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Salvati da che cosa?
La sostituzione vicaria in Girard e Levinas: commenti

(26 maggio 2004)

Il senso della sofferenza

Un lungo e gradito intervento propone alcune letture del tema dell'«ira divina» alternative a quella proposta in Salvati da che cosa?, valorizzando soprattutto il punto di vista della sofferenza del giusto:

La questione / le questioni

Prima di porre in essere la domanda sul «perché il male» in realtà la questione sarebbe da porre sul: «perché il mondo, perché l'uomo, perché io». Se fosse possibile dare o trovare una risposta a tutto ciò, allora sarebbe più chiara anche la questione del male ed i temi ad esso connessi, ad esempio quelli della giustizia, il ruolo del carnefice, quello della vittima ed i rapporti che li connettono l'uno all'altro, la sofferenza gratuita del giusto.

Altro problema si pone a mio avviso nell'accezione che diamo all'ira divina: intendiamo forse la collera di Dio? oppure vogliamo porla in correlazione con l'espiazione e quindi leggerla come una possibilità di redenzione? e ancora: l'ira di Dio ci mostra il suo vero volto?

La sofferenza come «significato» nella prospettiva mitica

Mircea Eliade, nel libro Il mito dell'eterno ritorno. Archetipi e ripetizione (Borla, Roma 1999, pp. 102-103) riferisce l'esistenza di un mito cosmico-agrario della tradizione mediterraneo-mesopotamica che mette in correlazione le tematiche della sofferenza e della resurrezione, in cui il protagonista è il dio Tammuz che soffre, muore e poi risorge. In quest'ottica, evidenzia Eliade, la sofferenza dell'uomo non è solo paragonata a quella del dio ma in qualche modo riceve una sua contestualizzazione (ripetizione dell'archetipo, come il dio) e ha un effetto consolatorio che dà speranza per il futuro: qualsiasi sofferenza alla luce di ciò può essere sopportata a patto che ci si ricordi di Tammuz. La sofferenza e la morte non sono mai, pertanto, lette in modo definitivo, ad esse seguirà sempre una resurrezione, ogni sconfitta annullata dalla vittoria finale. Tammuz soffre ingiustamente, è il paradigma del giusto e dell'innocente, egli viene percosso, rinchiuso in un pozzo e alla fine liberato dalla Grande Dea e resuscitato. Ciò che è inaccettabile nella prospettiva mitica è la sofferenza senza un perché; se invece inserita in un contesto essa diviene sopportabile.

Il Talmud e il ruggito di Dio

Mi sembra interessante sottolineare la prospettiva che pone in atto la tradizione orale rabbinica, espressa nel Talmud (vedi Sofia Cavalletti [curatrice], Talmud. Il trattato delle benedizioni [Berakhot], Utet, Torino 2003), nella quale si parla del «lamento del Signore» che ha dato origine, in alcuni ambienti mistici, al Tiqqun Hasoth, cioè alla restaurazione della mezzanotte, in cui si recitano salmi e lamenti per l'esilio della Shekhinah:

Disse Rab Jishaq, figlio di Shemuèl, anome di Rab: La notte ha tre vigilie e ad ogni vigilia siede il Santo, Egli sia benedetto, e ruggisce come un leone e dice: «Guai ai figli, perché a causa dei loro peccati io ho distrutto la mia Casa e ho dato alle fiamme il mio tempio e li ho esiliati tra le genti del mondo» (p. 71). [...] Ognuno in cui il Santo, Egli sia benedetto, si compiace, Egli lo colpisce per mezzo di sofferenze, come è detto: «E il Signore si compiacque di lui e lo colpì a mezzo di malattie» (Is 53,10) [...] ed ancora: «Se egli rende se stesso come un sacrificio per la colpa commessa» (Is 53,10) così anche le sofferenze possono essere considerate come espressione dell'amore di Dio, se volontariamente accettate (p. 86). «La mia ira passerà e io ti concederò pace» (p. 101).

La prospettiva biblica del Libro di Giobbe: la sofferenza senza un perché

Questo libro, che è al contempo un testo poetico e drammatico, ha in sé racchiuse delle chiare finalità che potremmo definire, proprio alla luce delle tematiche che propone, formativo-educative-esistenziali. In esso è presente il pathos di una coscienza che cerca le ragioni del suo soffrire e si opera un vero e proprio scavo all'interno, non solo della soggettività umana, ma dello stesso rapporto che intercorre tra Dio e l'uomo, tra l'ira divina e la sofferenza del giusto.

La storia è nota. Giobbe ignora il motivo del suo soffrire, la sua condanna più grande risiede infatti nel patire senza conoscere le ragioni del suo soffrire; egli però non si rassegna, non si limita all'essere passivo come lo schiavo di cui parla Isaia 53 e si lancia in una ricerca rischiosa, ai limiti delle sue possibilità, ma non per questo rinunciabile. La sua storia ed il suo cercare-a-tentoni-nelle tenebre potrebbe essere letta come il prototipo dell'umanità sofferente di ogni epoca, che s'interroga sul senso del proprio cammino-nel-mondo e non rinuncia ad esplorare il significato di un dolore che appare irrimediabilemente come non-senso; altresì e, questa mi sembra la prospettiva assolutamente innovativa e rivoluzionaria del testo, Giobbe non rifiuta la sofferenza, la accoglie su di sé e proprio alla luce di essa cerca di discernere le ragioni del suo soffrire. Come? Interrogando lo stesso Dio. Quale chiave di lettura dare a tutto ciò? È sorprendente il fatto che Dio, pur rispondendo a Giobbe che

non è dato all'uomo chiedere conto a Dio del suo operato, dato che gliene mancano sia la competenza sia il diritto ed invece spetta solo a Lui, nella sua suprema libertà, l'agire secondo schemi che sono incomprensibili per l'uomo, che la sua saggezza non è quella dell'uomo; al contempo lo prende sul serio ed è proprio questo che consente a Giobbe di uscire dal vicolo cieco nel quale si trovava ed accettare la risposta che gli viene data, anche se agli occhi umani essa può apparire un non-senso come la stessa sofferenza (J. Alberto Soggin, Introduzione all'Antico Testamento. Dalle origini alla chiusura del Canone alessandrino, Paideia, Brescia 1987, 4ª ed., p. 479).

Quello che vorrei sottolineare è che Giobbe trova proprio nell'essere-preso-sul-serio come interlocutore le ragioni dell'accettazione; letta in quest'ottica l'ira divina o comunque la sofferenza del giusto assumono una connotazione assolutamente diversa da quanto propone Girard e si snodano su uno sfondo o all'interno di un contesto che le accomuna: l'uomo non è mai solo strumento-in-quanto-creatura nelle mani di Dio, ma è Soggetto, è Io proprio a partire dal Tu divino. La dignità umana, il Sé, come afferma Rosenzweig, la stessa essenza dell'uomo in quanto soggetto, non risiedono allora in lui, ma nello stesso Dio inteso come provvidenza e redenzione.

Ma come conciliare questa prospettiva con la innegabile sofferenza del giusto? Mi sembra interessante porre l'attenzione su ciò che Mario Trevi scrive nell'introduzione a Il libro di Giobbe (Feltrinelli, Milano 1991) quando afferma che

il Dio che continuasse a parlare come fa Jhwh del Libro di Giobbe, dovrebbe farsi carico di Auschwitz e non sarebbe facile per Lui [...]. È probabile che occorra avere il coraggio di essere più radicali [...] Dio non è il Signore del mondo ma solo il signore dell'uomo. Dio non è il Signore dell'universo, non è il Signore della natura. È il Signore venturo dell'uomo, in quel breve margine in cui questo, espunto dalla natura, ha sperimentato una difficilissima libertà (p. 41).

Ed è proprio questo ciò che cerca Giobbe e ciò che cerca ogni uomo: non un Dio inteso come demiurgo che si degrada in un'esibizione di forza (così potrebbe essere letta l'Ira divina), ma un Dio che abbia bisogno della collaborazione umana per l'avvento del Regno, cioè per l'edificazione, congiunta, di un universo etico in perenne costruzione, nella prospettiva del «già e non ancora» giovanneo.

La prospettiva di Franz Rosenzweig

«Se voi mi date testimonianza allora, io sono Dio, e altrimenti no» (Pesikta 12, 6; Is 43,10). È curioso notare che sia Levinas sia Rosenzweig si richiamano a quest'immagine per porre la questione del rapporto Dio-uomo in un'ottica che definirei filiale e prossemica. Qui non si pone l'accento sull'Ira divina, ma sulla gloria dell'infinito che è strettamente connessa alla presenza di Dio e dell'uomo, che si legano in modo inscindibile.

«Laddove voi mi testimoniate io ci sarò»: non si parla qui di una presenza che esce in modo assoluto, quasi fosse imposta, ma si pone l'accento sulla debolezza di Dio che è strettamente connessa alla debolezza della soggettività, che è altresì legata al valore della testimonianza e al per-l'altro. Non un uomo quindi sottoposto alla funesta Ira divina, ma un'anima che prega per la venuta del Regno (La stella della redenzione, Marietti, Genova-Milano 2003, p. 197): questa è l'immagine che Rosenzweig ci dà della soggettività dopo la rivelazione, che viene da lui definita «storicità del miracolo» e che culmina in un desiderio inappagato, nel «grido inappagato che attende risposta». È così infatti che l'autore legge l'esperienza di Giobbe:

Il fatto che l'anima abbia il coraggio di desiderare in tal modo, di chiedere così, di gridare così, [...] è l'opera della Rivelazione. [...] Esso non proviene più dalla quiete beata dell'anima dell'essere-amata, ma sale con nuova inquietudine da una profondità nuova [...] al di là della prossimità non vista, ma sentita dell'amante, prorompe in singhiozzi fin entro al crepuscolo dell'infinito (p. 198).

A mio avviso, la sostituzione vicaria di cui parla Levinas è una soggettività che si costituisce a partire all'alterità: «Dov'è Abele tuo fratello?». È qui che è racchiuso tutto il senso di un Io che si costituisce come Tu nell'ottica di una libertà-come-responsabilità, per dirla con Jean-Luc Nancy di una libertà-di-cui-si-fa-esperienza.

Rosenzweig altresì indica il prossimo come «vicario» del più lontano che diviene attingibile in ogni istante; nell'«Ama il prossimo tuo come te stesso» egli legge tutto ciò con «il tuo prossimo è come te» (p. 257). All'uomo non spetta pertanto negare se stesso; anzi, proprio alla luce di questo amore il sé viene confermato in modo univoco; ma al contempo gli viene detto:

Egli è come te, non te, quindi, tu, rimani tu e devi rimanere tale [...] ma per te egli è il tuo tu, un tu come te, un io [...] un'anima (p. 258).

Quale Dio dunque e per quale uomo? È molto bella e suggestiva la conclusione con cui Rosenzweig termina la sua opera ed è proprio con questa immagine di Dio e l'uomo che camminano l'uno al fianco dell'altro, come un Io, come un Tu che vorrei concludere:

Camminare in semplicità con il tuo Dio: qui non si richiede nulla più della completa presenza della fiducia. Ma fiducia è una parola grande. È il seme da cui crescono fede speranza e amore ed il frutto che da essi matura. È la cosa più semplice di tutte e proprio per questo la più difficile. Ad ogni istante essa osa dire «è vero!» alla verità. Camminare in semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal misterioso-miracoloso splendore del santuario di Dio, dove nessun uomo può restare a vivere, conduce verso l'esterno. Ma su che cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo sai? Sulla vita.

Cristiana De Gregorio

Tutte le idee qui presentate o accennate meritano di essere discusse, e questo spazio è aperto per ulteriori interventi. Io da parte mia ho l'impressione che spostare l'attenzione sulla sofferenza del giusto, se da una parte porta in primo piano il tema del senso personale della sofferenza (cosa preziosissima), dall'altra non incrocia due problemi che sono lancinanti nella teologia cristiana: l'esistenza di una punizione eterna, e il ruolo redentore della passione di Cristo. Certo, entrambi questi temi affondano le loro radici in ultima analisi in elementi propri anche alla riflessione ebraica (che qui sono stati diffusamente evocati), ma perlomeno la storia della loro recezione ed elaborazione mostra un «di più» che non mi pare facilmente riducibile. Detto in altre parole: il problema della sofferenza si esaurisce nel problema del senso che le dà il sofferente, o no? Se la risposta è positiva, penso non esista nulla in contrario a vedere già in Giobbe o nel Talmud una soteriologia: sapere e percepire che la «sofferenza» è il segno del'amore di Dio è già una salvezza da essa, perché la ferita diventa ferita d'amore. A questo punto davvero Girard entra molto poco e il suo sarebbe solo il tentativo di capovolgere sulle geometrie sociali cose che hanno il loro posto nella profondità dell'anima.

Ma se nella sofferenza c'è qualcosa che non si lascia ridurre a problema del senso, qualcosa per così dire che «sporge», ci sarà un abisso che va esplorato in corrispondenza di ogni millimetro di «sporgenza». Forse affermare che Dio non è il Signore del mondo (ma solo dell'uomo), o negargli in qualche senso l'attributo dell'onnipotenza (come fece Jonas) sono tutte strategie per evitare questo abisso. Certo, Dio diventa così ancor più il compagno di strada dell'uomo («camminare in semplicità con il tuo Dio», come dice Rosenzweig citando Michea), ma il rischio potrebbe essere abbandonare tutto il mondo ad una cupa insignificanza: un rischio che mi ricorda troppo da vicino la teoria marcionita della creazione da parte di un cattivo demiurgo per poterlo correre a cuor leggero.