anni. Era dunque inevitabile che un riferimento numerologico così evidente, presente nelle Scritture, suscitasse la convinzione che il numero mille portasse con sé il pericolo di un rivolgimento cosmico. L'anno Mille e, ovviamente, il 1033, millenario della passione di Cristo, appare a molti la spiegazione di fenomeni di decadimento e rovina. A. Bisogno, Le «ultime cose», in Luoghi e voci del pensiero medievale, a cura di M. Fumagalli Beonio Brocchieri e R. Fedriga, EncycloMedia, Milano, 2010, p. 52. Testo

  2. Anselmo d'Aosta, De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae dei cum libero arbitrio (1108); tr. it. di S. Vanni Rovighi, testo rivisto da P.B. Rossi, La concordia della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio col libero arbitrio, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 222. Videntur quidem praescientia dei et liberum arbitrium repugnare, quoniam ea quae deus praescit, necesse est esse futura, et quae per liberum arbitrium fiunt, nulla necessitate proveniunt. Sed si repugnant, impossibile est simul et esse praescientiam dei quae omnia praevidet, et aliquid fieri per libertatem arbitrii. S. Anselmi, De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae dei cum libero arbitrio, in Opera Omnia, Tom. I Vol. I, a cura di Franciscus Salesius Schmitt, Friedrich Frommann Verlag (Günther Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt, 1968, pp. 245-246. Testo

  3. Anselmo d'Aosta, De concordia, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, pp. 222-223. Sed si aliquid est futurum sine necessitate, hoc ipsum praescit deus, qui praescit omnia futura. Quod autem praescit deus, necessitate futurum est, sicut praescitur. Necesse est igitur aliquid esse futurum sine necessitate. [...] quoniam et necesse est quod deus praescit futurum esse, et deus praescit aliquid esse futurum sine omni necessitate. S. Anselmi, De concordia, in Opera Omnia, Tom. I Vol. I, a cura di F. Schmitt, 1968, p. 246. Testo

  4. Anselmo d'Aosta, De concordia, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, p. 224. Non enim aliud significat haec necessitas, nisi quia quod erit non poterit simul non esse. S. Anselmi, De concordia, in Opera Omnia, Tom. I Vol. I, a cura di F. Schmitt, 1968, p. 249. Testo

  5. Anselmo d'Aosta, De concordia, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, p. 224. Hic sequitur necessitas rei positionem, non praecedit S. Anselmi, De concordia, in Opera Omnia, Tom. I Vol. I, a cura di F. Schmitt, 1968, p. 249. Testo

  6. Anselmo d'Aosta, De concordia, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, p. 226. quamvis omnia futura praesciat, non tamen praescit cuncta futura necessitate, sed quaedam praescit futura ex libera rationalis creaturae voluntate. S. Anselmi, De concordia, in Opera Omnia, Tom. I Vol. I, a cura di F. Schmitt, 1968, pp. 250-251. Testo

  7. Anselmo d'Aosta, De concordia, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, p. 229. Quidquid de iis quae libero fiunt arbitrio, velut necessarium sacra scriptura pronuntiat: secundum aeternitatem loquitur, in qua praesens est omne verum et non nisi verum immutabiliter; non secundum tempus, in quo non semper sunt voluntates et actiones nostrae. S. Anselmi, De concordia, in Opera Omnia, Tom. I Vol. I, a cura di F. Schmitt, 1968, pp. 254-255. Testo

  8. Anselmo d'Aosta, De concordia, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, p. 229. Propter indigentiam verbi significantis aeternam praesentiam usum esse verbis praeteritae significationis; quoniam quae tempore praeterita sunt, ad similitudinem aeterni praesentis omnino immutabilia sunt. S. Anselmi, De concordia, in Opera Omnia, Tom. I Vol. I, a cura di F. Schmitt, 1968, p. 254. Testo

  9. Anselmo d'Aosta, De concordia, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, p. 230. Nam hoc ipsum est ibi aeternaliter, quia temporaliter aliquid et est, et antequam sit potest non esse. S. Anselmi, De concordia, in Opera Omnia, Tom. I Vol. I, a cura di F. Schmitt, 1968, p. 255. Testo

  10. Anselmo d'Aosta, De concordia, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, p. 230. [...] Praescientia dei et liberum arbitrium nequaquam invicem repugnant. Quod facit vis aeternitatis, quae claudit omne tempus et quae sunt in quolibet tempore. S. Anselmi, De concordia, in Opera Omnia, Tom. I Vol. I, a cura di F. Schmitt, 1968, p. 255. Testo

  11. S. Boezio, Consolatio Philosophiae (525 d. C.), tr. it. La Consolazione della Filosofia, BUR, Milano, 2010; p. 363. Haec igitur etiam praecognita liberos habent eventus. Ivi, p. 362. Testo

  12. Anselmo d'Aosta, De libertate arbitrii (1085), tr. it. a cura di S. Vanni Rovighi, testo rivisto da P.B. Rossi, La libertà di arbitrio, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 165. Potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem. S. Anselmi, De libertate arbitrii, in Opera Omnia, Tom. I Vol. II, a cura di Franciscus Salesius Schmitt, Friedrich Frommann Verlag (Günther Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt, 1968, p. 212. Testo

  13. Con Ugo di Saint Chér, Alessando di Hales e Pietro Lombardo (cfr. R. Fedriga, Onnipotenza divina e mondi possibili, in Luoghi e voci del pensiero medievale, a cura di M. Fumagalli Beonio Brocchieri e R. Fedriga, EncycloMedia, Milano, 2010, p.182). Testo

  14. Pier Damiani, De divina omnipotentia e altri opuscoli (1067); tr. it. di B. Nardi, introduzione e note a cura di P. Brezzi, Vallecchi, Firenze, 1943, pp. 119, 121. Qui enim naturae dedit originem, facile, cum vult, naturae tollit necessitatem [...], immo ipsam naturam, ut ita dixerim, qodammodo contra natura fecit: numquid enim contra naturam non est mundum ex nihilo fieri, unde et a philosophis dicitur quia ex nihilo nihil fit [...]? Ivi, pp. 118, 120. Testo

  15. Certo è cosa assai più mirabile e di ben maggiore eccellenza che una vergine resti inviolata dopo aver partorito, di quel che non sia il recupero del verginale pudore da parte di una donna caduta, dopo la sua caduta [...]. Dunque se il nostro redentore, nascendo da una vergine, fece cosa che è più grande e di gran lunga più eccellente, non potrà ridonare la verginità a una fanciulla violata, che è cosa da meno? Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 115. [...] Certe mirabilius est et valde praecellentius virginem incorruptam manere post partum quam corruptam ad virginale decus redire post lapsus [...]. Si ergo natus ex virgine Redemptor noster, quod maius est et longe praestantius fecit, quod minus est, corruptam quamlibet reintegrare, non poterit? Ivi, p. 114. Testo

  16. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 71. Invicta fidei ratione. Ivi, p. 70. Testo

  17. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 105. Opera quippe bona et Dei sunt et nostra, quotiamo ille operatur in nobis, qui effectum tribuit operandi. Ivi, p. 104. Testo

  18. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, cit., p. 105. Mala [...] qualibet, sicut sunt iniquitates et scelera, etiam cum videntur esse, non sunt, quia a Deo non sunt, ac propterea nihil sunt, quia videlicet Deus omnino non fecit, «sine quo factum est nihil». Ivi, p. 104. Testo

  19. Cfr. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, pp. 64, 65. Testo

  20. È un male che dopo uno stupro una vergine resti violata; un bene invece sarebbe se Dio restaurasse in essa il suggello della verginità, ma sebbene Dio non lo faccia, sia per atterrire quella fanciulla a stare in timore di non perdere ciò che dopo non si può ricuperare; sia per giusta equità. Si che quello che fu gettato per un piacere carnale, come cosa di nessun conto, non possa riacquistarsi neppure col duolo del pentimento; sia almeno allo scopo che, quando avverte restarle i segni della sua caduta, persista senza tregua in cercare più energico rimedio alla sua sciagura; sia dunque per queste o per altre ragioni della superna provvidenza, che una vergine violata non ritorni nella sua integrità primitiva, non pertanto è consentito di affermare che Dio onnipotente non possa farlo, ma piuttosto che egli non vuol farlo. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, pp. 65, 67. [...] Malum est post stuprum virginem esse corruptam; bonum autem esset si virginitatis in ea Deus signaculum reformaret; sed licet hoc Deus nullatenus faciat, sive ut virginem terreat quatenus vereatur amittere quod post modum nequeat reparare, sive dictante aequitate iustitiae ut quod tamquam vile quid per carnis blandimenta proiecit, id instaurare etiam per poenitentiae lamenta non possit, sive certe ut, dum in se ruinae suae signa superesse considerat, acrioribus afflictionis suae remediis indesinenter insistat, sive igitur his sive aliis supernae providentiae causis ad integritatem pristinam violata virgo non redeat, nequaquam tamen omnipotens Deus dicendus est hoc non posse sed potius nolle. Ivi, pp. 64, 66. Testo

  21. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 66. [...] ut servetur arbitrium aequissimae voluntati, non adscribatur omnipotenti [...] impotentia maiestati Ivi, p. 67. Testo

  22. Anselmo d'Aosta, De libertate arbitrii, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, p. 160. Quippe si haec eius esset definitio; nec deus nec angeli qui peccare nequeunt liberum haberent arbitrium. S. Anselmi, De libertate arbitrii, in Opera Omnia, Tom. I Vol. II, a cura di F. Schmitt, 1968, p. 207. Testo

  23. Cfr. nota 10. Testo

  24. Anselmo d'Aosta, De libertate arbitrii, in Opere filosofiche, Laterza, 2008, p. 172. [...] Cum homo habitam rectitudinem voluntatis aliqua ingruente deserit tentatione, nulla vi aliena abstrahitur, sed ipsa convertit ad id quod fortius vult. S. Anselmi, De libertate arbitrii, in Opera Omnia, Tom. I Vol. II, a cura di F. Schmitt, 1968, p. 220. Testo

  25. R. Fedriga, Onnipotenza divina e mondi possibili , in Luoghi e voci del pensiero medievale, a cura di M. Fumagalli Beonio Brocchieri e R. Fedriga, EncycloMedia, Milano, 2010, p. 182. Testo

  26. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, pp. 83, 87. «[...] Deum omnipotentem sic omnia saecula in aeternae sapientiae suae thesauro concludere ut nec ad se quid accedere, nec a se quicquam per temporum valeat momenta transire. [...] sic omnia, [...], uno ac simplici contemplatur intuitu. [...] Unus idemque simplex et aequalis ubique [est].» Ivi, pp. 82, 86. Testo

  27. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 94. «Sempiterno oggi» Ivi, p. 95. Testo

  28. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 151. Si ergo per omnia semper potest Deus quicquid ab initio potuit, potuit ante rerum conditionem ut quae nunc facta sunt nullatenus fierent, potest igitur facta minime fuissent. Ivi, p. 150. Testo

  29. (Eccl. III, 22); Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 73. Maiora te ne quaesieris et altiora ne scrutatus fueris. Ivi, p. 72. Testo

  30. T.J. Holopainen, Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters, tr. ing. Dialectic & Theology in the Eleventh Century, E.J. Brill, Leiden, New York, Köln, 1996, p. 30. Damiani ha in mente una distinzione tra due tipi di necessità che si avvicina a quella di Anselmo tra necessitas praecedens e necessitas sequens. C'è un tipo di necessità che è capace di limitare la libertà degli agenti [gli uomini] e dimostra così la loro impotenza. Dall'altro lato c'è un tipo di necessità che segue da qualsiasi affermazione vera, ma questa necessità è del tutto innocua come mostra l'esistenza di genuini futuri contingenti. (Traduzione mia). Testo

  31. M. Rossini, Il gaucho e la vergine, in Doctor virtualis (www.doctorvirtualis.org), p. 8. Testo

  32. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 119. [...] qui enim naturae dedit originem, facile, cum vult, naturae tollit necessitatem. Ivi, p. 118. Testo

  33. Anselmo nel Proslogion (1077) dimostra l'esistenza di Dio partendo dalla capacità umana di pensare quel qualcosa di cui niente può esser maggiore (id quo maius cogitari nequit). Negare l'esistenza reale del 'massimo pensabile' risulta contraddittorio: se non esiste realmente significa che possiamo raffigurarci questo stesso pensiero con in più la perfezione dell'esistenza, cosa impossibile visto che non si può pensare niente di maggiore al 'massimo pensabile'. Per Anselmo il concetto 'massimo pensabile' supera per definizione il pensabile implicando necessariamente un più reale. Dunque, logicamente, è necessario ammettere l'esistenza dell'Essere del quale non si può pensare nulla di maggiore, per far sì che realmente sia il maggiore. [...] se l'insipiens non si ostina a porsi dal punto di vista della «cogitatio vocum», ed accetta invece il piano normale della considerazione delle cose, dovrà accettare la conclusione, razionalmente rigorosa, dell'esistenza di Dio. [...] Anselmo ammette che corre una seria differenza fra l'intendere con l'intelligenza ciò che viene udito e il comprendere che senz'altro ciò che si ode e che si comprende esiste realmente. M. Dal Pra, Logica e realtà. Momenti del pensiero medievale, Laterza, Roma-Bari, 1974, p. 32. Testo

  34. Ivi, p. 6. Testo

  35. Ibidem. Testo

  36. Ivi, p. 8. Testo

  37. Ivi, p. 23. Testo

  38. Ivi, p. 24. Testo

  39. Ivi, p. 26. Testo

  40. P. Brezzi, Introduzione, in De divina omnipotentia e altri opuscoli, Vallecchi, Firenze, 1943, p. 26. Testo

  41. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 79. Quae ad hoc inventa sunt ut in syllogismorum instrumenta proficiant, vel clausulas dictionum, absit ut sacris legibus pertinaciter inferant et divinae virtuti conclusionis suae necessitates opponant. Ivi, p. 78. Testo

  42. Non che Anselmo ritenesse la logica come limitazione dell'onnipotenza di Dio, né tantomeno come lo «smascheramento» dei piani divini o dei segreti dell'essere, ma semplicemente capacità umana di vedere le cose come stanno, di conciliare ragione e fede nell'ordine logico concessoci. Testo

  43. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, pp. 81-83. [...] Si argumentationibus istis, ut sese ordo verborum habet, fides adhibetur, divina virtus in temporum quibusque momentis impotens ostendatur. [...] Haec igitur quaestio [...] non habet locum in Ecclesiae sacramentis. Ivi, pp. 80-82. Testo

  44. P. Brezzi, Introduzione, in De divina imnipotentia e altri opuscoli, Vallecchi, Firenze, 1943, p. 36. Testo

  45. Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, 1943, p. 145. Testo

  46. Argomenti di chiara derivazione agostiniana. Testo

  47. P. Brezzi, Introduzione, in De divina omnipotentia e altri opuscoli, Vallecchi, Firenze, 1943, p. 15. Testo