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La dimensione simbolica dell'aniconismo veterotestamentario

di Massimiliano Palma (20 dicembre 2015)

1. Introduzione

Nel 1932 un gruppo di archeologi della Yale University e dell'Académie des Inscriptions et Belles Lettres scopre a Dura Europos1 le rovine di una sinagoga. Grande è la sorpresa nel constatare il carattere iconico degli affreschi presenti sulle pareti del luogo di culto: le conoscenze sull'aniconismo ebraico, ritenute fino a quel momento definitivamente acquisite, devono essere elaborate nuovamente. La presenza di immagini pittoriche a soggetto religioso, simbolico e narrativo della storia di Israele2 denota uno specifico «programma iconografico-teologico»,3 sviluppatosi a partire dal II sec. d. C., cioè dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme e l'inizio della diaspora. Quella di Dura Europos non è l'unica sinagoga in cui sono presenti raffigurazioni: anche a Beth Alpha, Cafarnao e Marus, per citare le più importanti dal punto di vista artistico, gli edifici di culto ci mostrano resti di pitture parietali che non possono far pensare a fenomeni isolati. Nelle catacombe di Roma, come quella di Vigna Rondanini, di via Appia Pignatelli e di Villa Torlonia, sono visibili raffigurazioni floreali e di animali, sculture e simboli ebraici: tutte rappresentazioni apparentemente in contraddizione con l'aniconismo ebraico. Ciò fa pensare ad una mitigazione nell'applicazione del divieto veterotestamentario di produrre qualunque tipo di immagine, fenomeno che J. Plazaola così spiega:

La sua [di Dura Europos] prossimità alle frontiere dell'ellenismo giudeo-cristiano, ai confini dell'impero persiano, fu determinante perché, agli inizi del III sec., si mitigasse l'interpretazione del II comandamento del Decalogo e affinché le pareti della sinagoga si coprissero di storie dell'AT .4

Il II comandamento del Decalogo vieta infatti qualunque produzione di immagini di Dio e delle creature a fini cultuali. Se inizialmente tale divieto si riferisce alle sole immagini di Jahvè, successivamente la proibizione viene generalizzata, in funzione antiidolatrica, a tutte le immagini. Tuttavia la scoperta del sito di Dura Europos indica che le comunità ebraiche della diaspora attenuarono la rigidità della legge aniconica. Non solo: nel luogo di culto più importante per il popolo ebraico, il Tempio di Gerusalemme, la presenza di raffigurazioni (cfr. 1 Re 6-7) e dell'immagine dei Cherubini alati che sovrastano l'Arca dell'Alleanza, così come il serpente di bronzo innalzato da Mosè e il vitello d'oro, indicano che l'aniconismo ebraico non era assoluto.5

Qual è dunque l'interpretazione delle immagini nell'arte ebraica? Quale la sua funzione? È possibile approfondire il significato dell'aniconismo ebraico a partire dal Decalogo? Se il Decalogo sancisce l'Alleanza tra Jahvè e il popolo di Israele, è possibile rilevare nel berit un significato-altro, simbolico,6 della proibizione di produrre immagini? Il lavoro che qui presenterò verterà, senza pretesa di esaustività data l'importanza dell'argomento e la vastità della bibliografia ad esso correlata, sulla presentazione del divieto delle immagini nel Decalogo, sulla sua funzione antidolatrica e, in particolar modo, sul berit di Dio come origine teologica dell'aniconismo ebraico, per evidenziare la pars costruens del divieto in favore dell'uomo, eikon di Dio.

2. L'aniconismo veterotestamentario in funzione antiidolatrica

Occorre innanzitutto contestualizzare storicamente lo sviluppo della posizione aniconica del divieto veterotestamentario. La motivazione più importante è sicuramente quella di una concezione antidolatrica della teologia di Israele, questione che può essere esaminata secondo due differenti prospettive, che chiameremo ad intra, relativa alla politica interna ad Israele, e ad extra, correlata al confronto di Israele con i popoli con cui venne in contatto.

I teologi veterotestamentari avvertono il pericolo che si voglia rendere manifesta la divinità, l'essenza stessa di Dio, il Suo Nome, in un'immagine prodotta dall'uomo: è proprio il Nome con cui Jahvè si manifesta ad Israele, «Io sono colui che sarò», secondo una possibile traduzione del testo di Es 3, 14, che implica l'ineffabilità di Jahvè e quindi la Sua 'incircoscrivibilità' mediante categorie ermeneutiche, siano esse teologiche, filosofiche o artistiche. Nella rivelazione del Suo Nome, Jahvè manifesta che la Sua volontà entra dinamicamente nella storia dell'uomo. Per Israele è impensabile qualunque tipo di cristallizzazione di tale volontà, perché ciò comporterebbe una staticità ontologica avulsa dal tempo e dallo spazio, il che negherebbe nel profondo il significato della stessa Rivelazione veterotestamentaria: l'intervento di Dio nella storia per la liberazione del suo popolo. Ma come a Jahvè appartiene il Suo Nome, così Gli appartiene anche la Sua Immagine e la modalità con cui Egli voglia manifestarla.

Analizziamo dunque la prospettiva ad intra, relativa alla politica interna alla società israelitica. In alcuni periodi della sua storia, Israele avverte la necessità di garantire la centralità dello Stato e del culto nel Tempio di Gerusalemme. In questa particolare situazione la polemica contro le immagini è l'effetto di una lotta interna tra i ceti sacerdotali e politico-militari7: moltiplicare gli oggetti di culto, le raffigurazioni e i simboli ammessi nel Tempio, che è l'unico spazio liturgico autentico, significherebbe replicare i luoghi santi,8 e «ciò avrebbe scosso il monopolio dei Kohanim e riproposto il carattere locale della divinità o il costituirsi di divinità locali».9 Questa interpretazione può altresì spiegare come, dopo la distruzione del Tempio avvenuta nel I sec. d. C. ad opera dei Romani e la successiva diaspora, la definitiva scomparsa del principale luogo di culto per gli Israeliti causerà una mitigazione dell'applicazione del divieto veterotestamentario, come indicato da F. Calabi:

Con il II e III secolo inizia un vero e proprio programma di raffigurazione: si può pensare alla funzione evocativa dell'immagine e ipotizzare un uso iconico per rinviare al Tempio che non c'è più. Non c'è più, cioè, un centro di riconoscimento e di identità, un luogo, una spazialità che costituisca il luogo dell'incontro: l'immagine può forse costituire una forma di concretizzazione, di determinazione della sinagoga, luogo di studio, non necessariamente di preghiera e di culto. [...] Il culto si trasferisce nelle case e il luogo di riunione, di identificazione sociale, di comunanza è la sinagoga.10

Per quanto riguarda la prospettiva ad extra, il pericolo di idolatria nel culto delle immagini è motivato dal rischio di assimilazione di abitudini e costumi di quei popoli con i quali Israele viene a contatto e dai quali deve difendersi11 per salvaguardare la propria identità e tradizione.12 Secondo M. A. Ouknin, le tre forme di civiltà con cui Israele si confronta, nei periodi di scambi economici e culturali, rappresentano altrettante forme di idolatria: la tecnica per l'Egitto, la natura per Canaan e l'economia per Babilonia.13 Dunque l'idolatria emerge laddove tutto converge verso un unico interesse: ciò condiziona ogni espressione della cultura di un popolo, prima di tutto la dimensione cultuale, soprattutto in un periodo storico in cui ogni realtà è subordinata alla volontà nascosta degli dei, che si cerca di rendere manifesta attraverso pratiche liturgiche che fanno convergere la prassi cultuali sulle immagini delle divinità, in primo luogo le statue. Infatti, l'idolatria si nasconde dietro ciò che è considerato una necessità, un bisogno, un desiderio di stabilità e di sicurezza e per questo ritenuto indispensabile, autentico e vero.

L'immagine nell'Antico Oriente, sia essa una scultura, un bassorilievo o una pittura, è strettamente connessa alla venerazione della divinità che rappresenta, in quanto ritenuta sua abitazione o corpo, per cui il culto non è diretto all'immagine ma alla divinità stessa.14 Per questo l'immagine nelle religioni 'pagane' viene trattata al pari della divinità, esattamente come i cortigiani trattano il loro monarca.15 Nella prassi cultuale, attraverso l'immagine si cerca di piegare la divinità al proprio volere e ai propri desideri.16 Venendo a contatto con questo tipo di culto, «Israele ha reagito bandendo dal proprio culto ogni immagine scultorea di Jahvè».17 Israele percepisce l'esigenza di distaccarsi dalle pratiche cultuali dell'epoca,18 cioè da una forma idolatrica di culto. Afferma infatti G. Barbaglio:

l'avversione così decisa di questi testi per la rappresentazione statuaria di JAHVÈ si spiega nel contesto della religione naturalistica dei culti cananei che adoravano Baal sottoforma di un giovane toro, simbolo di fecondità e fertilità, e più in generale sullo sfondo delle religioni dell'antico medio oriente caratterizzato dalla statua del dio come segno o sacramento dell'incontro religioso.19

L'idolo è qualcosa che, costruito dalle mani dell'uomo, è de-finito nella sua forma spazio-temporale20: invita a rivolgere verso di esso lo sguardo, anche se si tratta di una forma di per sé satura di finitudine. Per questo, affiorando «l'idea che la determinazione implica finitezza e morte e si contrappone all'inesprimibile e all'illimitato»,21 si tende quindi alla «ricerca dell'indeterminatezza, la fuga dalla limitazione, la negazione della chiusura».22 Infatti la proibizione di costruire immagini di Dio emerge all'interno di un preciso ambito culturale: sia per il pensiero egiziano che per quello ebraico, Dio è il vivente, non l'essente, come invece per il pensiero greco. Sottolineandone la caratteristica esistenziale, Dio può 'morire': per questo, come afferma G. Nolli, «legare la raffigurazione di Dio a un essere vivente (pianta, animale, uomo) è la strada più sicura per condurlo alla morte, come accade ad ogni vivente».23 Ciò che può evitare il pericolo di questo tipo di raffigurazione finalizzata al nulla è la sottolineatura della trascendenza assoluta della Divinità, perché permette di definirne l'immortalità e la natura ineffabile.24 Lo sviluppo della prospettiva antidolatrica di Israele porta così ad una comprensione sempre più spiritualizzata di Jahvè, alla professione della sua unicità in relazione alla esperienza della liberazione operata da Jahvè. Il rifiuto costante dell'idolatria è dunque strettamente connesso con il rifiuto degli dèi che si stagliano sullo sfondo del culto idolatrico. In relazione a ciò, F. Calabi afferma che:

il timore di idolatria induce una condanna delle immagini, in particolare, delle raffigurazioni tridimensionali più adatte a divenire oggetto di culto. [...] Proprio il timore di assimilazione, di confusione di ruoli e di identità, di abbandono della propria specificità e delle proprie tradizioni, induce in tali periodi a irrigidimenti della normativa che sarà, invece, più lasca in altri periodi.25

Questo perché «l'idolatria è l'illusione secondo la quale i linguaggi e le figurazioni umane avrebbero conservato la potenza divina della coincidenza tra figura ed essere: è fraintendere come realtà ultima la virtualità della parola e dell'immagine».26 Infatti la proibizione ha come motivo prevalente «la concezione, diffusa in tutto il mondo antico, secondo la quale un'immagine sta in stretto rapporto con l'essere da essa riprodotto, e che con l'aiuto di un'immagine si possa avere un potere sull'essere rappresentato dall'immagine stessa.27

L'aniconismo in funzione antidolatrica distoglie Israele dalla tentazione di avere un potere su Dio o su ciò che appartiene a Dio. Egli è un Dio geloso (Es 20, 5): tale linguaggio antropomorfico, radicato nel dato primordiale della religione giudaica,28 vuole significare l'esigenza della stretta esclusività della venerazione di Dio29 e che ogni cosa appartenente al creato proviene da Lui come dono gratuito e segno della sua Alleanza, sancita nel Decalogo.

3. Il Decalogo e il divieto delle immagini

Il Decalogo,30 letteralmente «Dieci Parole»,31 testo di sintesi della fede e dell'etica della TaNaK,32 esprime «gli elementi essenziali alla sopravvivenza del popolo: i valori più sacri ed assoluti della sua esistenza e i capisaldi della sua identità».33 Esso è presente in due libri della Torah: in Esodo (20, 1-17) e in Deuteronomio (5, 6-21), anche se probabilmente in origine i due testi ebbero genesi autonoma.34 Le due versioni del Decalogo sono coincidenti, non uguali.35 Il testo di Esodo, all'interno del quadro della Pericope Sinaitica,36 si trova nel Codice dell'Alleanza37 la cui fondamentale concezione teologico-giuridica è la difesa della libertà. La versione presente nel Deuteronomio fa parte del Codice Deuteronomico,38 la cui teologia mira alla realizzazione di una solidarietà fraterna.39 Le «Dieci Parole» nascono nel contesto dell'alleanza tra Jahvè e Israele nella cornice della teofania del Sinai.40 L'importanza di questo testo risiede nel fatto che: 1) è l'unico testo ad essere tramandato due volte nella TaNaK; 2) è un testo comunicato direttamente da Dio e direttamente al popolo; 3) le parole del Decalogo sono incise da Dio stesso su tavole di pietra.41 Le 'Dieci Parole' sono caratterizzate da tre variazioni tematiche: 1) la schiavitù e la liberazione da parte di Jahvè; 2) la santificazione del sabato; 3) l'organizzazione sociale.42 I comandi non sono ristretti al tempo presente ma sono orientati al futuro: hanno cioè un valore perenne.43 Inoltre, nessuna 'parola' commina una sanzione penale precisa, limitandosi a due affermazioni di minaccia generale.44 Per quanto riguarda il contenuto del Decalogo le 'parole', «come un trittico in forma concentrica»,45 abbracciano sia la sfera religiosa che quella etica, coinvolgendo la relazionalità dell'uomo tanto nella dimensione verticale quanto in quella orizzontale.46

L'incipit del Decalogo, «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20, 2), è la «formula di autopresentazione»47 di Dio: questa I Parola, poiché precede e motiva i comandamenti, riassume magistralmente la relazione dinamica storico-salvifica tra Dio, il liberatore che agisce nella storia, ed Israele, il popolo liberato. È proprio l'esperienza della liberazione operata da Jahvè, fedele alla Sua promessa e alla Sua Alleanza, anche se questa verrà cronologicamente sancita in seguito nella teofania del Sinai, che motiva Israele a non porre in atto una relazionalità molteplice con tutto ciò che può confondersi con Dio. Infatti il Dio che libera è, e per questo può liberare e rimanere fedele, il Dio della Verità dell'essere e dell'esistere, all'interno di una relazionalità dinamica caratterizzata da un'unica realtà bidimensionale: verticale (dimensione teologica) e orizzontale (dimensione etica e morale). Verità, libertà e fedeltà sono così strettamente correlate nella I Parola che la risposta non può che essere la fiducia, la libertà e la responsabilità di colui che, ascoltandola, la accoglie pienamente riconoscendone la dimensione di gratuità.

La II Parola del Decalogo, nella duplice versione di Es 20, 4-6 e di Dt 5, 8-10, indica il divieto tassativo di fare ogni tipo di immagine:

Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.

La stessa Scrittura ci indica le motivazioni di tale proibizione: per il libro dell'Esodo, all'autorivelazione di Dio come «Dio geloso» (Es 20, 5b), corrisponde l'elezione esclusiva di Israele nel sacerdozio e nella santità (Es 19, 4-5) poiché si tratta di una dichiarazione di libertà dell'uomo: infatti «se noi siamo liberi, ciò dipende dal fatto che Dio ci ama di una amore geloso».48 La tradizione deuteronomistica sottolinea invece la dimensione sensibile dell'incontro con Jahvè: infatti durante la teofania gli israeliti non vedono alcuna figura (immagine) di Dio ma solo odono la Sua voce.49 Le due tradizioni sono in un rapporto di complementarietà e non di distinzione.

La II Parola concentra il divieto nei termini pesel e temunà, rispettivamente idolo e immagine.50 Il primo vocabolo, pesel, deriva dalla radice psl e i tre temi cui essa si riferisce sono prevalentemente: il divieto delle immagini, il confronto con le religioni straniere e la polemica in funzione antidolatrica contro le immagini.51 Il termine pesel mette in evidenza la tridimensionalità dell'oggetto prodotto con un chiaro riferimento alla qualità e alla verità della relazione che si attua tra questo oggetto cultuale e l'orante.52 Tale vocabolo indica dunque un oggetto scolpito o intagliato, un manufatto53 che raffigura qualcosa allo scopo di adorarlo. A. Luzzatto sottolinea che «quando la Bibbia adopera la parola ebraica pesel non intende una statua qualsiasi, sia nel senso sacro che in quello profano, quanto piuttosto un idolo scolpito».54

Il sostantivo temunà55 è presente in entrambe le versioni del Decalogo, associato a pesel. In tutti i casi, il significato è «forma visibile», «figura», e serve a precisare pesel. Mentre dunque pesel indica un oggetto di culto tridimensionale, come una statua, temunà designa l'immagine di culto bidimensionale ottenuta, per esempio, tramite la pittura. Secondo il Morè Nevukhìm di Maimonide «il significato della parola temunà presenta tre gradazioni: a) la forma che viene percepita dai soli sensi; b) la forma che viene fornita dalla pura fantasia, in assenza della percezione sensoriale; e infine c) l'oggetto «vero», quello che può essere concepito dalla pura ragione».56

S. Levi della Torre, rifacendosi al testo di Maimonide, afferma che

Temunà [...] è «anfibologico», cioè non univoco. Ha infatti tre significati. Il primo è pressoché equivalente a tavnit: è l'aspetto visibile. Il secondo si riferisce invece all'immagine mentale, lontana dai sensi, qual è la visione in sogno. Si dice infine temunà l'idea di una cosa concepita dall'intelletto, ed è in questa terza accezione che il termine può essere riferito a Dio («Egli contempla la sembianza [temunà] di Dio, Nm 12, 8, cioè Lo intuisce nella sua verità). Nella parola temunà si apre il passaggio dalla forma sensibile (il primo significato) a quella mentale (secondo significato) e infine all'intuizione del vero (terzo significato). Qui però è anche il passaggio attraverso cui si insinua l'idolatria come cortocircuito tra il primo e il terzo significato della stessa parola. Una stessa parola, temunà, implica infatti il visibile e l'invisibile, li può confondere, lasciarne intendere un'identità. La parola temunà implica la possibilità di rendere visibile l'invisibile, di tradurre l'uno nell'altro.57

Il divieto espresso in Es 20, 4-5 indica inoltre che nessuna creatura, vivente nelle tre zone con cui si suppone sia diviso il mondo, sia adorata o considerata una divinità. Secondo il testo, non deve essere realizzata alcuna immagine di ciò che é in terra, in cielo, né in acqua: per la cosmologia ebraica, questi tre elementi designano per totalità quel che appartiene alla creazione.58 In tal modo si vuol porre una netta differenza tra Creatore e creazione, in quanto niente di ciò che appartiene al creato può rappresentare il Creatore. In sintesi, secondo l'interpretazione di A. Luzzatto,

il Secondo comandamento impone: a) di non costruirsi degli idoli scolpiti; b) di non cercare di materializzare l'immagine divina; c) di non impiegare a questo scopo «quanto esiste in cielo ecc. » per farne oggetto di culto idolatrico; d) di non prostrarsi feticisticamente a quanto menzionato dalle lettere a, b, c.59

Tale divieto dunque regola e garantisce la qualità della dimensione relazionale sia tra l'uomo e Dio, sia tra l'uomo e le altre creature. S. Natoli afferma che nel giudaismo il divieto di farsi immagini ha un doppio valore:

regola un regime interno: bisogna rendere a Dio il culto dovuto senza però farsene immagini, onde evitare il rischio di abbassare Dio al livello delle creature o peggio ancora rischiare, sia pure non intenzionalmente, di elevare le creature a divinità. Regola le relazioni esterne: non si può rendere culto e servizio agli altri dèi o meglio agli dèi degli altri. Uno è, infatti, il signore ed è impossibile che possano esistere altri dèi di fronte a lui. Se vi sono, altro non sono che prodotti delle mani dell'uomo. Sono falsi: idoli, appunto. [...] Questi due aspetti del divieto entrano in circolo l'uno con l'altro e si rafforzano reciprocamente. Ne risulta che non si possono adottare gli dèi degli altri e, per la medesima ragione, non si può adorare Jahvè al modo degli altri, ossia facendosene immagini.60

La proibizione veterotestamentaria sulla produzione di immagini non è caratterizzata dalla rigidità di una posizione legalistica ma è determinata da una riflessione teologica 'dinamica' che ha come obiettivo la salvaguardia della esclusività del rapporto tra Dio e Israele. La ricerca della 'vera' immagine di Jahvè porta ad approfondire la 'vera' relazione tra creatura e Creatore, in ambito dottrinale, giuridico e liturgico. La questione dell'immagine interessa tutta la realtà, perché 'pensare' la 'vera' immagine di Jahvè significa cogliere la 'verità' della Sua immagine nella dimensione sia immanente che trascendente.

L'intento del redattore del Decalogo è quello di garantire che nessuna immagine, 'creaturale' e mentale, sia un oggetto di culto all'interno dello spazio liturgico: far questo significherebbe snaturare il principio stesso di creaturalità. Jahvè si rivela volendo farsi conoscere come il totalmente-Altro, anche rispetto al culto che Gli si deve tributare: Egli non può essere mai reificato, perché è sempre e inequivocabilmente evento e, in particolare, evento storico. Nella I Parola Jahvè si presenta come liberatore dalla condizione di schiavitù: da quel momento in poi Jahvè è colui che vuole che Israele (l'uomo) sia libero in ogni aspetto della sua vita. Se il divieto di fare immagini è collegato alla I Parola, Colui che ha liberato dalla situazione di schiavitù un popolo e non un singolo individuo, in modo che questi possa appropriarsi della libertà ricevuta e schiavizzare gli altri, è Colui che vuole garantire tale libertà nella storia. Ecco l'invito a non produrre immagini degli dèi né a divinizzare alcun elemento naturale rendendolo idolo. Anche la creazione che proviene da un atto gratuito di Dio deve essere garantita nella sua libertà di essere ciò che è e non altro. Tutto ciò assicura la vera relazionalità dell'uomo con Dio, con le creature e con il creato.

4. Il berit come motivazione teologica del divieto delle immagini

Nella sua storia Israele riconosce dapprima l'esclusività di Jahvè rispetto agli altri dèi (enoteismo o summoteismo), in seguito la sua unicità (monoteismo) 61: ciò comporta la consapevolezza da parte di Israele che gli dèi pagani sono semplici idoli fatti dalla mano dell'uomo.62 Il racconto di Genesi ci mostra chiaramente che nell'opus creationis Jahvè è completamente distinto dal creato: anche nei 'racconti dell'inizio' la teologia veterotestamentaria si distacca in modo molto marcato dalle tradizioni religiose dei popoli dell'Oriente Antico, per le quali la divinità non è separata dal creato e dai condizionamenti ivi presenti: per questo le divinità 'pagane' potevano essere rappresentate. Infatti, senza che sia Dio stesso a rivelarsi, non è possibile per l'uomo concepire un 'dio' che liberamente decida di 'entrare' nella storia: così è necessario per i 'pagani' ricorrere alla fabbricazione di immagini, che però sono pesel e temunà. In quanto Creatore, Jahvè è il totalmente-Altro rispetto a tutte le creature, tanto che 'ni-ente', ovvero alcuna creatura, può rappresentarlo, manifestarlo. Per la teologia ebraica, Egli può essere solo 'intuito' e conosciuto per via analogica,63 come afferma il Salmo 19 (18). In un altro Salmo, il 136 (135), l'azione creatrice di Dio è legata alla storia di salvezza da Lui operata a favore di Israele, dalla liberazione dall'Egitto fino al dono della Terra Promessa, così che il ricordo dell'opera di Dio diviene memoriale da rivivere nella liturgia:

Dio, con i nostri orecchi abbiamo udito, i nostri padri ci hanno raccontato l'opera che hai compiuto ai loro giorni, nei tempi antichi. Tu per piantarli, con la tua mano hai sradicato le genti, per far loro posto hai distrutto i popoli. Poiché non con la spada conquistarono la terra, né fu il loro braccio a salvarli; ma il tuo braccio e la tua destra e la luce del tuo volto, perché tu li amavi (Sal 44).

Il compimento della promessa garantisce dunque la fedeltà di Dio e il suo amore, a cui Jahvè lega la proposta dell'Alleanza in funzione di una nuova promessa. Infatti nel libro dell'Esodo leggiamo:

Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa (Es 19, 4-6).

Il tema dell'Alleanza è il 'filo rosso' che lega dinamicamente ogni esperienza vissuta da Israele nel rapporto con il suo Dio. Il berit64 'inizia' con il I racconto della creazione, elaborato dalla teologia sacerdotale: la struttura ebdomadaria di Gen 1, 1-2, 4a incornicia la cosmogonia e l'antropogonia in una dimensione liturgica nella quale il 7° giorno, lo Shabbat, è culmen et fons di tutta la creazione.65 Dio infatti non crea 'lo' Shabbat ma 'nello' Shabbat, riposo ricolmo di benedizione, di santità e della ludicità della Sapienza di Jahvè.66 I due poli della creazione, il 'dire di Dio' (Gen 1, 3) e il Suo riposo (Gen 2, 2-3), sono la cornice significativa in cui Jahvè pone la Sua opera creatrice: la tradizione sacerdotale riconduce ogni evento salvifico operato da Jahvè nel bereshit come inizio dell'Alleanza tra Dio e l'uomo. La locuzione «Dio disse» (Gen 1, 3) è l'inizio dell'Alleanza come opera di Dio in fieri: con la Sua Parola creatrice Jahvè 'inizia' a rivelarsi attraverso una modalità dialogica che porta in sé la necessità di un interlocutore libero e responsabile, cioè disponibile all'ascolto e alla risposta.

Non ogni immagine è di per sé pesel. Infatti al termine di ogni atto creativo, Dio vede che ciò che ha portato all'essere è tôb, bello/buono. Di per sé, dunque, riprodurre immagini di ciò che è in cielo, in terra e sottoterra, secondo il racconto di Genesi, non è sbagliato. All'uomo è innanzitutto proibito circoscrivere Jahvè, sia come pesel che come temunà, divinizzando oggetti, creature e perfino le proprie immagini mentali. Solo l'uomo riceve direttamente il nome da Dio perché egli è creato 'a sua immagine e somiglianza'. Allontanarsi da questo, significa non conoscersi e ri-conoscersi divenendo così un'immagine che, portata al massimo grado, diviene pretesa di 'essere come dèi'. Se l'immagine è separata dalla Parola che l'ha formata allora l'uomo tende alla somiglianza con se stesso che però, essendo tendente al finito, limita la stessa immagine divina nell'uomo. Ascoltare Dio e mettere in pratica la sua Legge significa vedere l'autentica immagine di sè: l'uomo non ha bisogno di sentirsi dire: «tu sei», come è avvenuto per il resto del creato. Il nome dell'uomo, la sua verità, è l'immagine di Dio in Lui. Il nome di Adam è 'immagine e somiglianza'. Creato nel sesto giorno, l'uomo tende allo Shabbath: nel vespro del sesto giorno, Adam scruta il giorno che è la pienezza della creazione: nessun'altra immagine può dargli conoscenza di sé. Nell'ordine onto-teologico solo l'uomo porta in sé l'immagine autentica di Dio. Se l'uomo distorce questa immagine ogni immagine dentro e fuori di sé può diventare temunà, cioè una raffigurazione che si pretende possa, nella sua struttura ontologica, rivelare pienamente il divino. Dato che l'uomo è eikon di Dio (Gen 1, 26), la sua somiglianza è strettamente legata a questa immagine 'ontologica' che, proprio in quanto eikon, è simbolica: essa rimanda cioè alla parte invisibile dell'immagine visibile con cui l'uomo manifesta se stesso nel creato.

Ogni liturgia che celebra il rapporto tra Jahvè, l'uomo e il creato deve essere vissuta come un memoriale dell'Alleanza, e ciò significa per l'uomo volgere lo sguardo affinché il suo volto incontri il volto di Dio nella storia come immagine che non può in alcun modo essere circoscritta in una dimensione de-finita dall'uomo, pena la produzione e la venerazione di immagini idolatriche, ma solo ri-velata da Dio, immagine che è 'manifestazione-nascondimento', come mostra chiaramente la teofania del Sinai nella suggestiva scenografia di stravolgimenti naturali indicanti la presenza di Dio. Jahvè dunque non solo si mostra ma mediante la parola manifesta la volontà di stringere un'alleanza con Israele, sulla base di una «legge» che Lui stesso consegna al popolo: Jahvè si impegna a cercare un popolo che sia in grado di dialogare con Lui e, successivamente alla mediazione di Mosè, è Israele stesso come popolo che liberamente accetta di assumere il ruolo di interlocutore nel dialogo con Jahvè.67

Secondo P. Stancari, «i due temi dell'«alleanza» e della «legge» costituiscono dei nodi teologici così pregnanti, che si potrebbe quasi riconoscere in essi l'intera rivelazione biblica».68 Per questo «il tema dell'aniconismo si lega strettamente all'elezione d'Israele come popolo sacerdotale»69: infatti, «il divieto di farsi immagini è costantemente collegato al divieto di adorare dèi stranieri, ma vieta anche di farsi immagini di Jahvè per evitare che il creatore possa essere confuso con le creature. In breve, il comandamento prescrive il modo corretto di adorare e servire il proprio stesso unico Dio»,70 cioè di rimanere nell'Alleanza. Il divieto veterotestamentario delle immagini si riferisce dunque 1) alla fede nella creazione, distinta e soggetta, nella sua stessa realtà ontologica di creatura, a Jahvè in quanto Creatore;71 2) al rispetto della Legge a partire dall'esperienza concreta dell'impossibilità per Israele di vedere in alcun modo la figura di Jahvè nella sua teofania al Sinai.72 Israele dunque vive l'Alleanza 'di' e 'con' Jahvè nell'ambito di un'economia dell'ascolto73: allontanarsi dal genuino culto di Jahvè a causa di una deviazione dell'orante originata dalle immagini cultuali e dalla concezione del sacro che esse implicano74 è il pericolo che potrebbe confondere l'uomo sulla verità del berit. Rispettare l'Alleanza vuol dire infatti viverla nel modo con cui Jahvè l'ha donata ad Israele, così da rimanere nel cammino verso la santità, vocazione di Israele e dell'uomo.75

5. Conclusione

La proibizione delle immagini sembra voler indicare all'uomo il sentiero della libertà nella storia non come concetto ma come quotidianità: ogni cosa che l'uomo produce, sia mediante il lavoro sia con i suoi pensieri, deve essere libera da ogni idolatria, da ogni disordine. Riconoscendo la trascendenza di Jahvè che si rivela nella storia, l'uomo diviene sempre meno incline all'idolatria e sempre più somiglia a Dio in quanto sua «immagine»: la rinuncia all'idolatria deriva dalla consapevolezza storica, cioè oggettiva, e non solo mentale, della capacità relazionale che Dio ha donato all'uomo sia nella dimensione verticale (con il suo Creatore) che in quella orizzontale (con gli altri uomini e con il creato). È quindi nella storia che si realizza l'evento dell'Alleanza in quanto relazione tra Dio e l'uomo: Dio vuole garantire all'uomo, mediante le parole del Decalogo, la sua fedeltà ed indicare all'uomo come divenire sempre più fedele come soggetto attivo in questo rapporto speciale. Ciò non pone l'uomo in una condizione di sottomissione, di deprivazione della sua libertà: il linguaggio antropomorfico della «gelosia di Dio»,76 viceversa, garantisce una relazionalità viva, vivente, che non conosce mezze misure, propriamente umana e profondamente collegata alla responsabilità dell'uomo in quanto icona di Dio.77 A differenza del culto tributato agli idoli, e perciò falso, «il vero culto invece è quello che rende visibile la presenza di Dio nel mondo, quello nel quale la creatura rinuncia a produrre la propria salvezza e a compiacersi della propria potenza, per lasciarsi totalmente ricolmare da Dio».78 Nella natura dell'idolatria c'è, quindi, una perversione dell'interpretazione dell'intenzione originaria di Dio e del dono che rende libero l'uomo. Afferma a tal proposito W. Zimmerli,

il secondo comandamento non intende portare a delle speculazioni sull'essenza eterna del Dio invisibile, ma alla docile sottomissione al Dio, che vuole restare il Signore sovrano anche nella sua rivelazione che tocca così da vicino l'uomo e di cui nessuna volontà umana può disporre, neppure quella dell'uomo religioso.79

In conclusione, possiamo dire che, poiché Israele non ha elaborato concetti e modelli filosofici, ha preso atto della realtà (la scelta esclusiva da parte di Jahvè come popolo che Gli appartiene e il dono dell'Alleanza come «parola» metastorica) e ha compreso che l'unica immagine in cui poter 'specchiarsi' sia come popolo che come singolo è proprio quella mediante la quale Dio si rivela nella storia. Per evitare ogni tipo di idolatria, questa 'immagine' risiede sia nella storia della salvezza sia nell'uomo ma non come realtà astratta bensì come persona, cioè come 'relazionalità', come egli stesso immagine di tale relazione il cui primo soggetto è Dio stesso. Rimanere nel berit significa rimanere nell'immagine di Dio, nel senso soggettivo e oggettivo del genitivo: nel senso soggettivo significa riconoscere la sua trascendenza ma anche il suo intervento nella storia (I Parola); nel senso oggettivo significa per l'uomo riconoscere in sé che Dio stesso ha posto la sua immagine dentro di lui. Se con il termine 'icona di Dio' si intende «l'uomo come interlocutore di Dio, sicché è possibile un rapporto dialogico tra Dio e l'uomo»,80 allora rimanere nel berit significa essere in questa relazionalità simbolica come evento autentico tra Dio e l'uomo81: evento che è Via, Verità e Vita, 'immagine archetipica' di Dio che, in quanto 'manifestazione-nascondimento', cioè immagine simbolica, caratterizza l'uomo come 'icona di Dio'.

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Note

  1. Dura Europos è una cittadina situata tra Aleppo e Baghdad. Nel 256 d.C. la guarnigione romana ivi presente organizza la difesa per arrestare l'avanzata dei Sassanidi che intendono conquistare i territori posti sulla riva destra del fiume Eufrate. Si decide di erigere una cinta muraria e per fare ciò i Romani ricoprono sia gli avvallamenti sia la sinagoga costruita pochi anni prima a ridosso delle mura cittadine. Tale apparato difensivo risulterà comunque inefficacie e tutta l'area di Dura Europos sarà abbandonata all'oblio per ben 1676 anni. Testo

  2. Cfr. F. Calabi, Simbolo dell'assenza: le immagini nel giudaismo, «Quaderni di storia», 41(1995), 5. Testo

  3. F. Calabi, Simbolo dell'assenza, 5. Testo

  4. J. Plazaola, Arte cristiana nel tempo. Storia e significato, I. Dall'Antichità al Medioevo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001, 50. Testo

  5. Cfr. S. Levi della Torre, «Non ti farai alcuna immagine», «La rassegna mensile d'Israel», 2(1998), 3; Id., 17; A. Luzzatto, L'aniconismo ebraico fra immagine e simbolo, in T. Verdon (ed.), 'L'arte e la Bibbia. Immagine come esegesi biblica, Biblia, Settimello 1992. Atti del convegno «L'arte e la Bibbia», Venezia 1988, 90; Id., 97; F. Calabi, Rappresentazione come evocazione: immagini e aniconismo nella tradizione ebraica, «Filosofia dell'arte», 1(2001), 52; Id., Simbolo dell'assenza, 25. Testo

  6. Utilizziamo in questa sede il termine simbolo seguendo l'epistemologia del simbolo di P.A. Florenskij: «Il simbolo è qualcosa che è più di sé. Per esempio: il qualdro come realtà consiste nella tela, nei colori, nella cornice, nel telaio, ma esso è di più, come essenza, di quello che è nell'ordine della realtà fisica. È una finestra. Il simbolo metafisico è un'essenza la cui energia porta con sé l'energia di un'essenza 'altra', superiore, dissolta in essa, e a essa unita, e quello che attraverso di essa si manifesta rivela un'essenza superiore. Il simbolo è una finestra verso un'altra essenza che non è data direttamente», P.A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell'arte, a cura di N. Misler, Adelphi, Milano 20073, 356. Si veda inoltre S. Biancu -- A. Grillo, Il simbolo. Una sfida per la filosofia e per la teologia, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 2013, 71-99; P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 20062. Testo

  7. S. Levi della Torre, 20. Cfr. anche F. Calabi, Rappresentazione come evocazione, 45. Testo

  8. Cfr. F. Calabi, Rappresentazione come evocazione, 45; S. Levi della Torre, 20. Testo

  9. S. Levi della Torre, 20. I Kohanim erano i discendenti di Aronne preposti al servizio sacerdotale. Testo

  10. F. Calabi, Simbolo dell'assenza, 24. Testo

  11. F. Calabi, Simbolo dell'assenza, 7. Testo

  12. F. Calabi, Rappresentazione come evocazione, 44. Testo

  13. M.A. Ouaknin, Le Dieci Parole. Il Decalogo riletto e commentato dai maestri ebrei antichi e moderni, Paoline, Milano, 20033, 68-69. Testo

  14. Aa.Vv., Grande Enciclopedia Illustrata della Bibbia, Piemme, Casalmonferrato (AL) 1997, 170-171. Testo

  15. J.L. McKenzie, Dizionario biblico, Cittadella, Assisi 1973, 475. Testo

  16. M. Noth, Esodo, Paideia, Brescia 1977, 201. Testo

  17. G. Barbaglio, Schede Bibliche Pastorali, EDB, Bologna 1984, 1906. Testo

  18. S. Paganini, Deuteronomio, Paoline, Milano 2011, 173 Testo

  19. G. Barbaglio, Schede Bibliche Pastorali, EDB, Bologna 1984, 1905-1906. Testo

  20. Cfr. Sap 13,1-15;19. Testo

  21. F. Calabi, Simbolo dell'assenza 9. Testo

  22. F. Calabi, Rappresentazione come evocazione, 45. Testo

  23. G. Nolli, Il silenzio iconografico nell'Antico Testamento e la parola come sostituto, in T. Verdon (ed.), 'L'arte e la Bibbia. Immagine come esegesi biblica, Biblia, Settimello 1992. Atti del convegno «L'arte e la Bibbia», Venezia 1988, 81. Testo

  24. Cfr. G. Nolli, 81-82. Testo

  25. F. Calabi, Rappresentazione come evocazione, 44. Testo

  26. S. Levi della Torre, 17. Testo

  27. M. Noth, 201. Testo

  28. Cfr. G. von Rad, 'eikon', in G. Kittel -- G. Friedrich, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1992, III, 141. Testo

  29. M. Noth, 201. Testo

  30. Per quanto riguarda l'analisi del testo del Decalogo, farò riferimento prevalentemente al testo di Esodo e alla suddivisione delle 'Parole' secondo la tradizione giudaica. Poiché si tratta di 'parole', non abbiamo «comandi»: infatti quest'ultimo vocabolo «fa emergere e produce artificialmente l'immagine di un Dio moralizzatore», S. Paganini, 168. Spostando l'attenzione sul termine 'comandamento' si cade, per assurdo, nell'idolatria, cioè in un'immagine 'umana' di Dio, anche se si rimane all'interno del Decalogo: la giusta interpretazione di questo testo come «parole» e non come «comandi» ci dà la vera «immagine» di Dio come interlocutore dell'uomo, suo garante e corresponsabile dell'Alleanza. Testo

  31. Cfr Es 34,28; Dt 4,13; 10,4. Testo

  32. A tal proposito D. Tonelli afferma che «tra i numerosi testi legislativi dell'Antico Testamento, il Decalogo è senz'altro quello principale, poiché, da un lato, suggella l'alleanza fra il popolo e il proprio Dio; dall'altro, perché è l'unico testo ad essere stato trasmesso direttamente dal Dio al popolo», D. Tonelli, Il Decalogo. Uno sguardo retrospettivo, EDB, Bologna 2010, 34. Testo

  33. D. Tonelli, 49. Testo

  34. D. Tonelli, 33. Le due redazioni delle 'Dieci Parole' dipendono da diversi 'stadi di sviluppo' del Pentateuco. Cfr. E. Zenger, Introduzione all'Antico Testamento, Queriniana, Brescia 20082, 130. Anche se i due testi appartengono alla tradizione religiosa dell'antico Medio Oriente (Egitto e Mesopotamia), essi vengono rielaborati in un' ottica propriamente teo-logica e non più religiosa tipica del culto dell'epoca, cfr. D. Tonelli, 37. Per lo stato attuale della ricerca sulla genesi della redazione storico-letteraria del Decalogo cfr. Id., 33. Testo

  35. Per le discordanze presenti nella IV, V, IX e X Parola cfr. G. von Rad, Genesi, Paideia, Brescia 19782, 70-72; E. Zenger, 128; S. Paganini, 168-177. Per quanto riguarda le differenze grammaticali e le diverse interpretazioni dal punto di vista sincronico e diacronico, cfr. Id., 168-171; S. Natoli -- P. Sequeri, Non ti farai idolo né immagine, Il Mulino, Bologna 2011, 11. Testo

  36. Es 19-Nm 10,10. Testo

  37. Es 20,22-23,33. Testo

  38. Dt 12-28. Testo

  39. Nel Deuteronomio il Decalogo «è presentato esplicitamente come documento del 'patto di alleanza all'Oreb'. Nel libro esso ha la posizione di una 'legge fondamentale'», E. Zenger, 129. Testo

  40. Cfr. A. Nepi, Esodo (Capitoli 16-40), Edizioni Messaggero Padova, Padova 2004, 87-88. Testo

  41. Cfr. E. Zenger, 128. Testo

  42. Cfr. D. Tonelli, 49. Testo

  43. Cfr. F. Garcia Lopez, Il Pentateuco. Introduzione alla lettura dei primi cinque libri della Bibbia, Paideia, Brescia 2004, 159-160. Testo

  44. L'assenza di sanzioni può avere le seguenti motivazioni: «1) la sanzione, come punizione, consiste nella perdita di quella identità e libertà che l'osservanza della legge intende difendere. Nel trasgredire il principio, il soggetto agente si autopunisce. La sacralità della vita umana che il Decalogo intende tutelare va quindi ben oltre qualunque prassi giuridica: cosa c'è, infatti, di più drammatico della perdita della propria libertà? 2) il Decalogo non è una lista di norme, ma di principi, di criteri, che non dicono cosa fare, ma indicano la direzione verso cui indirizzare l'azione. Esso obbliga l'uomo ad agire in modo responsabile sulla base di una storia vissuta con Dio, narrata nel Libro dell'Esodo», D. Tonelli, 60. Testo

  45. A. Nepi, 89. Testo

  46. Se suddividiamo il testo del Decalogo in tre parti, la prima, formata dal I, dal II e dal III comandamento, orienta l'agire dell'uomo verso Dio; la seconda, che comprende il IV e il V comandamento, regola la relazione dell'uomo con il tempo e la famiglia; la terza sezione, dal VI al X comandamento, verte sulla dimensione orizzontale della relazionalità umana e contiene tre temi che si ripetono due volte: la vita, la donna e la proprietà. Non così nella versione deuteronomistica, cfr. E. Zenger, 128-130. Testo

  47. Cfr. M. Noth, 200. Testo

  48. Cfr. P. Stancari, Lettura spirituale dell'esodo, Borla, Roma 19832, 112. Testo

  49. Cfr. Dt 4,15-18. Testo

  50. Per un approfondimento del significato dei termini in oggetto, cfr. F. Büschel, 'eidolon', in G. Kittel -- G. Friedrich, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1992, III, 127-138; H. Balz -- G. Schneider, Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2004, 1026-1031; J. Schneider, 'omoioma', in G. Kittel -- G. Friedrich, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1992, VIII, 535-554; K. Kerenyi, AGALMA, EIKWN, EIDWLON, in E. Castelli (ed.), Demitizzazione e Immagine, CEDAM, Padova 1962, 169. Testo

  51. Cfr. C.H. Dohmen, psl, in G.J. Botterweck -- H. Ringgren -- H.J. Fabry, Grande Lessico dell'Antico Testamento, Paideia, Brescia 2010, VII, 268-272. Testo

  52. Cfr. L. Amoroso, Per un'estetica della Bibbia, ETS, Pisa 2008, 36. Testo

  53. Cfr. Es 20,23b. Testo

  54. A. Luzzatto, 87. Testo

  55. Cfr. E.-J. Wasche, 'temunà', in G.J. Botterweck -- H. Ringgren -- H.J. Fabry, Grande Lessico dell'Antico Testamento, Paideia, Brescia 2010, IX, 1125-1128. Testo

  56. Cit. in A. Luzzatto, 89. Testo

  57. S. Levi della Torre, 4-5. Testo

  58. B.G. Boschi, Esodo, Paoline, Milano 1978, 187. Testo

  59. A. Luzzatto, 89. Testo

  60. S. Natoli -- P. Sequeri, , 13. Testo

  61. Secondo S. Natoli «Dio, nel suo farsi definitivamente Uno, cessa di essere una unità numerabile -- uno tra tanti -- per mutarsi in uno spazio in cui tutto si riunisce e conviene», S. Natoli -- P. Sequeri, 25. Testo

  62. Cfr. Sap 13,10-19. Sottolinea S. Natoli: «Non si può rendere culto e servizio agli altri dèi o meglio agli dèi degli altri. Uno è, infatti, il Signore ed è impossibile che possano esisterne altri dèi di fronte a lui. Se vi sono, altro non sono che prodotti delle mani dell'uomo. sono falsi: idoli, appunto», S. Natoli -- P. Sequeri, 13. Testo

  63. Per S. Natoli «bisogna rendere a Dio il culto dovuto senza però farsene immagini, onde evitare il rischio di abbassare Dio al livello delle creature o peggio ancora rischiare, sia pure non intenzionalmente, di elevare le creature a divinità», S. Natoli -- P. Sequeri, 13. Testo

  64. Cfr. M. Weinfeld, 'berit', in G.J. Botterweck -- H. Ringgren -- H.J. Fabry, Grande Lessico dell'Antico Testamento, Paideia, Brescia 2010, X, 1589-1644. Testo

  65. Cfr. A.J. Heschel, Il Sabato. Il suo significato per l'uomo moderno, Garzanti 2001. Testo

  66. Cfr. Pro 8,22-31. Per quanto riguarda il ludus come categoria ermeneutica nel racconto di Genesi cfr. F. Brezzi, A partire dal gioco. Per i sentieri di un pensiero ludico, Marietti, Genova 1992. Testo

  67. L'inizio del dialogo tra Jahvè e il popolo di Israele è narrato nella risposta che il popolo dà a Dio (Es 24,3) e nel rito celebrativo mediante il quale il popolo viene legato in comunione con Dio mediante il sangue (Cfr. Es 24,4-8). Testo

  68. P. Stancari, 104. Testo

  69. L. Amoroso, 36. Testo

  70. S. Natoli -- P. Sequeri, 12. Testo

  71. Cfr. la teofania di Jahvè ad Elia sull'Horeb descritta in 1 Re 19,11ss e la concezione del Deuteroisaia sulla creazione in Is 40,12ss. Testo

  72. Cfr. Dt 4,15: «Badate bene a voi stessi: non vedeste nessuna figura (temunà) nel giorno in cui il Signore vi ha parlato all' Oreb in mezzo al fuoco». Testo

  73. Cfr. P. Stancari, 110. Testo

  74. Cfr. G. von Rad, 'eikon', 145. Testo

  75. Cfr. Lv 19,2.4: «Parla a tutta la comunità dei figli d' Israele e di' loro: Siate santi, perché santo sono io, il Signore Dio vostro. Non volgetevi verso gl' idoli e non fatevi degli dèi di metallo fuso. Io sono il Signore Dio vostro». Testo

  76. S. Paganini sottolinea che «nel medesimo contesto di critica all'idolatria, JHWH è definito un «Dio passionale» e come tale capace di grande ira ma anche di grandissime gesta di misericordia e d'amore», S. Paganini, 173. Testo

  77. Cfr. S. Natoli -- P. Sequeri, 28. Testo

  78. G. Papola (ed.), Deuteronomio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2011, 101. Testo

  79. W. Zimmerli, Rivelazione di Dio, 222. Testo

  80. F.-J. Stendebach, 'selem', in G.J. Botterweck -- H. Ringgren -- H.J. Fabry, Grande Lessico dell'Antico Testamento, Paideia, Brescia 2010, IX, 690. Testo

  81. F.-J. Stendebach, 'selem', 690. Testo