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Dialettica dell'eresia. Come la fede ha trasformato gli errori in verità

di Giovanni Salmeri (21 marzo 2012)

1. Dovere e gioia della ragione

L'idea di un pluralismo della verità sembra di difficile collocazione nella storia teologica cristiana. Certo, è facile osservare che fin dall'inizio il cristianesimo si è alimentato ad una molteplicità di approcci, la cui legittimità e forse necessità è stata addirittura rispecchiata nel canone del Nuovo Testamento: quattro diversi Vangeli per narrare la persona di Gesù, la lettera di Giacomo (che dichiara la superiorità delle opere) contro le lettere di Paolo (che presentano la superiorità della fede). Facile è pure costatare che la dottrina cristiana è stata fin dall'inizio incarnata in diverse tradizioni, le quali, pure mettendo tra parentesi gli episodi di frattura più traumatici, hanno dato vita a linguaggi e mentalità molto diversi. Tutto questo però non toglie che tipica dell'autocomprensione cristiana sembra essere stata l'idea del contatto con un'insuperabile pienezza di verità che non ammette concorrenti, e al confronto della quale ogni deviazione, l'«eresia», è una falsità da combattere. Come potrebbe pensare diversamente chi crede in colui che con un'inaudita pretesa ha proclamato «Io sono la verità» (Ev. Io. 14, 6)?

La chiara esposizione della Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino offre in tal senso una sintesi esemplare: l'eretico è colui che devìa «a rectitudine fidei Christianae» non rifiutando Cristo, bensì «per hoc quod intendit quidem Christo assentire, sed deficit in eligendo ea quibus Christo assentiat, quia non eligit ea quae sunt vere a Christo tradita, sed ea quae sibi propria mens suggerit». Dunque l'eresia è un'«infidelitatis species» che riguarda coloro che pur confessando Cristo «eius dogmata corrumpunt» (II/2, q. 11 a. 1 co.). Tale corruzione può avvenire non soltanto negando esplicitamente un articolo di fede, ma anche rifiutando ciò che spetta alla fede «indirecte et secundario, sicut ea ex quibus sequitur corruptio alicuius articuli» (a. 2 co.). Sul piano civile gli eretici, in quanto diffusori di false idee, meritano pene più severe di quelle dei falsari: «multo enim gravius est corrumpere fidem, per quam est animae vita, quam falsare pecuniam, per quam temporali vitae subvenitur» (a. 3 co.).1

Di fronte a tutto questo, la ricerca contemporanea di uno spazio teorico per il pluralismo, che tenga insieme non solo diverse prospettive, ma pure ciò che è francamente incompatibile, sarebbe solo una rottura e una novità. Ma le cose stanno veramente e solamente così? o forse dietro la teorizzazione dell'eresia non si nascondono, per così dire al rovescio, vicende più complesse che meritano di essere portate alla luce? Questa è l'ipotesi che cercheremo di seguire, puntando lo sguardo su due momenti paradigmatici del Medioevo latino: proprio il periodo in cui l'indiscutibilità della christianitas pare la meno propizia per alternative o anche solo sfumature. Ma lo sguardo deve diventare proprio per questo più attento.

In effetti, una delle riflessioni più profonde sull'eresia che quest'epoca ci abbia dato si trova crittografata e va con attenzione ricostruita. Il suo luogo capitale, come cercheremo di mostrare, è il Proslogion di Anselmo, in cui non solo la parola «eresia», ma anche il relativo concetto sembra non comparire nemmeno. Anzi, l'assunzione di questo testo all'interno della tradizione filosofica contribuirà a velarne l'intento originario, che pure, come vedremo, è esposto a chiare lettere. Il primo passo per una lettura storicamente contestualizzata consiste dunque in una ricostruzione delle vicissitudini delle quali l'opera di Anselmo è debitrice. Il compito è stato eccellentemente già svolto e ci possiamo contentare di sunteggiarlo.2

La crisi che sta sullo sfondo è quella delle dispute eucaristiche innescate da Berengario di Tours, il quale sosteneva un'interpretazione grosso modo solo simbolica della presenza di Cristo nelle specie eucaristiche. Per far questo egli poteva riagganciarsi ad illustri precedenti: non solo l'opera di due secoli prima di Ratramno (all'epoca erroneamente attribuita a Giovanni Scoto Eriugena), ma anche diverse espressioni di Agostino. Il punto determinante, come i contemporanei e il protagonista stesso della disputa riconoscevano, non consisteva però in questo richiamo alla tradizione, ma piuttosto nell'uso della dialettica: che ruolo essa doveva giocare nell'interpretazione dell'esperienza di fede? Evidentemente Berengario, che basava le sue argomentazioni prioritariamente su motivi razionali, conferiva alla dialettica un ruolo essenziale (anche in questo, tra l'altro, potendosi appellare all'autorità di Agostino). Le poche informazioni biografiche che di lui possiamo ricavare ci confermano questa posizione anche rispetto al suo curriculum di studi: egli era anzitutto un esperto di tale disciplina profana, e lo studio sistematico della Sacra Scrittura, origine d'ogni discorso teologico, lo occupò solo in un secondo momento. Di fatto, sappiamo bene che, malgrado i buoni motivi che egli poteva avanzare, la sua posizione venne subito percepita come scandalosa e, in fin dei conti, eretica, tanto essa differiva dalla coscienza comune peraltro cristallizzata nell'immemorabile Canone della messa (lex orandi, lex credendi!). Ma qual era la radice di tale eresia? La diagnosi più facile era quella che faceva affidamento sulle pretese stesse di Berengario: la radice era appunto l'uso indiscriminato della ragione, un uso che benché non potesse essere respinto in quanto tale (tale posizione avrebbe cozzato con secoli di tradizione d'integrazione nel discorso cristiano in una struttura argomentativa) poteva però essere denunciato come esagerato, non abbastanza sottomesso al criterio della rivelazione e della tradizione. Da quel che sappiamo, questa fu più o meno la reazione prevalente, bene esemplificata da Lanfranco di Pavia. La confessione di realismo eucaristico cui fu poi sottomesso Berengario, che per la sua rozzezza susciterà non poco imbarazzo nelle generazioni seguenti (ivi incluso Tommaso), era il segno eloquente di una fede per la quale la dialettica semplicemente non costituiva un arricchimento. Era questa l'unica risposta possibile?

È su questo sfondo che l'impresa di Anselmo si comprende nelle sue intenzioni: le formule con cui egli ripetutamente delinea il suo progetto hanno una corrispondenza praticamente perfetta con gli eventi che avevano agitato la scena pochi anni prima. Il punto cruciale può essere descritto a grandi linee come una grande riabilitazione della dialettica, come l'affermazione di una sua totale compatibilità con la fede. Ma con ciò si è detto ancora qualcosa di molto generico. Bisogna invece considerare qualche passo in cui Anselmo enuncia le sue intenzioni per ricostruire esattamente la sua posizione. Alcuni tra i più espliciti si trovano nell'Epistola de incarnatione Verbi. Anzitutto Anselmo ammette la ricerca della ragione (quaerere rationem), però ponendola nel contesto della fede, una fede che non dev'essere solo intellettualmente abbracciata, ma alla quale bisogna anche vitalmente aderire:

Nessun cristiano deve discutere che le cose non stiano come la Chiesa cattolica crede col cuore e professa con la bocca, ma piuttosto, sempre mantenendo e amando la medesima fede senza alcun dubbio e vivendo secondo essa, deve cercare umilmente, per quanto può, la ragione per cui le cose stanno in quel modo. Se può comprendere, ringrazi Dio.3

Guardando retrospettivamente a quanto scritto nel Monologion e nel Proslogion quali esempi di tale atteggiamento, Anselmo individua due finalità, la prima rivolta al non credente «razionalista», la seconda al credente:

Ho posto qualcosa per rispondere in difesa della nostra fede contro coloro che, non volendo credere ciò che non comprendono, deridono i credenti, ovvero per aiutare lo studio religioso di coloro che umilmente chiedono di comprendere ciò che fermissimamente già credono.4

La stessa posizione viene ripetuta, con qualche sfumatura in più, nel Cur Deus homo. Qui anzitutto Anselmo ripete la duplice finalità dell'indagine razionale, sottolineando tuttavia come la ricerca della razionalità dei contenuti di fede sia per il credente una gioia e contemporaneamente (seppure in forma relativa) un dovere:

Dopo gli apostoli, i santi padri e molti nostri dottori hanno detto tante e così importanti cose sulla ragione della nostra fede per confutare l'insipienza e infrangere la durezza dei non credenti e per nutrire coloro che, con il cuore già purificato dalla fede, provano gioia nella ragione della medesima fede (quella ragione della quale dobbiamo avere fame dopo che siamo già certi della fede), al punto che non possiamo attenderci né ora né in futuro nessuno pari a loro per la contemplazione della verità. Tuttavia non credo che nessuno debba essere rimproverato se, una volta che sia stabile nella fede, voglia esercitarsi nell'indagare la ragione di essa.5

La gerarchia secondo cui ad una fermezza della fede dovrebbe succedere il desiderio della sua comprensione è confermato in una successiva battuta che nella finzione dialogica è posta in bocca a Bosone:

Come un ordine corretto richiede che noi crediamo le profondità della fede cristiana prima che osiamo discutere con la ragione, così mi pare negligenza se, dopo che la nostra fede è diventata ferma, non ci preoccupiamo di comprendere ciò che già crediamo.6

Riassumendo, la situazione è questa: per colui che crede, la comprensione razionale dei contenuti della fede (nei limiti del possibile) è contemporaneamente un dovere e un motivo di gioia, anzi di delectatio. Tale ricerca serve però anche ad uno scopo apologetico: è con i suoi risultati infatti che può essere data risposta a coloro che si rifiutano di credere a ciò che non è comprensibile razionalmente. Ora, è cruciale notare che è anzitutto nelle sue due prime opere che Anselmo vede messo in opera quest'ideale: il Monologion e il Proslogion. In effetti, è proprio in quest'ultimo che la figura di colui che «non vuole credere ciò che non comprende» entra come protagonista, sotto la figura dell'insipiens. Caratterizzarla chiarificando il versetto dei Salmi (13, 1 = 52, 1) con cui essa viene icasticamente identificata è certamente poco fruttuoso.7 Indispensabile è invece osservare che essa replica esattamente la figura di colui che non crede perché non ha un'evidenza razionale, e che proprio e solo su questo terreno viene combattuto. L'intero Proslogion prende le mosse in effetti da una confutazione: se l'insipiens è pronto ad accettare (e non si vede come non potrebbe) la qualifica di Dio proposta, egli non può neppure rifiutare l'affermazione della sua esistenza, pena cadere in contraddizione. Su questo non c'è bisogno di diffondersi.

Notiamo piuttosto che il carattere stilizzato della posizione dell'insipiens sembra fatto apposta per mascherare il suo reale antecedente storico. Ma, una volta ricostruito il quadro culturale dell'opera di Anselmo e la sua posizione fondamentale in merito, è impossibile non vedere dietro quest'insipientia nient'altro che la posizione intellettuale di Berengario. Il fatto che essa venga esagerata fino a comportare la negazione stessa dell'esistenza di Dio (cosa che ovviamente il protagonista della disputa eucaristica non avrebbe mai sognato di fare) è evidentemente da parte di Anselmo il risultato di una rigorizzazione: porre la dialettica prima della fede ha un effetto potenzialmente distruttivo su ogni contenuto della fede, a partire dal suo stesso fondamento del primo articolo del simbolo di fede: «Credo in unum Deum». Tale antecedenza significa infatti nient'altro che non ammettere che i contenuti della rivelazione debbano essere accettati a causa dell'autorità di colui che li rivela: e questo significa potenzialmente rifiutare la stessa esistenza del rivelante.

Il dibattito innescato dall'epocale opera di Barth del 1931, se cioè il Proslogion vada giudicato un'opera di filosofia o di teologia, rischia dunque di muoversi in continui fraintendimenti finché non si osserva che la stessa distinzione di una «filosofia» e «teologia» è non solo anacronistica, ma anche non applicabile retrospettivamente ad Anselmo. La fides quaerens intellectum non è coestensiva di nessuna delle due: non della prima, perché è fede, non della seconda, perché la pretesa di un intellectus supera nettamente in ambizione quanto di lì a poco sarebbe stato generalmente riconosciuto come compito possibile del discorso teologico. In effetti, la formula di Anselmo è già in sé così precisa che esime dal compito di trovare una definizione verbale del suo procedimento. È lui stesso a chiarire che si tratta di una questione di anteriorità e finalizzazione: «non comprendo per credere, ma credo per comprendere». Ma che cosa significa in concreto tale questione di gerarchia?

2. L'eresia -- e le esigenze della fede

È ora che possiamo tornare all'osservazione di partenza: agli occhi di Anselmo è qui che si trova esattamente la questione dell'eresia. L'eresia consiste infatti nel porsi dalla parte della comprensione e da essa giudicare la fede.8 È essenziale notare che qui vi è una questione anzitutto vitale: non è infatti in gioco direttamente il rapporto logico tra asserti pertinenti a campi differenti, bensì la posizione dalla quale essi vengono pronunciati da parte del soggetto. In sé considerato, è infatti verissimo che un itinerario puramente razionale quale quello del Proslogion conduce a verità che sono anche di fede. Ma per Anselmo è altrettanto palese che colui che si pone dalla parte della ragione non arriva (in generale) alle verità di fede, anzi giunge più facilmente a negarle. Un paio d'indizi confermano questa interpretazione. Il primo, evidente, è costituito dall'insistenza con la quale Anselmo richiede per l'inizio dell'indagine razionale non soltanto la fede, ma una fede consolidata, fermissima: tutte avvertenze che hanno senso solo se riferite ad una situazione vitale (fides qua, possiamo dire), dove una gradazione è possibile. Del resto, una volta liberate dalla non piccola tara retorica ed esortativa che pure le permea, è in questo contesto che si pongono le espressioni oranti con le quali Anselmo introduce e sottolinea gli snodi fondamentali del Proslogion. Il secondo indizio, che rischia di passare inosservato, è costituito dal tono della risposta di Anselmo a Gaunilone. Quest'ultimo parla pro insipiente, a favore dell'insipiente, dunque con argomenti che intendono minare la cogenza del ragionamento di Anselmo, e sostiene che nel primo passo del Proslogion vi siano cose «recte quidem sensa, sed minus firmiter argumentata» (Resp. pro ins. , 8 [Schmitt 1, 129]). Anselmo inizia la sua replica affermando che, ben sapendo che il suo interlocutore è «non insipiens et catholicus», gli sarà sufficiente rispondere appunto al cattolico (Resp. Ans. , pr. [Schmitt 1, 130]). L'espressione non è a prima vista di facile decifrazione, perché tutta la replica di Anselmo si svolge esattamente sullo stesso piano razionale che Gaunilone contestava: in che modo dunque si starebbe rispondendo ad un «catholicus» e non ad un «insipiens»? L'unica interpretazione possibile sembra questa: Anselmo non intende ovviamente convincere l'interlocutore che Dio esista, ma piuttosto che il proprio argomento è adatto a dimostrare l'esistenza di Dio. La replica di Anselmo è insomma nell'ordine del meta-discorso, potremmo dire, e tale ordine è motivato esattamente dalla situazione vitale dell'interlocutore.9

Ammettere che la questione dell'eresia è di carattere vitale è però solo il primo passo per riconoscere qualcosa di più importante. Come abbiamo prima visto, Anselmo è esplicito nell'individuare nell'esercizio di una fede quaerens intellectum una duplice finalità. Una di esse consiste nel fatto che essa offre la possibilità di rispondere a chi non crede se non in ciò che ha compreso, in una parola all'insipiens. Semplice apologetica? Il punto determinante è qui che l'insipiens non viene in realtà confutato nella sua insipientia. A lui insomma non viene affatto intimato di porre la fede davanti alla ragione, di situarsi cioè nella prospettiva che evita per principio gli errori nei quali sta incorrendo. La risposta che egli riceve si trova invece oggettivamente nella prospettiva di quella priorità della dialettica che costituisce tutta la sua insipientia! Certo, la replica giunge da un catholicus, l'unico che di fatto è in grado di elaborarla, ma essa nella sua dinamica è interamente razionale. È questo sottile equilibrio che Anselmo vuole significare introducendo il primo passo del suo argomento con un «credimus»: «Crediamo che Dio sia qualcosa di cui nulla di più grande può essere pensato» (Prosl. , 2 [Schmitt 1, 101]). Se esso significasse, come può venire la tentazione di dire per restituire il Proslogion alla storia della teologia, che l'argomento che sarà presentato ha come presupposto la fede, il compito di Gaunilone sarebbe stato immensamente più facile: gli sarebbe bastato obiettare che il ragionamento di Anselmo è una petitio prinicipii che non può dimostrare evidentemente nulla a chi non crede in Dio. Se d'altra parte esso volesse indicare (in un senso dunque non teologico) una concezione universale o perlomeno un'opinione diffusa, sarebbe stato invece per Anselmo di gran lunga più facile il compito, e tutto il travaglio descritto nel «Proemio» non avrebbe avuto ragion d'essere: sarebbe bastato riflettere sul concetto comune di Dio per rilevare la contraddizione di chi intenda negarlo. Insomma, se il credimus viene interpretato come una qualifica interna della determinazione di Dio che viene presentata, in ogni caso si giunge in un vicolo cieco. L'unica alternativa quindi è che esso significhi la posizione dell'argomentante, ovvero il suo rapporto con il contenuto che viene enunciato: egli lo trova all'interno della sua fides. Ma questo «trovare» implica una ricerca e una riflessione, perché (come spiega il Proemio) si tratta d'individuare un unico punto di partenza che consenta il più possibile di ricostruire sola ratione i contenuti della propria fede.10 Insomma: se l'insipiens non viene confutato nella sua insipientia, ma al contrario stando il più possibile al suo gioco, è perché, per quanto ciò possa suonare sorprendente, la sua eresia viene oggettivamente inclusa all'interno del discorso teologico. Una fede ricostruita sola ratione è in effetti esattamente ciò che egli ereticamente chiedeva.11

Ma questo non è tutto: la sua richiesta viene anche saldata strettamente con un'esigenza interna alla fede stessa. Abbiamo infatti già visto che la comprensione dei contenuti della fede viene presentata da Anselmo, indipendentemente dal suo uso apologetico, come una gioia e un dovere per il credente. L'osservazione di Anselmo è antropologicamente sensata: se il credente rinunciasse del tutto al compito di comprendere ciò in cui crede, dimostrerebbe di non amarlo molto. Ma ciò non toglie che, proprio nel momento in cui la dialettica stava manifestando il suo volto più rischioso per la solidità della fede, è coraggioso rivendicarne la piena cittadinanza non solo nell'impresa teologica, ma addirittura nella vita di fede. Da questo punto di vista il fatto che il Proslogion sia incorniciato da ampi brani di carattere orante assume un significato in più oltre a quelli già notati. Questi testimoniano chiaramente un orizzonte in cui la teologia non si è ancora resa autonoma dal complesso dell'esperienza religiosa. È un orizzonte che può essere anche chiamato «monastico», purché ciò sia inteso nella linea delle esigenze comuni dell'esperienza cristiana: è proprio il desiderio di Dio, così potentemente tematizzato nelle prime righe, che diventa richiesta di intelligenza.

La lettura del Proslogion dimostra bene come questa collocazione non è affatto estrinseca. La ragione, e proprio nella sua funzione dialettica, svolge in effetti un ruolo capitale nella dinamica della fede stessa. Il luogo più interessante da questo punto di vista è il movimento che si svolge nei capp. 14-26. È qui che, terminata la lunga prima sezione in cui non solo è stata dimostrata l'esistenza di Dio, ma anche sono stati individuati e compresi alcuni dei suoi principali attributi, il movimento riflessivo giunge ad una pausa: perché a tale comprensione di Dio non corrisponde un'esperienza spirituale proporzionata? com'è possibile che il Dio origine di ogni bellezza sensibile non venga visto, udito e toccato dall'anima, che di lui non si percepisca gusto e profumo? (Prosl. , 14 e 17 [Schmitt 111-113]). Se la risposta della fede può facilmente appellarsi ad un ottundimento dei sensi dell'anima provocato dal peccato, la risposta dialettica svolge quel passaggio determinante che inaugura la seconda parte del dittico del Proslogion:

Dunque, Signore, non solo sei ciò di cui non può pensarsi alcunché di maggiore, ma sei qualcosa più grande di ciò che si possa pensare. Poiché infatti che ci sia qualcosa di simile può essere pensato, se tu non sei proprio ciò, allora si può pensare qualcosa più grande di te: il che non può avvenire.12

Insomma, è propriamente un'esigenza dialettica che impedisce alla fede di fermarsi nell'orizzonte del «massimo pensabile» e la spinge a rivolgersi al «maggiore di ogni pensabile». Ed è propriamente questa, non quella presentata nel cap. 2 («aliquid quo nihil maius cogitari possit»), la vera qualifica razionale di Dio secondo Anselmo. Sarebbe interessante esaminare come sia questo passaggio che genera praticamente per intero i contenuti della seconda parte del Proslogion, dominata dai paradossi dell'infinito. Ma quello che c'interessava notare è solo che lo stesso movimento «eretico» della ragione viene così seriamente assunto nella fede da diventare proprio esso il motivo della tensione verso l'incomprensibile, che salva la fede stessa dalla sua possibile presunzione.

3. La ragionevolezza -- della fede e dell'amore

Spostare ora l'attenzione da Anselmo d'Aosta a Giovanni Duns Scoto può avere più di una giustificazione. La più evidente risiede nel fatto che l'influenza del primo sul secondo è notevole, come in generale lo è nell'Università di Oxford nella quale Scoto realizza gran parte della sua formazione. Ma anche a prescindere da tale diretta influenza, sta di fatto che egli ripropone un modello teologico che richiama in aspetti decisivi la fides quaerens intellectum di Anselmo. Tale riproposizione è sicuramente ora più difficile: siamo alla fine del XIII secolo, quando una teologia scientifica, distinta vitalmente dall'esperienza di fede e accademicamente dalla filosofia, è ormai un dato acquisito; avanzare un ideale oggettivamente simile a quello anselmiano significa dunque anche andare controcorrente, almeno in parte, rispetto a distinzioni ormai affermate. Perché ciò avviene?

Forse si può anzitutto osservare che la crisi intervenuta in seguito all'insegnamento dei celebri maestri della arti parigini e sfociata nella condanna del 1277 aveva riportato d'attualità un problema analogo a quello di due secoli prima: il problema di una razionalità «eretica». Il contesto è ovviamente diverso: l'orizzonte in cui nascono queste tensioni non è la subordinazione dei contenuti della fede alla loro comprensibilità dialettica, ma piuttosto l'esercizio di una razionalità che viene sì dichiarata subordinata all'adesione credente alla rivelazione (una dichiarazione fino a prova contraria sincera), ma di cui al contempo viene rivendicata l'autonomia. Sono due aspetti che agli occhi dei proponenti dovevano apparire complementari: proprio perché per principio provvisoria, la verità filosofica (in cui la preoccupazione della «sola ratio» si confonde con quella filologica del «solus Aristoteles») può essere cercata in quanto tale, senza che ciò metta a rischio la verità della rivelazione anche quando gli esiti ne differiscano. Ma, di là dai contenuti specifici, è esattamente questa posizione che viene condannata dal vescovo Tempier quale proposizione di una «doppia verità» (un'esagerazione sinceramente non enorme); il principio epistemologico che così viene riaffermato è che è per principio impossibile che la ragione giunga a conclusioni differenti rispetto a quelle rivelate.13

Quando Scoto scrive il celebre prologo dell'Ordinatio, da questa condanna sono passati poco più di vent'anni. Affermare quindi che egli scrive all'ombra di essa è un'ovvietà: meno ovvio è chiarire esattamente in qual modo. Per lo più ciò viene interpretato nel senso che, una volta che la philosophia ha ricevuto la sua solenne condanna, l'epoca dell'armonia tra fede e ragione è terminata e dunque il teologo Scoto non può che allinearsi a tale presa di distanza. Ma le cose stanno veramente così? In realtà vi sono diversi dati che non tornano in questa interpretazione. Il principale è che Scoto riconosce pienamente la legittimità della posizione dei philosophi, tant'è vero che ammette che contro di loro non è possibile adoperare alcun'argomentazione razionale, ma solo argomentazioni di fede:

Nota: con la ragione naturale nessun elemento soprannaturale si può dimostrare presente nell'uomo nello stato terreno, né si può dimostrare che sia necessariamente richiesto per la sua perfezione; e neppure colui che lo possiede può sapere di averlo. Dunque in questo caso è impossibile usare la ragione naturale contro Aristotele: e se si argomenta a partire da elementi di fede, in tal modo non si confuta il filosofo, che non ammette una premessa di fede. Quindi questi argomenti di seguito presentati contro di lui hanno una delle due premesse basata sulla fede, oppure provata a partire da un elemento di fede; perciò sono soltanto discorsi persuasivi teologici, che partono da elementi di fede per giungere ad un elemento di fede.14

Tale affermazione non ha nulla a che vedere con il fideismo, ma intende con precisione qualificare l'inevitabilità del dissidio riguardo al tema specifico che costituisce il punto di partenza dell'Ordinatio: il difetto della natura umana e la conseguente necessità della grazia. Il quadro viene in effetti perfettamente completato dalla discussione sulla beatitudine (Ord. , IV, d. 43), nella quale Scoto argomenta l'impossibilità di dimostrare per via naturale l'attingibilità di una beatitudine superiore a quella naturale (filosofica). In altre parole, la controversia tra philosophi e theologi stabilisce sì una differenza di orientamento, ma contemporaneamente il pieno diritto dei primi di sostenere posizioni che possono essere confutate solo grazie alla rivelazione. In questo caso la «rivelazione» non corrisponde affatto ad una dimensione soprannaturale dell'uomo, ma piuttosto alla possibilità di conoscere la stessa natura: la posizione dei philosophi sarebbe infatti filosoficamente confutabile se l'uomo possedesse un'adeguata conoscenza della sua natura e dunque della sua capacità di giungere alla contemplazione di Dio: il che però Scoto nega. Se questo quadro viene confrontato con la posizione dei maestri delle arti in questione, l'esito pare inevitabile: Scoto sostiene sostanzialmente le loro medesime posizioni, e dunque non segue la condanna del 1277 nella misura in cui essa non solo voleva riaffermare alcuni principi naturali indispensabili per la fede cristiana, ma sostenere che essi potevano e dovevano essere l'esito di un'indagine puramente razionale, dunque punto di arrivo della «philosophia».

È esattamente questa situazione, ci pare, che rende di nuovo attuale sul finire del XIII secolo un modello analogo alla fides quaerens intellectum: così come già costatava Anselmo, anche per Scoto è inevitabile che una ragione autonoma, senza il presupposto della fede, giunga a conclusioni difformi, anche su temi che nella seconda sono cruciali: partendo dall'esperienza naturale non è per esempio forse spontaneo affermare in Dio un'unica sussistenza, e cioè contraddire direttamente il dogma della Trinità? o in quale modo, per riprendere il discorso prima accennato, si può sostenere la possibilità per l'uomo di una beatitudine soprannaturale il cui desiderio, in mancanza di dati empirici, è indistinguibile da una chimera? E proprio per questo motivo la teologia (ora sì concepita come una disciplina distinta dall'esperienza della vita cristiana) deve al suo interno ricostruire argomentazioni razionali, nelle quali ciò che per una ragione autonoma è irraggiungibile si rivela «ragionevolissimo» (Ord. , prol., 100 e 108 Ed. Vat = 138 e 156 Ed. min.): una dichiarazione che appare contraddittoria solo se non si tiene presente il contesto intellettuale dal quale essa emerge. La rationabilitas è quella che può apparire solo al credente, quando egli indaghi il senso e la coerenza dei contenuti della fede e il suo culmine nell'amore: non perché egli abbia un pregiudizio positivo nei loro confronti che ne altera il giudizio razionale, ma semplicemente perché li conosce: quasi insomma la strada che congiunge ragione filosofica e fede sia percorribile solo in un senso.

È a partire da qui che alcune tesi di Scoto, a prima vista sintomo dell'indebolimento della ragione, cambiano completamente di segno: per esempio l'affermazione dell'indimostrabilità razionale dell'immortalità dell'anima, tanto più della resurrezione dei corpi, o dell'onnipotenza divina, o di una redenzione tramite il sacrificio del Figlio di Dio. Scoto non vuole affatto dire che si tratti di terreni in cui non può essere esercitata alcuna comprensione razionale, ma piuttosto che il loro senso si apre solo all'interno della fede: è qui, e nel rapporto di libertà che essa istaura con Dio, che il credente scopre una promessa di vita che per la prima volta gli rivela che i suoi desidèri non sono chimere, scopre la preoccupazione di un Dio che non è solo motore immobile ma può saltare tutta la catena delle cause secondo per venire incontro pure ai gigli dei campi, scopre la sua scelta di una strada di salvezza che più di ogni altra vuole attirare a sé gli uomini nell'amore: tutte cose che non solo sono ragionevoli, ma, se così si può dire, più che ragionevoli. Il problema della dialettica, che in Anselmo era tacitamente identificato con quello dell'eresia, diventa quindi ora semplicemente quello di una razionalità pagana, forse solo una finzione intellettuale in una societas christiana, e però pur sempre una situazione limite che deve essere compresa -- e che muta di segno una volta incorporata nella logica della vita cristiana.15

4. Leggere o confrontare

Rimane allora da chiedersi quale sia diventato il posto dell'eresia in Scoto, ora che questo ruolo non è più giocato dalla razionalità pura. Scoto lo definisce sempre nel «Prologo», questa volta nella questione in cui si tratta della «sufficienza» della Scrittura (Ord. , prol., 95-123 Ed. Vat. = 132-191 Ed. min.). A prima vista si tratta di una sorta di compendio poco originale di apologetica, ma alcune prospettive sono in realtà molto interessanti. Il punto di partenza pare questo: l'eresia nasce dal fatto che non si accetta la Scrittura nella sua totalità. Il paganesimo risulta quindi una posizione limite dell'eresia (che mostra, come abbiamo visto, l'insufficienza di una ragione avente come unico punto di partenza l'esperienza naturale). L'ebraismo costituisce un altro limite, in quanto accetta solo l'Antico Testamento. I casi più interessanti sono tuttavia quelli in cui si verifica un'accettazione frammentaria: ciò avviene anzitutto nell'Islam, in cui ad elementi dell'Antico e del Nuovo vengono mescolati altri elementi estranei, e poi nelle altre eresie cristiane. Vediamo rapidamente nell'ordine i due casi.

Le poche osservazioni che Scoto dedica all'Islam (99 e 109 Ed. Vat. = 136 e 159 Ed. min.) non meritano probabilmente un posto d'onore in un'antologia del dialogo interreligioso. Secondo una visione comune all'epoca, l'Islam e il suo fondatore vengono violentemente liquidati come espressione di un cristianesimo deformato, nel quale in particolare la promessa della beatitudine celeste viene sostituita da un paradiso carnale. Da quanto abbiamo accennato prima si comprende quanto il tema sia decisivo per Scoto: la rivelazione del destino dell'uomo è esattamente il punto in cui la razionalità autonoma viene scardinata e superata, offrendo una prospettiva che muta in maniera decisiva (seppure non totale) quella naturale. Un'eresia quindi che altera questo punto è evidentemente dal suo punto di vista disastrosa. Ma il punto che qui più c'interessa è che questa violenta critica ha per Scoto come principale testimone Avicenna! È esattamente dalla sua Metafisica che egli ricava l'affermazione di una beatitudine consistente nella contemplazione spirituale di Dio e la dura condanna dell'idea di un paradiso costituito di piaceri sensuali.16

È questa la riprova che la pura razionalità è sufficiente per superare una religiosità deformata? Scoto in generale non crede che questo sia il caso, e in questo si pone decisamente controcorrente rispetto alla tradizione che, iniziando dal philosophus del celebre dialogo di Pietro Abelardo, aveva considerato i pensatori musulmani come rappresentanti della razionalità. Non è in quanto pensatore che Avicenna contesta un destino materiale dell'uomo, ritiene Scoto, ma in quanto credente. L'affermazione è certo sorprendente, considerato che proprio la tradizione religiosa da cui Avicenna proviene sostiene (agli occhi di Scoto) qualcosa di diverso. L'unico modo per eliminare la contraddizione è ritenere che il fatto che egli sia «eretico» non toglie che quest'eresia sia un'adesione sì parziale, ma pur sempre alla verità. Insomma, Avicenna è seguace dell'eresia islamica, ma proprio per questo della religione cristiana! Come se la verità, insomma, avesse la capacità di filtrare attraverso le deformazioni e le parzialità: e forse è proprio questo filtrare a cui Scoto allude affermando che Avicenna è «quasi illius sectae» (109 Ed. Vat. = 159 Ed. min.).

Il secondo caso, quelle delle eresie propriamente cristiane, è parimenti interessante. Scoto ne cita due esempi: il primo, quello di chi leggendo un passo di Paolo (ad Rom. , 14, 2) sostenesse che si debbano mangiare solo verdure; il secondo, quello di chi leggendo un passo di Giacomo (Iac. , 5, 17) ne concludesse che i peccati possano essere confessati ad un laico. È evidente il carattere simbolico di questi esempi: nessuna di queste due posizioni appartiene propriamente alla storia delle eresie. Proprio per questo è importante comprendere da dove Scoto ricavi questi esempi. Per il primo (abbastanza frivolo) la risposta è facile: esso si trova tale e quale in Agostino. Il secondo è invece apparentemente più enigmatico: la questione toccata è più seria, riguarda direttamente la disciplina sacramentale, evidentemente Scoto vi è interessato, però nella storia del Cristianesimo non è nota nessuna «eresia» coincidente con la posizione qui riferita. Per risolvere l'enigma bisogna guardare non alla storia delle eresie, ma della dottrina e della spiritualità: è qui che il tema della confessione «etiam laico» è benissimo attestata. Senz'andare molto lontano, pure Tommaso d'Aquino la citava con approvazione, riconoscendole un valore «in certo modo sacramentale» (IV Sent. , d. 17 q. 3 a. 3 sol. 2); e senz'andare per nulla lontano, anche Francesco d'Assisi, il padre spirituale remoto di Scoto, nella Regula non bullata (20) la raccomandava.17 L'allusione di Scoto doveva dunque risultare ai contemporanei non soltanto perfettamente chiara, ma anche provocatoria: come esempio d'ipotetica eresia viene addotto, benché in una forma stilizzata, ciò che sicuramente un paio di generazioni prima (ma forse ancora all'epoca di Scoto) appariva come un punto pacifico della devozione cristiana. Una precisa intenzione polemica verso contemporanei?

Non ci sono elementi per ritenerlo. Il motivo di questo esempio, così come del precedente desunto da Agostino, appare invece chiaro quando Scoto avanza la sua interpretazione, che ruota attorno alla distinzione tra «leggere» e «confrontare»: «le eresie sono nate di per sé leggendo, mentre confrontando sono state respinte, perché coloro che confrontarono addussero diverse affermazioni che tramite un reciproco confronto poterono trovare in che modo si dovessero comprendere».18 Certamente questa diagnosi mostra una precisa conoscenza della storia della dottrina cristiana, nonché una certa rassegnazione riguardo al fatto che nessuna auctoritas, neppure la più venerabile, è sufficiente per dirimere una questione. Pietro Abelardo aveva quasi inaugurato il metodo scolastico con questa diagnosi, magistralmente affidata alla prefazione del Sic et non, e Scoto stesso esprime con ironia questa consapevolezza quando in un'intricata questione rinuncia ad elencare le «citazioni» che parrebbero sostenere una delle soluzioni: «I passi citati [...] possono essere in qualche maniera interpretati, come è abituale che le autorità vengano trascinate a significare una cosa o quella contraria».19

Ma qui c'è qualcosa di più: non è neppure necessario forzare un passo della Scrittura per cadere nell'eresia, basta leggerla -- e però basta confrontarlo con un altro per dissolverla. È questo dunque il motivo ultimo per cui l'adesione frammentaria alla Scrittura genera eresia: perché impedisce il confronto. La verità cattolica insomma non è tanto un monumento monolitico che corpi estranei possono scalfire e mettere a rischio, quanto piuttosto una struttura complessa, fatta di rapporti, di equilibri, di bilanciamenti, di contestualizzazioni. Ogni elemento preso isolatamente può essere un'eresia: la verità è composta dal loro reciproco chiarirsi. Se innumerevoli volte è stato ripetuto il paragone della Summa di Tommaso con una cattedrale gotica, forse si potrebbe suggerire che l'epoca in cui Giovanni Duns Scoto scrive è quello del culmine dell'Ars antiqua, il primo grande fiorire della polifonia in Europa. E, proprio come la musica esiste solo quando è cantata, la verità è tale solo nel momento in cui viene vissuta, testimoniata, interpretata: il che contribuisce a spiegare l'insistenza con cui Scoto, con toni che altrimenti parrebbero fideistici, crede di poter risolvere molti interrogativi solo sulla base dell'interpretazione offerta dalla Chiesa.20

5. L'unica verità e le tante pretese

Tentiamo qualche osservazione conclusiva. Gli esempi, afferma con disincantato acume Kant, sono «le stampelle del giudizio»: possono solo creare l'illusione di supplirne la mancanza, di compensare, cioè, la capacità di comprendere in generale quali casi singoli vadano sussunti sotto una regola. Ma questo difetto (in termini tecnici si chiama Dummheit, cioè «stupidità») è purtroppo senza rimedio (KrV A 133/B 172). Per quanto interessanti e a loro modo affascinanti, quelli che abbiamo portato sono in effetti soltanto esempi, che lasciano ancora aperto il problema di determinare a quali condizioni, per così dire, l'eresia possa diventare verità. D'altra parte, gli esempi posseggono qualcosa che le teorie generali mai possono dare: la testimonianza di qualcosa che è effettivamente avvenuto e che, in qualche misura, forse è parte di un'esperienza ancora vivente.

Questo ci pare in effetti il caso dei due momenti esemplari che abbiamo analizzato. Anselmo viene talvolta citato come il «padre della scolastica»: qualifica invero alquanto vaga e un poco fuorviante, se non altro perché priva la qualifica di «teologia scolastica» della sua contestualizzazione nella vicenda delle istituzioni culturali e la rende una sorta di categoria dello spirito. Ma quel che è certo è che senza il gesto intellettuale di Anselmo, effettuato in un momento di crisi e protetto dall'autorità della sua persona e soprattutto della sua fede, il seguito della storia intellettuale del cristianesimo avrebbe mancato di un decisivo protagonista a cui riallacciarsi. Forse meno del dovuto si ricorda il fatto che il nome della «teologia» (rimesso in uso, come è noto, da Pietro Abelardo nella stessa epoca di Anselmo), con il suo esotico richiamo alla tradizione filosofica greca, porta inscritto in sé un progetto culturale all'inizio tutt'altro che ovvio: quello dell'incorporazione di una razionalità che di per sé ha un'altra origine: pagana, appunto.

Il caso di Giovanni Duns Scoto è più complesso e sfumato: malgrado la persistenza secolare della sua scuola, la sua prospettiva non è stata certo quella predominante nel pensiero cristiano occidentale successivo. Ciò non significa però che le idee che egli ha sostenuto siano rimaste prive di effetti. Riguardo alla prima che abbiamo visto, cioè la rivendicazione di una razionalità cristiana come risultato della ripresa e trasformazione nella fede della razionalità pagana, le conseguenze sono stati anzi dirompenti, benché siano avvenute al di fuori del discorso teologico propriamente detto. Esse si connettono infatti direttamente alla nascita della scienza moderna: tra le sue condizioni qualificanti bisogna sicuramente annoverare l'affrancamento dall'autorità aristotelica, che altrimenti avrebbe paralizzato la ricerca della verità naturale non solo nella ripetizione di un'autorità antica, ma anche e soprattutto in un'ottica necessitarista in cui le leggi scientifiche erano ammissibili solo in quanto conseguenza di una legalità metafisicamente accertata. È per questo motivo che si è potuto affermare che è la condanna «anti-aristotelica» del 1277 l'atto di nascita della scienza moderna. Tale attribuzione, pur interpretata simbolicamente, è però parziale e imprecisa: a tale condanna manca infatti evidentemente ancora la coscienza che le proposizioni aristoteliche non sono errate per un incidente interno, ma piuttosto perché il loro orizzonte razionale suppone un rapporto necessario di Dio con il mondo. Ma è esattamente questa la coscienza che si aggiunge in Scoto: la dimostrazione è fuori luogo quando è in gioco la libertà -- e dunque anche nelle leggi naturali che Dio conferisce liberamente al mondo. Questa conseguenza non c'è esplicitamente in Scoto, ma la premessa essenziale sì. Sarebbe dunque più corretto affermare che la scienza moderna comincia simbolicamente con lui: ed è questo un effetto certamente non trascurabile per un'integrazione dell'eresia pagana nella verità cristiana!

Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello che abbiamo visto sfociare in un'interpretazione delle eresie cristiane propriamente dette, dovremmo anzitutto correggere il giudizio con il quale prima abbiamo qualificato pertinente ad una «poco originale apologetica» la discussione di Scoto riguardo alla verità della Scrittura. Il discorso è sì poco originale se confrontato con le sue singole fonti; è invece originalissimo se confrontato con la prassi teologica del tempo. In effetti, tale riflessione trova posto nel Prologo dell'Ordinatio, cioè esattamente in quella sezione in cui, labile o addirittura assente il riferimento all'opera di Pietro Lombardo, si trattava di assicurare lo spazio ad esigenze metodologiche nuove. Insomma, nell'Ordinatio viene posto il germe di una sensibilità storica e letteraria che sarà destinata ad una lunga e complessa storia: forse è il caso di ricordare che praticamente negli stessi anni di Scoto un suo illustre confratello, Nicola da Lyra, stenderà il commento letterale alla Scrittura (la Postilla) che ne accompagnerà per secoli lo studio.

Il celebre e ripetutissimo adagio secondo cui la verità cattolica si è definita solo in rapporto a (e quindi grazie a) l'eresia merita di essere ripreso e rivisto. In alcuni momenti cruciali e forse felici (quelli che abbiamo portato sono due esempi) l'unica verità si è generata non solo in un «rapporto», ma proprio incorporando al suo interno e lasciandosi trasformare da esigenze che a priori potevano apparire semplicemente estranee e contraddittorie. Nel caso dell'esperienza cristiana, quest'unica verità è dunque delimitata più in termini esistenziali che oggettivi. I suoi confini sono infatti quelli dell'atto di fede e della persistenza in una tradizione vivente: sono essi che, dall'inizio alla fine, sanciscono i contenuti oggettivi che via via vengono sviluppati. Una verità completa e oggettivamente determinata dal punto di vista dell'uomo, invece, semplicemente non c'è e non può esserci, perché s'identificherebbe con una conoscenza integrale di Dio, il quale è sempre più grande di tutto ciò che può essere pensato; c'è però la fiducia che la verità divina sia così grande da accogliere tutto ciò che può avere valore, così generosa da trasformare anche gli errori nella sua verità. Il cristiano sicuramente crederà che tutto questo ha valore per la verità divina e solo per quella; ma ogni uomo può pensare (e con lui alla fine anche il cristiano, per il quale ogni verità è divina) che così è offerto un modello per pensare con fiducia un rapporto non meno difficile, ma più fecondo e meno traumatico, tra l'unica verità e le tante pretese ad essa.

[Comparso per la prima volta in Archivio di Filosofia, anno 79 (2011), n. 1, pp. 177-192. Qui riprodotto, con alcune modifiche, con il consenso della direzione della rivista.]

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Note

  1. E tale pena, che non può essere quindi che la morte (dato che già i falsari vengono condannati alla pena capitale), non è necessariamente revocata neppure dalla conversione dell'eretico: il pentimento dopo una seconda caduta nell'eresia merita infatti sì il perdono per la salute dell'anima, ma non la sospensione della pena, che in questo caso ha un carattere esemplare nei confronti degli altri e un carattere precauzionale vista l'evidente instabilità della persona (II/2, q. 11 a. 4 co.). Ovviamente si tratta di affermazioni che devono essere poste nel contesto del sistema penale dell'epoca. Tale contestualizzazione non può però far dimenticare che altri erano capaci di esercitare uno spirito critico maggiore nei confronti della legislazione civile: per esempio Giovanni Duns Scoto, del quale parleremo, rifiuta categoricamente (in tacita polemica non con Tommaso, ma con Enrico di Gand) la pena di morte per il furto, e la limita alle sole fattispecie espressamente previste dalla Scrittura, sottratti però i casi (come l'adulterio) in cui i gesti di Gesù la hanno a suo parere evidentemente abolita in favore della misericordia (Ord., IV, d.15, 213-222 Ed.min.). Testo

  2. Vedi per un'efficace sintesi, nella quale Anselmo rimane sullo sfondo, André Cantin, Foi et dialectique au XIe siècle, Cerf, Paris 1997 [trad. it. di Filadelfo Ferri, Fede e dialettica nell'XI secolo, Jaca Book, Milano 1996]. La celebre opera di Barth (Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes im Zusammenhang seines theologischen Programms, EVZ-Verlag, Zürich 1931 [trad. it. di Marco Vergottini, Anselmo d'Aosta. Fides quaerens intellectum. La prova dell'esistenza di Dio secondo Anselmo nel contesto del suo programma teologico, Morcelliana, Brescia 2001]), della quale non potremo occuparci, ci sembra soffrire anzitutto della mancanza di qualsiasi contestualizzazione storica. L'intento metodologico assolutamente condivisibile di porre il Proslogion «nel contesto del programma teologico» di Anselmo resta così a metà strada e non permette di riconoscere lo statuto storicamente ibrido dell'intellectus di cui Anselmo parla e che tenteremo di chiarire. È solo così che l'istanza di chiarimento che esso rappresenta può essere letta come tutta interna alla fede e anzi come una qualifica originaria di essa: ciò che invece, come vedremo, in Anselmo è vero solo mediatamente e, per così dire, dialetticamente. Testo

  3. «Nullus quippe Christianus debet disputare quomodo quod Catholica Ecclesia corde credit et ore confitetur non sit, sed, semper eandem fidem indubitanter tenendo, amando et secundum illam vivendo, humiliter quantum potest quaerere rationem quomodo sit. Si potest intelligere, Deo gratias agat» (Ep. de inc. Verbi, I [Schmitt II,6-7]). Testo

  4. «Aliquid [...] posui ad respondendum pro fide nostra contra eos qui nolentes credere quod non intelligunt derident credentes, sive ad adiuvandum religiosum studium eorum qui humiliter quaerunt intelligere quod firmissime credunt.» (Ep. de inc. Verbi, VI [Schmitt II,20-21]). Testo

  5. «Quamuis post apostolos sancti patres et doctores nostri multi tot et tanta de fidei nostrae ratione dicant ad confutandum insipientiam et frangendum duritiam infidelium, et ad pascendum eos qui iam corde fide mundato eiusdem fidei ratione, quam post eius certitudinem debemus esurire, delectantur, ut nec nostris nec futuris temporibus ullum illis parem in ueritatis contemplatione speremus: nullum tamen reprehendendum arbitror, si fide stabilitus in rationis eius indagine se uoluerit exercere» (Cur Deus homo, comm. [Schmitt II,39]). Testo

  6. «Sicut rectus ordo exigit ut profunda Christianae fidei prius credamus quam ea praesumamus ratione discutere, ita negligentia mihi videtur si, postquam confirmati sumus in fide, non studems quod credimus intelligere» (Cur Deus homo, I,1 [Schmitt II,48]). Testo

  7. Altrettanto infruttuoso è cercare l'uso liturgico del salmo citato da Anselmo. Nel Messale Romano l'unica occorrenza del salmo è nel Communio «Quis dabit», usato nel lunedì della III settimana di Quaresima: ma il contesto della Messa non porta alcun lume. Nello schema dell'Ufficio divino benedettino nessuno dei due salmi gemelli 13 e 52 ha poi una posizione individuale, dato che entrambi sono utilizzati secondo la serie numerica (rispettivamente nell'Ora prima del giovedì e nel II Notturno del martedì). Pure la tradizione interpretativa illumina poca. Agostino dà un'interpretazione morale che riecheggia chiaramente la Lettera ai Romani (1,18-32): «Corrupti sunt et abominabiles facti sunt in affectionibus suis: id est, dum amant hoc saeculum, et non amant Deum: ipsae sunt affectiones quae corrumpunt animam, et sic excaecant, ut possit etiam dicere imprudens in corde suo: Non est Deus; sicut enim non probauerunt Deum habere in notitia, dedit illos Deus in reprobum sensum» (En. in ps., XIII, 2). L'usatissimo commento di Cassiodoro offre da parte sua una lettura cristologica completamente diversa, in cui il soggetto sottinteso è «Christus»: «Videns populus Iudaeorum Christum humiliter in assumpta carne uenisse, insipienter dixit: Non est Deus. Nec intellexit ipsum esse qui praedictus erat a prophetis. Ideo grauius quia non labiis, sed dixit in corde; ut malo uoto peior incredulitas iungeretur» (In Psalt. expositio, XIII [PL 70,104a]). Per questi motivi ci sembra anche superfluo interrogarsi su quale sia la migliore traduzione di «insipiens». Il termine è scelto da Anselmo semplicemente a partire dalla sua attestazione biblica, dove appunto così si trova qualificato il negatore di Dio (od originariamente, come oggi gli esegeti preferiscono dire, il negatore della sua presenza attiva nel mondo). Il senso esatto che Anselmo dà a questa espressione non si ricava né dalla lessicografia, né dalla tradizione interpretativa, neppure dalle argomentazioni in sé del Proslogion, bensì dal dichiarato senso complessivo dell'impresa intellettuale di Anselmo. Testo

  8. Si potrebbe essere più cauti e precisare che in questo modo viene mirato un tipo di eresia, quello che nella sua epoca risuonava come più corrosivo e pericoloso. In realtà tale cautela sarebbe probabilmente inutile: sia perché è esattamente questa e non altra la forma in cui Anselmo vede comparire l'eresia: nell'intera sua opera l'unico cenno esplicito all'eresia è in effetti rivolto ai «dialecticae haeretici» (Ep. de inc. Verbi, 1 [Schmitt 2,9]); sia perché, da Ireneo e Tertulliano in poi, proprio una posizione impropria della ragione era stata riconosciuta e teorizzata come l'essenza di tutte le posizioni eretiche; sia infine perché nel suo aspetto positivo, il primato da assegnare alla fede fermissima, la posizione propugnata di Anselmo è per definizione come l'evidente antitesi ad ogni possibile eresia. Testo

  9. C'è peraltro un passo della replica a Gaunilone in cui viene esplicitamente distinta l'argomentazione adatta ad un «insipiens» da quella adatta ad un «catholicus», ma questo avviene solo per un punto molto preciso: la possibilità cioè di pensare «id quo maius cogitari nequit». Anselmo sostiene che a tale mèta si giunge partendo dai beni che conosciamo in quanto limitati (di cui quindi sicuramente qualcosa di maggiore può essere pensato) e giungendo all'estremo di ciò di cui non può pensarsi nulla di maggiore, dunque tramite un processo di «coniectura». Questa mèta dunque non ha bisogno della fede per essere raggiunta. Il cattolico però non necessita di tale procedimento induttivo, perché sulla base della sua fede in Dio, espressa nelle Scritture, sa che le perfezioni invisibili di Dio sono intellettualmente contemplabili nella creazione, secondo la celebre affermazione di Paolo (ad Rom., 1,20): dunque il Dio infinito è pensabile a partire dalla creazione finita (Resp. Ans., 8 [Schmitt 1,137-138]). L'osservazione è rivelatrice perché mostra senz'alcun dubbio che tutto il discorso di Anselmo è vitalmente situato: l'argomentazione nel suo carattere dimostrativo è rivolta solo ad un insipiens, tant'è vero che il cattolico può risparmiarsi il procedimento iniziale di coniectura grazie alla sua fede in Dio; a maggior ragione dunque tutta la dimostrazione dell'esistenza di Dio non è rivolta al cattolico! E in effetti, essa si presenta sotto la forma dell'élenchos, della confutazione, che suppone un interlocutore che nega. Ma ciò ovviamente non toglie che l'argomento sia prezioso al cattolico per il suo carattere di conquista gioiosa dell'intellegibilità della fede, come ora meglio vedremo. Testo

  10. In questo quadro l'obiezione di Tommaso all'argomento di Anselmo è rivelatrice. Esaminata attentamente, questa ha pochissimo a che fare con quella «contestazione del passaggio dal pensiero alla realtà» che sovente gli è stata attribuita. Il punto fondamentale consiste invece nel fatto che (complice la mediazione di Guglielmo di Auxerre nella Summa aurea) Tommaso trasforma l'argomento di Anselmo in un'affermazione sull'evidenza dell'esistenza di Dio (questa sarebbe nota per se) e dunque sull'inutilità e impossibilità di una sua dimostrazione. È evidente che Anselmo, che scrive i primi capitoli del Proslogion proprio per dimostrare l'esistenza di Dio, non si sarebbe mai riconosciuto in questa descrizione. Ma tale slittamento di significato in Tommaso è possibile sostituendo nel primo passo proprio il termine chiave: non più credimus, ma intelligimus! Quello che insomma in Anselmo era l'esito della ricerca all'interno della propria fede di un punto di partenza che permettesse una ricostruzione razionale dei contenuti oggettivi della fede stessa, in Tommaso viene trasformato in un punto di partenza simpliciter, dunque accessibile come il significato stesso del nome di Dio: ciò che effettivamente può essere facilmente confutato su un piano empirico (gli uomini non comprendono affatto inevitabilmente Dio come «ciò di cui non può pensarsi nulla di maggiore»), a meno che non ci si riferisca alla visione beatifica (e questo è il punto che Tommaso sottolinea di più nella confutazione che conduce in De ver., q. 10 a. 12). Del tutto ignorato è poi il fatto che in Anselmo tale determinazione di Dio è sì un «punto di partenza» accettabile dalla ragione, ma non immediatamente, bensì in quanto (cf. nt. precedente) esito di un processo induttivo sui beni finiti (il che potrebbe anche far sostenere che l'argomento di Anselmo riaffiora in Tommaso, in forma grandemente semplificata, come quarta via). Evidentemente in questo mutamento di significato si rivela la nascita dell'ideale di una philosophia come strada autonoma rispetto alla fede, nei suoi punti di partenza e nel suo svolgimento, un ideale che viene sostituito a quello anselmiano di una fede che per convincere l'insipiens (e per un altro motivo, su cui ritorneremo) incorpora in sé l'esigenza «eretica» di razionalità. Questo è il punto che c'interessava sottolineare. Per completezza, aggiungiamo che più difficile è comprendere esattamente perché Tommaso sostenga che anche una volta che sia disponibile la determinazione di Dio come «id quo nihil maius cogitari potest» l'argomento comunque fallisce: il testo della Summa theologiae qui non aiuta per nulla. Più utili le giovanili notazioni di I Sent., d. 3 q. 1 a. 2 ad 4, riprese in Summa contra Gent., I, 11 n. 2: soprattutto in quest'ultimo testo Tommaso sembra fare un ragionamento in due tappe: anzitutto, la determinazione proposta, una volta pensata, è presente nel solo intelletto (e qui ovviamente Anselmo sarebbe d'accordo); ma per poter concludere in secondo luogo alla sua esistenza reale bisogna ammettere la possibilità dell'infinito attuale: in mancanza di quest'ammissione ad «aliquid quo nihil maius cogitari potest» non potrebbe evidentemente corrispondere nulla nella realtà («non enim inconveniens est quolibet dato vel in re vel in intellectu aliquid maius cogitari posse, nisi ei qui concedit esse aliquid quo maius cogitari non possit in rerum natura»: errata la traduzione italiana di Tito S. Centi, La Somma contro i Gentili, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2001). L'argomento di Anselmo dunque in questo secondo aspetto verrebbe accusato di essere circolare (l'infinito attuale si può infatti affermare solo grazie alla dimostrazione di Dio). Su tutta la questione vedi Matthew R. Cosgrove, «Thomas Aquinas on Anselm's Argument», The Review of Metaphysics, vol. 27, n. 3 (marzo 1974), pp. 513-530. Testo

  11. Che questa interpretazione non sia esagerata è confermato anche dalla vicenda travagliata del Monologion: l'epistolario ci fa intuire come Lanfranco fosse rimasto profondamente perplesso dall'opera del discepolo. Una volta escluso che questa reazione fosse suscitata dai contenuti, in sé perfettamente ortodossi, resta solo l'ipotesi che ciò che appariva sorprendente era il metodo. La reazione dovette anzi essere così poco incoraggiante da far dichiarare ad Anselmo la sua prontezza a distruggere il testo, il che evidentemente non avvenne (cf. Ep. 74 e 77). Dunque, malgrado la retorica oggi diffusa della fides quaerens intellectum come espressione dello spirito teologico medievale, la posizione di Anselmo doveva apparire come pericolosamente innovatrice. Il senso di questo pericolo, e di questa fecondità, è esattamente ciò che vogliamo qui mostrare. Testo

  12. «Ergo, Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit. Quoniam namque ualet cogitari esse aliquid huiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te; quod fieri nequit» (Prosl., 15 [Schmitt 1,112]). Su tale punto cruciale ha attirato l'attenzione soprattutto Coloman Étienne Viola; vedi di lui «La dialectique de la grandeur. Une interprétation du Proslogion», Recherches de Théologie ancienne et médiévale, vol. 37 (1970), pp. 23-55; Anselmo d'Aosta. Fede e ricerca dell'intelligenza, trad. it. di Antonio Tombolini, Jaca Book, Milano 2000. È questo un aspetto stranamente poco valorizzato da Jean-Luc Marion, che pure fa dell'eccedenza di Dio rispetto al concetto uno dei cardini della sua interpretazione non-ontologica del Proslogion: vedi «Is the ontological argument ontological? The argument according to Anselm and its metaphysical interpretation according to Kant», Journal of the History of Philosophy, vol. 30, n. 2 (aprile 1992), pp. 201-218 (l'articolo riprende e corregge «L'argument relève-t-il de l'ontologie ?», in Marco M. Olivetti (curatore), L'argomento ontologico, CEDAM, Padova 1990, pp. 43-69). Testo

  13. La posizione reale dei maestri delle arti parigini si è potuta ricostruire solo negli ultimi decenni soprattutto grazie alla conoscenza diretta dei loro testi. Una precisa messa a punto, che include un'illuminante sintesi della storia dell'interpretazione, si può trovare in François-Xavier Putallaz, Ruedi Imbach, Profession : philosophe. Siger de Brabant, Cerf, Parigi 1997 [trad. it. di Antonio Tombolini, Professione filosofo. Sigieri di Brabante, Jaca Book, Milano 1998]. Testo

  14. «Nota, nullum supernaturale potest ratione naturali ostendi inesse viatori, nec necessario requiri ad perfectionem eius; nec etiam habens potest cognoscere illud sibi inesse. Igitur impossibile est hic contra Aristotelem uti ratione naturali: si arguatur ex creditis, non est ratio contra philosophum, quia praemissam creditam non concedet. Unde istae rationes hic factae contra ipsum alteram praemissam habent creditam vel probatam ex credito; ideo non sunt nisi persuasiones theologicae, ex creditis ad creditum» (Ord., prol., Ed.Vat. 12 = Ed.min. 15). Il testo è una delle aggiunte di Scoto ripristinate nell'Edizione Vaticana. Questa in particolare non aggiunge nulla alle argomentazioni già presenti, ma riassume con precisione il particolare statuto delle discussioni successive; questo deve essere chiarito anche con il confronto con la disamina delle virtù teologali, dove il principio secondo cui «nessun elemento soprannaturale si può dimostrare presente nell'uomo nello stato terreno» è uno dei fili conduttori. Da respingere dunque l'opinione di Gérard Segond (Jean Duns Scot, Prologue de l'Ordinatio, Presses Universitaires de France, Paris 1999, p. 45), che la ritiene non autentica in quanto a suo parere fuori contesto e difforme dall'autentica dottrina di Scoto: quanto ciò sia infondato lo abbiamo accennato; appoggiarsi sul fatto che il testo è posto nell'Ed.Vat. «entre crochets» è poi fuori luogo: ciò segnala un'aggiunta autografa la cui autenticità è perfino più sicura del testo principale. Testo

  15. A tale slittamento di senso rispetto ad Anselmo ne corrisponde anche un altro, non meno gravido di conseguenze: il fatto cioè che l'approfondimento razionale dei contenuti della fede viene ora decisamente considerato come un'attività specializzata, nettamente distinta non solo dalla consapevolezza che è pur sempre necessaria per poter effettuare l'atto di fede, ma dalla fede stessa. Tale prospettiva viene articolata da Scoto soprattutto nel confronto con l'idea di teologia di Enrico di Gand, il quale, peraltro apparentemente rielaborando uno spunto anselmiano («inter fidem et speciem intellectum quem in hac uita capimus esse medium intelligo», Cur Deus homo, comm. [Schmitt II,40]), concepisce l'attività teologica come debitrice di un preciso lume soprannaturale, superiore a quello della fede e inferiore a quello della gloria. Scoto replica che ciò implicherebbe nel teologo una fede maggiore rispetto al semplice credente, il che è (ahimé) smentito dall'esperienza. Abbiamo documentato e analizzato la questione in «Nessuna luce. Fede, teologia e contemplazione in Giovanni Duns Scoto», in Daniele Bertini, Giovanni Salmeri, Paolo Trianni (curatori), Teologia dell'esperienza, Nuova Cultura, Roma 2010, pp. 153-172. Testo

  16. Perfino la qualifica della beatitudine promessa come qualcosa «quod porcis et asinis convenit» si comprende solo sullo sfondo del testo della Metafisica avicenniana (IX,7), nella quale in questo contesto si parla di «asino», l'animale più basso nel mondo islamico; una metafora zoologica che Scoto completa con il corrispondente cattolico, il «porco». È questo un sottile riferimento che l'Edizione Vaticana non rileva, ma che contribuisce non poco a mostrare lo spirito dell'osservazione di Scoto. Testo

  17. Che nella trattazione generale dell'eresia Scoto si stia qui ispirando ad Agostino risulta chiarissimo dal confronto con Contra Adim., 14,2 (il riferimento manca nell'apparato dell'Edizione Vaticana), dove peraltro già si trova accennato il tema che Scoto, come ora vedremo, sviluppa: secondo Agostino gli eretici «particulas quasdam de Scripturis eligunt». Riguardo al tema della confessione ad un laico, vedi in proposito un'utile rassegna nella Catholic Encyclopedia [1907-1917], s.v. «Lay confession». Per quanto riguarda la storia del sacramento della penitenza, la posizione di Scoto si connette al fatto che egli la definisce a partire dall'assoluzione e non, come Tommaso, dagli atti del penitente. In tale prospettiva Scoto può a chiare lettere dichiarare di vedere in questo surplus di devozione, che non ha alcun valore sacramentale, più rischi che vantaggi (Ord., IV, d. 14, Ed.min. 183; IV, d. 17, Ed.min. 89-90). Testo

  18. «Haereses ortae sunt per se legendo, quae conferendo repulsae sunt, quia conferentes diversas sententias adduxerunt, quae ex se invicem mutuo invenire potuerunt qualiter essent intelligendae» (Ed.Vat. 110 = Ed.min. 163). L'Edizione Vaticana cita al riguardo diversi passi di Enrico di Gand, sovente ispiratore diretto di Scoto (Summa, a. 15 q. 1 co. [Badius f. 102B]; a. 16 q. 1 co. [Badius f. 104G], a. 16 q. 7 co. [Badius f. 109B-C]): ma in questo caso il confronto è interessante perché nessuno di questi passi si avvicina veramente alla posizione di Scoto: in essi l'origine dell'eresia viene infatti vista nell'interpretazione scorretta di passi «difficili» della Scrittura. Testo

  19. «Auctoritates [...] possunt aliqualiter exponi, sicut communiter auctoritates trahuntur ad unum sensum vel alterum» (Ord., I, d. 26, Ed.Vat. 94 = Ed.min. 115). La questione discussa riguarda il carattere relativo o assoluto delle persone divine e correlativamente il loro eventuale essere costituite tramite le relazioni reciproche o quelle di origine, un campo dove Scoto cammina sul sottile crinale che distingue la posizione domenicana (rappresentata dalla prima alternativa) e quella francescana (rappresentata dalla seconda). Testo

  20. Questo è un tema che qui può essere solo accennato. Perlomeno bisogna aggiungere che tale sottolineatura, sicuramente più forte di quanto appaia per esempio in Tommaso, ha la sua giustificazione anche nello scetticismo, che abbiamo tentato brevemente di elaborare, nei confronti di una ragione che tenti dall'esterno di chiarire i contenuti della fede. Tentativi di questo tipo sono poi in ogni caso sottoposti al drastico limite imposto dal fatto che il rapporto di Dio ad extra è sempre contingente. Ciò impedisce dunque per principio di trovare ragioni necessarie, o che anche solo ne abbiano l'apparenza, quando il fondamento è la libertà divina che all'uomo appare sotto la forma dell'amore. Testo