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Il pensiero iconico di Pavel A. Florenskij

di Massimiliano Palma (15 agosto 2014)

La riflessione di P. A. Florenskij1 è quanto mai attuale. Dopo la damnatio memoriae decretata dall'intellighenzia russa e durata circa cinquant'anni, il pensiero florenskijano è oggi un sentiero fecondo da percorrere, perché la sfida culturale da affrontare è la falsificazione della pretesa razionalistica e dell'astrattismo, effetti del paradigma del pensiero moderno antropocentrico. P. Florenskij, infatti, si batte contro la cultura iconoclasta della società occidentale contemporanea, trionfo del razionalismo soggettivistico, individuando nella filosofia moderna l'origine della sistematizzazione razionale della realtà nella dimensione visibile, l'unica esperibile in ambito conoscitivo da parte dell'uomo, privata così della sua dimensione misterico-simbolica, antinomica nella sua datità visibile-invisibile, immanente-trascendente, finito-infinito. Per questo P. Florenskij elabora un'analisi rigorosa del manifestarsi della Verità non per com-prenderla ma per ripensare le condizioni di possibilità di apertura ad essa in quanto 'origine e fine' della struttura ontologica dell'uomo: essere imago Dei, icona di Dio perché icona del suo Archetipo, di Gesù Cristo nel cui Volto la TriUnità rivela se stessa come Amore. Nel pensiero di P. Florenskij Verità e Amore sono inscindibilmente correlati: infatti «l'attività spirituale nella quale e per la quale è data la conoscenza della 'colonna della verità' è l'amore».2 Nel volto di Gesù Cristo, Prototestimone del Padre, si rivela la Verità dell'Amore trinitario secondo una 'logica del paradosso' che apre all'intellectus fidei3 nel mistero dell'Incarnazione, di cui il dogma calcedonese è la formula teologica. Poiché il Figlio di Dio si è incarnato Egli, come uomo, può essere rappresentato:

all'affermazione che Cristo è l'immagine del Dio invisibile non può corrispondere la traduzione in immagine della parola della Sacra Scrittura e nemmeno la rappresentazione della figura divina con mezzi della fantasia umana, derivati da concezioni del divino pre-cristiane. [...] Cristo è una Persona unica. [...] Il Nuovo Testamento adopera il concetto di 'immagine' per descrivere il carattere unico del rapporto del Figlio con Dio, con il Padre; allora anche ogni ritratto di Cristo deve necessariamente avere una forma individuale, non avendo Cristo assunto la natura umana solo in astratto, bensì in concreto come natura singola. [...] Solo se si raffigura questa natura concreta nella rappresentazione può trasparire qualcosa dell'eccezionale rapporto intercorrente tra il Padre e il Figlio e tra l'unico Figlio e il Padre.4

Non solo la parola ma anche l'immagine può evocare il mistero di Dio che si incarna. Delegittimando in questo modo l'aniconismo veterotestamentario, nel cristianesimo si sviluppa il linguaggio iconico, nel quale convergono filosofia, teologia, arte e liturgia. L'icona, diaframma (granica) tra mondo visibile e mondo invisibile,5 è il «luogo del confine, porta re (g) ale verso l'incontro tra immanente e trascendente, fenomenico e noumenico, simbolizzante e simbolizzato»,6 unità simbolica per cui «colui che conosce e l'essenza conosciuta si uniscono nell'atto della conoscenza in una bi-unità indivisibile che non si fonde».7 Osserva N. Valentini:

Per Florenskij [...] l'icona dischiude nelle pieghe del simbolismo ontologico il significato ultimo della persona e del cosmo, che ha il suo compimento spirituale nella presenza del Mistero, nel dono d'amore. In tal senso allora, l'icona diventa il rimedio al male del mondo, il superamento delle sue discordie, la via verso la trasfigurazione santificante dell'uomo.8

Scopo di questo articolo è presentare, sinteticamente, il pensiero iconico9 di P. Florenskij secondo tre prospettive tra loro correlate: quella filosofica, quella liturgica e, infine, quella antropo-teologica. Nel primo paragrafo presenteremo un breve excursus storico-teologico sulla riflessione ecclesiale circa l'immagine di Cristo e la separazione tra la Chiesa d'Oriente e la Chiesa d'Occidente circa la concezione e la funzione dell'immagine sacra. Nel secondo paragrafo esporremo il pensiero florenskijano sull'icona,10 non in quanto studio storico-artistico11 ma come parte importante della sua 'Weltanschauung integrale',12 tesa al recupero del significato estetico-rivelativo della realtà contro la pretesa riduzionistica della Weltanschauung moderna. Nel terzo paragrafo, a partire dall'epistemologia del simbolo di P. Florenskij analizzeremo il valore liturgico e quindi ecclesiale dell'iconostasi, pienezza rivelativa dell'icona, 'porta regale' per accedere alla contemplazione del Regno di Dio, finestra che rivela alla contemplazione dei fedeli il volto dei santi in quanto testimoni di Gesù Cristo, Prototestimone del Padre. Nel quarto paragrafo, infine, approfondiremo il significato del volto nel pensiero iconico di P. Florenskij, sottolineando come in Gesù Cristo, Volto d'Amore del Padre, l'uomo possa cogliere l'autentica struttura ontologico-esistenziale in quanto egli stesso icona di Dio.

1. Una questione ecclesiale: l'immagine di Cristo tra Oriente e Occidente

La riflessione teologica sull'immagine di Cristo si sviluppa in tutta la storia della Chiesa. L'arte protocristiana è condizionata da un fattore ad intra, l'aniconismo veterotestamentario, e da un fattore ad extra, l'ellenismo, il cui orizzonte culturale è il platonismo. Dai primi decenni del IV secolo vi è uno sviluppo progressivo del pensiero teologico sulla concezione e sulla funzione dell'immagine sacra, non come raffigurazione (idolo) ma come luogo della presenza del divino (icona), poiché il suo fondamento è il mistero dell'Incarnazione. Infatti, la domanda su cui verte la speculazione filosofico-teologica è se, e come, sia possibile 'circoscrivere' in un'immagine la Parola di Dio incarnata. Dal IV all'VIII secolo la riflessione dei Padri della Chiesa sull'icona trae la propria forza dimostrativa attingendo alle definizioni dogmatiche dei Concili Ecumenici trinitari e cristologici, in particolar modo alla cristologia calcedonese. In sintesi, l'approfondimento della questione inerente all'immagine di Cristo ha come paradigma ermeneutico da un lato la teologia trinitaria, in quanto il Figlio è l'immagine consustanziale del Padre e, dall'altro, la cristologia, in riferimento al dogma calcedonese dell'unione ipostatica del Verbo incarnato. Pur essendo quella dell'immagine di Cristo una questione ecclesiale, proprio durante questo lungo periodo comincia ad evidenziarsi una marcata divergenza tra la Chiesa di Oriente e la Chiesa di Occidente, circa la concezione e la finalità dell'immagine sacra, causata da una sensibilità culturale che veicola approcci teologici specifici intorno al mistero cristiano e, perciò, caratterizzanti.13 Se, a causa di differenti tradizioni culturali, è possibile già rilevare la diversità della concezione e della funzione dell'immagine tra l'Oriente e l'Occidente, le differenti ermeneutiche teologiche sull'immagine rivelano una discordanza circa il soggetto/oggetto stesso dell'icona, in altre parole sul rapporto tra significante e significato nella rappresentazione di Gesù Cristo e della Trinità.14 Pur non trattandosi di prospettive interpretative contrapposte bensì complementari, la diversa riflessione sul rapporto della natura divina e della natura umana in Gesù Cristo,15 porta l'arte cristiana ad un esito differente tra Occidente e Oriente proprio sul contenuto che essa intende esprimere e, conseguentemente, sulla sua funzione.16 In Occidente si attesta una concezione narrativo-metaforica,17 con finalità pedagogico-didattica (Biblia pauperum), atta ad istruire gli analfabeti e ad edificare il popolo attraverso la devozione e l'imitazione dei santi: per questo «il suo compito non è di rivelare il sacro, ma molto più semplicemente di rendere comprensibile attraverso l'immagine, anche a coloro che non sono in grado di leggere, quel messaggio salvifico che il cristianesimo ha il compito di annunciare ad ogni uomo».18 Così si spiega anche la controversia sul culto di venerazione o di adorazione dovuto alle icone: infatti,

i difensori delle immagini in Oriente si impegnarono a difendere la venerazione dell'immagine vedendo nella sua negazione una vera e propria eresia tesa a vanificare dogmaticamente l'incarnazione autentica di Cristo, l'Occidente sostenne invece la legittimità dell'immagine cristiana semplicemente in un'ottica volta a evidenziarla come una semplice modalità divulgativa dell'essenza stessa del cristianesimo.19

Per questo, in Occidente l'immagine cristiana è legittimata senza troppi conflitti, in quanto considerata in funzione della divulgazione dell'essenza stessa del cristianesimo,20 «di fatto destinata a coloro che non hanno strumenti per accedervi attraverso la parola»,21 come già affermato da Gregorio Magno.22 Con la divulgazione dei Libri Carolini (792),  si rafforza una concezione catechetico-narrativa-metaforica dell'immagine sacra la cui funzione è di aiutare i credenti a fare memoria della storia della salvezza.23 Ciò porterà, nel Rinascimento, ad una concezione dell'immagine sacra come «espressione psicologizzante di un sentimento religioso del tutto privo di interesse dogmatico»,24 che motiverà successivamente un sentimento devozionistico.25

La teologia orientale insiste invece sul significato realistico-simbolico-veritativo dell'immagine sacra: assistiamo così all'evoluzione di una riflessione teologica per la quale l'immagine di culto, da rappresentazione, si "trasforma" in icona. Si arriva, così, a definire che in essa «il prototipo rappresentato è in qualche modo presente nella sua immagine, che diventa icona appunto in quanto partecipa alla natura divina del rappresentato».26 Per questo, secondo quanto sancito dal Concilio di Nicea II del 787, è lecito scrivere icone rispettando il canone e rivolgere ad esse il culto di venerazione (proskunesis). Grazie quindi al contributo della teologia 'orientale' l'icona 'è' il punto di contatto relazionale tra la via discendente e quella ascendente, la possibilità di comunicazione tra l'immanenza e la trascendenza, da cui il motivo teologico centrale della teologia dell'icona, cioè la possibilità di scrivere l'icona di Cristo perché: 1) il Verbo di Dio incarnato 'è' l'immagine del Padre e l'agire trinitario non annulla l'unicità e l'unità dell'essenza divina: il paradosso della Trinità, di cui Gesù Cristo è l'immagine simbolica, è reso contemporaneamente possibile e attuale dalla logica dell'amore; 2) Gesù Cristo, in quanto 'icona del Dio invisibile' (Col 1, 15), è il 'simbolo archetipico' che rende possibile la scrittura e l'interpretazione dell'icona come una finestra aperta sul mistero trinitario, paradosso questo che apre alla ragione la via della conoscenza integrale della verità, a partire da quella della relazione intratrinitaria ed economico-salvifica, per arrivare a quella del creato, della singola essenza ed esistenza personale di ogni uomo, fino a comprendere tutta la storia. Proprio per questo l'icona «sarà destinata ad assumere nella Chiesa orientale la sua attuale molteplicità di funzioni: teologica (continuazione della rivelazione); liturgica (luogo, come la messa, di incontro con il divino); sacramentale (manifestazione della presenza mondana del sovrannaturale) ».27 Per tale concezione realistico-simbolica,28 l'immagine di Cristo è correlata al suo significato intrinseco, cioè di 'finestra' sul mistero, di simbolo essa stessa, ovvero di linea di confine tra il visibile e l'invisibile, tra l'immanente e il trascendente. Il principio costitutivo dell'immagine cristiana in Oriente è, e rimarrà, il suo carattere rivelativo poiché l'icona, in quanto immagine,

non ha nulla a che vedere con la semplice raffigurazione più o meno fantasiosa di uno specifico personaggio appartenente all'immaginario cristiano, ma si caratterizza invece come una rappresentazione che in modo misterioso rende presente proprio colui o colei che essa tratteggia.29

Per riassumere, possiamo usare la locuzione 'per visibilia ad invisibilia': l'icona è il luogo-paradosso dell'incontro del visibile e dell'invisibile e quindi non è mimesis, copia, rappresentante che satura in sé il rappresentato. Nell'icona l'invisibile non si nasconde ma si manifesta, poiché essa è epifania dell'Essere, luogo teofanico per eccellenza: rende visibile l'invisibile lasciandolo invisibile, poiché è apertura ad una dimensione-altra dialogica e, proprio per questo, ontologicamente differente dall'idolo. L'identità non di materia o di essenza ma di somiglianza tra l'Archetipo e l'immagine che l'icona manifesta, determina uno scarto tra simbolizzante e simbolizzato, il quale garantisce non la rappresentazione dell'Archetipo, come l'idolo, bensì la sua presenza simbolico-rivelativa. In sintesi, secondo la teologia dell'icona, il volto iconico di Gesù Cristo manifesta l'ipostasi incarnata del Figlio di Dio, la 'visibilità' dell'invisibilità di Dio.

La differente 'ermeneutica teologica' tra la Chiesa di Occidente e quella di Oriente sull'immagine sacra, a partire da una diversa elaborazione dogmatica dei contenuti dottrinali della fede, si fa in seguito ancora più marcata: infatti «la separazione tra le due confessioni cristiane, sancita definitivamente nel 1054, [è] progressivamente diventata anche la separazione tra due concezioni antitetiche di immagine».30 Anche se nell'arte occidentale medievale è possibile scorgere chiari riferimenti alla produzione iconica orientale, secondo H. Pfeiffer

talune immagini occidentali si avvicinano alla concezione della Chiesa orientale, o perché vennero create durante il Medioevo allorchè la civiltà occidentale subì profondamente l'influsso di Bisanzio, o perché per il loro soggetto -- la trasfigurazione o la risurrezione di Cristo -- lasciano trasparire anche nella forma la concezione figurativa teologico-orientale.31

Quali sono gli elementi che caratterizzano questa ulteriore separazione? Nella Chiesa d'Oriente si conserva la concezione realistico-simbolica dell'immagine sacra, secondo la quale l'icona 'è' presenza e manifestazione dell'Archetipo. Questa teologia della 'presenza' si fonda sulla dimensione dogmatico-rivelativa dell'icona in relazione alla sua 'forza transitiva'.32 Tuttavia, dall'età moderna anche in Russia la produzione iconica sarà influenzata dal naturalismo rinascimentale e dall'allegorismo, categorie proprie della concezione iconica occidentale, «fino ad abbandonare totalmente il canone bizantino e perdere di vista i suoi presupposti teorici».33 Ciò nonostante, tra il XIX e il XX secolo si attesta proprio in Russia un movimento di rinascita filosofico-religiosa34 in cui occupa un posto di primaria importanza la riscoperta dell'icona quale espressione della cultura russa,35 poiché per l'anima religiosa russa l'icona è «luogo teofanico per eccellenza, [...] equilibrio perfetto di bellezza sensibile e luce divina, di sapienza umana ed ispirazione mistica».36 Uno dei maggiori esponenti del gruppo di intellettuali che lavorano a questo progetto è P. A. Florenskij, per il quale «l'arte non viene concepita separatamente dal pensiero scientifico, filosofico e teologico, [...] ma all'interno di una visione complessiva del pensiero e della spiritualità cristiana, che nasce dal culto liturgico, sorgente della somma bellezza spirituale».37 P. Florenskij è quindi interessato al recupero del significato dell'icona in quanto simbolo per eccellenza della relazione misterico-veritativa tra mondo visibile e mondo invisibile, relazione che per il Nostro è la modalità autentica del 'darsi' della Verità, contro ogni approccio illusorio derivante dal riduzionismo 'scientifico' moderno che, secondo l'analisi florenskijana, origina dall'antropocentrismo rinascimentale.

2. Icona: immagine o rappresentazione?

In Occidente, dal Rinascimento in poi, la perdita della valenza simbolico-rivelativa dell'immagine sacra e l'accentuazione del significato dell'arte come espressione della creatività individuale, determinano una concezione soggettivistico-naturalistica dell'immagine sacra: si attribuisce ad essa un carattere di narrazione e di illustrazione privilegiando la soggettività dell'artista a discapito della dimensione misterico-oggettiva, così che

all'immagine rivelativa si sostituisce la rappresentazione illusoria del mondo visibile dove l'artista si compiace della propria arte, [...] nuova espressione dell'idolatria del visibile che gli iconoduli antichi avevano dovuto combattere prima nel paganesimo e poi nell'iconoclasmo e che gli iconoduli contemporanei dovranno combattere nell'immagine naturalistica.38

A tal proposito, G. Lingua sottolinea che il naturalismo rinascimentale

anche se apparentemente non ha messo in dubbio la possibilità dell'arte religiosa, in realtà ha corroso dall'interno i presupposti stessi dell'immagine cristiana, estinguendo il tratto più vero del simbolismo medioevale. [Il naturalismo] pretende di rappresentare le realtà spirituali a partire da una concezione dell'immagine che non ha più nulla in comune con l'arte sacra e, così facendo, ripropone l'errore dell'idolatria pagana.39

Se, come afferma E. Sendler, «le forme dell'arte hanno un carattere semantico [e per questo] si potranno, dopo un'analisi oggettiva dei fenomeni, proporre legittimamente delle conclusioni relative alle idee filosofiche e teologiche sottostanti»,40 per P. Florenskij le tecniche artistiche utilizzate non rappresentano solo una particolare modalità di esecuzione, bensì sintetizzano due differenti paradigmi culturali ed esistenziali profondamente antitetici: quello contemplativo-creativo e, di contro, quello rapace-meccanico.41 Come conseguenza di questa sua ermeneutica filosofica, P. Florenskij «prende le distanze dall'immagine occidentale quale ipostatizzazione artistica di una visione del mondo non-iconica, anzi più correttamente anti-iconica».42 Egli sottolinea che, in Occidente, il passaggio del significato dell'icona da immagine rivelativa della totalità del reale, 'spazio significante' al confine tra il mondo visibile e il mondo invisibile che rivela l'Archetipo in essa manifestato, a semplice rappresentazione della percezione soggettivistica della natura, in quanto unica realtà conoscibile, ha avuto origine dal Rinascimento e si è poi rafforzata concettualmente attraverso la gnoseologia cartesiana e successivamente kantiana, portando alla concezione dell'immagine come «riflesso, mimesi del visibile».43 Per questo l'analisi del Nostro prende avvio dallo studio dell'utilizzo, nell'arte rinascimentale, della prospettiva lineare.44 Egli considera tale tecnica prevalentemente illusionistica45 poiché, tramite questa, l'uomo si pone in una posizione centrale ed equidistante con il creato, condizionando la propria percezione e quindi la conoscenza della realtà. Privilegiando l'unico punto di vista del soggetto come esclusiva espressione della verità, si crea un'immagine illusoria,

posta in un triangolo chiuso: l'artista, la sua opera, lo spettatore. L'artista esegue l'opera e suscita l'emozione nell'anima dello spettatore: l'insieme rimane chiuso nell'immanentismo estetico. Se l'emozione diviene esperienza religiosa, ciò è dovuto alla capacità soggettiva dell'uno o dell'altro spettatore di provarla.46

La critica di P. Florenskij si indirizza, dunque, verso il soggettivismo solipsista dell'uomo rinascimentale:

Così sorge sul terreno rinascimentale la concezione del mondo di Leonardo -- Cartesio -- Kant; e in questo modo sorge anche l'equivalente di questa concezione del mondo nelle arti figurative: la prospettiva. I simboli pittorici devono ora essere prospettici perché questo è un mezzo tale da unificare tutte le rappresentazioni del mondo, secondo il quale il mondo viene letto come una trama unitaria, indissolubile e impenetrabile di relazioni kantiano-euclidee, concentrate sull' "Io" di colui che osserva il mondo, ma in modo tale che questo "Io" sia esso stesso un certo punto focale immaginario del mondo, inerte e speculare.47

Gli artisti rinascimentali cioè propongono il naturalismo come l'unica rappresentazione mimetica del reale,48 pretendendo così di sottomettere la realtà alla sola dimensione estesico -- percettiva del singolo soggetto, allontanandolo in tal modo dalla verità del mondo, costituito invece da un'infinità di punti focali aventi ognuno la propria prospettiva. Inoltre, secondo la riflessione di P. Florenskij, la prospettiva lineare è una tecnica pittorica caratteristica di un determinato periodo storico: per questo non può essere considerata come l'unica costruzione in grado di rappresentare fedelmente la realtà.49 Non solo: per il Nostro la pretesa dell'arte rinascimentale di de-finire compiutamente il reale, non considerandone la complessità derivante dalla sua struttura misterica ma fermandosi dimensione fenomenica degli enti, rende il naturalismo impossibile.50 Per P. Florenskij, quindi, l'immagine naturalistica suggerisce l'idea dell'originale51 ma non la riproduce, poiché «non c'è alcuna aderenza al modello, ma tutto si svolge nell'invenzione priva di riferimento oggettivo in cui ogni artista dice qualcosa di suo, senza essere in grado di esprimere la verità della vita».52 L'applicazione della prospettiva lineare come unica e autentica 'forma significante' dell'opera d'arte, avente come unico polo relazionale il soggetto, ha causato una deformazione del significato e della funzione dell'immagine sacra, ridotta così a immagine-idolo: un'immagine cioè che allontana il soggetto dalla conoscenza della Verità, poiché l'univocità prospettica elimina ogni informazione simbolica del reale. Per questo, all'univocità soggettivistica della prospettiva lineare rinascimentale il Nostro contrappone la tecnica della prospettiva rovesciata,53 la quale rivela la possibilità-altra di rappresentazione del rapporto dell'uomo con la realtà e i suoi simboli54: tale relazionalità è dinamica e non statica, come accade invece nella prospettiva lineare e quindi nell'arte rinascimentale. Nel suo articolo "La prospettiva rovesciata",55 P. Florenskij, analizzando le icone russe dal XIV al XVI secolo, apice dell'iconografia,56 inizia la sua dissertazione affermando che gli elementi raffigurati nell'icona «sono in stridente contraddizione con le regole della prospettiva lineare»,57 tanto da poter essere considerati errori di disegno: l'icona infatti mostra lati o parti delle figure che non possono essere viste simultaneamente.58 Questi errori, però, non sono frutto di un'imperizia tecnica degli iconografi59 ma l'applicazione cosciente di un metodo pittorico alla cui base vi è la prospettiva rovesciata o inversa,60 tecnica che si caratterizza per la capacità di manifestare, in netto contrasto con l'unilateralità della prospettiva lineare, la «policentricità della rappresentazione, [per cui] il disegno è costruito come se l'occhio guardasse le varie parti di questo cambiando di posto».61 Ciò permette allo spettatore di cogliere la dinamicità dello schema metafisico del raffigurato,62 poiché nell'icona «lo spazio rappresentato è incluso nello spazio reale senza discontinuità. La rappresentazione è limitata al primo piano e in questo modo le figure rappresentate nell'icona e le persone che si trovano davanti ad essa sono situate in uno stesso spazio».63 Quindi la prospettiva rovesciata rivela che nell'icona, a differenza della rappresentazione rinascimentale, ciò che riveste maggiore importanza è la relazione spazio -- spettatore e non solo il punto di vista del pittore e l'atto interpretativo di colui che guarda.64 Scrive a tal proposito P. Florenskij:

Bisognerebbe rendersi conto una volta per tutte del vero significato della prospettiva: questa non è qualcosa di positivo, il punto di vista non ha determinazioni e caratteristiche positive proprie; viene determinato esclusivamente in modo negativo: esso è "non ciò" che sono tutti gli altri punti; pertanto contenuto della prospettiva si può definire soltanto la negazione di ogni altra realtà rispetto a quella del punto dato. Se infatti si ammettesse una realtà al di fuori di tale punto, sarebbe possibile anche un altro punto di vista, e perciò il postulato di base della prospettiva, l'unità prospettica, verrebbe radicalmente violato.65

Cosa dunque distingue l'icona dall'immagine rinascimentale? Non si tratta solo dell'applicazione di differenti tecniche prospettiche ma di ciò che l'iconografo vuole 'testimoniare', in 'immagini e colori', di ciò che ha visto nella sua esperienza spirituale, perché «l'icona, come fissazione e manifesto, [è] annunzio a colori del mondo spirituale».66 Cerchiamo quindi di comprendere quale tipo di esperienza, secondo P. Florenskij, è all'origine della scrittura dell'icona che differenzia questa da altri tipi di immagini religiose.

Nel suo saggio 'Iconostasi', del 1922, P. Florenskij afferma che all'origine dell'icona non vi è un associazionismo psicologico soggettivistico, come nell'arte rinascimentale, ma un'autentica esperienza spirituale67 che l'autore paragona all'esperienza onirica vissuta nel dormiveglia.68 In che senso 'autentica'? Egli afferma che «il vero artista non vuole a qualunque costo qualcosa di suo particolare, ma il bello, l'oggettivamente bello, cioè la verità delle cose incarnata artisticamente»69: quindi l'opera d'arte deve essere la concreta manifestazione della verità derivante dalla contemplazione dei noumeni eterni.  Per questo P. Florenskij afferma, seguendo la dottrina platonica,70 che «attingendo dalla rivelazione penetrata in questa patria, noi non percepiamo la rivelazione stessa dal di fuori, ma la riportiamo alla memoria in noi stessi: l'icona è un'allusione a un archetipo celeste».71 Questo tipo di conoscenza della Verità può essere ottenuta solo da un'anima che si estasia dal mondo terreno, superando il confine tra i due mondi, quello visibile e quello invisibile, in un'autentica esperienza mistica i cui momenti sono «lo scioglimento dionisiaco dei vincoli del sensibile e la visione apollinea del mondo spirituale».72 Non basta però che l'artista rappresenti solo le «immagini dell'ascesa, [poiché queste sono] le vesti della vanità diurna che vengono in quel momento abbandonate, una crosta che ricopriva l'anima per la quale non c'è posto nell'altro mondo».73 Fermandosi al primo momento del distacco della coscienza diurna durante la creazione artistica,74 l'artista ri-produce solo la sua 'ispirazione', dalla quale può derivare un'immagine naturalistica e perciò illusoria, poiché «il naturalismo dà un'immagine falsa della realtà, un'inutile parvenza della vita quotidiana».75 Per P. Florenskij è fondamentale il momento della 'discesa' dell'esperienza spirituale (dell'iconografo), poiché è qui che «la sua conquista spirituale si incarna in immagini simboliche che, rafforzatisi, [mostrano nell'opera d'arte] l'esperienza della vita mistica cristallizzata al confine tra i due mondi».76 Secondo questa concezione ontologico-spirituale dell'icona,77 il santo ikonnik, l'iconografo, è colui che, riportando alla memoria la Verità rivelata e perciò contemplata,78 dà testimonianza di questa esperienza spirituale creando le icone 'protorivelate'. Di conseguenza, in quanto manifestazione di un archetipo celeste, «l'icona non è un'opera d'arte, di un'arte indipendente, ma un'opera testimoniale a cui serve tra molte altre cose anche l'arte».79 Per P. Florenskij, quindi, l'icona non è un oggetto artistico, il risultato di una creazione individuale, una rappresentazione sensibile di alcunché, in quanto «lo spazio aperto dell'icona è oggettivo e originale allo sguardo, sia spirituale che fisico».80 Il Nostro riprende così il concetto di evocazione, grazie al quale «l'icona evoca un archetipo, cioè risveglia nella coscienza una visione spirituale. Colui che ha contemplato chiaramente e coscientemente questa visione, la nuova seconda visione, per mezzo dell'icona, è essa stessa chiara e cosciente».81

Nella sua essenza l'icona è "rivelazione" e "testimonianza", perché non è una di-mostrazione (demonstratio come prova scientifica) ma una 'ostensione' (monstratio) 82 della Verità che nell'esperienza spirituale si dona allo sguardo dell'ikonnik. Quindi l'icona non è una rappresentazione di un modello, una semplice ri-produzione di un originale, ma 'è' l'originale' essa stessa, come testimonia il Nostro:

Ecco, guardo un'icona e dico tra me e me: "è Lei", non la sua raffigurazione ma Lei stessa, contemplabile per mezzo e con l'aiuto dell'arte iconografica. Come attraverso una finestra io vedo la Madonna, la Madonna stessa, e prego Lei, viso a viso, e giammai la Sua raffigurazione. E nella mia coscienza non c'è alcuna raffigurazione: c'è la tavola con i colori e c'è la Madre Stessa del Signore.83

Nell'icona dunque non c'è posto per la soggettività: infatti se c'è un'esperienza spirituale originaria, cioè una relazione 'ontologica' con l'Archetipo, «il segno sensibile si riempie di linfe vitali diventando, tuttavia, essendo inseparabile dal suo archetipo, non già un archetipo ma l'onda di diffusione o una delle onde di diffusione suscitate dalla realtà»84: solo così

la raffigurazione scopre il proprio contenuto spirituale».85 Per questo l'icona è uno «strumento di conoscenza del sovrasensibile, [il cui scopo è quello] di condurre la coscienza nel mondo spirituale, mostrare "spettacoli misteriosi e soprannaturali".86

Il valore veritativo dell'icona si attua a partire dal singolo dettaglio dell'immagine iconica: nell'icona è importante il 'tutto' dell'immagine87 a partire dal singolo elemento. Sia le materie utilizzate, che fanno parte di tutto il mondo vivente,88 in particolare i colori con il loro significato simbolico,89 sia la sequenza di utilizzo delle materie, la stessa tecnica iconografica90 e la superficie su cui si lavora, formano la struttura ontologica dell'icona, che trae il suo significato dalla Rivelazione di Dio nel mondo. Per definire meglio questi concetti, P. Florenskij si sofferma sulla descrizione dell'uso dell'oro, che in un'icona canonica è fondamentale perché riproduce la profondità della luminosità, cioè il «riversarsi della luce nello spazio».91 Infatti, l'oro della razdelka e dell'assist92 non è abbellimento ma presenza della realtà, poiché «si riferisce all'oro spirituale, la luce ultraceleste di Dio».93 Questa luce non è astratta, esterna, inconoscibile, ma concreta, l'ossatura ontologica dell'oggetto in quanto causa oggettiva della sua forma visibile: di conseguenza per il Nostro «la luce è il principio creativo trascendente delle cose, che mediante queste manifesta se stesso ma in queste non si esaurisce».94 Anche in questa sua analisi P. Florenskij sottolinea la differenza tra l'iconografia e la tecnica pittorica occidentale: se in questa occupa un posto importante il rapporto chiaro-scuro nell'immagine, e l'oro, quando utilizzato, è considerato semplicemente un «oggetto al naturale [in quanto] distrugge l'unità dello stile spirituale del dipinto»,95 nella pittura di icone l'iconografo, muovendo dall'oscurità alla luminosità, dalla tenebra alla luce, utilizza l'oro come origine del procedimento per emersione della figura, prima manifestazione dell'essere (dell'immagine), inizio del processo di incarnazione96 e non come fonte di luce esterna. P. Florenskij pone così in relazione ontologica l'icona, immagine fatta di luce perché 'creata sulla' metafisica della luce, con la creatio ex nihilo di Dio: egli afferma infatti che «l'esecuzione di un'icona, di questa ontologia concreata, ripete i passi basilari della creazione Divina, dal nulla, dal nulla assoluto, alla Nuova Gerusalemme, la creazione santa».97 In rapporto alla Verità che l'icona manifesta, occorre sottolineare che l'ultima condizione affinché sia garantita l'autenticità del carattere ontologico-rivelativo di un'icona, così da essere accolta come protorivelata,98 è il riconoscimento da parte della Chiesa mediante l'apposizione del nome all'immagine99 e il rito della benedizione,100 gesti che rendono l'icona un sacramentale. Afferma infatti il Nostro:

Un'icona diventa propriamente tale solo quando la Chiesa ha riconosciuto la conformità dell'immagine raffigurata all'Archetipo da raffigurare oppure, in altre parole, quando la Chiesa ha dato un nome all'immagine. Il diritto di dare il nome, cioè di affermare l'auto-identità della persona raffigurata sull'icona, appartiene solo alla Chiesa.101

Infatti, non è l'iconografo a firmare l'icona perché questa, quando definita canonica, appartiene sostanzialmente all'opera collettiva della Chiesa,102 alla Tradizione e al Magistero.103 Questo perché l'icona, originata dalla e nella Luce, mostra la verità universale, cioè «il dogma, la formula d'oro del mondo invisibile che si unisce, senza però mischiarsi, alle formule colorate del mondo visibile, che appartengono alla scienza e alla filosofia».104 Di conseguenza «la Chiesa cerca di assicurare sempre che ci sia tra le definizioni testimoniali quel filo conduttore che parte dallo stesso Cristo Prototestimone e arriva fino al nucleo della personificazione ecclesiastica».105 Per questo «ogni icona [...] deve testimoniare possibilmente in maniera viva la realtà autentica dell'altro mondo».106

Tale concezione realistico-ontologica dell'immagine ha la sua origine nella tradizione patristica orientale e, in particolare, nella dottrina delle 'energie increate' di Gregorio Palamas107 e nella tradizione esicasta bizantina: P. Florenskij assume questi riferimenti filosofico-teologici «nella convinzione che non si dia essenza senza manifestazione e, reciprocamente, che ogni manifestazione sia manifestazione di un'essenza».108 In tal modo P. Florenskij rielabora, a partire dalle definizioni dei Concili iconofili, una concezione del simbolo iconico incentrata sul principio di incarnazione.109 Infatti, per il teologo ortodosso «non può darsi una visibilità dell'invisibile al di fuori della mediazione corporea».110 Di conseguenza per P. Florenskij

il significato dell'icona sta proprio nella sua razionalità concreta o nella sua concretezza razionale, nella sua incarnazione. [...] La pittura di icone "è" metafisica, così come la metafisica è una pittura di icone a parole»111 poiché «la pittura di icone esiste come fenomeno concreto dell'essenza metafisica da essa raffigurata. [...] Sì, in poche parole la pittura di icone è la metafisica dell'esistenza, non una metafisica astratta ma concreta.112

Aggiunge P. Florenskij:

Metafisicamente [...] cioè in rapporto all'essenza spirituale del mondo creata da Dio. [...] Il suo [della pittura di icone] è la natura stessa, il mondo creato da Dio nella sua bellezza sopramondana. Tutto ciò che è raffigurato nelle icone, in tutti i particolari, non è casuale ed è l'immagine o il riflesso lo ektupos, l'immagine in rilievo del mondo archetipico, delle essenze celesti, ultramondane.113

Ciò significa rinunciare da una parte ad una metafisica astratta, che esalta l'anima a discapito della corporeità e, dall'altra, a qualsiasi tipo di empirismo positivistico che ritiene di poter avere pieno potere sul corpo in quanto privo di legami con un'anima. Quindi, una teoria dell'immagine non può abbandonare il suo riferimento realistico: l'icona non è semplice mimesi naturalistica ma si fonda su un tratto incarnazionale che evoca l'ulteriorità. Per questo la natura 'ontologica' dell'icona non è associativo-mimetica ma partecipitavo-rivelativa. Risulta chiara, a questo punto, la differenza 'ontologica' tra icona come immagine e come rappresentazione, differenza ulteriormente evidenziata così da P. Florenskij: «L'icona deve essere sottovalutata, secondo la corrente positivistica che la riconosce solo parzialmente, o sopravvalutata; in nessun caso, però bisogna impantanarsi sul suo significato psicologico e associativo, cioè sull'icona come raffigurazione».114 L'icona è un'espressione della metafisica concreta115: è, secondo l'espressione balthasariana, il «Tutto nel frammento», manifestazione della Verità che rivelandosi, pur rimanendo invisibile nella dimensione trascendente, si rende conoscibile nella dimensione visibile, immanente. L'icona, realtà simbolica nella quale realtà materiale e realtà spirituale si tendono, è dunque trasparenza della Verità: per questo non appartiene al singolo, sia esso il pittore o lo spettatore ma è opera collettiva della Chiesa che testimonia Cristo Prototestimone del Padre e, per questo, realizza il suo significato autentico nell'iconostasi quale 'confine' liturgico-ecclesiale tra il mondo visibile e il mondo invisibile. Nel prossimo paragrafo ci occuperemo quindi del significato simbolico-liturgico dell'iconostasi116 seguendo il pensiero del nostro Autore a partire dalla sua riflessione sull' epistemologia del simbolo.

3. Iconostasi: la dimensione liturgica del simbolo

Secondo quanto esposto nel paragrafo precedente l'artista rinascimentale, utilizzando la prospettiva lineare euclidea, pretende di rappresentare tutta la realtà da un punto di vista 'soggettivo-associativo', creando così rappresentazioni allegoriche.117 L'iconografo, invece, 'scrive' l'icona in quanto testimonianza della propria esperienza spirituale, la quale si fonda su una visione che è intelligenza118 (intus-legere) di una presenza-assenza, cioè su una conoscenza 'simbolica' dell'Assoluto. Di conseguenza l'iconografo, a differenza dell'artista rinascimentale, «non irretisce la realtà visibile, che pure presenta realisticamente, in uno schema esteriore deciso arbitrariamente, ma adegua la raffigurazione allo spessore simbolico del reale».119 Ciò significa che la dimensione oggettivo-realistica del simbolo rende l'icona l'autentico luogo della presenza rivelativa dell'Archetipo, perché Lo manifesta nascondendolo, garantendo così la reale distanza tra simbolizzato e simbolizzante in una relazionalità autentica,120 evitando in tal modo la creazione di un idolo. In sintesi, l'icona è «qualcosa di 'non visibile' di cui il visibile è e si fa carico»121: ha, cioè, una struttura simbolica. Il simbolo, osserva L. Žák, è

una realtà "tautegorica". Non si tratta, cioè, di una semplice rappresentazione o allegoria, tanto meno di un segno o rimando, ma di "una realtà che è più di se stessa". Nel senso che il simbolo è il "luogo" del rivelarsi/darsi stesso di ciò che esso simboleggia, è in qualche modo parte dell'alterità stessa a cui rinvia.122

In una lettera del 1920 indirizzata ai propri figli, P. Florenskij scrive:

Per tutta la vita ho pensato, in sostanza, a una sola cosa: al rapporto tra fenomeno e noumeno, al rinvenimento nel noumeno nel fenomeno, alla sua manifestazione, alla sua incarnazione. Sto parlando del simbolo. E per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del SIMBOLO.123

In poche righe il filosofo russo indica il simbolo come la chiave di volta della sua ricerca e della sua Weltanschauung integrale: in questa prospettiva ermeneutica evidente è il totale rifiuto della riduzione razionalistica del pensiero moderno nella ricerca della verità. Infatti, per P. Florenskij «la vita è infinitamente più ricca delle definizioni razionali e perciò nessuna formula può contenere tutta la pienezza della vita»124: è discontinuità nel rapporto tra invisibile e visibile, tra ulteriorità e realtà empirica, tra Dio e il mondo. Per il filosofo ortodosso tutta la realtà 'è' simbolo,125 poiché essa si manifesta in modo antinomico. Il simbolo, in quanto «"fenomeno bi-unitario, spirituale-materiale»,126 è la dimensione costitutiva, ontologica della realtà che permette all'uomo di cogliere la realtà nella sua interezza senza ridurre la natura antinomica127 della verità in formule raziocinanti. P. Florenskij definisce il simbolo

un'entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che però si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza. [...] Il simbolo è una realtà la cui energia cresciuta insieme, o meglio, confluita insieme con un altro essere più prezioso rispetto a lui, contiene in sé quest'ultimo.128

Di conseguenza, secondo il Nostro «noi non possiamo inventare i simboli, essi vengono da sé, quando ti riempi di un altro contenuto. Questo altro contenuto, come traboccando dalla nostra personalità non abbastanza capiente, si cristallizza in forma di simboli».129 Da ciò risulta che «non sono l'intuizione e la discorsività a dare la conoscenza della verità; essa nasce dall'anima per una rivelazione libera della stessa Verità Triipostatica, per una graziosa visita fatta all'anima dallo Spirito Santo».130

Le riflessioni finora presentate ci permettono di comprendere perché, contro la concezione occidentale dell'immagine, P. Florenskij invita a prendere «subito la via del simbolismo [rifiutando] ogni contenuto riempito di punti che si stendono nelle tre dimensioni, per cosi dire alla "imbottitura" delle immagini della realtà».131 Infatti, egli

assegna ai simboli una precisa e importante funzione conoscitiva, che consiste nella loro capacità di prospettare la possibile apertura delle frontiere del sapere verso un "al di là", non ancora ospitabile dal sapere medesimo, e di anticipare i possibili sbocchi della situazione in essere.132

Ciò significa poter cogliere ogni aspetto della 'datità' oggettiva del reale: infatti «il simbolismo incarna in immagini reali un'altra esperienza per cui ciò che può dare diventa una realtà superiore».133 Per chiarire il concetto di simbolo in rapporto all'icona, P. Florenskij usa l'esempio della finestra: questa è tale quando raggiunge il suo scopo, quando cioè, facendo passare la luce, diviene luce, non più distinguibile dalla luce del sole e perciò da essa indivisibile. Se ciò non accade, essa è un semplice oggetto formato da legno e vetro.134 Nel momento in cui diviene trasparenza di luce, attraverso di essa noi vediamo ciò che altrimenti non potremmo vedere, perché alla nostra percezione tutto sarebbe equivalente al nulla. L'icona infatti è

una finestra che si apre sull'infinito, sulla luce purissima e pervadente del mistero (di verità e amore), luce dell'effondersi gratuito del Bene. La sua essenza è in questa luce indivisibile e non in una vaga somiglianza, luce stessa nella sua identità ontologica.135

La metafora della finestra utilizzata da P. Florenskij ci aiuta a pensare la realtà simbolica dell'icona quale confine tra due mondi, in quanto strumento di manifestazione dell'invisibile nel visibile: l'icona permette cioè di abitare il 'luogo del confine' poiché essa «è uguale alla visione celeste e non lo è: è la linea che contorna la visione».136 L'icona dunque 'è' simbolo poiché è una finestra posta sulla linea di confine tra il mondo visibile e il mondo invisibile. L'idea di confine è strettamente legata alla dimensione misterica del reale, alla sua 'datità' come presenza-assenza. In questo senso la realtà materiale dell'icona si apre alla sua dimensione spirituale se, in virtù della sua struttura simbolica, rinvia al suo telos:

L'abituale concezione del simbolo come di qualcosa di autosufficiente, anche se parzialmente, e di vero è radicalmente falsa, perché il simbolo è più o meno questo. Se il simbolo, essendo funzionale allo scopo, lo raggiunge, ne è realmente inseparabile, è inseparabile dalla realtà superiore da lui stesso manifestata. Se il simbolo non manifesta la realtà, significa che non raggiunge lo scopo e di conseguenza non vi si può intravedere un'organizzazione funzionale ad esso, una forma; privo di questa non è un simbolo, non è uno strumento dello spirito, ma solo materiale sensibile.137

Dunque l'icona, se non rinvia a qualcos'altro da sé, è solo una tavola. È simbolo se 'è' anche la sua funzione, il suo scopo: condurre il fedele nel mondo spirituale senza rinnegare la dimensione sensibile, configurandosi così «come un vero e proprio tramite, luogo, finestra, kairòs dell'incontro del fedele con Dio, con la Madre di Dio o con il santo che rappresentano».138 Per questo, secondo N. Valentini «l'essenza liturgico-sacramentale dell'icona sta nel suo essere simbolo, cioè passaggio, 'porta regale' attraverso la quale l'invisibile può trasfigurarsi in visibile; finestra che lascia entrare la luce, lo spazio d'oro che rende presente l'eterno, "finestra sull'eternità"».139 Per E. Fogliadini è nel contesto liturgico che

l'icona trova l'orizzonte più proprio e specifico sul quale stagliare la propria capacità di mettere in contatto il fedele con il prototipo rappresentato, aprendo l'accesso al soprannaturale in una forma capace di coinvolgere nella rivelazione divina, attraverso il senso della vista, l'intera sensibilità dell'uomo.140

L'icona è dunque lo strumento privilegiato di conoscenza 'sovrasensibile' dell'Archetipo: è per questo che nella contemplazione dell'icona la venerazione passa dall'immagine all'Archetipo. L'icona trova così il suo pieno significato nella liturgia ortodossa, perché questa è manifestazione simbolica della liturgia celeste. Il significato teologico dell'icona rimanda dunque al suo ruolo in ambito liturgico. Infatti, secondo la teologia ortodossa, poiché la rivelazione attuata da Gesù Cristo ha un carattere compiuto e, perciò, totalizzante, vi è una forte analogia tra il Vangelo e l'icona, tra l'ascolto e la visione141: «l'icona è l'attestazione sul piano dell'immagine, così come il Vangelo lo è sul piano della parola, dell'effettivo e reale compiersi in Gesù Cristo di quella rivelazione di Dio agli uomini senza la quale la fede cristiana risulterebbe del tutto vana».142 In Oriente parola e immagine sono così integrate che, come per il canone scritturistico, si parla anche di canone iconografico.143 Secondo P. Evdokimov «la venerazione dell'Evangelo, della croce e delle icone forma un tutto unico col mistero liturgico della presenza che la Chiesa proclama dal fondo del calice».144 Tale funzione è visibilmente svolta dall'iconostasi, il tèmplos,145 «la parete di icone che divide la navata, dove pregano i fedeli, dall'area absidale, dove intorno all'altare sacerdoti e diaconi celebrano la liturgia».146 In essa troviamo tre porte disposte lungo le direttrici dei punti geografici che hanno differenti funzioni: i diaconi entrano dalle porte laterali mentre il sacerdote da quella centrale, detta 'porta regale', la quale conduce direttamente all'altare. L'iconostasi forma così «una separazione netta tra il santuario, accessibile ai soli sacerdoti, e la navata, dove si radunano i fedeli davanti alle immagini del templon, ma allo stesso tempo santuario e navata formano un unico corpo che accoglie tutti i battezzati nella diversità delle funzioni del Corpo di Cristo».147 Durante la liturgia ortodossa ogni elemento architettonico del tempio,148 i gesti dei celebranti, l'ascolto orante dei fedeli e il tempo delle funzioni sono considerati come parte significante dell'azione liturgica149: nella 'Divina Liturgia', lo spazio, il tempo e i gesti diventano sacri e, «come le membra di un corpo, vivono di una medesima vita misterica, sono integrati nel mistero liturgico».150 Osserva D. Ferrari-Bravo:

nella liturgia ortodossa Parola (slovo) Icona (ikona) e Musica (salmi cantati, cheruvim) sono realtà intimamente legate nel senso di una profonda corrispondenza incentrata sull'immagine o rappresentazione. Entrambe sono orientate verso l'alto, verso il mondo spirituale, verso l'armonia celeste, verso l'assoluto: icona "finestra dell'assoluto", parola "finestra sull'assoluto".151

Di conseguenza, come afferma E. Fogliadini, «l'arte ortodossa esiste per la liturgia e vive della liturgia. Ogni elemento delle Chiesa cristiana orientale -- spazio architettonico, icone, canto liturgico, paramenti e vasi sacri -- esprime il proprio autentico significato solo nel contesto della celebrazione dei Misteri divini».152 Da questo punto di vista si comprende perché per P. Florenskij il tempio è «l'organismo compatto del rito religioso come sintesi delle arti, come l'ambiente artistico nel quale, e solo nel quale, l'icona ha il proprio autentico senso artistico e può essere fruita nella propria autentica artisticità».153 Per comprendere il significato simbolico-liturgico dell'iconostasi è necessario soffermarsi, seppur brevemente, sul simbolismo della chiesa stessa, «così come [...] lo hanno trasmesso i Padri e che è alla base tanto della costruzione delle [...] chiese, quanto della distribuzione della loro decorazione».154 La struttura della chiesa ortodossa e della Divina Liturgia rimandano all'immagine di un cammino155 'dal visibile all'invisibile' che l'uomo è chiamato a compiere per giungere al centro liturgico per eccellenza: l'altare. Se per L. Uspenskij il tempio è concepito come immagine simbolica della Chiesa e dell'universo,156 P. Florenskij, riprendendo l'interpretazione cristologica di Simeone di Tessalonica (†1429) sul rapporto tra la chiesa e l'altare, afferma che se la Chiesa «rappresenta Cristo Dio-uomo, allora l'altare ha il significato della Divinità invisibile, della Sua natura Divina, e la chiesa del visibile, dell'umano»,157 così che

la chiesa è il cammino dell'ascesa al cielo. È così nel tempo: l'ufficio divino, questo movimento interiore, la ripartizione interna della chiesa, conduce verso l'alto lungo la quarta coordinata, la profondità. Ma è lo stesso anche nello spazio: l'organizzazione della chiesa, andando dagli strati esterni al nucleo centrale, ha lo stesso significato. [...] La chiesa [...] è la scala di Giacobbe, che dal visibile eleva verso l'invisibile, ma l'altare nella sua interezza, come un tutto unico, è già luogo dell'invisibile, una sfera staccata dal mondo, uno spazio non-mondano.158

Secondo il Nostro, per percorrere questo 'cammino' è necessaria la realtà della 'doppia percezione', sensibile (visibile) -spirituale (invisibile), così da cogliere e accogliere, partendo dalla realtà visibile, la dimensione invisibile della realtà. È per questo che «la limitazione dell'altare è necessaria affinché esso non si riveli per noi un nulla».159 Allo stesso modo è possibile interpretare la funzione dell'iconostasi: essa, pur essendo un limite materiale, «è anche il luogo del disvelamento delle verità divine»,160 poiché essa «rappresenta simbolicamente il sottile limite che separa il mondo dei sensi dal mondo spirituale e le sacre immagini appaiono su di esso come le verità divine, che la ragione umana non è in grado di cogliere direttamente».161 L'incapacità della mente umana è tuttavia superata grazie a coloro che sono «i simboli vivi dell'unione di una cosa con l'altra, in altre parole le creature sante»162, perché i santi testimoniano l'invisibile con il loro stesso aspetto. Sono loro stessi, con la testimonianza del loro volto trasfigurato,163 il confine che permette di accedere alle verità divine. Se l'altare

è un luogo intelligibile, ciò significa che il confine tra esso e il mondo dovrà essere segnato da guardie vive, santi reali. [Per questo] l'iconostasi che separa l'altare è una catena di angeli, che non ci lascia spiritualmente raggiungere il mondo celeste, il luogo intelligibile. E poiché la loro presenza non per tutti e non sempre è manifesta, vengono come monito dipinte le icone, per mezzo delle quali ci eleviamo dalle immagini agli archetipi.164

Per questo P. Florenskij può affermare che «l'iconostasi è i santi stessi»,165 perché

loro, i testimoni, si può dire che nascono al confine tra visibile e invisibile, come immagini simboliche delle visioni durante il passaggio da una coscienza ad un'altra. [...] Questo è il nuvolo di testimoni (Eb 12, 1), dei santi. Circondano l'altare e con loro, le pietre vive [1 Pt 2, 5], è costruito il muro vivo dell'iconostasi, perché i testimoni sono contemporaneamente nei due mondi e uniscono in sé la vita di questo mondo con quella dell'altro.166

Il mondo invisibile e quello visibile non sono dunque separati: l'iconostasi, «barriera che sull'altare separa i due mondi, [...] confine tra mondo visibile e mondo invisibile»167 indica «ai fedeli semi-ciechi i misteri dell'altare [perché] orientare l'attenzione dei fedeli è necessario per sviluppare la loro vista spirituale».168 L'iconostasi attira dunque lo sguardo dell'orante e stimola il movimento spirituale di colui che contempla l'icona, mediante la quale dall'immagine si risale all'Archetipo, cioè dall'economia salvifica alla dinamica intratrinitaria: «l'icona concorre così a realizzare lo scopo primario della liturgia: mettere in contatto il fedele con Dio. Essa rende infatti accessibile all'uomo il mistero del farsi uomo di Dio in Cristo, in una forma visiva che ne dice tutta la concretezza».169 Per P. Florenskij «l'iconostasi apre nel muro delle finestre e attraverso i loro vetri vediamo, o per lo meno possiamo vedere, ciò che vi accade dietro, possiamo vedere i testimoni vivi di Dio. Distruggere le icone significa murare le finestre».170 La funzione eminente dell'iconostasi è, dunque, «quella di aprire delle finestre»,171 così da «vedere i testimoni vivi di Dio».172 Questo perché, secondo la feconda sintesi florenskijana, «la finestra è luce»173 come «l'iconostasi è una visione».174 Pertanto l'iconostasi «è una finestra nella nostra realtà dalla quale si vedono gli altri mondi. È una breccia nell'esistenza terrena dalla quale irrompono le correnti dell'altro mondo, nutrendola e rinvigorendola. In breve: questo spazio è il culto»175 e lo stesso luogo di culto «rappresenta in miniatura l'universo sia visibile sia invisibile; è un vero simbolo di ciò che gli occhi della carne non possono vedere».176 L'iconostasi dunque è uno spazio simbolico, confine tra finito, in quanto 'creato' dall'uomo riguardo alla forma, e infinito, in relazione all'Archetipo cui rimanda quanto al contenuto: l'iconostasi simboleggia così la riconciliazione tra Dio e l'uomo realizzata da Cristo.177 La struttura ontologico-simbolica dell'iconostasi lega lo spazio sacro, riservato ai fedeli, allo spazio santo riservato al sacerdote e quanto accade nel momento in cui si entra nella dimensione del culto è così descritto dal Nostro:

ciò che è invisibile e misterioso è percepito dalla contemplazione sensibile; [...] la realtà sensibile è progressivamente attirata verso altri nessi, inconsueti e inconcepibili, verso relazioni inattese e, da quel momento in poi, è come sostenuta da altre forze: staccandosi dalle sfere dell'attrazione terrestre cessa di essere terrena e soltanto sensibile. [...] È come se gli elementi della realtà sensibile fossero distrutti dal turbine che si è abbattuto su di essa, piegati da una forza incomprensibile, smembrati e ricomposti per essere poi riuniti in nuovi segni ancora indecifrabili, mai visti prima, del mondo misterioso. Solo innalzandoci verso l'alto potremo contemplare il loro quadro nella sua interezza. Una forza trascendente racchiusa in essi li ha strutturati secondo leggi che non provenivano dalla loro essenza, sebbene la sottintendessero; questa forza è il filo che collega il celeste e il terreno.178

L'icona-simbolo consente dunque di ricomporre la frammentarietà dell'esperienza orante in una dimensione spirituale che illumina la conoscenza di un Mistero che si dona179 e che per questo può essere pensato. Per il Nostro, infatti, il simbolo è uno sguardo sul mistero poiché, egli afferma, «dai simboli il mistero del mondo non viene celato, ma anzi rivelato nella sua vera sostanza, cioè in quanto mistero».180 L'autenticità del donarsi di questa Verità è resa possibile a partire dall'icona di Cristo, in cui «il momento visibile e il mondo invisibile coesistono "senza confusione né separazione"; [infatti] qui sta il nodo dell'ontologia ortodossa [...] dell'icona-simbolo».181 Di conseguenza, come osserva N. Valentini, «lo svelamento del mistero eterno e universale dell'icona, della verità che questa custodisce si renderà possibile soltanto "all'intelletto illuminato dalla grazia", poiché ogni icona è rivelazione ed è tale solo in quanto trova il suo originario fondamento cristologico nell'incarnazione».182 Solo in virtù di ciò è possibile affermare con E. Fogliadini che «l'icona rende possibile il legame unico tra il credente e Colui che è rappresentato in forza del suo essere fedele interprete del dogma dell'incarnazione, nel quale trascendenza e immanenza misteriosamente convergono».183 Nell'icona di Cristo l'immagine rimanda alla Verità antinomica dell'unione nella persona di Gesù Cristo della natura umana e della natura divina, cioè, secondo il dogma calcedonese, "senza confusione né mutamento, senza divisione, senza separazione". Infatti, come rileva L. Uspenskij, «l'icona di Cristo, Dio fatto uomo, è l'espressione per immagini del dogma di Calcedonia, poiché rappresenta la Persona divina incarnata, il Figlio di Dio divenuto Figlio dell'uomo "consustanziale al Padre" nella sua divinità, "consustanziale a noi" nella sua umanità».184 Gesù Cristo è, infatti, l'immagine del Dio invisibile (Col 1, 15), la porta regale che apre al mistero di Dio. Rispetto a questa Verità rivelata che si manifesta nell'icona, N. Valentini osserva che

Florenskij assorbe in profondità questo radicamento ontologico dell'immagine -- simbolo, mistero rivelato e sigillato, così come questo emerge dall'intensa ermeneutica patristica. Il simbolo viene ripensato a partire dalla forma originaria dell'incarnazione, superando ogni aniconismo veterotestamentario, e in rapporto al suo ontologismo antinomico di carne e verbo, fino alla sua estrema antinomia.185

L'estrema antinomia è il simbolo cristico della Croce, nel quale la TriUnità rivela la Sua economia di salvezza.186 Di conseguenza «abitare il "luogo del confine" del simbolo-icona, vuol dire, in senso florenskijano, epifania del volto come mistero e insieme come rivelazione; l'aldilà del simbolo cristianamente inteso è già nel simbolo come tale, anzi è il simbolo esso stesso».187 Se, dunque, il centro dell'iconostasi è la 'porta regale', la quale, in conformità al significato simbolico del tempio, rappresenta l'ingresso al Regno di Dio, allora tutto nell'edificio sacro converge verso questo centro simbolico attraverso il quale si accede al Santo dei Santi. La Porta Regale è Gesù Cristo, il quale permette all'uomo di accedere al Regno di Dio, alla Verità tutta intera, al senso di tutto: infatti "tutto fu creato per mezzo di lui e in vista di lui" (Col 1, 16). Le icone che formano l'iconostasi sono dunque simboli del Simbolo per eccellenza, Gesù Cristo: il volto di Maria e quello dei Santi rimandano al Volto di Cristo. Attraverso la Sua immagine visibile noi contempliamo la verità antinomica dell'Incarnazione, così che il Volto di Gesù Cristo è epifania del Figlio e quindi manifestazione del Padre, Dio-Amore, in un rapporto di continuità/discontinuità con la rivelazione di Dio nell'Antico Testamento.188

4. Gesù Cristo, volto d'Amore del Padre

Come il centro dell'iconostasi è la 'porta regale', così il centro dell'icona è il volto, simbolo della persona raffigurata. E. Scognamiglio definisce così il significato simbolico del volto:

a livello simbolico, volto è un vocabolo relazionale che coinvolge altri termini, fra cui mistero, simbolo, rivelazione, persona. [...] Il volto è fatto per l'altro o per Dio e richiede un silenzioso linguaggio, poiché tocca la parte più sensibile e più viva della persona umana. [...] Quale simbolo del mistero, il volto è una porta sull'invisibile, sul trascendente. [...] Simbolicamente, il volto esprime l'individuo concreto, la personalità che agisce, che respira, che si muove, che opera nel mondo, nelle categorie dello spazio e del kronos.189

Secondo E. Sendler «il viso dà all'icona il suo significato teologico»190: è per questo che nella pittura di icone la tecnica di composizione del volto riveste particolare importanza.191 Nella riflessione di P. Florenskij il volto, in quanto simbolo incarnato, assume progressivamente una rilevanza ontologica e mistica, poiché «proprio in quanto tale, il volto è il simbolo per eccellenza della persona, della sua assoluta unicità e identità, della sua autocoscienza spirituale e del suo indeducibile mistero».192 Porsi frontalmente all'iconostasi significa dunque dirigere il proprio volto verso i volti dei Santi e, da questi e con questi, verso il Volto dei volti: Gesù Cristo. Tuttavia ciò non è sufficiente perché l'icona sia venerata: infatti, c'è una differenza tra il guardare e il vedere. Se il verbo 'guardare' rimanda prevalentemente al movimento del volto dell'uomo verso un oggetto,193 il 'vedere' rimanda ad una costellazione di significati che, sebbene ampia, indica sinteticamente la relazione tra la percezione di una realtà concreta, la sua veridicità, la testimonianza, la contemplazione, la fede.194 E. Fogliadini sottolinea che il volto si presenta come «la manifestazione di una certa realtà e si apprezza appunto come mediatore fra conoscitore e conosciuto, come l'aprirsi alla nostra vista e alla nostra intelligenza della realtà conosciuta».195 È necessario dunque un 'vedere' che sia apertura alla datità della verità che l'immagine iconica manifesta. È qui che interviene la funzione di mediazione del volto-simbolo, 'luogo di confine', manifestazione e contemporaneamente apertura singolare e personale dell'essere dell'uomo all'altro-da-sé. Attraverso la valenza simbolica del volto si arriva ad un 'vedere' che è conoscenza della realtà noumenica: per P. Florenskij, infatti, «l'uomo può definirsi tale proprio grazie allo sguardo. [...] L'idea è il volto dei volti, ossia lo sguardo. [Da ciò deriva che] il concetto di contemplazione o visione si congiunge qui con quello di sapere o conoscenza».196 Chiarisce P. Florenskij:

Cos'è l'idea? È l'aspetto, la forma, la specie, non per se stessa, ma in quanto fornisce la conoscenza di ciò di cui è proprio la forma o la specie. L'idea è il volto (lico) della realtà, ma soprattutto è il volto dell'uomo, non nella sua casualità empirica, bensì nel suo sguardo conoscitivo, cioè sguardo, espressione del volto dell'uomo.197

Di conseguenza «per comprender la natura delle idee, secondo Florenskij, è necessario confrontarsi con l'espressività del volto».198 Da ciò deriva che, come afferma il Nostro, «il mistero del volto (lico) ha trovato il suo culmine nel problema dello sguardo (lik) »,199 ovvero del sembiante.200 Infatti «il sembiante è la manifestazione dell'ontologia».201 Di conseguenza il passaggio dal volto al sembiante è «il passaggio dal mero apparire empirico alla sua struttura spirituale, dal suo schema decorativo all'energia trasfigurante della divina Presenza. Solo così il volto si tramuta in sguardo, manifestazione dell'ontologia».202 Il 'vedere' significa dunque conoscere ciò che è al di là del volto, il significato-altro del volto: lo sguardo, il sembiante, la trasfigurazione del volto dei santi che deriva dal loro cammino di conversione a Gesù Cristo: metanoia che, come memoriale in immagini e colori, può essere contemplata attraverso l'icona. La funzione dell'icona è quindi di manifestare il sembiante di coloro che sono stati, e sono, testimoni di Gesù Cristo-Testimone del Padre.203 Colui che con fede si pone davanti all'icona per venerarla riconosce che è la Verità a donarsi originariamente a partire dal Volto di Gesù Cristo. Per questo nel volto del santo, nel sembiante, il fedele vede uno sguardo trasfigurato dalla contemplazione dell'Archetipo: in relazione a ciò, così scrive P. Florenskij:

Tutto ciò che è casuale, condizionato da cause esterne a questo essere, in generale tutto ciò che nel volto non è il volto stesso viene respinto dall'energia dell'immagine di Dio sgorgata come una sorgente e penetrata attraverso lo strato di crosta materiale: il volto è divenuto sembiante. Il sembiante è la somiglianza con Dio realizzata sul volto. Quando davanti a noi c'è la somiglianza con Dio, abbiamo diritto di esclamare: ecco l'immagine di Dio, ma immagine di Dio è anche "Ciò che è raffigurato da questa immagine", l'Archetipo. [...] Il sembiante di per sé, in quanto contemplabile, è la testimonianza di questo Archetipo, e chi ha trasfigurato il proprio volto nel sembiante annunzia i misteri del mondo invisibile senza parole, ma con il suo stesso aspetto.204

In quanto simbolo, il volto rimanda ad una dimensione-altra di conoscenza della Verità. Per questo i volti delle icone hanno una relazionalità dinamica con l'orante: il volto si rivela primariamente come 'dialogico', come uno sguardo aperto allo sguardo dell'altro-da-sé. L'attenzione dell'orante si rivolge verso lo sguardo del sembiante che irraggia verso di lui, in una relazione dialogica in cui l'invisibile si dà nel visibile, superando un confine altrimenti invalicabile. Attraverso lo sguardo, l'esperienza spirituale dell'orante partecipa della stessa esperienza dell'iconografo che è all'origine della scrittura dell'icona: conoscenza della Verità rivelata dal Volto di Gesù Cristo, rivelazione del Padre. Contemplando i sembianti, il fedele 'conosce' i 'testimoni vivi' di Gesù Cristo: in essi non vede dei volti che, staticamente, guardano, ma volti divenuti pienamente ed eternamente testimonianza. Come per i santi, vedere con gli occhi della fede significa vedere in Gesù il Cristo, cioè vedere il Volto del Figlio di Dio incarnato e, quindi, conoscere il Padre: infatti non vediamo il Padre ma Lo conosciamo vedendo il Volto della Sua immagine, Gesù Cristo poiché, come dice san Paolo, "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1, 18). Il volto del Figlio fa conoscere la pienezza del significato della Rivelazione: il Dio che si ri-vela nella storia, si fa ri-conoscere dall'uomo ri-volgendo il Suo sguardo verso la Sua creatura attraverso il volto di Gesù Cristo. Così testimonia Giovanni:

Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo (1 Gv. 1-3).

In sintesi, possiamo affermare che la dimensione simbolica e perciò dialogica dei sembianti rimanda alla testimonianza di fede della Chiesa in Gesù Cristo, nelle sue parole come testimonianza della Verità: "Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto. [...] Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14, 6-7. 9). Dunque la Chiesa può testimoniare la propria fede in Dio perché l'ha ricevuta da Gesù Cristo. Se il volto dell'uomo,205 in quanto simbolo, è creato per accogliere, ospitare e manifestare la Luce (quella stessa Luce da cui nasce l'icona), che è rivelazione della verità teandrica,206 è nella Chiesa che l'uomo trova la garanzia che la Verità è Gesù Cristo, poiché Egli è il compimento pieno, insuperabile della rivelazione di Dio, compimento che «avviene mediante un'esistenza che in ogni istante si fa trasparenza di Dio, perfetta corrispondenza nei confronti del Padre».207 Questa trasparenza, in quanto luogo di confine 'visibile', è il superamento di un abisso altrimenti invalicabile. La conoscenza di Dio passa dunque attraverso il 'vedere' la realtà storica del Verbo incarnato, poiché la relazione singolare tra Gesù e il Padre rivela il mistero di Dio. L'esistenza storica di Gesù rende visibile il darsi dell'invisibilità della sua natura divina: di essere, cioè, in comunione con il Padre, in quanto Suo Verbo, nello Spirito Santo. Il Figlio, infatti, manifesta nella storia la relazione d'Amore delle Tre Persone divine a tal punto che «la relazione tra la missio temporale del Figlio e la sua eterna processio in Dio [è la] prosecuzione nel tempo dell'essere eternamente generato dal Padre».208 Il Volto di Cristo rivela che il desiderio di Dio di essere vicino all'uomo è una dinamica dialogica realizzatasi nella kenosi. Per questo l'uomo può 'guardare' l'icona e riconoscervi il mistero dell'Incarnazione: è Dio che per primo ha guardato, e guarda, l'uomo nel suo Figlio. Da ciò deriva che solo nel volto di Cristo «si può pienamente e definitivamente contemplare quello del Padre. La funzione rivelatrice di Gesù è assoluta, poiché Egli solo può manifestare all'umanità il volto e i tratti di Dio e lo fa nella sua stessa carne».209 L'uomo trova così nel volto di Gesù Cristo la pienezza della verità poiché, come afferma P. Martinelli, «in lui, nella sua vita, morte e resurrezione, si dà anche tutto quanto Dio aveva da comunicare agli uomini. Egli è, dunque, la rivelazione stessa di Dio nella sua perfezione».210 Gesù è il Cristo, in quanto Egli è il Volto che manifesta il Padre e che per questo rivela il donarsi della Verità tutta intera: Gesù Cristo, icona del Padre, è la vicinanza di Dio all'uomo-icona-di-Dio, perché, come scrive San Paolo, il progetto d'Amore del Padre è quello di «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1, 10). Possiamo dunque, con E. Scognamiglio, sottolineare la valenza storico-soteriologica della kenosi del Verbo in Gesù Cristo icona del Padre:

Come icona, egli si fa il luogo della presenza personale di Dio più immanente alla storia dell'uomo e non si riduce a una mera visione o conoscenza spirituale del mistero divino. Gesù, nella sua carne, è il volto eterno del Padre appreso nella storia, il testimone fedele della parola eterna fatta uguale all'uomo. Questa immagine del Padre nella storia non è ferma all'atto in sé dell'incarnazione, come se tutto fosse statico e ontologicamente fermo: c'è un movimento simbolico di grande carica rivelativa. Gesù continua a rivelare il Padre sino alla croce, al dono supremo della vita e della resurrezione. Allora l'icona, intesa nell'asse incarnazione-mistero pasquale, è il luogo continuo del donarsi della Trinità, dell'autoabbassamento di Dio mediante il Figlio per l'energia dello Spirito Santo.211

Il Volto di Cristo è dunque il simbolo, la dimensione di confine tra la realtà divina e quella umana: Gesù Cristo è la storicizzazione della relazione intratrinitaria e, contemporaneamente, la divinizzazione della storia umana. Gesù Cristo rivela dunque nel suo volto la Verità: "Deus caritas est" (1 Gv. 4, 8). È l'Amore di Dio rivelato nell' 'evento Gesù Cristo' che permette all'uomo di 'abitare il luogo del confine', di cogliere il 'darsi', nella dimensione simbolica, della Verità tri-ipostatica la quale, mostrandosi, contemporaneamente si 'nasconde', per consentire all'uomo di rivolgere liberamente il suo sguardo verso Gesù Cristo icona del Padre, trasparenza della Verità, finestra sul mistero di Dio come Amore che si fa conoscere nella forma del dono del Figlio fino alla morte di croce. In Lui possiamo ri-conoscere che «il volto trinitario di Dio [è] il suo orizzonte di verità e di amore inteso nel suo più autentico significato teologico e antropologico, [poiché] la Verità [è la] forma che l'Amore si è data nel tempo».212 Infatti, come afferma Benedetto XVI,

nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo -- amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr. 19, 37), comprende [che] "Dio è amore" (1 Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere contemplata. [...] A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare.213

La kenosi del Verbo si manifesta nel volto umano di Gesù: infatti, «con l'incarnazione Dio assume un Volto e dialoga con l'uomo, dotandolo di un potere creatore nella libertà d'amore, entro una relazione teofanica. Il Volto esprime questa profondità in intimo contatto con il Verbo».214 Questa intimità non rimane chiusa in se stessa ma è donata all'uomo nella sua totalità, come osserva E. Scognamiglio:

Se è vero che l'essenza di una persona trova espressione soprattutto nel volto, forma più immediata dell'incontro che avviene "faccia a faccia", il volto di Gesù è la forma definitiva che il Padre si è dato nella storia mediante l'opera potente e vitale dello Spirito Santo. Il mettersi di fronte a Cristo significa trovarsi alla presenza visibile del Padre. Il volto di Gesù è l'offrirsi del Tutto -- la Trinità -- nel frammento, l'evento di una donazione che supera l'infinita distanza.215

Nella teologia dell'icona, ciò significa che nella relazione che s'instaura tra il volto dell'icona di Cristo e il volto dell'uomo è possibile scorgere il significato profondo della Rivelazione di Dio nel Figlio attraverso l'azione sanante e santificante dello Spirito Santo, il quale aiuta a conoscere nella persona di Gesù Cristo il mistero della relazione intratrinitaria. Per questo, al Padre che si rivela nel Volto del Figlio, deve corrispondere un volto umano in grado di 'vedere' l'Amore della Trinità 'oltre' il confine creaturale dell'uomo Gesù di Nazareth. Non si tratta però di uno sforzo prometeico da parte dell'uomo per giungere ad avere questo sguardo: infatti, poiché Dio si è incarnato, il Suo volto dà significato al volto dell'uomo come espressione della sua struttura ontica che è, perciò, relazionalità. Se dunque il volto di Gesù, in quanto simbolo, manifesta il Verbo di Dio incarnato, in esso è possibile cogliere ed accogliere il donarsi della Trinità: il Padre (donante) dona il Figlio (donato) nello Spirito Santo (dono).

Come sostiene N. Valentini «nell'icona, attraverso lo sguardo, l'invisibile ci appare visibilmente, ed offre allo sguardo dell'uomo la possibilità di penetrare nello sguardo invisibile, che visibilmente lo guarda in volto con trasparenza abissale».216 Ciò significa ammettere che tra l'immagine e l'Archetipo sussiste sempre una distanza incolmabile da parte dell'uomo: non è, infatti, l''io' dell'uomo a conoscere il 'Tu' di Dio ma è Questi che offre all'uomo la possibilità di ri-conoscersi come un 'tu' da Lui interpellato. Aprirsi a questo orizzonte di significato non vuol dire rinunciare a se stessi ma ri-conoscersi ontologicamente come creatura che, liberamente, si pone in dialogo con il Creatore. La possibilità della visione del volto del Figlio che mostra l'invisibilità del Padre si regge proprio sul riconoscimento di una distanza significante tra il 'Tu' di Dio e il 'tu' dell'uomo, e non sulla sua abolizione idolatrica.217 Gesù Cristo è infatti il Prototestimone, il Sembiante per eccellenza: non una maschera (idolo), perché non nasconde la Verità ma la rivela nella sua dimensione agapica e per questo dialogica, così che è possibile affermare che il Volto di Cristo, in quanto manifestazione del Padre, desidera il volto dell'uomo. Come sintetizza E. Scognamiglio,

Dire "volto" significa ammettere che Gesù è la realtà umana divenuta autoespressione piena e definitiva della parola di Dio. Egli è l'espressione della vicinanza più radicale a Dio. Cristo vive di una totale e definitiva partecipazione di sé alla realtà del Dio nascosto. Il Padre lo ha reso destinatario in maniera piena e assoluta della sua stessa rivelazione. Perciò, il Figlio è il volto del Padre. Nel volto di Gesù l'invisibile si è reso visibile. Il volto di Gesù è la mediazione più perfetta e reale -- più partecipata -- che di Dio si possa avere nella storia. Eppure, proprio perché volto storico del Padre, egli non consuma l'essenza della divinità del Padre e del suo essere relazionale. [...] Gesù, in quanto volto del Padre, immagine del Deus absconditus, non risolve tutta la forma del Dio in sé nell'orizzonte del Deus revelatus e del Deus pro nobis. Affinché la rivelazione sia effettivamente autocomunicazione libera di Dio, bisogna mantenere alta e pura l'eccedenza del Dio nascosto rispetto alla sua rivelazione storica. Il Padre è e resta più grande dell'orizzonte di questo mondo, anche quando si comunica nel volto storico del Figlio.218

La dimensione simbolica dell'icona non è perciò 'ni-ente', ma transluminosità, spazio di Luce nella quale e per mezzo della quale la Verità si manifesta infinitamente. Tuttavia, per cogliere la Verità nella sua 'datità' oggettiva, l'uomo, in quanto spirito-incarnato, deve porsi nell'atteggiamento 'liturgico' dell'ascolto e della visione dell'Altro-da-sé: per questo, il volto deve passare da una visione rapace-meccanica ad uno sguardo contemplativo-creativo. Il presupposto di tale dinamica di accoglienza è l'abbandono della percezione del 'sé' come unica possibilità di conoscenza della verità, per aprirsi all'intellectus fidei, all'intelligenza del Logos e della sua kenosi 'originaria'. Il Volto di Cristo, il Sembiante per eccellenza, volto eternamente trasfigurato nella Luce della Verità, Volto del Verbo 'ri-volto' verso il Padre (Cfr. Gv 1, 1), è manifestazione autentica della dinamica kenotica della Verità della Trinità,219 storicamente realizzatasi in Gesù Cristo. Per questo è possibile testimoniare, insieme ai sembianti contemplati nell'iconostasi, che il Volto di Cristo è il Volto di Dio: vedendo il Suo Volto contempliamo la Verità che Lui 'vede' presso il Padre. Proprio in quanto volto, esso manifesta ed esige la relazionalità, come osserva N. Valentini: «l'icona è l'epifania del volto divino, è Volto di Dio e presenza di Dio che inaugura il "faccia a faccia". Questo è il Volto per eccellenza, substantia che si offre frontalmente. [...] A quel Volto frontale, Uno e Trino, rivolto verso il volto umano, risponde il volto umano rivolto verso Dio».220 In questa relazione del proprio volto con il Volto di Dio, l'uomo può scorgere la propria 'forma' autentica:

Il volto si compie nel suo sguardo quando l'uomo singolare si ricongiunge all'Universale-Divino, quando cioè l'individuo partecipa dell'una Persona 'realmente' esistente. [...] Lo sguardo è la Porta Regale di accesso all'Essere: è squarcio di datità da cui traluce quella "Realtà della realtà" che in tutto riluce, è il punto in cui si addensa nell'umana persona l'infinito della Trinità, già e non ancora penetrata nei tessuti del mondo.221

Il Volto di Gesù Cristo è dunque la Porta Regale, trasparenza di un confine altrimenti oscuro (come verità) e inaccessibile (come relazione) all'uomo: Gesù Cristo permette a questi di accedere alla conoscenza della dinamica relazionale intratrinitaria, e alla Trinità di ri-velarsi iconicamente nell'esistenza storica singolare di Gesù di Nazareth, così da dare significato compiuto alla storia della salvezza. L'uomo può così ri-conoscersi figlio di Dio nel Logos che è divenuto sarx, che 'ha posto la tenda fra noi' (Cfr. Gv 1, 14) condividendo così il destino dell'uomo superando l'aporia della morte come esperienza di 'non-vita', ri-donandogli il suo significato originario di 'icona di Dio', creato per la comunione eterna con la Trinità. La Verità, Dio-Amore, si è resa visibile così da essere udita, vista e contemplata a misura dell'uomo affinché 'per Cristo, con Cristo e in Cristo' l'uomo raggiunga la somiglianza a Cristo a partire dalla propria iconicità ontologica.

5. Conclusioni

Leggere P. Florenskij significa provare, non senza difficoltà, a ricomporre un mosaico le cui tessere, donate al lettore, come le immagini della geometria frattale mostrano ognuna l'immagine dell'intero. In ogni frammento del suo pensiero, come una tessera hospitalis, se così possiamo dire, egli ci guida, con rigore logico e passione, a riscoprire la bellezza come linguaggio della verità che si dona a noi simbolicamente mediata. Infatti, il rigore logico attraverso il quale il Nostro espone le sue riflessioni come strumento per comunicare il suo pensiero non chiude alla possibilità dell'intuizione, cioè della verità che si dà nell'intuizione della dimensione integrale della realtà. Nei suoi scritti, che investono vasti campi dello scibile, emerge il suo intento: combattere la cultura iconoclasta della società contemporanea quale effetto del razionalismo soggettivistico e antropocentrico che origina, innanzitutto, dall'abbandono del pensiero medievale fondato sulla dimensione simbolica222 e, successivamente, dall'affermarsi delle categorie cartesiane. Queste, a loro volta, hanno dato origine alla riduzione razionalistica della realtà nell'ambito del visibile e dell'esperibile, obliando così la dimensione misterico-simbolico-veritativa, antinomia nella sua datità visibile-invisibile. Il simbolo è la possibilità del recupero della riflessione sull'autenticità della relazione dell'uomo con Dio, con se stesso, con l'altro-da-sé, con il creato. Il pensiero iconico, a sua volta, aiuta a cogliere la specifica modalità del rapporto tra cristologia e antropologia223: la prospettiva si rovescia poiché non è più l'uomo, come nella filosofia moderna, a 'leggere' attraverso una prospettiva antropocentrica il donarsi della Tri-Unità in Gesù Cristo, ma è l'uomo 'nuovo' in Cristo che è chiamato a ri-scoprire la sua natura originaria come imago Dei, ricercando la somiglianza con Gesù Cristo, suo Archetipo, in quanto Volto dell' 'immagine invisibile di Dio' che rivela Dio-Amore. Il pensiero di P. Florenskij è così un'opportunità per elaborare una Weltanschauung cristiana che sia in grado di rifondare il linguaggio della verità e della bellezza, «quali vicende rimosse dalla filosofia contemporanea, colte nella loro interiore e costitutiva costituzione antinomica»,224 in modo da superare il relativismo gnoseologico e morale imposto dal pensiero debole. Per questo, "essere sempre pronti a rendere ragione della fede/speranza che è in noi" (1 Pt 3, 15) significa dare ragione della fede per (ri) dare fede alla ragione, in funzione di un nuovo umanesimo fondato non sulla conoscenza razionale ma sulla contemplazione della Verità. Scrive P. Florenskij: «L'umanità contemporanea ha bisogno di una cultura cristiana non finta ma seria, che sia davvero immagine di Cristo e che sia davvero cultura».225

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Note

  1. Per una bibliografia essenziale sulla vita e sul pensiero dell'autore cf. G. Lingua, Oltre l'illusione dell'Occidente. P. A. Florenskij e i fondamenti della filosofia russa, Zamorani, Torino 1999; A. Pyman, Pavel Florenskij. La prima biografia di un grande genio cristiano del XX secolo, Lindau, Torino 2010; S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano 2006; N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 2012; Id., Pavel A. Florenskij, Morcelliana, Brescia 2004.; L. Žák, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998; Id., Pavel A. Florenskij. Invito alla lettura, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002. Testo

  2. P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p. 408. Testo

  3. Il Volto di Cristo, infatti, unisce senza confondere, «poiché il suo pieno significato è sempre qualcosa di misterioso e di inesauribile. Abitare il luogo del confine del simbolo-icona vuol dire, in senso florenskijano, epifania del volto trinitario come mistero», N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 2012, p. 229. Testo

  4. H. Pfeiffer, L'immagine di Cristo nell'arte, Città Nuova, Roma 1986, p. 36. Testo

  5. Cfr. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, Medusa, Milano 2006, p. 164. Testo

  6. L. Giuliodori, Il noumeno nel fenomeno: kantismo, platonismo e simbolismo in Pavel Florenskij, Per la Filosofia. Filosofia e insegnamento 1 (2011), p. 67. Testo

  7. P. A. Florenskij, Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, a cura di N. Valentini e L. Žák, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999, p. 20. Testo

  8. N. Valentini, Pavel A. Florenskij. La lotta tra maschera e sguardo, in D. Vinci (a cura di), Il volto nel pensiero contemporaneo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2010, p. 212. Testo

  9. La definizione pensiero iconico in relazione alla riflessione di P. Florenskij sull'icona è mutuata a partire dai seguenti contributi: «[La] riscossa del simbolo risulta ancora più vigorosa nell'attenzione che Florenskij rivolge all'icona e alla sua valenza sapienziale e veritativa. Sicchè, oltre che simbolico, il suo pensiero si può con buona ragione indicare come paradigma di quel "pensiero iconico" oggi fortemente perseguito anche in Occidente. [...] Il pensiero iconico risulta una sorta di ponte spirituale fra filosofia e teologia, fra arte e riflessione», G. Lorizio, Logica simbolico-sacramentale e pensiero iconico, in Id., Teologia della rivelazione ed elementi di cristologia fondamentale, in Id. (cur.), Teologia Fondamentale. Fondamenti, Vol. II, Città Nuova, Roma 2005, pp. 214-215. Sul pensiero iconico come elemento originale della teologia teantropica di S. N. Bulgakov si veda il seguente contributo: G. Zarone, Stelle teologiche della filosofia. Barth Rosenzweig Bulgakov e la ricerca di un nuovo pensare, in S. Accomando (a cura di), Crisi della tradizione e pensiero credente, Alfredo Guida Editore, Napoli 1995, pp. 175-223 (in particolare pp. 211-223). Sul rapporto tra il pensiero florenskijano e quello bulgakoviano, a partire dalla relazione personale tra i due filosofi russi, si veda N. Valentini, Introduzione. Il cammino di Pavel Florenskij verso la verità vivente, in P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, XXII, LXI, LXXV. Testo

  10. Proponiamo di seguito una bibliografia indicativa degli studi inerenti alla riflessione di P. Florenskij sull'icona: A. Anedda, L'icona e lo sguardo. Dalla bellezza alla compassione, Humanitas 4 (2003), pp. 648-650; C. Antonova, Spazio iconico, geometria non euclidea e cultura nella visione del mondo di Pavel Florenskij, in M. Emmer (ed.), Matematica e cultura 2010, Springer Verlag, Milano 2010, pp. 3-14; C. Cantelli, Arte e creazione nella metafisica simbolica di Florenskij, in S. Givone, Sul pensiero simbolico, Paradosso 1(1997), pp. 87-105; Id., L'icona come metafisica concreta. Neoplatonismo e magia nella concezione dell'arte di Pavel Florenskij, Aesthetica Preprint, 92, 8 (2011); D. Ferrari-Bravo, La parola e l'icona. Dalla verità della conoscenza alla verità della visione e ritorno in Pavel Florenskij, Humanitas 4 (2003), pp. 615-627; F. Franco, La luce della verità. L'estetica teologica di Pavel Florenskij, Ricerche teologiche 8 (1997), pp. 71-89; L. Giuliodori, Tra visibile e invisibile: l'arte come porta regale alla trascendenza in Pavel Florenskij, Per la filosofia. Filosofia e insegnamento 2 (2011), pp. 75-87; N. Kauchtschischwili, Le porte regali. Iconologia e spiritualità in Pavel Florenskij, in A. Mainardi (a cura di), Andrej Rublev e l'icona russa, Qiqajon, Magnano (VC) 2006, pp. 243-258; G. Moretti, Intorno all'immagine. Per un confronto con l'estetica romantica, Humanitas 4 (2003), pp. 628-647; J. L. Opie, La simbologia e l'icona in Pavel Florenskij, Studia Patavina 1 (2005), pp. 39-43; T. Špidlík, La creatività artistica nell'origine dell'icona secondo S. Frank e P. Florenskij, in S. Graciotti (a cura di), Il mondo e il sovra-mondo dell'icona, Olschki, Firenze 1998, pp. 7-17; O. Torasov, Florenski, Malevic e la semiotica dell'icona, La Nuova Europa 1 (2002), pp. 34-47; N. Valentini, Ermeneutica dell'icona in Florenskij, Iconostasi 1 (1992), pp. 6-11; Id., Estetica ed ermeneutica del simbolo-icona in P. A. Florenskij, in G. Lingua (a cura di), Icone e avanguardie. Percorsi dell'immagine in Russia, Zamorani, Torino 1999, pp. 77-94; Id., Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 2012, pp. 195-271. Testo

  11. Cfr. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., p. 42. Testo

  12. Cfr. L. Žák, Il simbolo come via teologica, Humanitas 4 (2003), p. 601. Per una sintesi introduttiva alla Weltanschauung integrale di P. Florenskij cfr. N. Valentini, Forme della ragione. Dialettica, antinomia e nuovi modelli di razionalità, in Humanitas 4 (2003), p. 574; G. Malafronte, Per una Weltanschauung integrale. Itinerario intellettuale di Pavel Aleksandrovic Florenskij, Filosofia e Teologia 3 (2011), pp. 594-625. Testo

  13. Infatti, come afferma P. Bernardi, la «tensione, storicamente emersa come costante frizione tra Costantinopoli e Roma sul tema del ruolo del vescovo di quest'ultima nella guida della Chiesa, si radica tuttavia in una differente comprensione del cristianesimo che, pur partendo da identiche affermazioni dogmatiche, evidenzia tuttavia una prospettiva interpretativa differente dalle stesse». P. Bernardi, I colori di Dio. L'immagine cristiana fra Oriente e Occidente, Mondadori, Milano 2007, p. 60. Testo

  14. Cfr. Ibidem, p. 61. Testo

  15. Senza con ciò compromettere le formule dogmatiche, l'Oriente evidenzia maggiormente la trinità di Dio e la divinità di Gesù Cristo mentre l'Occidente accentua l'unità di Dio e l'umanità del Figlio. Cfr. Ibidem. Testo

  16. Per una esauriente presentazione della differenza tra Oriente e Occidente sullo statuto e la funzione dell'icona cfr. A. Grabar, Le vie dell'iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, Jaca Book, Milano 20113, pp. 155-214. Testo

  17. Cfr. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 134. Testo

  18. Cfr. P. Bernardi, I colori di Dio, cit., p. 67. Testo

  19. Ibidem, p. 63. Testo

  20. M. Gronchi, Trattato su Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, Queriniana, Brescia 2008, p. 550. Testo

  21. P. Bernardi, I colori di Dio, cit., p. 63. Testo

  22. Il pontefice, già intorno al 600, si oppose duramente alle decisioni iconoclaste messe in atto dal vescovo Sereno di Marsiglia, come indica il seguente passo: «Noi [...] pensiamo che non avreste dovuto distruggere quelle immagini. La pittura infatti è adoperata nelle chiese perché gli analfabeti, almeno guardando sulle pareti, leggano ciò che non sono capaci di decifrare sui codici», Gregorio Magno, Lettere (vol. III), Città Nuova, Roma 1996-1999, p. 439. Cfr. M. Gronchi, Trattato su Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, p. 550. Testo

  23. Cfr. D. Menozzi, La Chiesa e le immagini, cit., pp. 105-112. Testo

  24. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 135. Testo

  25. Sulla distinzione tra immagini di culto (Kultbilder) e immagini di devozione (Andachtsbilder), Cfr. il contributo di R. Guardini citato in K. Kerenyi, Agalma Eikwn, Eidwlon, in E. Castelli (a cura di), Demitizzazione e Immagine, CEDAM, Padova 1962, p. 163. Testo

  26. D. Menozzi, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, pp. 18-19. Testo

  27. Ibidem, p. 19. Testo

  28. Cfr. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 134. Testo

  29. P. Bernardi, I colori di Dio, cit., p. 75 Testo

  30. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 133. Testo

  31. H. Pfeiffer, L'immagine di Cristo nell'arte, 36. Testo

  32. Ibidem, 144. Testo

  33. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, 144. Per un'analisi approfondita di questo fenomeno Cf. Ibidem, 139-142; L. Uspenskij, La teologia dell'icona. Storia e iconografia, La Casa di Matriona, Milano 1995, 227-258; L. Uspenskij -- V. Losskij, Il senso delle icone, Jaca Book, Milano 2007, 50-51; N. Valentini, Ermeneutica dell'icona in Florenskij, 'Iconostasi', 1(1992), 6-7; C. Cantelli, Arte e creazione, 90-92. Testo

  34. I pensatori russi che appartengono al gruppo della "Rinascita filosofico-religiosa" sono V. Ivanov, N. Berdjaev e V, Ern. Cf. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, 145. Sull'importanza del pensiero del filosofo Solov'ëv per questo movimento di rinascita russo Cf. C. Cantelli, Arte e creazione, 90-91. Si veda inoltre S. Tagliagambe, Rovesciamento e mondo intermedio: l'epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij, in P. Maninchedda (a cura di), Recensioni e biografie. Libri e maestri, CFS, Cagliari 2007, 106-109; Id., Come leggere Florenskij, 19-33; A. dell'Asta, La «rivoluzione» del pensiero filosofico-religioso russo all'inizio del XX secolo, in La Nuova Europa 1(2008), 43-52; O. Torasov, La rinascita dell'icona popolare in Russia all'inizio del XX secolo, in La Nuova Europa 1(1991), 18-33. Testo

  35. P. Florenskij, Iconostasi. Saggio sull'icona, Medusa, Milano 2008, 111. Cf. anche B. Uspenskij, La venerazione dell'icona e la spiritualità russa, in S. Graciotti (a cura di), Il mondo e il sovra-mondo dell'icona, Olschki, Firenze 1998, 57-70; N. Bosco, La filosofia russa come filocalia, in G. Lingua (a cura di), Icone e avanguardie. Percorsi dell'immagine in Russia, Zamorani, Torino 1999, 25-31. Testo

  36. N. Valentini, Ermeneutica dell'icona, 6. Testo

  37. Ibidem, 7. Testo

  38. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 137. Testo

  39. Ibidem, p. 144. Testo

  40. E. Sendler, L'icona immagine dell'invisibile. Elementi di teologia, estetica, tecnica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 20077, p. 120. Testo

  41. P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, Gangemi, Roma 1990, p. 92. Per il teologo ortodosso, infatti, a partire dal Rinascimento si è consumata una frattura profonda con il Medioevo, periodo in cui tutta la cultura si fondava sulla considerazione della realtà come ob-iectum e per questo di natura prevalentemente "simbolica". Cfr. Ibidem, pp. 89-90. Testo

  42. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 145. Testo

  43. Ibidem, p. 144. Testo

  44. Cf. E. Sendler, L'icona immagine dell'invisibile, cit., p. 115-119. Testo

  45. Sulla funzione illusionistica della prospettiva lineare cfr. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., p. 245. Testo

  46. P. N. Evdokimov, L'ortodossia, Il Mulino, Bologna 19662, p. 321. Testo

  47. P. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 126. Secondo Giovanardi, tuttavia, «al di là dei contrasti, il pensiero di Florenskij intorno all'epoca rinascimentale va colto ermeneuticamente, facendo riferimento alla globalità del suo pensiero e al concetto di Verità che è alla base di esso e che tutto lo informa», A. Giovanardi, Il cuore sacrale del Rinascimento. Florenskij e Michelangelo, La Nuova Europa 2 (2004), pp. 43-60. Per una riflessione critica sul il pensiero di P. Florenskij sull'arte occidentale si vedano inoltre i seguenti contributi: B. Groys, Gesamtkunstwerk Ost. Zwischen Byzanz und Futurismus: Der russische Philosoph, Priester und Wissenschaftler Pawel Florenski vereinigt Tradition und Avantgarde, in Die Zeit, 37, 9.9.1994; M. Hagemeister, Wiederverzauberung der Welt: Pavel Florenskijs Neues Mittelalter, in F.P. Norbert -- M. Hagemeister -- F. Haney (Hg.): Pavel Florenskij - Tradition und Moderne. Beiträge zum Internationalen Symposium an der Universität Potsdam, 5. bis 9. April 2000, Frankfurt am Main, Berlin, Bern, Bruxelles, New York, Oxford, Wien: Peter Lang, 2001; M. Hagemeister, Pavel Aleksandrovic Florenskij und sein Versuch einer ganzheitlichen Weltanschauung, in H. Gehrke (Hrsg.), Russische Religionsphilosophie. 1. Solowjow - Dostojewskij. 2. "Löscht den Geist nicht aus!" Die Philosophie von Nikolai A. Berdjajew. Hofgeismar: Evang. Akademie, 1993; W. Ullmann, Heidentum im Christentum. Pavel Florenskijs Position im russischen Ritualmordstreit 1911-13, in Appendix 2. Materialien zu Pavel Florenskij. Berlin u. Zepernick: Kontext, 2001, pp. 116-141. Testo

  48. Sull'immagine come mimesis cf. R. Diodato -- E. De Caro -- G. Boffi, Percorsi di estetica. Arte, Bellezza, Immaginazione, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 15-56. Testo

  49. P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata, cit., p. 79-80. Testo

  50. Florenskij lo dimostra soprattutto attraverso le sue conoscenze matematiche. Cf. Ibidem, 120-121; S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, cit., p. 114-115. Testo

  51. P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata, cit., p. 138-139. Cf. inoltre S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, cit., p. 131. Testo

  52. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 151. Testo

  53. Secondo E. Sendler, l'espressione "prospettiva inversa" è stata formulata da Oskar Wulff in un suo studio del 1907 a difesa delle rappresentazioni dello spazio bizantino. Cf. E. Sendler, L'icona immagine dell'invisibile, cit., p. 120, nota 13. Testo

  54. Cfr. P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata, cit., p. 79-80. Rispetto alla prospettiva lineare, il cui punto di fuga è all'interno del quadro, nella prospettiva rovesciata o inversa il punto di fuga è situato in un punto davanti al quadro. Cf. E. Sendler, L'icona immagine dell'invisibile, cit., p. 120. Testo

  55. P. Florenskij scrive questo articolo nel 1919 «come relazione alla Commissione per la salvaguardia dei Monumenti dell'Arte e dell'Antichità del Monastero della "Trinità di San Sergio"», P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata, cit., p. 73. Testo

  56. Cfr. Id., Iconostasi, cit., p. 61. Testo

  57. Cfr. Id., La prospettiva rovesciata, cit., p. 3. Testo

  58. Cfr. Ibidem, p. 74. Testo

  59. Cf. Ibidem, p. 93. Cf. inoltre G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 146. Testo

  60. Cf. P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata, cit., p. 76. Così G. di Giacomo sintetizza il principio della "prospettiva rovesciata": «Con la nozione di "prospettiva rovesciata" si vuole intendere il fatto che alla legge rigida della prospettiva lineare, che caratterizza gran parte della pittura occidentale, si oppone nell'icona un'altra "legge", un altro principio di costruzione dell'immagine. Così, mentre i pittori rinascimentali si allontanavano dalla visione naturale dell'occhio umano, sottomettendolo al controllo della ragione, i pittori di icone al contrario non se ne allontanavano, poiché il senso di ciò che essi rappresentavano non permetteva di superare la percezione naturale del primo piano, al quale si limita la struttura dell'icona. In questa, infatti, la rappresentazione è orientata verso lo spazio reale che si trova davanti all'immagine e nella quale è lo spettatore. Paragonata alla rappresentazione illusoria dello spazio in profondità, come ci è dato nella pittura rinascimentale, l'icona ci mostra l'inverso». G. di Giacomo, Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell'immagine, cit., p. 76. Sul valore simbolico della prospettiva rovesciata cf. G. Aslanoff, I fondamenti teologici dell'estetica dell'icona, in G. Lingua (a cura di), Icone e avanguardie, cit., p. 51-55. Testo

  61. P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata, cit., p. 74. Testo

  62. Ibidem, p. 79. Testo

  63. G. di Giacomo, Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell'immagine, cit., p. 76. Testo

  64. Sottolinea G. Aslanoff: «Al contrario della prospettiva detta euclidea, i punti di vista sono molteplici. Le linee convergono spesso verso lo spettatore. La Chiesa esprime così il fatto che l'ordine, la logica del mondo sono aboliti dal Regno di Dio. questo procedimento permette allo stesso tempo di sottolineare che l'icona serve a manifestare una presenza che viene incontro al fedele che la contempla. Questi non è invitato ad entrare in uno spazio illusionistico: è piuttosto la figura della persona rappresentata che gli viene incontro», G. Aslanoff, I fondamenti teologici dell'estetica dell'icona, cit., p. 55. Testo

  65. P. A. Florenskij, Bilanci, in Id., Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003, p. 94. Testo

  66. Id., Iconostasi, cit., p. 61. Testo

  67. Cfr. Ibidem, p. 58. Testo

  68. Cfr. Ibidem, pp. 19-29. Testo

  69. Ibidem, p. 63. Testo

  70. Per quanto riguarda il platonismo come riferimento teoretico della riflessione florenskijana, L. Žak puntualizza che «il suo [di Florenskij] platonismo [deve] essere considerato come una sorta di cavallo di Troia. Desiderando introdurre nella 'città' della cultura e della scienza russe dei suoi tempi -- occupata dal positivismo e dal razionalismo -- le intuizioni filosofiche, gli schemi e i concetti di pensiero forgiati alla luce della Rivelazione cristiana, egli scelse di rifarsi a Platone, filosofo ben noto in Russia, ma comunque poco studiato quanto alle potenzialità speculative delle sue intuizioni metafisiche. Florenskij mise a fuoco l'originalità e l'attualità di queste ultime, volendo preparare con ciò la via per giustificare la rilevanza filosofica del rivelarsi di Dio Trinità nella persona di Gesù Cristo. Chiaro è, come già fece notare il filosofo A.F. Losev, che Florenskij si spinse ben oltre la dualistica prospettiva dei 'due mondi' platonici, adottando con convinzione -- persino nella sua interpretazione del filosofo greco -- l'orizzonte dell'incarnazione», L. Žak, Recensione a: P. A. Florenskij, Bellezza e Liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, a cura di N. Valentini, Oscar Mondadori, Milano 2010, Lateranum 2 (2012), p. 471. Sul platonismo come base del pensiero di Florenskij cf. P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, SE, Milano 2012; Id., Le radici universali dell'idealismo, in Id., Realtà e mistero, SE, Milano 2013, pp. 11-62; C. Cantelli, L'icona come metafisica concreta. Neoplatonismo e magia nella concezione dell'arte di Pavel Florenskij, Aesthetica Preprint 92 (2011); L. Giuliodori, Il noumeno nel fenomeno, cit., pp. 67-81. Testo

  71. Ibidem, p. 68. Testo

  72. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 31. Testo

  73. Ibidem, p. 30. Testo

  74. Ibidem. Testo

  75. Ibidem. Testo

  76. Ibidem. Testo

  77. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 149. Testo

  78. Afferma G. Giuliano che questo concetto «esplicita la base platonica del pensiero di Florenskij e dell'intero saggio. La conoscenza a priori delle cose del mondo era fondamentale per molti filosofi e poeti legati al simbolismo», in P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 152, nota 53. Testo

  79. Ibidem, pp. 116-117. Testo

  80. Ibidem, p. 54. Testo

  81. Ibidem, pp. 54-55. Testo

  82. I. Biffi, Dalla sapienza medievale i quattro sensi della Scrittura, L'Osservatore Romano 12/11/2008. Testo

  83. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., pp. 56-57. Testo

  84. Ibidem, p. 53. Testo

  85. Ibidem, p. 52. Testo

  86. Il concetto di evocazione permette di definire realisticamente la presenza dell'Archetipo nell'icona: infatti, come già avevano dichiarato i Padri del Secondo Concilio di Nicea, P. Florenskij afferma che «attraverso l'icona la venerazione passa all'Archetipo», Ibidem, p. 49. Testo

  87. Sottolinea P. Florenskij: «L'essenza metafisica che si manifesta concretamente deve essere manifestata in maniera completa ed evidente e la sua manifestazione (e si presuppone che nell'icona avvenga) in "tutti" i suoi dettagli, essendo un tutto unico, deve essere evidente: se qualcosa nell'icona dovesse essere compreso solo dal punto di vista del significato astratto, oppure se fosse solo un dettaglio esteriore di carattere naturalistico o decorativo, ciò distruggerebbe la manifestazione come un tutto unico e l'icona non sarebbe affatto un'icona», Ibidem, p. 97. Testo

  88. Cfr. M. Donadeo, Teologia delle icone, in T. Verdon (a cura di), L'arte e la Bibbia. Immagine come esegesi biblica, Biblia, Settimello 1992. Atti del Convegno "L'arte e la Bibbia", Venezia 1988, p. 117. Testo

  89. Cfr. E. Sendler, L'icona immagine dell'invisibile, cit., pp. 142-154; P. A. Florenskij, Segni celesti. Riflessioni sulla simbologia dei colori, in Id., La prospettiva rovesciata, cit., p. 68-71; C. D'Alessandro, La forma e l'immagine. Note di teologia ed estetica dell'icona, Theologica & Historica 13 (2004), pp. 273-276. Testo

  90. Sulla tecnica delle icone Cf. L. Uspenskij -- V. Losskij, Il senso delle icone, cit., pp. 61-65. Testo

  91. Ibidem, p. 107. Testo

  92. Con il termine razdelka si indica il tratteggio dorato oppure le strisce in oro lungo le vesti. Essa «non esprime una struttura metafisica in un ordine naturale [...] ma si riferisce alla manifestazione diretta dell'energia di Dio», Ibidem, 110. L'assist rappresenta l'applicazione più definita dell'oro ed «è espressione non dell'ontologia della forza in generale ma delle forze Divine, della forma soprasensibile che penetra il visibile», Ibidem, p. 111. Testo

  93. Ibidem. Testo

  94. Ibidem, p. 132. Per la teologia della luce in san Gregorio Palamas, cui si rifà P. Florenskij, cfr. V. Losskij, A immagine e somiglianza di Dio, EDB, Bologna 1999, pp. 85-110. Sul significato ontologico della luce nel pensiero di P. Florenskij cfr. inoltre M.G. Valenziano, Florenskij. La luce della verità, Studium, Roma 1986, pp. 41-47. Testo

  95. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 106. Testo

  96. Ibidem, p. 119. Testo

  97. Ibidem. In analogia con l'azione creatrice di Dio (Gen 1,1-2,3) potremmo riconoscere nella scrittura dell'icona la sequenza opus creationis-opus distinctionis-opus ornamenti. Cf. P. Haffner, Il mistero della creazione, LEV, Città del Vaticano 1999, pp. 66-67. Testo

  98. Cf. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 56-57. Testo

  99. «Il compito dei responsabili dell'opera iconografica terminava con l'iscrizione, su incarico del vescovo, dei nomi dei santi», Ibidem, 74. Questo gesto afferma l'auto-identità della persona raffigurata sull'icona. Testo

  100. Sulle fasi che determinano la scrittura dell'icona cf. E. Fogliadini, Il Volto di Cristo. Gli Acheropiti del Salvatore nella Tradizione dell'Oriente cristiano, Jaca Book, Milano 2011, p. 42. Testo

  101. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 73. Testo

  102. Ibidem, p. 52. Testo

  103. Secondo P. Florenskij: «Canonico vuol dire ecclesiastico, ecclesiastico vuol dire conciliare, conciliare vuol dire universale», Ibidem, p. 70. Afferma inoltre il Nostro: «Negli atti del concilio si dice chiaramente che le icone vengono create non dall'invenzione, efeùresis, insomma dall'estro personale del pittore, ma in forza della legge inviolabile e della Tradizione, tesmotesìa e paràdosis, della Chiesa Ecumenica, secondo cui creare e predisporre è affare non del pittore ma dei santi padri. A questi ultimi appartiene il diritto imprescrittibile della composizione, diàtaxis, e al pittore solo l'esecuzione, la tecnica, tècne», Ibidem, p. 61. Testo

  104. Ibidem, p. 108. Testo

  105. Ibidem, p. 73. Testo

  106. Ibidem. Testo

  107. Cfr. V. Losskij, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Il Mulino, Bologna 1967, pp. 61-82; 211-229. Testo

  108. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 166. Testo

  109. P. Florenskij si distacca dalla sofiologia di Bulgakov e dal pericolo di derive gnostiche della filosofia di Solov'ëv. Cfr. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 164. Testo

  110. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 165. Testo

  111. Ibidem, pp. 133-134. Dunque non una metafisica astratta in cui «ciò che è, l'ente, esaurisce in sé il suo valore in un totale trascendimento, un fondamento sovratemporale assoluto, ma "metafisica concreta", ove ogni minimo dettaglio del sensibile e del materiale conduce verso il simbolo della bellezza nella sua rilevanza ontologica e salvifica», N. Valentini, Pavel A. Florenskij, cit., p. 43. Testo

  112. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 95. Testo

  113. Ibidem, pp. 95-96. Testo

  114. Ibidem, pp. 52-53. Testo

  115. Afferma il filosofo russo: «Negli stessi procedimenti della pittura di icone, nella sua tecnica, nelle materie impiegate e nalla fattura si esprime la metafisica per la quale l'icona vive ed esiste». Ibidem, p. 81. Testo

  116. L'esposizione delle riflessioni di P. Florenskij su questo argomento sarà limitata dall'impossibilità di aver letto, perché non ancora edito in lingua italiana, il testo Filosofija kulta (Filosofia del culto). Testo

  117. Cf. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 68; A. Belyi -- P. A. Florenskij, L'arte, il simbolo e Dio. Lettere sullo spirito russo, Medusa, Milano 2004, p. 53. Testo

  118. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 107. A tal proposito ritengo interessante questo pensiero di C. G. Jung: «Quando la mente esplora il simbolo, essa viene portata in contatto con idee che stanno al di là delle capacità razionali», C. G. Jung, L'uomo e i suoi simboli, Raffaello, Milano 1983, p. 20. Testo

  119. G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., p. 162. Testo

  120. Afferma R. Guardini che «relazione e distinzione sono ambedue necessarie a creare un simbolo», R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia 2003, p. 63. Testo

  121. G. di Giacomo, Immagine, in Aa.Vv., Enciclopedia Filosofica (vol. VI), Bompiani, Milano 20065, p. 541. Testo

  122. L. Žák, Il simbolo come via teologica, cit., p. 602. Testo

  123. P. A. Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2009, p. 201. Testo

  124. P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., p. 160. Testo

  125. N. Valentini afferma infatti che «il simbolo è per Florenskij la parola chiave di comprensione delle cose, di quella "realtà che è più di se stessa". [...] Il simbolo custodito nelle diverse forme dell'essere (icona, parola, nome, linguaggio, immaginario, prospettiva, ecc.) non è altro che la sostanza stessa della verità che traspare sul confine tra "i due mondi", nell'unione tra i due strati dell'essere», N. Valentini, Pavel A. Florenskij, cit., pp. 40-41. Testo

  126. S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, cit., p. 137. Sempre secondo S. Tagliagambe quella di P. Florenskij è «una sorta di sintesi filosofico-matematica che individua nel simbolo (e nella parola simbolo per eccellenza) un'unità binomica, l'unità nella diversità, in cui realtà concreta e mistero invisibile, finito e infinito, significante e significato, ma anche soggetto conoscente e oggetto indagato si trovano sinergicamente fusi, ma non confusi», Ibidem, p. 133. Testo

  127. L'antinomia infatti, secondo N. Valentini, «è una delle categorie fondamentali del pensiero florenskijano, essa nasce dalla persuasione che la verità dogmatica si presenti in maniera pugnace, sia sempre il frutto di una tensione tra gli opposti, coincidentia oppositorum, [...], che ammette simultaneamente la presenza di due asserzioni le quali appaiono logicamente incompatibili, ma ontologicamente necessarie. [...] Per questo si può affermare che l'atto del conoscere non è solo gnoseologico ma anche ontologico, non solo ideale ma anche reale», N. Valentini, Pavel A. Florenskij, cit., p. 77. Cfr. inoltre Id., Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., pp. 97-115; P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., pp. 156-179. Testo

  128. P. A. Florenskij, Il valore magico della parola, cit., p. 28. Sull'origine dei simboli, così afferma il Nostro in un'altra opera: «I simboli non sono qualcosa di convenzionale, creato da noi per piacere o per capriccio. I simboli vengono costituiti dallo spirito in base a determinate leggi e con una necessità interiore; e ciò accade in particolare ogni qual volta cominciano a funzionare in modo particolarmente intenso alcune parti dello spirito. Il simbolizzante e il simbolizzato non si legano tra loro a caso. [...] I simboli affiorano e nascono nella coscienza e da questa scompaiono, ma di per sé sono eterni procedimenti di scoperta interiore, eterni per la loro forma; noi li percepiamo meglio o peggio in base all'efficienza di alcune parti dello spirito», A. Belyi -- P. A. Florenskij, L'arte, il simbolo e Dio, cit., pp. 53-54. Testo

  129. Ibidem, p. 54. Testo

  130. P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., p. 105. Testo

  131. Id., La prospettiva rovesciata, cit., p. 123. Cf. inoltre S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, cit., p. 123. Testo

  132. Ibidem, p. 120. Testo

  133. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 31. Testo

  134. Sulla metafora del simbolo come finestra cfr. Ibidem, p. 48. Cf. inoltre S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, cit., p. 116; G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., pp. 168-170. Testo

  135. N. Valentini, Estetica ed ermeneutica dell'icona in Florenskij, in G. Lingua (a cura di), Icone e avanguardie, cit., p. 90. Testo

  136. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 48. Testo

  137. Ibidem, pp. 48-49. Testo

  138. E. Fogliadini, Il Volto di Cristo, cit., p. 43 Testo

  139. N. Valentini, L'ermeneutica dell'icona in Florenskij, cit., p. 9. Sull'arte come trasfigurazione cfr. L. Uspenskij, La teologia dell'icona, cit., pp. 121-131. Testo

  140. E. Fogliadini, Il Volto di Cristo, cit., p. 40. Testo

  141. Cfr. L. Uspenskij, La teologia dell'icona, cit., pp. 11-18; S. Babolin, Dodici secoli dal secondo Concilio di Nicea, Rivista di Pastorale liturgica 6 (1986), pp. 7-8; Id., Iconologia e iconoclastia: visione e ascolto della Parola di Dio, Parola di Dio e Spiritualità, LAS, Roma 1984. Atti del II Convegno nazionale dell'AIS, Roma-Teresianum, 28-30.09.1982, pp. 141-151; A. Besançon, L'immagine proibita. Una storia intellettuale dell'iconoclastia, Marietti, Genova-Milano 2009, p. 91. Testo

  142. Ibidem, p. 77. Testo

  143. Cfr. P. Bernardi, I colori di Dio, cit., p. 78; G. Lingua, L'icona, l'idolo e la guerra delle immagini, cit., pp. 152-154; L. Uspenskij, La teologia dell'icona, cit., p. 60; P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 63. Testo

  144. P. N. Evdokimov, L'ortodossia, cit., p. 314. Testo

  145. Sullo sviluppo e la struttura dell'iconostasi cf. A. dell'Asta, Iconostasi, in L. Castelfranchi -- M. A. Crippa, Iconografia e arte cristiana, cit., pp. 773-775; L. Uspenskij -- V. Losskij, Il senso delle icone, cit., p. 67. Testo

  146. A. dell'Asta, Iconostasi, cit., p. 773. Testo

  147. D. Papavasileiou, L'icona nella liturgia ortodossa, in http://www.famigliedellavisitazione.it/ wp/wp-content/uploads/2011/04/Dispense-p.Dioysios-Papavasileiou.pdf, 32. Testo

  148. Cf. P.N. Evdokimov, Teologia della bellezza. L'arte dell'icona, Paoline, Roma 1981, pp. 150-166. Testo

  149. Cf. P. A. Florenskij, Il rito ortodosso come sintesi delle arti, in Id., La prospettiva rovesciata, cit., pp. 64-65. Testo

  150. P.N. Evdokimov, Teologia della bellezza, cit., p. 179. Testo

  151. D. Ferrari-Bravo, La parola e l'icona. Dalla verità della conoscenza alla verità della visione e ritorno in Pavel Florenskij, Humanitas 4 (2003), p. 620. Testo

  152. E. Fogliadini, Il Volto di Cristo, cit., p. 40. Testo

  153. P. Florenskij, Il rito ortodosso come sintesi delle arti, cit., p. 62. Testo

  154. L. Uspenskij -- V. Losskij, Il senso delle icone, cit., p. 68. Testo

  155. Cf. D. Papavasileiou, L'icona nella liturgia ortodossa, (sito internet), cit., p. 33. Cf. inoltre P.N. Evdokimov, Teologia della bellezza, cit., pp. 136-166. Testo

  156. Cf. L. Uspenskij, Teologia dell'icona, cit., p. 146. Testo

  157. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 44. Testo

  158. Ibidem, p. 43. Testo

  159. Ibidem, p. 44. Testo

  160. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., p. 217. Testo

  161. D. Papavasileiou, L'icona nella liturgia ortodossa, (sito internet), cit., p. 31. Testo

  162. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 44. Testo

  163. Afferma sempre P. Florenskij: «Nel tempio [...] e nel volto dei santi noi allora vediamo, con la chiesa così illuminata, i volti, cioè i lineamenti celesti, i fenomeni vivi dell'altro mondo, i prototipi, gli Uhrphänomena. [...] In un tempio noi siamo faccia a faccia con il mondo platonico delle idee», Id., Il rito ortodosso come sintesi delle arti, cit., p. 63. Testo

  164. Id., La concezione cristiana del mondo, a cura di A. Maccioni, Pendragon, Bologna 2011, p. 126. Testo

  165. Id., Iconostasi, cit., p. 46. Testo

  166. Ibidem, p. 45. Testo

  167. Ibidem, p. 46. Testo

  168. Ibidem, pp. 46-47. Testo

  169. E. Fogliadini, Il Volto di Cristo, cit., p. 42. Testo

  170. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 47. Testo

  171. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., p. 225. Testo

  172. P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 47. Testo

  173. Ibidem, p. 46. Testo

  174. Ibidem. Testo

  175. Id., Il timore di Dio, in Id., Il cuore cherubico, cit., p. 270. Testo

  176. D. Papavasileiou, L'icona nella liturgia ortodossa, (sito internet), cit., p. 30. Testo

  177. L. Uspenskij -- V. Losskij, Il senso delle icone, cit., p. 71. Testo

  178. P. A. Florenskij, Il timore di Dio, cit., pp. 299-300. Testo

  179. Cfr. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., p. 233. Testo

  180. P. A. Florenskij, Ai miei figli, cit., p. 206. Testo

  181. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., p. 226. Testo

  182. Id., L'ermeneutica dell'icona in P. Florenskij, cit., p. 8. Testo

  183. E. Fogliadini, Il Volto di Cristo, cit., p. 42. Testo

  184. L. Uspenskij -- V. Losskij, Il senso delle icone, cit., p. 79. Testo

  185. N. Valentini, L'ermeneutica dell'icona in Florenskij, cit., p.9. Testo

  186. Cfr. L. Uspenskij -- V. Losskij, Il senso delle icone, cit., p. 77. Testo

  187. N. Valentini, L'ermeneutica dell'icona in Florenskij, cit., p. 9. Testo

  188. Cf. E. Scognamiglio, Il volto di Dio nelle religioni, cit., p. 194. Per un'analisi approfondita del significato rivelativo del termine panîm cfr. Ibidem, pp.187-213. Testo

  189. Ibidem, pp. 13-14. Testo

  190. E. Sendler, L'icona immagine dell'invisibile, cit., p. 108. Testo

  191. «La parte della colorazione dell'icona viene divisa tra il maestro che dipinge i volti, detto licnik, e quello che dipinge tutto il resto, cioè il dolicnik. Questa è la divisione profondamente significativa, basata sul principio di interiorità ed esteriorità, "io" e "non io", tra il volto umano come espressione della vita interiore e tutto ciò che non è il volto, cioè ciò che funge da condizione per la rivelazione e la vita dell'uomo, tutto il mondo creato per l'uomo. Nel linguaggio iconografico il volto è chiamato sembiante e tutto il resto [...] si chiama "parte che precede il volto"», P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 118. Testo

  192. N. Valentini, Pavel A. Florenskij. La lotta tra maschera e sguardo, cit., p. 209. Testo

  193. Cf. N. Zingarelli, "guardare", Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 2006, pp. 824-825. Testo

  194. Ibidem, p. 1992. Testo

  195. E. Fogliadini, Il Volto di Cristo, cit., p. 71. Testo

  196. P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, cit., pp. 85-87. Testo

  197. Ibidem, p. 88. Testo

  198. N. Valentini, Pavel A. Florenskij. La lotta tra maschera e sguardo, cit., p. 210. Testo

  199. P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, cit., p. 85. Testo

  200. In 'Le porte regali', curato da E. Zolla ed edito nel 1977 per i tipi di Adelphi, il termine lik è tradotto con sguardo. Così spiega la nuova traduzione la curatrice dell'edizione del 2008: «Il caso più emblematico della diversa traduzione e interpretazione rispetto alla versione del 1977 riguarda il termine lik, che è stato sinora -- anche in altri scritti di Florenskij -- reso con "sguardo". Lik, rispetto a lico che è il viso/volto dell'essere umano, nel linguaggio religioso indica il volto di Cristo, della Madonna e dei santi. Ci è sembrato giusto tradurlo con "sembiante" per sottolineare l'idea della trasfigurazione che avviene nel volto del soggetto sacro, la cui "vera" sembianza inizia a trasparire dal volto materiale, in quanto frutto della "visione" del pittore. È in quel momento che il dipinto sulla tavola di legno non è più una semplice raffigurazione ma un'icona vera e propria», G. Giuliano, Prefazione, in P. A. Florenskij, Iconostasi, cit., p. 12. Testo

  201. Ibidem, p. 36. Testo

  202. N. Valentini, Pavel A. Florenskij. La lotta tra maschera e sguardo, cit., p. 213. Testo

  203. Nella riflessione di P. Florenskij sulla modalità di rappresentazione dei volti nell'icona, questa finalità è evidente nel fatto che il Volto di Cristo, così come i volti dei Santi, è raffigurato sempre frontalmente. Cf. P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell'arte, Adelphi, Milano 20073, p. 107. Testo

  204. Id., Iconostasi, cit., pp. 36-37. Testo

  205. Cfr. S. Babolin, L'uomo e il suo volto, PUG, Roma 1993, p. 196. Mentre la visione è data dalla proprietà percettiva ottico-retinica che determina un 'vedere', lo sguardo determina un 'vedere come' che implica «la capacità di cogliere nel sensibile l'intelligibile, nella trasparenza l'opacità, nel determinato l'indeterminato», G. di Giacomo, Immagine, p. 5541. Testo

  206. «Nell'icona, attraverso lo sguardo, l'Invisibile ci appare visibilmente e offre all'uomo la possibilità di perdersi-salvarsi nello sguardo invisibile che visibilmente lo guarda in volto. [...] Nell'icona-visione lo sguardo è il sì alla vita, in cui l'ousia s'inscrive nel gioco del dono, dell'abbandono e del perdono, e invece di arrestare lo sguardo lo rinvia all'infinito e lo apre alla rivelazione», N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., p. 242. Testo

  207. P. Martinelli, La Testimonianza. Verità di Dio e libertà dell'uomo, Paoline, Milano 2002, p. 116. Testo

  208. Ibidem, p. 126. Cf. inoltre E. Scognamiglio, Il volto di Dio nelle religioni, cit., pp. 227-228. Testo

  209. E. Fogliadini, Il Volto di Cristo, cit., p. 86. Testo

  210. P. Martinelli, La testimonianza, cit., p. 117. Testo

  211. E. Scognamiglio, Il volto di Dio nelle religioni, cit., p. 230. Testo

  212. E. Scognamiglio, Gesù Cristo il rivelatore celeste. Qui videt me videt et Patrem, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2011, p. 199. Testo

  213. Benedetto XVI, Lettera enciclica sulla carità cristiana «Deus caritas est», LEV, Città del Vaticano 2006, p. 31. Testo

  214. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., p. 243. Testo

  215. E. Scognamiglio, Gesù Cristo il rivelatore celeste, cit., p. 293. Testo

  216. N. Valentini, L'ermeneutica dell'icona in Florenskij, cit., p. 11. Testo

  217. Cfr. Id., Pavel A. Florenskij. La lotta tra maschera e sguardo, cit., p. 215-216. Testo

  218. E. Scognamiglio, Gesù Cristo il rivelatore celeste, cit., p. 301. Testo

  219. Cfr. Ibidem, p. 251. Testo

  220. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore, cit., p. 242. Testo

  221. A. Leopardi, Lo sguardo nel platonismo teologico di Florenskij, Pensiero e persona 73-74 (2010), p. 11. Testo

  222. Cf. L. Žák, Il simbolo come via teologica, cit., p. 599. Testo

  223. C. Greco, Gesù Cristo, icona del Dio invisibile, in Id. (ed.), Cristologia e antropologia. In dialogo con Marcello Bordoni, A.V.E., Roma 1994, pp. 156-180. Testo

  224. N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'Amore. cit., p. 26. In una nota autobiografica così scrive P. Florenskij: «Aderendo al pensiero anglo-americano e ancor più a quello orientale, Florenskij ritiene ogni sistema correlato in modo non logico, ma soltanto teleologico, e vede in questa disorganicità (discontinuità) e contraddittorietà (antinomicità) logica, l'inevitabile conseguenza del processo stesso della conoscenza, che si bassa non sui piani inferiori del modello e dello schema, ma su quelli superiori del simbolo. La logica dei simboli è una delle questioni fondamentali della teoria della conoscenza», P. A. Florenskij, Socinenija v certyrech tomach, Misl', Moskva 1994, vol. I, p. 40, cit. in N. Valentini, Pavel A. Florenskij, cit., p. 39. Testo

  225. P. A. Florenskij, Bellezza e liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, Mondadori, Milano 2010, p. 53. Testo