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Cristo-verità nella Lectura super Evangelium S. Ioannis di Tommaso d'Aquino. Una verifica

di Cristiano Massimo Parisi (2 ottobre 2012)

Il presente lavoro prende in esame una delle più autorevoli voci della tradizione della Chiesa, quella di Tommaso d'Aquino e la sua ermeneutica della nozione di verità dal punto di vista esegetico. Il fine vuole essere quello di cogliere alcune tra le dimensioni più rilevanti di una possibile teologia della verità nell'Aquinate. Come fonte è stata utilizzata la Lectura super Evangelium S. Ioannis. Una verifica dell'uso del concetto di verità nella suddetta opera servirà ad evidenziare alcuni temi teologici: la riflessione sul Verbo e la relativa appropriazione della verità al Figlio; il conseguente accesso, la possibilità di adesione e di partecipazione alla verità divina da parte della creatura, nel momento in cui il Logos è divenuto carne; l'evento pasquale, culmine della rivelazione stessa e la dimensione agapica, alfa e omega della rivelazione. Resterà affidato alla conclusione il compito di valutare se questa verifica abbia potuto almeno tratteggiare i principali contenuti teologici di cui sopra e tentare una valutazione critica personale.

La quaestio de veritate sta riproponendosi, agli inizi di questo terzo millennio, in modo sempre più evidente. Da un lato vi è il tentativo di abbandonare il principio di assolutezza della verità, per adeguarsi a un criterio più esperienziale, esistenziale, soggettivo, che definisce una certa cultura post-moderna; nello stesso tempo, nell'ambito del «pluralismo teocentrico», sta proprio la crisi, «insieme metafisica ed epistemologica, della concezione della «verità», attraverso l'assunzione di «modelli di pensiero» che sottoscrivono la frattura»1 tra l'aspetto metafisico e quello ermeneutico, finendo per cadere in quel relativismo che si risolve in una progressiva «crisi di senso».2 Tuttavia, in ambito teologico il tema della verità si è arricchito dell'apporto di numerosi studi biblici ed è stato messo in rilievo anche dal recente magistero di Benedetto XVI e dal suo pensiero di teologo.3

Le attuali ricerche esegetiche hanno evidenziato il valore della nozione di verità nella Sacra Scrittura, sottolineando, nell'Antico Testamento, il suo legame, da un lato, con la veridicità di Dio, la sua fedeltà al popolo e all'alleanza e, dall'altro, con l'atteggiamento di affidamento e obbedienza nei suoi confronti; nel Nuovo Testamento, invece, è stato evidenziato il suo legame con l'idea di «rivelazione», «libertà».4

Nel presente lavoro si vuole prendere in esame una delle più autorevoli voci della tradizione della Chiesa, quella di Tommaso d'Aquino e la sua ermeneutica della nozione di verità dal punto di vista esegetico. L'attenzione sarà posta, infatti, non sulla sua speculazione filosofica relativa alla quaestio de veritate, quanto sulla peculiarità della sua riflessione in ambito esegetico riguardante tale questione. Il fine vuole essere quello di cogliere alcune tra le dimensioni più rilevanti di una possibile teologia della verità nell'Aquinate.

Il metodo che seguiremo consisterà nel ricercare quegli aspetti concettuali e tematici che caratterizzano l'esegesi e la riflessione di Tommaso sulla verità rivelata. Come fonte verrà utilizzata la Lectura super Evangelium S. Ioannis (In Ioa).5

Una verifica dell'uso del concetto di verità nella suddetta opera servirà ad evidenziare alcuni temi teologici: la riflessione sul Verbo e la relativa attribuzione della verità al Figlio; il conseguente accesso, la possibilità di adesione e di partecipazione alla verità divina da parte della creatura, nel momento in cui il Logos è divenuto carne; l'evento pasquale, culmine della rivelazione stessa e la dimensione agapica, alfa e omega della rivelazione. Prima però verrà segnalato il metodo esegetico del tempo di Tommaso, i criteri propri dell'esegesi tommasiana e il suo modo di strutturare le pericopi del vangelo di Giovanni.

Resterà affidato alla conclusione il compito di valutare se questa verifica abbia potuto almeno tratteggiare i principali contenuti teologici di cui sopra e tentare una valutazione critica personale.

1. L'esegesi tommasiana

Tommaso non espone nell'In Ioa i criteri ermeneutici che lo guidano nell'esegesi del vangelo di Giovanni; in esso, tuttavia, ne troviamo l'applicazione. Tra i luoghi dell'ampia produzione tommasiana in cui si tratta del problema dell'esegesi ricordiamo le Quaestiones quodlibetales6 VII, q. 6.

Il problema della pluralità di significati dei testi biblici aveva portato in epoca patristica ad una distinzione, che nel Medioevo diventa canonica, dei quattro sensi della Sacra Scrittura: letterale, morale, allegorico, anagogico. Nell'alto Medioevo la riflessione esegetica aveva privilegiato la lettura allegorica; tuttavia, i contatti con l'esegesi ebraica e l'esigenza della teologia di acquisire nuovi strumenti scientifici, spinge studiosi come Ugo di san Vittore e il suo discepolo Andrea a insistere sul senso letterale.7

La riflessione di Tommaso si inserisce in questa nuova direzione: egli, pur affermando la pluralità dei sensi biblici, articolata su una precisa «teoria della significazione», che permette di distinguere tra senso letterale e spirituale,8 sostiene il primato del senso letterale, sul quale si fonda il senso spirituale e dal quale procede.9 L'Aquinate si pone anche il problema della pluralità dei sensi letterali, questione che risolve riflettendo su chi sia l'autore della Sacra Scrittura. Lo Spirito Santo è il principale, il quale con una parola può aver inteso più cose di quelle comprese dagli esegeti; ma anche l'uomo, l'autore strumentale, può aver dato più sensi a una sola parola; per queste ragioni possono esserci più sensi letterali di uno stesso passo scritturistico.10 La preferenza per il senso letterale non esclude che Tommaso utilizzi anche gli altri livelli di interpretazione del testo biblico (in In Ioa si trovano esempi di una lettura allegorica); tuttavia, la sacra doctrina può trarre argomenti efficaci soltanto a partire dall'esegesi letterale. È chiaro che tale posizione ha come suo presupposto l'idea della teologia come scienza, propria del XIII secolo, la quale ha bisogno di una base scritturistica su cui fondare la struttura argomentativa, che andrà a caratterizzare la successiva elaborazione dottrinale. Inoltre, la stessa esegesi tommasiana non si limita mai ad uno studio del testo biblico a livello esclusivamente critico-filologico, ma si configura intrinsecamente come un'esegesi teologica.11

1.1. L'aspetto teologico dell'esegesi tommasiana

La questione dell'aspetto teologico dell'esegesi tommasiana è stata oggetto di attenti studi ed è stata condizionata dai differenti modelli di esegesi e di teologia che sono stati presi a riferimento.12 Resta evidente che l'esegesi di Tommaso non si limita ad uno studio critico e filologico del testo, ma propende verso una riflessione dottrinale sui contenuti che la Sacra Scrittura offre. Ciò non significa che il testo viene piegato ad un determinato schema dottrinale, ma, seguendo la trama del racconto biblico, vengono fatti emergere tutti quegli elementi teologicamente rilevanti.13

Il punto di partenza di tale esegesi teologica è costituito da qualche difficoltà presente nel testo sacro. L'approfondimento teologico diventa lo strumento per chiarire i problemi, utilizzando quel metodo argomentativo tipico dell'ambito accademico e che ritroviamo nelle opere sistematiche dell'Aquinate: la proposizione di un problema, gli argomenti a favore e contrari, la soluzione.14 Per quanto riguarda le opere esegetiche, questo metodo viene assunto all'interno di un orizzonte innanzitutto scritturistico. Le difficoltà tra i vari passi della Scrittura sono risolte dapprima appoggiandosi alla citazione di luoghi paralleli e con catene di citazioni di altri passi utili allo scopo; successivamente troviamo l'interpretazione dei Padri della Chiesa,15 dei commentatori contemporanei,16 un riferimento alle eresie,17 la cui confutazione aiuta a cogliere il senso autentico, il ricorso a filosofi antichi e ad autori profani.18

1.2. La divisione del testo

Uno degli aspetti dell'esegesi tommasiana, proprio nella sua dimensione teologica, è quello di cercare di cogliere l'intentio auctoris19 Obiettivo dell'esegeta è innanzitutto quello di trovare il pensiero stesso dell'autore ispirato; dopodiché, cercare quel tema generale caratteristico di ciascun libro, la cui comprensione dà senso a tutti i dettagli.20 Il metodo per verificare tale intentio è quello della divisione del testo in unità sempre più piccole e definite, fino ad arrivare alla considerazione del singolo versetto. «Si tratta di un'analisi che sviluppa il piano più propriamente contestuale dell'esegesi letterale, distinguendosi dall'analisi testuale, in cui gli strumenti d'indagine sono offerti dalla grammatica, dalla retorica e dall'analisi letterale stricto sensu, altresì distinguendosi dall'analisi teologica e filosofica. Nella tripartizione del metodo letterale, littera, sensus, sententia, la divisio textus corrisponde al secondo momento, alla definizione del sensus del testo».21

Attraverso la divisione del testo si comprende il significato dei singoli versetti come momenti all'interno di un'unica struttura articolata, nel contesto del libro sacro in esame e tenendo sempre presente lo scopo ultimo dello scritto.

Un esempio di tale metodo esegetico è fornito proprio dall'In Ioa: Tommaso divide il testo del quarto Vangelo in due parti: il primo capitolo, che è sull'attestazione della divinità del Verbo (In Ioa, 23-334), e il resto del Vangelo, che riguarda la manifestazione della divinità attraverso le opere della vita pubblica, la passione, morte e resurrezione22 (In Ioa, 335ss). Il metodo della divisione del testo penetra nella profondità dei singoli versetti, senza però perdere di vista il piano complessivo e la tematica individuata come specifica del vangelo di Giovanni.

2. Il Verbo-Verità

Nell'In Ioa troviamo una serie di passi che, ad una prima lettura, possono creare una certa confusione: quando l'Aquinate cerca di interpretare in che senso Cristo sia verità, da una parte sembra contrapporre umanità e divinità del Verbo incarnato, attribuendo la «verità» esclusivamente al Logos; dall'altra, sembra considerare «verità» il Cristo nella sua interezza, ossia il Logos-sarx. Ecco alcuni esempi:

Come abbiamo già visto, la via è Cristo medesimo; perciò afferma: «Io sono la via» [...]. Ma poiché questa via non è lontana dal termine, ma con esso congiunta, aggiunge: «... e la verità e la vita»; cosicché egli è insieme e via e termine. È via secondo la sua umanità; è termine secondo la sua Divinità. Perciò in quanto uomo egli afferma: «Io sono la via»; e in quanto Dio aggiunge ... e la verità e la vita.23

Perciò se tu ti chiedi per dove passare, volgiti a Cristo, perché lui è la via [...]. Se poi tu richiedi dove andare, stringiti a Cristo, perché lui è la verità cui desideriamo arrivare [...]. Se ti domandi dove riposare, aderisci a Cristo, perché egli è la vita.24

In Cristo, nel quale la natura umana è unita a quella divina in unità di supposito, o di persona, si riscontra un'unione perfetta e piena con Dio; perché l'unione fu tale che ogni azione e della natura umana e della natura divina erano azioni dell'unico supposito [...]. Fu inoltre pieno di verità, perché la natura umana in Cristo raggiunse la stessa verità divina, ossia quell'uomo era la stessa verità divina. Infatti negli altri uomini troviamo molte verità partecipate nella misura in cui la verità prima si riflette nelle loro menti attraverso molte immagini; ma Cristo è la verità in persona.25

I passi riportati mostrano delle divergenze per quanto riguarda il rapporto tra Cristo e la verità. Tali diversità, però, non sono il segno di un'incoerenza nel pensiero dell'Aquinate; tuttavia, per un' adeguata comprensione del suo pensiero, si rende necessario il richiamo alla rivelazione di Dio in Cristo, per penetrare «non tanto il mistero della verità divina essenziale, quanto di quella che appartiene (o è appropriata) al Verbo, il quale -- incarnandosi -- ce l'ha fatta conoscere».26

Prima però, è opportuno fare innanzitutto riferimento alla testimonianza giovannea di un Verbum in Dio. Ciò costituisce, per Tommaso, la premessa per un'analogia con la parola umana, che permette di penetrare il mistero di Dio nella sua unità e distinzione.

Va notato che queste due cose [la verità e la vita] spettano a Cristo in senso proprio ed essenziale. Infatti a lui spetta la verità, perché egli è il Verbo. Ora la verità altro non è che l'adeguazione tra realtà e intelletto, il che avviene quando l'intelletto concepisce la cosa così com'è. Perciò la verità del nostro intelletto appartiene al verbo mentale, che è il pensiero da noi concepito. Però il nostro verbo mentale, pur essendo vero, non è la verità stessa; non essendo tale in se stesso, bensì per il fatto che si adegua alla realtà che concepisce. Ma al Verbo di Dio appartiene la verità dell'intelletto divino. E poiché il Verbo divino è vero in se stesso, non essendo misurato dalle cose, ma al contrario in tanto le cose sono vere in quanto si avvicinano alla sua somiglianza, il Verbo di Dio è la stessa verità. E poiché nessuno può conoscere la verità, se non aderendo alla verità, è necessario che chiunque desidera conoscere la verità aderisca a questo Verbo.27

C'è un rapporto, dunque, tra verità e Verbo o, meglio ancora, possiamo parlare di identificazione tra il Verbo di Dio e la verità. Ma possiamo anche parlare di appartenenza della verità dell'intelletto divino al Verbo di Dio. Questo gioco di rimandi tra «uguaglianza» e «appartenenza» della verità e del Verbo conduce ad un duplice piano di interpretazione: da un lato Tommaso parte nella sua riflessione dal considerare «verità» un nome divino essenziale. Tuttavia, dal commento del testo scritturistico, si ricava anche la nozione di verità come di adequatio tra realtà e intelletto e la sua analogicità, in quanto possiede diversi livelli di significazione. Se la relazione di adeguazione trova in Dio il suo perfezionamento, in quanto diventa perfetta uguaglianza dell'intelletto divino con la propria essenza, nel momento in cui andiamo a considerare la rivelazione di Dio in Cristo, ecco che diventa possibile parlare di «appartenenza» della verità al Verbo. C'è, inoltre, un'affinità tra la nozione di verità, che implica un riferimento all'intelletto e il Verbo, che è concepito intellettualmente dal Padre:

Perciò a proposito di questo problema si deve tener presente che nel Vangelo si riscontra una duplice verità: l'una increata e fattiva, che è Cristo [...]; l'altra invece è la verità fatta, prodotta [...]. Ora la verità nel suo concetto implica adeguazione della realtà all'intelletto. Ma l'intelletto può riferirsi alle cose in due maniere: quale misura delle cose, se si tratta di quell'intelletto che è causa delle cose; oppure come misurato dalla realtà, se si tratta di quella conoscenza che è causata dalle cose. Perciò nell'intelletto divino si riscontra la verità non perché esso si adegua alle cose, ma perché le cose si adeguano all'intelletto divino. Invece nel nostro intelletto si riscontra la verità quando intende le cose come esse stanno. Cosicché la verità increata, l'intelletto divino, non è misurata né prodotta; bensì misurante e produttiva di due verità: della verità esistente nelle cose, in quanto le produce secondo l'archetipo loro esistente nell'intelletto divino; e della verità che si riscontra nelle nostre anime, la quale è verità soltanto misurata e non misurante. Ecco perché la verità increata viene appropriata al Figlio, che è il concepire stesso dell'intelletto divino, e Verbo di Dio. Infatti la verità segue il concepire dell'intelletto.28

Dunque, «anche in Dio il termine «verità» implica un riferimento all'intelletto [...]; è proprio tale relazione all'intelletto che viene «aggiunta» dalla nozione di «verità» alla nozione di «essere». È allora in virtù di tale relazione all'intelletto che Tommaso può appropriare la verità al Figlio, o meglio, al Verbo, data l'affinità tra la verità e il concepimento intellettuale del Verbo da parte del Padre».29 Non solo, ma come spiega sempre Tommaso in In Ioa, 1869 (testo sopracitato), se la verità è adeguazione della cosa all'intelletto, ciò avviene quando l'intelletto concepisce la cosa così come essa è. La verità è, quindi, la corrispondenza tra il concepimento dell'intelletto e la realtà conosciuta; ma il concepimento della mente è il verbo, nel quale l'intelletto conosce la cosa conosciuta; dunque, «la verità del nostro intelletto appartiene al verbo mentale, che è il pensiero da noi concepito».30 Di conseguenza, «senza verbo, cioè senza che l'intelletto sia giunto al perfezionamento del proprio processo intellettuale con la concezione della parola mentale, non può esservi la successiva corrispondenza con la cosa, e quindi verità».31

A sua volta, il verbo rimanda alla nozione di verità: «Nella nostra anima, quindi, si riscontrano e la cogitazione, o ragionamento, che indica la fase di ricerca, e la parola-verbo mentale, che è il concetto già formato nella percezione perfetta della verità».32 Senza dimenticare che il fine del processo conoscitivo è l'acquisizione della verità, il cui conseguimento avviene attraverso una adequatio, tale giudizio di conformazione è garantito dalla verità prima, la quale è causa sia della verità della cosa, sia della verità dell'intelletto, come abbiamo letto al paragrafo 1869. Quindi il verbo è formato «nella percezione perfetta della verità»33 ed è in virtù della verità increata che ogni verbo può essere costituito parola di verità.

Per cui, «sebbene siano tante le verità partecipate, c'è però una sola verità assoluta, che è tale per essenza: ed è lo stesso Essere divino per la cui verità tutte le parole vere sono vere».34 Anche se l'attività divina non è frutto dell'attività discorsiva, nel momento in cui Dio Padre ha rivelato la concezione del Verbo divino, appare di massima convenienza l'appropriazione della verità al Verbo. Questa appropriazione non è qualcosa di arbitrario, ma è rigorosamente fondata sulle nozioni di verità e di Verbo e sulla loro reciproca relazione.35

La dimensione manifestativa della verità, in quanto appropriata al Verbo, trova dunque la sua prima attuazione ad intra, nella vita divina immanente, nel suo essere espressiva di ciò che il Padre è; ed è su questo fondamento che si dispiega poi l'azione manifestativa del Verbo-verità ad extra, nella creazione e nella storia.36

Tommaso, inoltre, connette l'agire ad extra del Verbo alla categoria di «luce»: «Poiché la verità è una illuminazione dell'intelletto»; non solo, ma altrove si legge che ogni conoscenza è partecipazione alla luce del Verbo: «Sebbene alcune menti siano tenebrose, cioè prive del gusto e della luce della sapienza, tuttavia non sono mai così tenebrose da non partecipare almeno un poco alla luce divina. Poiché quel tanto di verità che chiunque è in grado di conoscere deriva tutto da una partecipazione di detta luce, che splende nelle tenebre, infatti qualsiasi verità, da chiunque sia enunciata, viene dallo Spirito Santo».37 C'è dunque un'implicazione reciproca tra Verbo, luce e verità. Nel paragrafo 1868, già precedentemente richiamato, Tommaso rifacendosi al prologo scrive che «la luce non è altro che la verità». Non solo, ma facendo l'esegesi di Gv 1, 4b, chiarisce il nesso tra il Verbo, la vita, l'essere luce degli uomini e la verità:

Per chiarire ancora meglio questa frase: «e la vita era la luce degli uomini», va ricordato che ci sono vari gradi di vita. Alcuni esseri infatti vivono, ma sono privi di luce, perché privi di conoscenza: per es., le piante. Quindi la loro vita non è luce. Altri esseri vivono e conoscono, ma la loro conoscenza è solo sensitiva, e perciò è limitata alle cose particolari e materiali, come avviene nel caso degli animali. Questi, dunque, hanno vita e anche una certa luce, ma non posseggono la luce degli uomini, i quali, non solo vivono e conoscono cose vere, ma conoscono pure la nozione di verità, come è proprio delle creature ragionevoli, le quali non colgono solo questa o quella cosa particolare, ma la verità stessa, che è in sé conoscibile e che fa conoscere tutte le cose. È per questo che l'Evangelista, parlando del Verbo, dice che egli non solo è vita, ma anche luce; perché non si pensi a una vita priva di conoscenza; e aggiunge «luce degli uomini», perché non si pensi a una conoscenza soltanto sensitiva, com'è quella degli animali.38

Il Verbo, quindi, in quanto Verità e in quanto «luce degli uomini», è quella verità che è conoscibile solo dagli uomini e che rende conoscibili tutte le cose.

Si noti però che la luce si può riferire ai viventi in due maniere: o come oggetto, o come virtù partecipata dal soggetto [...]. Perciò anche la frase, «e la vita era la luce degli uomini», può intendersi in due maniere. Primo, nel senso che il Verbo è luce degli uomini perché, quale oggetto, è percepibile solo dagli uomini; poiché solo la creatura ragionevole può vederlo, possedendo essa soltanto la capacità di vedere Dio [...]. Infatti gli altri animali conoscono alcuni oggetti che son veri, ma soltanto l'uomo conosce la nozione stessa di verità. Secondo, il Verbo può dirsi luce degli uomini in quanto da essi viene partecipato. Mai infatti potremmo conoscere il Verbo e la luce stessa, senza una loro partecipazione che si riscontra nell'uomo, e che costituisce la parte superiore della nostra anima: vale a dire la luce intellettiva.39

Nello studio della nozione di vita è quindi presente il concetto di luce, legato alla vita intellettiva, in quanto è partecipazione alla luce increata. Alla nozione di luce Tommaso collega la dimensione dell'intelligere: la vita al suo più alto grado è la vita intellettuale, definita nell'uomo partecipazione alla luce. In questo modo

la dinamica dell'intelligere nella prospettiva della Lectura mostra bene la sintesi di pensiero platonico-agostiniano e aristotelico operata da Tommaso, in cui il tema della partecipazione della luce creata alla luce increata si armonizza con la comprensione di Dio come actus intelligendi. La nozione di Dio come intelletto in atto e la partecipazione che l'uomo ha all'intelligere divino come partecipazione alla luce divina diventano così, nella prospettiva della Lectura, criteri di analisi esegetica decisivi per l'intero Evangelo.40

3. L'incarnazione come rivelazione della Verità

Abbiamo visto che per Tommaso la Verità, appropriata al Verbo, riguarda innanzitutto la divinità del Cristo; tuttavia, nel momento in cui Dio ha deciso di rivelarsi ad extra, attraverso l'assunzione, da parte del Verbo, della carne, questo evento ha dato alla creatura la possibilità di conoscere il Figlio e, attraverso di lui, il Padre e, quindi, di poter accedere alla verità divina. Grazie alla partecipazione al Verbo incarnato, l'uomo può vedere Dio, partecipando dei due tipi di luce divina: una, che è perfetta, ed è nella gloria di Dio e l'altra, imperfetta, che è la partecipazione nella fede.41 Tommaso affronta il tema dell'incarnazione seguendo l'andamento del Prologo e afferma innanzitutto che: «La necessità della venuta del Verbo emerge bene dalla mancanza di conoscenza divina esistente nel mondo».42

Perché l'uomo potesse conoscere Dio, è stata, dunque, necessaria la venuta nella carne del Verbo. Continuando la lettura del commento dell'Aquinate, scopriamo che tale necessità è da parte degli uomini, non da parte di Dio. Se da un lato il Verbo non aveva bisogno di incarnarsi, l'uomo aveva bisogno che questo avvenisse, perché la sua capacità di vedere Dio si potesse attuare. Non solo, ma nel prosieguo della lettura, Tommaso afferma che le ragioni per cui «gli uomini non conobbero Dio e non furono illuminati dal Verbo»43 non è dipeso da una omissione divina, e ciò lo dimostra richiamandosi alla stessa Scrittura: «primo, dall'efficacia della luce divina: «Era la luce vera, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo». Secondo, dalla presenza stessa di detta luce, poiché «essa era nel mondo». Terzo, dalla sua evidenza, poiché il mondo fu fatto per mezzo di lui».44 Dunque l'efficacia del Verbo si rileva dal fatto che «illumina ogni uomo che viene in questo mondo». Quindi, «tutto ciò che è per partecipazione deriva infatti da ciò che è tale per essenza, come ogni oggetto infuocato è tale perché partecipa il calore dal fuoco, che è fuoco per sua natura. Ora, poiché il Verbo è luce vera per sua natura, è necessario che ogni altro essere luminoso sia illuminato da lui e partecipi di lui. Egli quindi illumina ogni uomo che viene in questo mondo».45

Se l'uomo non è in grado di giungere alla piena conoscenza di Dio, ciò lo possiamo attribuire alla natura umana o alla colpa:

Alla natura, perché sebbene l'uomo abbia quegli aiuti [...] per giungere alla conoscenza di Dio, tuttavia la ragione umana è in sé debole e lontana da questa conoscenza [...]. Ma se alcuni sono giunti alla sua conoscenza, vi giunsero non perché erano nel mondo, bensì perché si elevarono al di sopra del mondo, tanto che «il mondo non era degno di loro»; poiché «il mondo non lo ha conosciuto». E in questo è quasi accennata la ragione per cui gli uomini non conoscono Dio. In tal senso per mondo s'intende l'amore disordinato delle cose create [...]. Perciò se quelli percepirono con l'intelligenza qualche verità, ciò avvenne perché non erano di questo mondo. Se invece tale carenza l'attribuiamo alla colpevolezza degli uomini, allora la frase «Il mondo non lo ha conosciuto» indica la causa per cui Dio non è conosciuto da parte degli uomini; e allora mondo sta ad indicare l'amore disordinato del mondo.46

Dopo aver tratteggiato la necessità dell'incarnazione dal punto di vista antropologico, vengono presi in esame, partendo questa volta dalla prospettiva divina, i motivi per cui Dio ha liberamente deciso d'incarnarsi:

Il primo è la perversione umana, che era ottenebrata per sua colpa dai vizi e dall'oscurità dell'ignoranza [...]. Il secondo è l'insufficienza della testimonianza profetica. Erano infatti venuti i Profeti e con essi Giovanni, ma non erano in gradi di illuminare a sufficienza, perché «... non era la luce». Era quindi necessario che, dopo i vaticini dei Profeti, e dopo la venuta di Giovanni, venisse la luce stessa e comunicasse al mondo la sua conoscenza [...]. Il terzo motivo è la limitatezza propria delle creature. Le creature infatti erano insufficienti per portare alla conoscenza del Creatore [...]. Perciò si richiedeva che lo stesso Creatore si incarnasse e venisse nel mondo, e così fosse conosciuto per se stesso.47

La dimensione manifestativa dell'incarnazione viene ancora evidenziata attraverso il commento dei versetti del Prologo, dove l'Aquinate afferma che il modo di venire del Verbo fatto carne è consistito «nel venire in una maniera nuova dove già si trovava in altro modo [...]. Infatti era già presente per essenza, per potenza e per presenza, ma venne mediante l'assunzione della carne: c'era invisibile e venne facendosi visibile».48 A proposito della visibilità del Verbo, Tommaso scrive:

Non solo ci fu concesso, mediante l'incarnazione del Verbo, il beneficio di diventare figlio di Dio, ma anche quello di vedere la sua gloria. Gli occhi deboli e malati non possono contemplare la luce del sole, però possono guardarla quando riluce in una nuvola, o in un corpo opaco. Prima dell'Incarnazione del Verbo la mente umana era inetta a contemplare direttamente la luce divina, che illumina tutti gli esseri intellettivi; perciò per farsi scorgere e contemplare da noi essa si velò con la nube della nostra carne.49

La mente umana non può arrivare a contemplare la luce divina; da qui la necessità di rivestire tale gloria di carne, in modo che gli occhi umani possano guardarla, così come avviene quando si vuole guardare la luce del sole e lo si fa attraverso una nuvola. «La Lectio VIII di In Ioa, dopo aver trattato del modo in cui il Verbo incarnato si è manifestato, si conclude con l'esegesi dell'ultima parte di Gv 1, 14, dove si precisa quale sia la «gloria» del Verbo incarnato e si afferma che è plenum gratiae et veritatis».50 L'espressione «pieno di grazia e di verità», riferita a Cristo, si può interpretare, dice Tommaso, in tre modi: in rapporto all'unione ipostatica, alla perfezione dell'anima, alla sua dignità in quanto è Capo della Chiesa. Per quanto riguarda la prima interpretazione, il Dottore Angelico afferma che «la grazia viene comunicata a qualcuno perché per mezzo di essa egli si unisca a Dio. Quindi è pieno di grazia chi è unito a Dio in maniera perfettissima».51 Possono esserci, tuttavia, prosegue l'Aquinate, diversi livelli di unione: alcuni mediante partecipazione di una somiglianza naturale, altri mediante la fede, altri ancora per mezzo della carità. Ma tutti questi livelli rappresentano una modalità di unione soltanto parziale. Proseguendo nella lettura del paragrafo 188, sopra riportato (p. 6), vediamo come Tommaso affermi che è l'unità di supposito o persona nelle due nature che dà unitarietà a tutte le azioni del Verbo incarnato.

Possiamo allora affermare che è l'umanità assunta dal Verbo l'espressione più alta di quell'essere verità del Verbo; l'umanità rappresenta quella «scala» percorribile nei due sensi: in senso ascendente, l'uomo può partecipare alla verità divina; in senso discendente, il Verbo-verità si comunica all'uomo, aprendo così l'accesso al Padre nello Spirito di verità. Una volta considerata l'unità di supposito delle due nature, è necessario dare uno sguardo laddove Tommaso focalizza la sua attenzione verso le due nature del Cristo e richiamare anche il secondo e il terzo modo in cui può essere intesa l'espressione «pieno di grazia e di verità»:

Secondo, tali parole si possono interpretare riferendole alle perfezioni dell'anima, per cui Cristo può dirsi pieno di verità e di grazia dal fatto che nella sua anima ci fu la pienezza di tutte le grazie [...]. Inoltre Cristo fu pieno di verità; perché la sua preziosa e beata anima conobbe fin dal momento della concezione ogni verità, sia umana che divina.52

Terzo, le parole suddette possono applicarsi inoltre alla sua dignità di capo, ossia a Cristo in quanto è capo della Chiesa. Come tale compete a lui comunicare la grazia agli altri, sia alle anime degli uomini [...], sia meritando con l'insegnamento, le opere e le sofferenze della morte una grazia sovrabbondante [...]. Inoltre va denominato pieno di grazia, perché il suo insegnamento e la sua compagnia erano gradevolissimi [...] ed era pieno di verità, perché non insegnava in simboli e figure, né lusingava i vizi degli uomini; ma predicava apertamente la verità a tutti, senza inganno.53

Un'ultima riflessione si rende necessaria circa l'unità di supposito delle due nature del Cristo. Scorrendo il commento dell'Aquinate, incontriamo dei passi dove il Cristo avrebbe solo la funzione di rimandare alla verità divina, senza avere quella chiara connotazione veritativa che abbiamo in precedenza rilevato:

Cristo, infatti, in quanto Dio, è la stessa verità; ma in quanto uomo è il testimone della verità; infra 18, 37: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità». Ecco perché egli rende testimonianza a se stesso.54

Ora, Cristo in quanto Dio è la verità; perciò in quanto uomo egli entra per se stesso, ossia per la verità che è lui stesso in quanto Dio.55

Sembra, dunque, che il Cristo sia verità solo in quanto Dio, mentre in quanto uomo sia solo un testimone della verità. In questo modo l'umanità del Cristo avrebbe come scopo quello di rinviare alla verità divina, nonostante il suo essere unito ipostaticamente alla divinità.

I passi citati vanno confrontati con altri commenti che Tommaso fornisce circa il ruolo del Cristo come testimone:

Spiega quindi quale sia la portata e la natura del suo regno, col dire: «Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità» [...] «per rendere testimonianza alla verità», ossia a me stesso che sono la verità (sopra, 14, 6). «Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera» (sopra, 8, 14). E nel manifestare me stesso che sono la verità, mi preparo il regno. Questo infatti non può attuarsi che con la manifestazione della verità, manifestazione che poteva essere compiuta a dovere soltanto per mezzo mio che sono la luce.56

Diversa però fu la testimonianza data da Cristo e da Giovanni. Cristo la diede come colui che ha il possesso pieno della luce, anzi è la stessa luce sussistente; Giovanni invece come uno che ne partecipa. Perciò Cristo ne dà una testimonianza perfetta, e rivela perfettamente la verità; Giovanni e gli altri santi la danno nella misura in cui partecipano la verità divina.57

È importante notare che la testimonianza alla verità è data dall'incarnazione del Verbo. Inoltre, la specificità di questa testimonianza emerge dal confronto con la testimonianza del Battista: questi ha potuto testimoniare la verità, perché partecipava di essa; Cristo, invece, ne dà testimonianza perché egli è la stessa luce e la verità.58

In conclusione, possiamo affermare, con Tommaso, che l'umanità del Cristo, unita alla divinità in unità di supposito, manifesta perfettamente la verità.

Se fossi io, che sono un uomo, a rendere testimonianza di me stesso, senza l'appoggio di Dio, ossia senza che me la renda Dio Padre, ne seguirebbe che «la mia testimonianza non sarebbe vera»; poiché la parola umana, senza il soccorso di Dio, è priva di qualsiasi verità [...]. Perciò, se prendiamo Cristo come uomo, separato dalla Divinità e da essa difforme, troviamo la menzogna e nella di lui essenza e nelle sue parole. Non così se lo consideriamo unito con essa, come vedremo in seguito (infra, 8, 14): «Se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera»; «Io non sono solo, ma sono io e il Padre che mi ha mandato» (infra, 16, 32). Poiché dunque egli non era solo, ma col Padre, la sua testimonianza è verace.59

La sola umanità del Cristo presenta i limiti propri della natura umana in quanto tale e, quindi, incapace di giungere alla verità divina. È grazie all'unione con la natura divina in unità di supposito che l'umanità del Cristo può manifestare la verità ed esprimerla attraverso la testimonianza di sé. «L'umanità di Cristo, proprio perché ipostaticamente unita alla divinità, è l'estrema manifestazione del suo essere verità, una verità (quella appropriata al Verbo, nell'unità dell'essenza divina) che è intrinsecamente rivelazione del Padre e rimando a Lui e dunque «via» per l'umanità, corpo di cui Cristo è capo (e per lo stesso capo del corpo), per il suo ritorno al Padre».60

4. Verità ed evento pasquale

Seguendo il commento dell'Aquinate al Vangelo di Giovanni, abbiamo visto che è con la rivelazione di Dio in Cristo che si può gettare nuova luce sul significato della verità divina. Questa è infatti correlata al Verbo per appropriazione. Ciò che fa da unione tra la verità considerata nella vita divina immanente e nella sua manifestazione è la dimensione rivelativa dell'incarnazione.

Già Mosè aveva bramato di vedere questa gloria del Verbo, quando disse: «Fammi contemplare la tua gloria» (Es 33, 18) [...]. In realtà Mosè e gli altri Profeti consideravano la gloria del Verbo, che si sarebbe manifestata alla fine dei tempi, in simboli e figure [...]. Al contrario gli apostoli videro la luce stessa del Verbo nella presenza corporale di lui.61

È grazie all'incarnazione del Verbo, dunque, che gli apostoli hanno potuto vedere la «luce». L'Incarnato «fu inoltre pieno di verità, perché la natura umana in Cristo raggiunse la stessa verità divina, ossia quell'uomo era la stessa verità divina».62 Adesso è necessario vedere se al culmine della rivelazione possa esserci l'evento pasquale. Ancora una volta, lasciamo che sia Tommaso a «parlare»:

Allora Pilato gli disse: «Dunque sei re? ... » . Qui il Signore chiarisce la realtà del suo regno.63

Spiega quindi quale sia la portata e la natura del suo regno, col dire: «Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità» [...]. E nel manifestare me stesso che sono la verità, mi preparo il regno.64

Cristo porta la croce come un re porta lo scettro, ossia quale segno della sua gloria che è il dominio universale su tutte le cose [...]. Egli porta la croce come il vincitore porta il trofeo della vittoria [...]. Inoltre egli porta la croce come il maestro porta il candelabro sul quale sarà issata la lucerna della sua dottrina, poiché la parola della croce per i credenti è potenza di Dio.65

Questi (Cristo) infatti era stato sempre solo occupato nell'istruire i suoi discepoli, povero nel cibo, nelle vesti, nell'abitazione.66

Si noti ancora, con Agostino, che Cristo mentre pendeva dalla croce era come un maestro sulla cattedra.67

Gesù, dopo aver manifestato di essere lui stesso la verità, prepara il suo regno con la parola della croce, che è potenza di Dio. Sarà dunque l'evento della morte e risurrezione a segnare la definitiva venuta del suo regno; un regno preparato attraverso gesti e parole; un regno mostrato attraverso una testimonianza che ha rinviato al progetto del Padre; un regno che avrà nella parola predicata ai discepoli il segno della sua dottrina. E sarà l'evento della croce (morte e risurrezione) a confermare tutta la predicazione e i segni compiuti da Gesù nel corso della sua vita terrena. Non solo, ma il Cristo sceglie di sottomettersi alla morte volontariamente, una morte la cui causa non era una sua colpa, ma un atto di obbedienza che nasce dall'amore e che rivela l'amore del Padre:

Egli se ne va morendo volontariamente, e ritorna risorgendo.68

In proposito il Signore per prima cosa mostra che causa della sua morte non era una sua colpa; in secondo luogo mostra che ne fu causa la virtù dell'obbedienza e della carità.69

Con la frase che segue («E chinato il capo spirò») l'Evangelista descrive la morte di Cristo. Anzitutto ne viene indicata la causa [...] l'inchino del capo sta a indicare l'obbedienza, con la quale volle subire la morte [...]. In secondo luogo viene indicato il potere di quel morente: poiché egli «rese lo spirito», cioè lo rese per virtù propria.70

Il termine «spirito» è inteso da Tommaso come indicazione dell'anima umana di Gesù; la separazione dell'anima dal corpo segna la morte dell'uomo; in questa descrizione dell'evangelista l'Aquinate vede espressa soprattutto la volontarietà e la libertà e quindi la «potestà» con cui il Signore assume il suo sacrificio: egli ha patito quando egli stesso ha voluto ed è morto nel momento da lui stesso prestabilito in unione col Padre.

A questo punto va ricordato che due furono i motivi che spinsero Cristo ad affrontare la morte: l'amore di Dio e l'amore del prossimo [...]. Per questo egli dichiara: «Ma perché il mondo sappia che io amo il Padre, ecc. »; e lo amo efficacemente, perché vado a morire. Per questo aggiunge: «... e faccio quello che il Padre mi ha comandato»: agisco secondo la mozione del Padre che mi spinge ad accettare la morte, ossia faccio l'obbedienza, che è causata dall'amore.71

Ogni creatura è invitata a restare nell'amore del Cristo, osservando i suoi «comandamenti» e beneficiando della sua stessa gioia. Questo amore, che in croce ha rivelato l'amore del Padre, è modellato sull'amore che da sempre il Padre ha per il Figlio. Quindi, è sulla croce che il Figlio giunge al culmine della sua rivelazione:

Dice dunque: «Rimanete nel mio amore»; e ciò farete, «se osserverete i miei comandamenti». È così infatti che rimarrete nel mio amore. Questo perché l'osservanza dei comandamenti è effetto dell'amore di Dio, non solo del nostro amore per lui, ma anche dell'amore che egli ha per noi. Infatti proprio perché egli ci ama, ci muove e ci aiuta ad adempiere i suoi precetti.72

Infatti come l'amore con il quale il Padre ama lui è il modello dell'amore con il quale egli ama noi, così vuole che la propria obbedienza sia l'esempio, il modello della nostra obbedienza [...]. Cose, queste, che vanno attribuite a Cristo in quanto uomo [...]. Perciò afferma: Io rimango nel suo amore, perché in me, in quanto uomo, non c'è nulla che sia contrario al suo amore.73

Gesù afferma: «Questo vi ho detto», ossia che osserviate i miei comandamenti, a vostro vantaggio, «perché la mia gioia sia in voi». L'amore infatti è causa di gioia: poiché ognuno gode delle cose che ama [...]. Il Signore dunque vuole che con l'osservanza dei suoi precetti noi diventiamo partecipi della sua gioia: «Perché la mia gioia» con cui godo della Divinità mia e del Padre, «sia in voi». Gioia che non è altro che la vita eterna, la quale è gioia della verità.74

Prima di avviarci alla conclusione di questo lavoro, si rende necessaria un'ultima annotazione, circa il rapporto tra la nozione di Verità, sia essa generata che rivelata, e quella dell' Amore divino. Senza voler entrare nel merito della missione dello Spirito e del suo ruolo nel condurre alla verità, riportiamo innanzitutto le parole dell'Aquinate circa la missione del Figlio, che è quella di condurre al Padre e la missione dello Spirito, che è inviato per rendere la creatura capace di accogliere la verità:

Chi viene a lui [il Padre] con l'amore e il desiderio [...] è tenuto a udire la parola, ovvero il Verbo del Padre, e ad accoglierla, affinché possa imparare ad amarla. Infatti apprende il verbo, o la parola, soltanto chi la capisce secondo il senso di chi la dice; ora, il Verbo del Padre è ispiratore dell'Amore.75

Il dono però è eccellentissimo, poiché viene donato «lo Spirito di verità» [...]. Lo chiama inoltre di «verità», perché procede dalla Verità e alla Verità conduce. Infatti lo Spirito Santo altro non è che Amore [...]. Questo Spirito invece porta alla conoscenza della verità, e procede da quella Verità, che sopra (v. 6) ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita». Infatti, come in noi dalla verità concepita e pensata segue l'amore della verità stessa, così in Dio: dalla Verità concepita che è il Verbo, procede l'Amore.76

Nello svolgimento della denominazione che congiunge lo Spirito alla verità, l'Aquinate fa entrare la costituzione personale, l'identità dello Spirito come amore; dalla verità viene l'amore e l'amore conduce alla verità. Qui la verità è concretamente la persona stessa del Figlio; dal Verbo-Verità lo Spirito procede nell'eternità e viene mandato nel tempo; al Figlio lo Spirito conduce i fedeli. Spirito della verità e Spirito del Figlio risultano in tale modo come denominazioni parallele, essendo ambedue in riferimento a Gesù Cristo.77 Inoltre, nella designazione «Spirito della verità», si intravede la realtà e la relazione intratrinitaria della terza persona divina, quale radice della funzione e del rapporto con i credenti. Lo stesso concetto il Dottore Angelico lo esprime altrove: «Essendo egli [lo Spirito] infatti dalla verità, è suo compito insegnare la verità e rendere simili al suo principio».78 Nel prosieguo della lettura del paragrafo 1916, Tommaso scrive: «Ebbene, manifestare la verità si addice per appropriazione allo Spirito Santo. È infatti l'amore che porta alla rivelazione dei segreti». Questo breve passo dell'Aquinate ci offre un ulteriore elemento di riflessione: se è l'amore che porta a «rivelare i segreti», allora è l'amore la ragione trinitaria della manifestazione della verità ed è in ragione del suo amore che il Padre ci dona la sua Verità.

In altri termini, l'invio del Verbo, che è Verità ed è rivelazione del Padre, trova la sua ragione proprio nell'amore divino.

5. Conclusione

Abbiamo visto che per Tommaso la Verità, appropriata al Verbo, riguarda innanzitutto la divinità del Cristo; tuttavia, nel momento in cui Dio ha deciso di rivelarsi ad extra, attraverso l'assunzione, da parte del Verbo, della carne, questo evento ha dato alla creatura la possibilità di conoscere il Figlio e, attraverso di lui, il Padre e, quindi, di poter accedere alla verità divina. Grazie alla partecipazione al Verbo incarnato, l'uomo può vedere Dio, partecipando dei due tipi di luce divina: quella perfetta, che è nella gloria di Dio e l'altra, imperfetta, che è la partecipazione nella fede. Abbiamo anche visto come l'evento pasquale sia il culmine della stessa rivelazione; in tale evento si coglie come l'amore con il quale il Padre ama Cristo sia il modello dell'amore con il quale Cristo ama ogni uomo, e come Cristo vuole che la propria obbedienza sia l'esempio, il modello della nostra obbedienza.

L'ultima osservazione ha riguardato il rapporto tra la Verità e l'Amore divino e abbiamo visto che vi è una circolarità tra la verità e l'amore, in quanto si riportano l'un l'altra. E se la manifestazione della verità si addice per appropriazione allo Spirito Santo, l'amore diventa la ragione trinitaria della manifestazione della Trinità.

Il fine dell'uomo consiste nella partecipazione alla verità, ossia nell'adesione a Gesù Cristo. Questi, incarnandosi, ha rimosso il male che impediva all'uomo di abbracciare la verità e, con la sua passione-morte e risurrezione, ha permesso di accedere al Padre. Cristo, agendo in questo modo, rivela all'uomo che è egli stesso la via della verità: «Perciò se tu ti chiedi per dove passare, volgiti a Cristo, perché lui è la via [...]. Se poi tu ti chiedi dove andare, stringiti a Cristo, perché egli è la verità cui desideriamo arrivare [...]. Se ti domandi dove riposare, aderisci a Cristo, perché egli è la vita».79 Questo commento dell'Aquinate suggerisce una visione unitaria da una prospettiva antropologica oltre che cristologica, rivelando appunto che Gesù Cristo, nell'unità della sua persona è sia la verità, sia la via per poterla raggiungere. È evidente, già da questa breve analisi del commento in chiave esegetica del quarto vangelo, che il Dottore Angelico abbia elaborato una vera e propria speculazione teologica.

La tradizionale definizione di verità, intesa come adequatio rei et intellectus, nel momento in cui è riferita in via analogica a Dio, subisce una trasposizione semantica, assumendo il significato di perfetta uguaglianza e identità tra intelletto ed essenza divina. Tuttavia, a causa dell'incomprensibilità della essenza divina da parte dell'uomo, è necessaria la rivelazione trinitaria di Dio in Cristo, perché vi sia nuova luce sul significato della verità divina. E, dal momento che «la natura umana in Cristo raggiunse la stessa verità divina, ossia quell'uomo era la stessa verità divina»,80 tutte quelle espressioni che sembrano contraddittorie presenti nell'Io Ioa devono essere ricondotte a questa visione unitaria. Quindi, la nozione di verità che emerge si trova arricchita di un nuovo significato: essa è non solo un attributo dell'unica essenza divina, ma implica anche distinzione, nella misura in cui rivela la Fonte da cui procede. Inoltre, la verità, proprio perché coincidente con il Verbo fatto carne, assume una connotazione temporale proprio della condizione umana, in modo «da rendere vere tutte quelle parole che nel tempo e nella storia Egli, vero uomo, pronuncia».81

Questa possibilità non compromette però la trascendenza di Dio, proprio perché la rivelazione è un evento della comunicazione e del nascondimento di Dio stesso. Essa, potremmo dire, esprime la verità secondo cui le regole del parlare umano di Dio sono state date da Dio stesso nel suo parlare di Sé in Gesù Cristo, dove l'umano rinvia al divino senza «confusione o mescolanza», ma anche senza «divisione o separazione». E in un tempo di relativismo, di «crisi di senso», un ricorso all'analogia potrebbe diventare un «criterio di accrescimento» dell'affidabilità, necessario a dare senso al nostro parlare di Dio; in altri termini, si potrebbe dire che l'analogia possa aiutare a non tacere: «l'analogia, pur con tutta la sua possibile ricchezza, costituisce comunque una sporgenza su ciò che in se stesso non è propriamente dicibile [...]. Così anche la parola dell'analogia, pur nella sua sporgenza, resta sempre segnata da questa indicibilità e infine anch'essa ci consegna al silenzio».82

Essa resta come intreccio «del dire e del non dire, e come tale esige ad un tempo l'esercizio della parola e quello del silenzio. Il silenzio tuttavia non è semplicemente l'arresto negativo della parola: se nasce nel rispetto dell'indicibile o del non ancora dicibile, è anche pratica del rispetto e dell'ascolto. Daccapo è un modo di disporsi all'ascolto della parola che ancora potrà sopraggiungere. Il nostro discorso giungerà dunque a disegnare i limiti e i confini della via analogica, ma sappiamo pure che la coscienza del limite costituisce la migliore garanzia di un corretto sapere».83 Forse proprio il sottolineare tale dimensione potrebbe aiutare a ritrovare fiducia nelle possibilità del pensiero e del cuore dell'uomo di fare esperienza del Dio vivente e di poter portare alla parola questa stessa esperienza per comunicarla. Anche in questo modo, homo est Dei capax.84

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Note

  1. M. Bordoni, La cristologia odierna di fronte alla questione della verità, G. Ancona (a cura di), Vaticana, Città del Vaticano 2010, 195; cf., N. Ciola, La cristologia sistematica: tra irrinunciabili acquisizioni e odierna navigazione, «Lateranum» 75 (2009) 26. Testo

  2. Giovanni Paolo II, Fides et ratio. Lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione, Paoline, Milano, 1998, n.81, 118-119. Testo

  3. Cf. AA.VV., Le ali dell'umana libertà. La fede e la ragione, Ecclesiae domus, Napoli 2008, 10. Testo

  4. Cf. P. Coda, Verità, in P. Coda -- G. Filoramo, Dizionario del Cristianesimo, UTET, Torino 2006, 1123-1128; cf., R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. II. Gli sviluppi, San Paolo, Cinisello Balsamo 20032, 435. Testo

  5. Super Evangelium S. Ioannis Lectura, R. Cai (ed.), Marietti, Torino 19525; tr. it.: Commento al Vangelo di Giovanni, 3 voll., T. S. Centi OP (a cura di), Città Nuova, Roma 1990-93. D'ora in poi In Ioa. Testo

  6. Le Questioni Disputate su argomenti vari (Quaestiones de quodlibet I-XII), 2 voll., ESD, Bologna 2003. Testo

  7. Cf. G. Perillo, Teologia del Verbo: la lettura Super Ioannis Evangelium di Tommaso d'Aquino, Luciano, Napoli 2003, 35-39. Testo

  8. Quodl. VII, q.6, a.1: In sacra scriptura manifestatur veritas dupliciter: uno modo, secundum quod res significantur per verba, et in hoc consistit sensus litteralis; alio modo, secundum quod res sunt figurae aliarum rerum, et in hoc consistit sensus spiritualis. Testo

  9. Quodl. VII, q.6, a.1, ad 1: Sensus spiritualis semper fundatur super litteralem, et procedit ex eo. Testo

  10. Cf. Quodl. VII, q.6, a.1, ad 5; vedi anche M.F. Johnson, Another look at the Plurality of Literal Sense, in «Medieval Philosophy and Theology» 2(1992), 117-141. Testo

  11. Cf. R. Ferri, Gesù e la verità. Agostino e Tommaso interpreti del Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 2007, 117-118. Testo

  12. Cf. A. Cirillo, Cristo Rivelatore del Padre nel Vangelo di S. Giovanni secondo il commento di S. Tommaso d'Aquino, Diss. Pontificia Universitas a S. Thoma Aquinate in Urbe, Roma 1988; circa la complicazione di esegesi e teologia nel pensiero di Tommaso, vedi M. Dauphinais -- M. Levering (edd.), Reading John with St. Thomas Aquinas. Theological Exegesis and Speculative Theology, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2005. Testo

  13. Cf. Ferri, Gesù e la verità. Agostino e Tommaso interpreti del Vangelo di Giovanni, 118-119. Testo

  14. Mi rifaccio ai seguenti testi: C. Spicq, Saint Thomas d'Aquin exégète, in Dictionnaire de Théologie Catholique, Letouzey, Paris 1923-1972, t.15, coll.718ss.; Id., Esquisse d'une histoire de l'exégèse latine au moyen Âge, Vrin, Paris 1944. Testo

  15. Non solo nella Catena Aurea, ma in tutte le opere esegetiche di Tommaso vi è un costante riferimento ai Padri latici e greci. Ciò è evidente nell'In Ioa, dove gli autori maggiormente citati sono Agostino e Cristostomo, l'uno rappresentante del mondo latino e di un'esegesi prevalentemente mistica e l'altro, esponente del mondo orientale e di un'esegesi prevalentemente letterale. Testo

  16. Tommaso li cita impersonalmente, usando vocaboli come aliqui, quidam, alii, e di solito sono utilizzati per introdurre argomenti contrari a quelli sostenuti dall'Aquinate stesso. Testo

  17. Nell'In Ioa emergono in particolare quelle dei manichei, di Ario e Sabellio. Testo

  18. Nell'In Ioa si trovano in primo luogo Aristotele, poi Platone e i platonici, gli accademici, Cicerone e gli stoici. Testo

  19. Seguo l'interpretazione di Spicq, Saint Thomas d'Aquin exégète, coll. 716-717 e di Perillo, Teologia del Verbo, 18-22. Testo

  20. Cf. J.F. Boyle, Authorial Intention and the Divisio textus, in M. Dauphinais -- M. Levering (edd.), Reading John with St. Thomas Aquinas. Theological Exegesis and Speculative Theology, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2005, 6-8. Testo

  21. Perillo, Teologia del Verbo, 19-20; cf., M.M. Rossi, La diviso textus nei commenti scritturistici di san Tommaso d'Aquino: un procedimento solo esegetico?, in «Angelicum» 71(1994), 537-548; ID., Attenzione a Tommaso d'Aquino esegeta, in «Angelicum» 76(1999), 73-104. Testo

  22. In Ioa, 23. Testo

  23. In Ioa, 1868. Testo

  24. Ibidem, 1870. Testo

  25. Ibidem, 188. Testo

  26. R. Ferri, Cristo Verità nell'interpretazione di San Tommaso d'Aquino, «Lateranum» 75 (2009), 296. Testo

  27. In Ioa, 1869. Testo

  28. In Ioa, 2365. Testo

  29. Ferri, Gesù e la verità. Agostino e Tommaso interpreti del Vangelo di Giovanni, 222. Testo

  30. In Ioa, 1869. Testo

  31. Ferri, Gesù e la verità, 225. Testo

  32. In Ioa, 26. Testo

  33. Ibidem. Testo

  34. Ibidem, 33. Testo

  35. Cf. G. Emery, Le Verbe-Vérité et l'Esprit de Vérité. La doctrine trinitarie de la vérité chez saint Thomas d'Aquin, «Revue Thomiste» 104 (2004), 176. Testo

  36. Ferri, Gesù e la verità, 234. Testo

  37. In Ioa, 103. Testo

  38. In Ioa, 97. Testo

  39. Ibidem, 101. Testo

  40. G. Perillo, Teologia del Verbo, 194. Testo

  41. Cf. In Ioa, 120. Testo

  42. Ibidem, 124. Testo

  43. Ibidem. Testo

  44. Ibidem. Testo

  45. Ibidem, 127. Testo

  46. Ibidem, 138. Testo

  47. Ibidem, 141. Testo

  48. Ibidem,144. Testo

  49. Ibidem, 181 Testo

  50. Ferri, Gesù e la verità, 260. Testo

  51. In Ioa, 188. Testo

  52. In Ioa, 189. Testo

  53. Ibidem, 190. Testo

  54. Ibidem, 533. Testo

  55. Ibidem, 1370. Testo

  56. Ibidem, 2359. Testo

  57. In Ioa, 117. Testo

  58. Cf. S.-TH Bonino, La théologie de la vérité dans la Lectura super Ioannem de saint Thomas d'Aquin, «Revue Thomiste» 104 (2004), 158. Testo

  59. In Ioa, 805. Testo

  60. Ferri, Gesù e la verità, 267. Testo

  61. In Ioa, 183. Testo

  62. In Ioa, 188. Testo

  63. Ibidem, 2355. Testo

  64. Ibidem, 2359. Testo

  65. Ibidem, 2414. Testo

  66. Ibidem, 2402. Testo

  67. Ibidem, 2441. Testo

  68. Ibidem, 1968. Testo

  69. Ibidem, 1974. Testo

  70. Ibidem, 2452. Testo

  71. In Ioa, 1976. Testo

  72. Ibidem, 2002. Testo

  73. Ibidem, 2003. Testo

  74. Ibidem, 2004. Testo

  75. Ibidem, 946. Testo

  76. In Ioa, 1916. Testo

  77. Cf. I. De la Potterie, La verità del cristianesimo, in ID., Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino -- 30Giorni, Roma 1997, 160. Testo

  78. In Ioa, 2102. Testo

  79. In Ioa, 1870. Testo

  80. Ibidem, 188. Testo

  81. Ferri, Gesù e la verità, 279. Testo

  82. V. Melchiorre, La via analogica, Vita e Pensiero, Milano 1996, 310. Testo

  83. Melchiorre, La via analogica, XIV. Testo

  84. Cf. B. Forte, La sfida di Dio. Dove fede e ragione si incontrano, Mondadori, Milano 2001, 99. Testo