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Il Concilio Vaticano II interpretato, discusso e contestato

di Carlo Molari (2 ottobre 2012)

Il Concilio Vaticano II dalla sua conclusione ad oggi è stato oggetto di continua interpretazione. Che cosa egli abbia rappresentato e quali indicazioni autorevoli abbia offerto per il cammino delle comunità ecclesiali è stato diversamente valutato nei numerosi scritti pubblicati in questi decenni. A più riprese si è discusso sulla portata dottrinale e sulla forza vincolante dei documenti approvati. Le diverse interpretazioni non hanno solo un valore teorico ma incidono profondamente nelle scelte concrete, come sulla recezione delle proposte conciliari.

A ogni anniversario gli interrogativi sul valore del Concilio e sulla sua recezione si rinnovano. Per i cambiamenti introdotti il Vaticano II ha suscitato reazioni in ambienti ecclesiali tradizionalisti, i quali lo accusano di avere deviato dalla dottrina dei secoli scorsi. Altri invece considerano queste scelte come riforme necessarie per rispondere alle nuove condizioni della storia o per riparare errori e ritardi del passato.

1. La fine un'epoca ed evento di grazia

La maggioranza dei fedeli cattolici ha vissuto l'evento del Concilio come una svolta storica come momento di grazia. Ma non sono mancati fin dall'inizio resistenze e riserve.

Il gesuita francese Robert Rouquette (1905-1969), a proposito della votazione con cui i Padri nel 1962 avevano respinto lo schema sulla rivelazione (De fontibus rivelationis) scriveva: «Si può affermare che con questo voto del 20 novembre si chiude l'epoca della Controriforma e si apre un'epoca nuova, imprevedibile nelle sue conseguenze, per la cristianità».1 Egli intendeva dire che dal punto di vista dottrinale quella votazione rappresentava una cesura con il passato caratterizzato dalla apologetica antiprotestante e da una disciplina fondata sul diritto canonico. Lo sviluppo dei rapporti con i protestanti fino alla firma del documento sulla giustificazione (31 ottobre 1999) ha in certo senso confermato questa valutazione. Hans Küng in prospettiva analoga osservava:

una cosa comunque è sicura, nonostante tutte le resistenze e le ricadute, con il concilio Vaticano II anche per la chiesa cattolica il Medioevo, insieme con la Controriforma, è finito! Più esattamente il paradigma romano-medievale, controriformistico-antimoderno, ha fatto il suo tempo. Molte esigenze dei Riformatori e dell'Illuminismo sono state accolte dalla chiesa cattolica, e il cambio di paradigma per una costellazione moderna-postmoderna, frenato dall'alto, ha compiuto grandi passi in avanti a partire dal basso. [...] La chiesa postconciliare è diversa da quella preconciliare, senza alcun dubbio. La grande controversia circa la forma del futuro della chiesa e del cristianesimo certamente prosegue.2

Da parte sua M. D. Chenu, estendendo ulteriormente gli ambiti del confronto storico, aveva parlato della fine dell'era costantiniana3 o, come altri hanno preferito dire, la fine della cristianità.4

Queste dispute non hanno solo rilevanza storica, ma anche pastorale e spirituale. Implicano infatti la prospettiva del cammino ecclesiale nei decenni e per certi versi anche nei secoli futuri.

Esse si sono svolte nello stesso periodo conciliare fin dai primi giorni. Particolare significato ha la battaglia che si è combattuta attorno al discorso inaugurale di Giovanni XXIII. Vale la pena richiamare brevemente questo episodio della storia minore.

2. La sostanza della dottrina e il suo rivestimento

Il 12 ottobre 1962, verso la fine del discorso inaugurale del Concilio (Gaudet Sancta Mater Ecclesia) Giovanni XXIII, che l'aveva preparato personalmente e con cura disse:

Il punctum saliens di questo Concilio non è, dunque, una discussione di un articolo o dell'altro della dottrina fondamentale della Chiesa, in ripetizione diffusa dell'insegnamento dei Padri e dei Teologi antichi e moderni, quale si suppone debba essere già ben presente e familiare allo spirito. Per questo in verità non occorreva un concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l'insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione, così come ancora splende negli atti Conciliari da Trento al Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione più viva delle coscienze, in perfetta fedeltà alla autentica dottrina; ma questa studiata ed esposta attraverso le forme della indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno. Altra è la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la riformulazione del suo rivestimento ed è di questo che devesi con pazienza se occorre tenere gran conto, tutto misurando nelle forme e proporzioni di un magistero a carattere prevalentemente pastorale.5

In questa ultima frase nel testo latino è stata aggiunto un inciso «eodem tamen sensu, eademque sententia» per cui la traduzione italiana del discorso risulta essere: «Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata». La frase aggiunta è tratta dal Concilio Vaticano I, ma l'origine remota è il Commonitorium di Vincenzo Lerinense.6 Melloni nella preziosa sinossi delle redazione del discorso annota «non sono in grado di dire se a monte delle parti del testo che non hanno riscontro nell'originale sia da supporre uno scambio orale fra il papa e il suo traduttore (ipotesti avanzata da Mons. Capovilla) ovvero una lacuna della documentazione passata di mano in mano in ore frenetiche (ipotesi suggeritami da monsignor Zannoni). Alcune correzioni sono sostanziali».7 Proprio la testimonianza di Mons. Giuseppe Zannoni, responsabile della traduzione, suggerisce l'idea che il Papa non fu interpellato, altrimenti egli l'avrebbe con piacere affermato e fa capire che altri sono intervenuti. Non è escluso che anche il S. Uffizio avesse chiesto di poter analizzare il discorso e avesse avanzato riserve. Una prova sta nel fatto che il Papa stesso nel discorso alla Curia romana (23 dicembre 1962) volle riprendere parola per parola e questa volta in italiano il brano proposto nel discorso d'apertura. Secondo la testimonianza di Melloni, il Papa in quella occasione, intervenne già «con correzioni autografe sull'indirizzo di auguri che gli avrebbe rivolto il cardinale decano a nome della curia, in modo da poter rispondere citando e ripristinando il testo dell'allocuzione di apertura, le cui manomissioni dovevano aver in lui suscitato qualche pena».8 Ma anche in questo caso il testo ufficiale di quel discorso, riportato nell'Acta Apostolicae Sedis è mutilo. La frase «altra è la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la riformulazione del suo rivestimento ed è di questo che devesi con pazienza se occorre tenere gran conto», è sostituita da alcuni puntini.

Può sembrare strano che tutto ciò potesse accadere in Vaticano sotto gli occhi del Papa. Ma occorre tenere presente che il testo dell'Acta Apostolicae Sedis viene pubblicato molto tempo dopo gli eventi e nel susseguirsi degli eventi conciliari nessuno ha immediatamente controllato il testo. Si era poi già diffusa la voce della grave malattia del Papa e coloro che lo osteggiavano avevano ripreso vigore. Il Segretario particolare Mons. Loris Capovilla attesta che il Papa in quel periodo era stato «ferito da non poche incomprensioni».9 Queste manovre fanno parte dello stesso «progetto della curia vaticana di monopolizzare la preparazione attraverso un ostruzionismo metodico delle direttive papali», nella linea della «accusa di rottura della tradizione cattolica distillata nel tradizionalismo», della «raffinata manipolazione dei testi» che caratterizzarono quel primo periodo del Concilio.10

3. Conflitto di interpretazioni

A proposito dei testi conciliari alcuni tendono a sottolineare la continuità della dottrina e della disciplina con i secoli precedenti, mentre altri accentuano la novità rispetto ad alcune tradizioni dottrinali e disciplinari del passato, fino a evidenziare in alcuni casi una vera e propria inversione di cammino.

In questi ultimi anni si è rafforzata la resistenza al Concilio Vaticano II anche in ambito cattolico.

Mentre infatti i primi commenti dei testi conciliari da parte cattolica hanno un carattere positivo e molto omogeneo in senso, man mano che gli anni passavano sono emerse riserve e critiche aperte. Certamente nel dopo concilio ci sono stati non pochi tentativi di allargarne il messaggio forzando il senso di alcune espressioni conciliari. Alcuni hanno anche ipotizzato che la manovra degli innovatori durante i lavori conciliari sia stata appunto quella di redigere testi ambigui in modo da poterne poi piegare il senso alle esigenze delle loro prospettive. Attualmente invece è in corso l'operazione opposta. Da parte di non pochi teologi si cerca di minimizzare la portata di quei testi dove il Concilio ha decisamente innovato.

Anche le ricostruzioni storiche hanno avuto tappe analoghe.

Nel 1991 cominciò la pubblicazione di una Storia del Concilio Vaticano II curata da Giuseppe Alberigo, Direttore del Centro di documentazione di scienze religiose di Bologna. In un breve saggio di presentazione della Storia da lui diretta, G. Alberigo, ha spiegato l'origine e il senso dell'opera:

Venticinque anni dopo la conclusione del Vaticano II, a partire dal 1988, si è formata un'équipe multiculturale e interdisciplinare a livello mondiale con lo scopo di preparare una storia che ricostruisse, sulla base della documentazione originale, lo svolgimento del concilio Vaticano II dal primo annuncio del gennaio 1959 sino alla solenne conclusione. [...] È stata un'esperienza di ricerca comune e di conoscenza approfondita della ricchezza, dei limiti e delle contraddizioni del Vaticano II, condotta con metodo rigoroso, nel rispetto del Concilio come si è effettivamente svolto. [...] La vita del concilio è stata ripercorsa, quasi giorno per giorno, consentendo di cogliere la complessa ricchezza della dialettica assembleare».11 La ricerca ha perseguito «lo scopo di stabilire come si è effettivamente svolto il concilio e di alimentarne la conoscenza, al di là della consapevolezza dei partecipanti e della vita della generazione che l'ha vissuto e malgrado le 'gelosie ermeneutiche' dei protagonisti che sono stati indotti a condizionare l'interpretazione degli atti conciliari».12 A giudizio degli storici che hanno contribuito all'opera, «le costituzioni e i decreti non rispecchiano tutte le virtualità che si sono espresse durante la vita del Concilio. Esso è stato un evento più denso e significativo del corpus delle sue decisioni e non si è esaurito nella loro formulazione e approvazione.13

Il Vescovo Agostino Marchetto, allora segretario del Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti nel 2005 ha pubblicato il volume: Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia14 spesso molto polemico nei confronti della storia curata da Alberigo.

Il Cardinale Ruini presentando il libro di Marchetto a Roma il 17 giugno 2006, nella sala "Pietro da Cortona" dei Musei Capitolini, ha paragonato la pubblicazione diretta dallo storico Alberigo, alla Istoria del Concilio di Trento del religioso servita Paolo Sarpi, pubblicata a Londra nel 1619 a cura dell'apostata Marcantonio de Dominicis, e messa subito all'indice. Egli ha ricordato che P. Sforza Pallavicini rispose al Sarpi con una Istoria del Concilio di Trento (1656) rigorosa nella documentazione ma non meno unilaterale nei giudizi. Solo con la Storia pubblicata da Hubert Jedin tra il 1949 e il 1975, il Concilio di Trento avrebbe avuto la prima storia equa. Si è augurato che ben presto una «grande storia in positivo» «nuova e diversa» possa essere preparata per il Vaticano II. Con il richiamo al servita Paolo Sarpi, chiaramente esagerato e per questo presentato dallo stesso Cardinale in modo semi scherzoso, egli ha inteso esprimere il suo giudizio sull'opera curata da Giuseppe Alberigo che non avrebbe sufficientemente messo in luce la continuità tra il Concilio Vaticano II e la tradizione. Tra l'altro ha affermato che Giovanni XXIII «con la parola 'aggiornamento' non voleva attribuire il significato che qualcuno tenta di darle, quasi essa consenta di relativizzare secondo lo spirito del mondo ogni cosa nella Chiesa (dogmi, leggi, strutture, tradizioni), mentre fu così vivo e fermo in lui il senso della stabilità dottrinale e strutturale della Chiesa da farne cardine del suo pensiero e della sua opera». Ha citato Giovanni Paolo II, il quale nel 2000, ribadì che «leggere il Concilio supponendo che esso comporti una rottura col passato, mentre in realtà esso si pone nella linea della fede di sempre, è decisamente fuorviante». Ha criticato chi richiamandosi allo spirito e all'evento del concilio non si attiene ai testi approvati e ha concluso ricordando che «l'interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. È tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità».15

A questo invito ha risposto lo storico Roberto De Mattei con il volume Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta16 dove descrive gli eventi del Concilio soprattutto visti dalla parte degli 'sconfitti'. Propone una minuziosa ricostruzione della preparazione al Concilio, delle discussioni in aula e della rete di incontri pubblici e privati sia degli innovatori che dei conservatori utilizzando sia gli Atti conciliari che riportano il testo degli interventi in aula, sia le notizie relative alle riunioni dei partiti contrapposti in particolare dei tradizionalisti, raccolti nel Coetus interationalis Patrum idem in re teologica ac pastorali sentientium (Gruppo internazionale di Padri che convergono dal punto di vista teologica e pastorale). A suo giudizio questi ultimi si organizzarono troppo tardi per potere controbilanciare l'influenza dei primi, i quali originariamente minoritari, finirono per dominare e orientare il Concilio. Egli tra l'altro sottolinea l'apporto dato sia dal punto di vista organizzativo e dottrinale al gruppo conservatore dallo storico, politico, filosofo e giornalista brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) che «aveva installato a Roma un segretariato, comprensivo di quattordici persone» decisivo per l'organizzazione dei padri conciliari conservatori.17 A suo giudizio anche il testo dell'importante parere inviato a Roma dal vescovo di Diamantina, in Brasile, mons. Geraldo de Proença Sigaud, (1909-1999), Verbita come Lefebvre, «rivela chiaramente l'ispirazione, e forse la mano stessa, di Plinio Corrêa de Oliveira».18

De Mattei non analizza le diverse redazioni dei documenti conciliari come invece fa lo storico gesuita John O'Malley, docente alla Georgetown University di Washington nel volume Cosa è successo nel Vaticano II? .19 Analizzando le diverse redazioni dei documenti egli sostiene che il Vaticano II non può essere ricondotto semplicemente alla tradizione dei secoli passati perché esprime una reale novità, ma neppure può essere considerato una rottura con la tradizione. O'Malley ha osservato che negli ultimi quarant'anni, nessun teologo o storico autorevole ha sostenuto che il Concilio abbia interrotto la Tradizione della Chiesa. Gli unici ad averlo affermato sono i seguaci dell'arcivescovo Marcel Lefebvre, che hanno applicato l'ermeneutica della rottura e considerano illegittimi i cambiamenti introdotti dal Concilio. Per O' Malley il cambiamento più significativo appare nello stile pastorale del Vaticano II che si traduce anche in un linguaggio nuovo. Gli ideali espressi anche nell'utilizzo di parole nuove: da comando a invito, da legge a ideale, da coercizione a coscienza, da monologo a dialogo, da governare a servire, da esclusione a inclusione, da ostilità ad amicizia. Ad esse corrisponde lo stile esortativo per suscitare l'adesione agli ideali evangelici, più che per chiarire le dottrine. Esso caratterizza tutti i documenti del Concilio conferendo loro una unità letteraria che fa del Vaticano II un caso unico nella storia.

Anche l'agile sintesi di Otto Hermann Pesch, tradotto in italiano dalla Queriniana20 presenta l'evento conciliare con equilibrio.

4. Recezione

La recezione è un atto costitutivo dello stesso processo conciliare, essendo un atto ecclesiale ogni Concilio implica l'accoglienza da parte della comunità intera. Quanto alla recezione del Vaticano II alcuni distinguono tre periodi: un primo di accoglienza entusiasta, un secondo di raffreddamento o di critica e un terzo di sintesi più armonica. Questo modello è utile e per questo diffuso, ma non tiene sufficientemente conto della complessità del problema. In ogni fase, infatti, si sono confrontati e condizionati a vicenda tutti gli atteggiamenti. D'altra parte questa diversità di lettura dei testi e dello stesso evento ha accompagnato anche i lavori conciliari e la stesura dei documenti, che non sono sempre omogenei e a volte quello che si propone in un testo viene frenato o limitato in un altro. In certo senso è vero quanto osserva Gilles Routhier: «I testi conciliari presentano a volte tesi giustapposte e non sempre facilmente armonizzabili».21

Anche i Vescovi che hanno apposto la firma ai documenti conclusivi lo hanno fatto con sentimenti diversi. Alcuni lo hanno fatto con piena adesione ed entusiasmo; altri si sono rassegnati cercando di interpretare, secondo la propria convinzione e a volte con qualche forzatura, i testi sottoscritti; altri hanno firmato con resistenze e riserve, convinti di potere pilotare l'applicazione del Concilio e gli sviluppi dottrinali dei decenni successivi. Questo ultimo atteggiamento era diffuso tra alcuni membri della Curia Romana e tra quei Vescovi che per formazione erano più legati alla tradizione. I primi soprattutto hanno condizionato l'applicazione delle decisioni conciliari a livello universale, mentre diversi vescovi lo hanno fatto a livello locale. Quando però questo non è potuto accadere, alcuni di essi hanno preferito lasciare la chiesa come il Vescovo Marcel Lefebvre, che ha provocato lo scisma ancora in atto.

Un Concilio così influente come il Vaticano II anche in una fase storica dai ritmi veloci come quella attuale, non poteva certo esprimere tutte le sue potenzialità in 40 o 50 anni. Se è vero che la recezione del Concilio non consiste semplicemente nell'entusiasmo con cui si accolgono i suoi documenti, bensì nei cambiamenti che ne derivano dalla sua applicazione effettiva, dobbiamo dire che il Vaticano II è ancora lontano da essere stato accolto. È possibile quindi parlare del futuro partendo proprio dagli effetti non ancora compiuti del Concilio. Non si tratta di inventare o progettare ciò che sarà, ma di rendere possibile ciò che dovrebbe fiorire nella chiesa secondo le dinamiche messe in moto dal concilio. La verità della interpretazione apparirà solo dalla fedeltà con cui le comunità ecclesiali si aprono alle dinamiche dello Spirito, accogliendo quelle novità che fioriscono solo là dove il futuro è atteso. Gilles Routhier scrive:

Non riusciremmo a rendere conto di tutto questo periodo facendo ricorso soltanto al concetto di crisi nel senso descrittivo del termine, come si parla della «crisi della fede» nel sinodo del 1967, o della crisi del clero a partire dal 1968. La Chiesa entra veramente in un periodo di crisi, nel senso teologico del termine, cioè in un periodo in cui è obbligata a fare delle scelte, a optare in favore di una direzione o di un'altra. E ovviamente questo atteggiamento non va da sé, perché scegliere è sempre lacerante e chiede spesso delle rinunce esigenti. Nel caso che ci interessa in questa nostra analisi, mettere da parte abitudini secolari non può essere fatto senza esitazioni, resistenze, retromarce. [...] E simmetricamente iniziare a prospettare l'ingresso in una nuova figura del cattolicesimo o l'istituzione di un nuovo tipo di cattolicesimo è una operazione esigente, molto più di quanto si possa immaginare a prima vista. Se c'è stata, e come abbiamo visto molti lo ritengono (e c'è del vero in questa osservazione), una fase di euforia seguita a sua volta da una fase di disillusione, ciò è dovuto al fatto che si è osato pensare che un simile passaggio a un nuovo paradigma si potesse compiere senza che fosse necessario pagare alcun prezzo. In realtà un prezzo è stato pagato, e anche elevato, poiché l'abbandono di un modo di pensare e di vivere richiede quella che possiamo definire senza esitazione come una vera conversione, concetto sempre più alla ribalta negli studi sulla recezione. Se c'è stato un momento euforico (ingenuo), è stato quando si è creduto che il concilio avesse provocato un cambiamento irreversibile, e che ormai si trattasse solamente di cavalcare l'onda potente messa in moto dai testi conciliari.22

Invece non è stato così. Le conversioni esigono coinvolgimento e richiedono tempo, cioè fedeltà nel cammino.

5. Novità e tradizione nel Vaticano II

Molti oppositori del Concilio ricorrono al dichiarato carattere pastorale del Concilio per rifiutare alcune sue scelte che hanno evidentemente una notevole portata dottrinale, come la libertà di coscienza, l'ecumenismo e il dialogo interreligioso.

Alberto Melloni, che ha redatto un prezioso elenco delle principali posizioni assunte di fronte all'evento conciliare, osserva che la traccia delle risposte «date da generazioni progressivamente sempre più estranee alla dinamica di quella transizione, costituisce una galleria assai interessante».23

Una voce critica in tale direzione è quella di Brunero Gherardini, professore emerito di ecclesiologia ed ecumenismo dell'Università lateranense, Canonico nella Basilica di S. Pietro e Direttore della rivista Divinitas.24 Non è possibile qui esaminare tutti i problemi affrontati con rigore logico e con competenza nel volume. Mi limito a considerare un solo aspetto che però condiziona tutto l'impianto delle sue argomentazioni: la questione della continuità dottrinale del Concilio con la tradizione e quindi come si debba valutare la sua autorevolezza dottrinale. È pacifico infatti che il Concilio Vaticano II ha emanato documenti innovativi, che cioè presentano opzioni e dottrine diverse da quelle di autorevoli documenti del passato. In particolare nell'ambito della libertà di coscienza, dell'ecumenismo cristiano e del dialogo interreligioso l'ultima assise conciliare ha dato indicazioni operative che contrastano con quelle precedenti e che suppongono visioni teologiche nuove. Alcuni, come noto, hanno considerato le scelte del Vaticano II come una grave deviazione dalla tradizione e quindi non ne riconoscono la piena autorità. Essi giustificano la loro posizione con il fatto che il Vaticano II ha dichiarato di essere un Concilio pastorale e di non voler assumere carattere dogmatico. Altri considerano la diversità di scelte e di dottrine come espressione legittima di un processo vitale o di riforma ecclesiale che non inficia la continuità vitale di fondo dell'unico soggetto chiesa. Altri infine riconoscono la rottura nei confronti delle dottrine del passato ma la ritengono una doverosa precisazione di fronte alle imperfezioni e agli errori compiuti da autorevoli organi della chiesa cattolica nei secoli scorsi.

Di fronte a queste diverse posizioni Gherardini pensa che, passata l'euforia entusiasta del dopo concilio, sia venuto il tempo di chiarire in modo autorevole la reale portata dottrinale del Vaticano II. La preoccupazione che lo muove è dottrinale, perché le scelte pastorali compiute suppongono concezioni di chiesa, di verità rivelata e di salvezza che egli valuta con dubbi e perplessità. Egli infatti si dichiara convinto che

non poche pagine dei documenti conciliari arieggiano scritti e idee del modernismo -- si veda soprattutto la Gaudium et Spes -- e [che] alcuni Padri conciliari -- e non dei meno significativi -- non nascondevano aperte simpatie per antichi e nuovi modernisti. [...] Volevan infatti una Chiesa pellegrina della verità, in cordata verso di essa insieme con ogni altro pellegrino. [...] La volevan amica ed alleata d'ogni altro ricercatore. Assertrice, anche nell'ambito degli studi sacri, dello stesso criticismo metodologico d'ogni altra scienza. Una Chiesa, insomma, laboratorio di ricerca e non dispensatrice di verità calate dall'alto.25

Per questo ritiene «che, 'finite le feste al tempio' e conclusa la fase osannante, s'imponga oggi di necessità una riflessione storico-critica sui testi conciliari, che ne ricerchi i collegamenti -- qualora effettivamente ci siano -- con la continuità della Tradizione cattolica». A suo giudizio «ne va della Fede e dell'autentica testimonianza cristiana».26 D'altra parte egli pensa che dato il carattere pastorale e non dogmatico del Vaticano II, questi elementi non inficiano la sua autorità magisteriale anche se possono costituire motivo di confusione. Per questo motivo, egli, a conclusione delle sue analisi dettagliate, rivolge una supplica al Papa perché chiarisca in modo definitivo l'autorità dottrinale del Concilio. In particolare gli chiede di procedere, con la sua autorità suprema e la sua competenza teologica o anche attraverso gli organi centrali della chiesa o con la collaborazione di strutture universitarie internazionali, ad un serio esame critico dei testi conciliari per «dimostrare -- al di là d'ogni declamatoria asseverazione -- che la continuità è reale, e tale si manifesta, solo nell'identità dogmatica di fondo. Qualora questa, o in tutto o in parte, non risultasse scientificamente provata, sarebbe necessario dirlo con serenità e franchezza, in risposta all'esigenza di chiarezza sentita ed attesa da quasi mezzo secolo». «Lo strumento potrebb'esser un grande documento papale, destinato a rimanere nei secoli come il segno e la testimonianza del Suo vigile e responsabile esercizio del ministero petrino». Conclude: «Basta una sua parola, Beatissimo Padre, perché tutto [...] ritorni nell'alveo della pacifica e luminosa e gioiosa professione dell'unica Fede nell'unica Chiesa».

Il libro ha una prefazione di Sua Ecc. za Mons. Mario Olivieri, Vescovo di Albenga e Imperia e una presentazione di Sua Ecc. za Mons. Albert Malcom Ranjith, Arcivescovo Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Il Vescovo di Albenga si dice pienamente d'accordo con le argomentazioni e fa sua toto corde la supplica rivolta al Papa, convinto «che in molta produzione 'teologica' post-conciliare la confusione al riguardo sia molta e densa, e molto densa è l'incertezza dottrinale e pastorale». Mons. Oliveri formula perciò l'augurio che il libro di Gherardini «susciti molta attenzione e molta riflessione all'interno della Chiesa, ovunque si voglia fare vera teologia, e sia accolta con il rispetto che merita un lavoro condotto con rigore e certamente con grande amore alla Chiesa, alla sua perenne Tradizione, al suo Magistero».

Il quindicinale dei Lefebvriani italiani Sì-sì/No-no ha affrontato più volte il tema. In un editoriale ha elencato i molti interventi dei Papi postconciliari che difendevano la continuità del Concilio con la Tradizione cattolica.27 Di Paolo VI ha ricordato il Discorso al Sacro Collegio dei Cardinali (23 giugno 1972) quando «denunciò ancora una volta una falsa interpretazione del Concilio, che avrebbe voluto una rottura con la Tradizione». Di Giovanni Paolo II ha riportato tra gli altri il rimprovero a «coloro che in nome di un profetismo poco illuminato, si gettassero nell'avventurosa e utopica costruzione di una "nuova Chiesa" cosiddetta "del futuro", "disincarnata da quella presente"» (Messico 26/01/979); e l'intervento fatto al Sinodo straordinario nel ventennale della chiusura dell'Assise Conciliare (1985): «Il Concilio deve essere compreso in continuità della grande Tradizione della Chiesa. [...] . La Chiesa è la medesima in tutti i Concili».28 Ha ricordato poi che l'attuale Papa ha sempre insistito sulla continuità tra il Vaticano II e la tradizione ecclesiale, anche nei suoi punti innovativi e ha concluso che: «non vi è cambiamento sostanziale di rotta tra Ratzinger giovane perito conciliare e Ratzinger anziano Prelato di Curia e Pontefice». L'articolo termina con la sfida: «Sia Montini che Woytjla e Ratzinger . . hanno introdotto, durante l'assise conciliare, le novità dell'unica fonte di rivelazione, della 'collegialità' episcopale, della 'libertà' delle false religioni, della proto-riforma liturgica, e poi hanno asserito, ma non provato, che esse sono in continuità e non in rottura con la Tradizione apostolica». A conferma l'editoriale lamenta che dopo tre anni la richiesta del teologo Brunero Gherardini «di correggere le novità» del Concilio, «la risposta di Benedetto XVI non è venuta, anzi egli ha rinnovato il suo appoggio incondizionato alla teologia del Vaticano II».29

Accuse analoghe al Papa vengono riprese e sviluppate nel numero 630 tutto dedicato al riassunto di un altro volume di Gherardini: Quaecunque dixero vobis: arola di Dio e tradizione a confronto con la storia e la teologia.31 L'anonimo recensore ricorda che il libro «cita vari discorsi fatti da Ratzinger, teologo, vescovo, cardinale e Papa, sulla continuità tra Vaticano II e Tradizione». Questo sarebbe «il filo conduttore del suo pensiero teologico, secondo il quale «difendere oggi la vera Tradizione della Chiesa significa difendere il Concilio» ed ancora: «la difesa della Tradizione è la difesa del Concilio». Parole chiare, commenta Gherardini, per esprimere un pensiero altrettanto chiaro: «se vuoi professare la secolare fede della Chiesa, devi professare, oppure basta che tu professi, la Fede del Vaticano II». Stando così le cose, il problema dell'obbligatorietà del Vaticano II nemmeno si pone per Benedetto XVI. Il Concilio, secondo lui, è necessario per essere cattolici».32

Nello stesso mese di marzo Gherardini ha pubblicato un nuovo libro,33 dove con chiarezza egli abbozza il discorso da fare sulle carenze del Concilio Vaticano II e sulle urgenti modifiche da apportarvi. Nel suo libro precedente aveva chiesto che «si ponesse fine alla [...] acritica celebrazione [del Concilio] e [che] si sottoponessero i suoi documenti ad un'analisi finalmente libera dall'apriorismo celebrativo ad ogni costo»34 per individuare i punti nei quali il Concilio si discosta dalla Tradizione. Ma il discorso «su natura e limiti del Vaticano II» da parte di coloro che avrebbero dovuto svilupparlo è completamente mancato!35 «A onor del vero [aggiunge] debbo riconoscere che da qualcuno la mia proposta è stata presa sul serio. [...] La Fraternità san Pio X non solo ha, nel suo complesso, positivamente salutato la comparsa del mio discorso da fare, ma ad esso ha dato subito inizio: da un discorso a un dibattito. [...] Chiedevo non che si andasse in una o in un'altra direzione, ma che si discutesse. La Fraternità san Pio X l'ha capito e ha risposto. Prescindo dalle sue valutazioni e dico: grazie! ».36

6. La fedeltà del Concilio alla tradizione

La fedeltà dinamica oggi necessaria in relazione al Concilio Vaticano II è la stessa fedeltà che il Concilio ha esercitato nei confronti del passato ecclesiale e quindi della Tradizione. Ora da più parti questa fedeltà viene contestata in base al criterio di una continuità intesa in senso ripetitivo e statico, come se la chiesa non fosse animata dallo Spirito che la guida alla verità tutta intera (Gv 16, 13). Un segno evidente di questa resistenza aperta al Concilio in nome della tradizione è il fatto che due case editrici italiane nel 2009 hanno ripubblicato con prefazioni autorevoli un volume di Romano Amerio (1905-1997) nel quale questa convinzione è stata argomentata in modo ampio e dettagliato. Mi riferisco al libro Jota unum pubblicato dal noto filosofo di Lugano nel 1985 e ristampato ora sia dalla editrice Fede e cultura di Verona (cito da questa edizione) che dalle edizioni Lindau di Torino.37 Quest'ultima ha pure ristampato Stat veritas l'altro scritto di Amerio apparso postumo nel 1997 e considerato il seguito del primo. Jota unum, tradotto nel frattempo in sei lingue, viene presentato «come il massimo contributo all'individuazione della crisi della Chiesa nell'ultimo secolo e alla conservazione della grande tradizione filosofica tomistica», «il segreto ispiratore dell'enciclica papale Charitas in Veritate».38 Brunero Gherardini ha presentato le due edizioni con una recensione molto elogiativa nella rivista che egli dirige,39 mentre ha avanzato forti riserve nei confronti di una Nota orientativa che l'editore veronese ha chiesto al teologo domenicano Giovanni Cavalcoli.40 Questi infatti dopo generosi e convinti elogi per «l'opera monumentale nella quale l'illustre autore denuncia le gravi deviazioni e i mutamenti ingiustificati per non dire eretici [...] avvenuti nella teologia postconciliare», elenca sei critiche relative alla interpretazione di Amerio nei confronti del Concilio, concludendo che egli «non pare vedere sufficientemente il Concilio come esimio testimone di quella sacra Tradizione che giustamente gli sta a cuore».41 Gherardini invece pensa che «tutto dell'Amerio potrà dirsi tranne che non abbia capito il Vaticano II».42 Egli infatti concorda con Amerio che «alcuni punti chiave» del Concilio (cita Lumen Gentium, Unitatis redintegratio, Gaudium et Spes, Nostra aetate e Dignitatis humanae) «vanno nella direzione della novità e non della Tradizione».43 Considera perciò «un evento molto significativo questa nuova duplice edizione» perché avrebbe «riproposto all'interesse della coscienza cattolica italiana. ., profondamente turbata da una situazione ecclesiale che ha assorbito e metabolizzato cinquant'anni di supina acquiescenza, la ragione vera delle variazioni e la strada maestra del ritorno alla normalità».44 La «supina acquiescenza» corrisponde a quella che altrove egli stesso aveva definita «la voce dei ripetitori: «la magna comitante caterva» di chi riecheggia sempre, s'uniforma sempre», per cui «fin ad oggi s'è dato vita soltanto ad una grandiosa ininterrotta celebrazione» del Concilio «con una insistenza tale da legittimare l'impressione, se non il sospetto, d'un intento esclusivo».45

Il Vescovo di S. Marino Montefeltro, mons. Luigi Negri, che ha scritto la prefazione all'edizione di Verona,46 tenta con generosa devozione dovuta al suo «indimenticabile maestro»47 di ricondurre l'opera a quella «ermeneutica della continuità (contro l'ermeneutica della rottura) »48 a cui ha fatto riferimento Benedetto XVI nel noto discorso alla Curia del 22 dicembre 2005 di cui un brano è riportato in nota.49 La citazione è pertinente ma occorre osservare che mentre il Papa parla dell'ermeneutica della riforma che declina insieme continuità e novità a volte anche sostanziale, Amerio richiede una fedeltà di contenuti con la Tradizione. Per il Papa la continuità non si attua sempre nei contenuti dottrinali in quanto tali e quindi nelle convinzioni delle persone, ma nel cammino dell'unico soggetto che è la chiesa, alla quale appartengono sia Pio IX quando scrivendo il Sillabo, condannava la libertà di coscienza, sia Paolo VI quando firmava con tutti i Vescovi la dichiarazione Dignitatis humanae che presentava come una conquista positiva della modernità. Sicché mentre il Papa considera positivamente le decisioni del Concilio, Amerio vede in alcune novità postconciliari «una variazione di fondo», «una corruzione», «una trasmutazione catastrofale»,50 una deviazione nei confronti della Tradizione. Giustamente il Card. Dario Castrillón Hoyos nella presentazione dell'edizione Lindau scrive: «non bisogna scandalizzarsi di fronte ai cambiamenti. La Chiesa non cambia soltanto perché i suoi pastori la guidano verso nuovi cammini, ma anche perché lo Spirito che respira in essa la spinge verso una trasformazione costante nel cammino verso il Regno».51 Si direbbe che Amerio conosce l'azione del Verbo, ma non dello Spirito. Credo che sia opportuno precisare questa sostanziale differenza e i suoi presupposti.

7. Differenze e Presupposti

Il Papa vede la continuità nell'unico soggetto che è la Chiesa in cammino nella storia, Amerio esige la continuità nei pensieri degli uomini, nelle convinzione dei fedeli, nei contenuti dottrinali. Questo modo di pensare ha presupposti molto radicati nella cultura del passato sia di carattere filosofico, storico e teologico. Il Papa si riferisce alla continuità storica, Amerio alla continuità delle "essenze" conosciute attraverso la fede. Dal punto di vista filosofico considera assolute le acquisizioni della conoscenza umana. Dal punto di vista storico suppone che nel passato la Chiesa non abbia mai commesso errori dottrinali o non abbia compiuto scelte pastorali sbagliate, sicché non potrebbero esserci cambiamenti. Dal punto di vista teologico suppone che le affermazioni contenute nei documenti ecclesiali dei secoli scorsi, anche se esatte rispetto alle conoscenze allora possibili, non possano subire cambiamenti anche sostanziali e inoltre che i documenti dei secoli scorsi (concili, encicliche, decisioni delle Congregazioni romane, discorsi pontifici ecc.) abbiano tutti lo stesso valore e debbano perciò essere considerati norma di verità assolute. In questa prospettiva, la Tradizione non può costituire, come spesso è accaduto nella storia della Chiesa, un ponte di lancio verso quelle novità di vita e di dottrina che caratterizzano la trama della vita ecclesiale.

Ora queste tre supposizioni di Amerio sono contestabili. È certo che più volte la chiesa cattolica ha commesso errori non solo pratici ma anche dottrinali affermando come verità opinioni apparse poi errate. Inoltre è pacifico che molte affermazioni contenute anche in documenti autorevoli sono riformabili, perché non tutti i documenti della S. Sede hanno un valore assoluto.

Non contesto perciò il diritto di mettere in luce le carenze dei recenti documenti conciliari. Ma ciò che deve essere contestato è il richiamo alla tradizione come assoluta norma di valutazione del Concilio, come se i Padri Conciliari non avessero l'autorità di modificare anche sostanzialmente decisioni pratiche o affermazioni dottrinali dei secoli scorsi.

Nell'ultimo Concilio ci sono novità, ma esse sono legittime perché correggono errori del passato, sviluppano in modo inatteso le virtualità di asserti acquisiti, e aprono modalità nuove di leggere gli eventi salvifici. La verità rivelata non coincide con le interpretazioni che degli eventi salvifici sono state date lungo i secoli. La verità è più grande dei pensieri umani ed è sempre da ricercare con la certezza che essa sta solida e chiama gli uomini a scoprirla in forme più ricche e profonde.

8. Ecumenismo cristiano: il cammino suscitato dallo Spirito

Come esempio considero «la variazione nel concetto di ecumenismo», che secondo Amerio è «senza dubbio la più significativa che si sia prodotta nel sistema cattolico dopo il Vaticano II».52 In questo cambiamento «vi si trovano riuniti tutti i motivi della tentata variazione di fondo che siamo soliti stringere nella formula perdita delle essenze».53 Egli contrappone «la variazione conciliare» alla Istruzione emanata dal S. Uffizio il 20 dicembre 1949 «la quale riprende l'insegnamento di Pio XI nell'Enciclica Mortalium animos».54 Ora il cambiamento è reale e corregge una posizione che nel passato poteva essere giustificata, ma che sarebbe diventata un grave errore se pertinacemente perseguita. Le circostanze avevano messo in luce i frutti positivi ai quali il dialogo poteva condurre. In questo caso vale ciò che in generale afferma il Card. Hoyos «il Concilio diede spazio a molte di quelle correnti che stavano trasformando la Chiesa! .55

Amerio suppone che la conoscenza della verità non ammetta crescita qualitativa ma solo quantitativa. Egli ammette che «nessun ente finito è perfettamente, cioè quanto è possibile essere. Nessuna cosa è conoscibile perfettamente, cioè quanto è conoscibile; e nessuna è esprimibile perfettamente, cioè quanto è esprimibile».56 Ma poi procede come se ogni conoscenza nell'ambito della fede possa essere così perfetta da essere irreformabile.

Si potrebbe obiettare che questa storicità del dogma, che si adatta, degrada la religione verso l'umano. L'obiezione non regge. Il Principio primo del cattolicesimo è la degradazione o condiscendenza o umiliazione del Verbo nella storia e questa degradazione non intacca il divino ma lo fa discendere al grado della storia manifestandolo. È soltanto la preservazione del tipo e la continuità del principio che assicura l'identità storica del cattolicismo.57

Egli ammette che anche i teologi innovatori «sono obbligati a sostenere in qualche modo la continuità storica della Chiesa».58 Ma per sostenere questo debbono ricorrere alla categoria della modalità. Si sostiene che «sia soltanto un modo nuovo dell'identica religione, anziché il transito a una quiddità eterogenea, implicante corruzione e perdizione della prima».59

Amerio sembra essere guidato da due presupposti filosofici e due teologici. Il primo, filosofico, è che le essenze sono immutabili e il secondo è che l'uomo è in grado di conoscere immediatamente e senza errori l'essenza delle cose. Il primo presupposto teologico è che la Chiesa può conoscere immediatamente e senza errori la verità rivelata e il secondo che tutti i documenti ecclesiali sono esatti e non contengono errori per cui non possono essere corretti. La visione essenzialista di Amerio non tiene conto del fattore tempo sia nel divenire della realtà sia nella conoscenza che l'uomo ne può avere e quindi nel cammino della chiesa.

In realtà il decreto conciliare ha costituito il traguardo di un lungo cammino condotto nel silenzio della preghiera e nella fraternità del dialogo da parte di molti fedeli profetici. Rappresenta perciò una novità fiorita all'interno della chiesa stessa come opera riformatrice dello Spirito. Il Concilio infatti parte dalla convinzione che la chiesa peregrinante ha sempre bisogno di una «continua riforma», così che «se alcune cose, sia nei costumi che nella disciplina ecclesiastica e anche nel modo di esporre la dottrina. . sono state, secondo le circostanze di fatto e di tempo, osservate meno accuratamente, siano in tempo opportuno rimesse nel giusto e debito ordine».60 A questo scopo ha invitato i cattolici a iniziare «con vigore l'opera di rinnovamento e di riforma»61 consapevoli che «devono essi stessi con sincerità e diligenza considerare ciò che deve essere rinnovato e fatto nella stessa famiglia cattolica, affinché la sua vita renda una testimonianza più fedele e più chiara della dottrina e delle istituzioni tramandate da Cristo per mezzo degli Apostoli».62 Per questo il Concilio ha esortato «tutti i fedeli cattolici perché, riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con slancio all'opera ecumenica».63

Un primo punto della necessaria riforma riguardava proprio il modo di concepire l'ecumenismo. Fino agli anni '50 la posizione ufficiale della Chiesa cattolica considerava come unico scopo del movimento ecumenico il ritorno delle altre comunità cristiane nelle proprie strutture e quindi proibiva ogni dialogo che non si proponesse questa finalità. Era un atteggiamento che risaliva ai momenti drammatici delle rotture, che portava il segno delle contrapposizioni per il potere rinnovatesi nei secoli e che si trascinava stancamente con la ripetizione di formule polemiche. Pio IX, ad esempio, con la lettera enciclica In suprema Petri apostoli sede (6 gennaio 1848) aveva rivolto un invito «ai seguaci delle Chiese d'Oriente» perché tornassero all'unità con la Chiesa di Roma. Egli ottenne risposte negative da parte dei Patriarchi orientali (Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, Gerusalemme) i quali, accusando di eresia Pio IX, si auguravano piuttosto che egli si convertisse «all'autentica Chiesa cattolica, apostolica, ortodossa». Nel 1894 (20 giugno) Leone XIII nella lettera Preclara Gratulationis rinnovò agli Orientali l'appello al ritorno. Antimo VII, Patriarca di Costantinopoli, rispose che l'unica possibile unità doveva fondarsi sulla fede della chiesa indivisa dei primi secoli. Da parte sua il Papa con il Breve Provvida Matris charitate (5 maggio 1895) invitava i cattolici a pregare durante la novena di Pentecoste per l'unione dei dissidenti con la Cattedra di Pietro.

Il Codice di Diritto Canonico pubblicato da Pio X nel 1917 proibiva ai fedeli cattolici di partecipare a dispute o incontri, specialmente pubblici, con i non cattolici, senza l'autorizzazione della Sede Apostolica o, in casi urgenti, dell'Ordinario del luogo.64 Pio XI nell'Enciclica Mortalium animos ricordava i motivi «del permanente divieto posto da questa Sede Apostolica ai fedeli di partecipare a riunioni degli acattolici». Egli ripeteva che l'unico modo possibile di favorire l'unità dei cristiani era quello «di agevolare il ritorno dei dissidenti alla unica vera Chiesa di Cristo, a tutti ben nota e, per volontà del proprio fondatore, destinata a rimaner in eterno tale come Egli la istituì per la comune salvezza di tutti». Concludeva, perciò con la perorazione: «Tornino dunque i Nostri figli dissidenti alla Sede Apostolica, posta nell'Urbe che i principi degli apostoli, Pietro e Paolo, consacrarono col loro sangue, alla Sede 'radice e matrice della Chiesa cattolica' (S. Cypr., Ep. 48 ad Cornelium, 3), non già con l'idea o la speranza che la 'Chiesa del Dio vivo, colonna e fondamento della verità' (1 Tim. 3, 15) faccia getto dell'integrità della fede per tollerare i loro errori, ma per sottomettersi al suo magistero e governo».65

Nel frattempo però anche all'interno della Chiesa cattolica un movimento per l'unità dei cristiani si sviluppava lentamente con spirito diverso. Monaci e teologi profetici diffusero stili di fraternità e promossero iniziative di riflessione comune e di preghiera per l'unità dei cristiani. Il Cardinale di Bruxelles Désiré Mercier (1851-1926) approvò e sostenne l'istituto dei Monaci dell'Unione fondato nel 1925 dal benedettino belga Lambert Beauduin ad Amay-sur-Meuse (trasferitosi nel 1929 a Chevetogne) per promuovere la riconciliazione con le chiese d'Oriente. Lo stesso Cardinale dal 1921 al 1925 accolse e rese ufficiali i colloqui di Malines già avviati tra Lord Halifax e l'abbé Portal per il ristabilimento della comunione tra la chiesa cattolica e la chiesa anglicana. Notevole influsso poi ebbe l'azione del sacerdote di Lione Paul Couturier (1881-1956). Nel 1935 egli ridiede slancio alla "Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani" (18-25 gennaio, già iniziata nel 1908 dall'anglicano poi divenuto cattolico rev. Paul Wattson). Couturier ne precisò le ragioni con la formula «preghiera per l'unità voluta da Cristo, con i mezzi voluti da lui» formula che consentiva il superamento della prospettiva del puro ritorno alla Chiesa cattolica dei separati e favoriva il coinvolgimento orante di tutti i cristiani. Dal 1937 in avanti Couturier raccolse un gruppo di amici e di teologi cattolici e protestanti nella Trappa di Notre Dâme di Dombes per riflettere su temi dottrinali e pratici. Il gruppo continua tuttora il lavoro con la pubblicazione di documenti concordati insieme. Nel 1940, alla questione posta dal dott. William Temple, allora arcivescovo di Canterbury e presidente del Comitato provvisorio per il Consiglio ecumenico delle Chiese, sulla possibilità della collaborazione della chiesa cattolica, la delegazione apostolica in Gran Bretagna, rispondeva che sarebbero stati permessi solo contatti privati tra teologi della struttura ecumenica e teologi cattolici. Qualche altro spiraglio di apertura da parte delle autorità vaticane si ebbe con la istruzione del Sant'Uffizio Ecclesia Catholica.66 Vi si giudicava positivamente il movimento ecumenico, presentandolo come frutto dell'ispirazione dello Spirito Santo e si permetteva a «esperti cattolici, autorizzati dal proprio vescovo» di affrontare questioni di fede e morale con cristiani delle altre confessioni. In seguito a questa indicazione due teologi olandesi (G. Willebrands e F. Thijssen) con l'approvazione di Roma e con il concorso di altri teologi fondarono una Conferenza cattolica per le questioni ecumeniche che dal 1952 al 1963 raccolse 70/80 teologi europei in nove sessioni di studio su questioni dottrinali e pratiche. Essa, dopo l'annuncio del Concilio, inviò (15 giugno 1959) a molti Vescovi e teologi e successivamente a tutti i Padri conciliari, una Nota sul ripristino dell'unità cristiana in occasione del prossimo concilio. Molti membri della stessa Conferenza confluirono poi nel Segretariato per l'Unità dei cristiani costituito da Giovanni XXIII (5 giugno 1960) in vista dei lavori conciliari. All'inizio della preparazione del Concilio il Sant'Uffizio riteneva di avere l'esclusiva per le questioni ecumeniche e considerava il Segretariato per l'unità dei cristiani un semplice ufficio informativo a beneficio dei non cattolici invitati al Concilio. Lo sviluppo dei lavori, attraverso le Commissioni miste, mostrò, invece, quali ricchezze spirituali e dottrinali potevano confluire nei testi conciliari dalle esperienze di dialogo e di amicizia fraterna condotte avanti dagli esperti del Segretariato.

L'adesione perciò del Vaticano II al movimento ecumenico ha costituito la conclusione di un lento cammino perseguito da tempo nella Chiesa cattolica per ricuperare l'atteggiamento di apertura alle molteplici realtà spirituali e dottrinali presenti nelle varie comunità cristiane. Esso caratterizzava fin dall'inizio la via intrapresa dai primi discepoli di Gesù. Si è trattato perciò di una continuità dottrinale di riforma, compiuta attingendo a valori originari lungamente trascurati, per correggere errori secolari, curare ferite aperte dagli egoismi umani, annullare contrapposizioni nate da volontà di potere degli uni sugli altri, e rispondere con fedeltà alle molteplici sollecitazioni dello Spirito.

9. Teologi conciliari

Alcuni hanno scelto la tattica di criticare in nome del Concilio i "teologi conciliari", quelli cioè che hanno dato un contributo fondamentale alla redazione dei suoi documenti e hanno poi segnato lo sviluppo della teologia postconciliare. Significativo in particolare è l'accanimento con cui in alcuni ambienti ecclesiali si rilevano gli errori di Karl Rahner (1900-1984). Nel 2009 sono stati pubblicati gli Atti di un Convegno di studi organizzato a Firenze nel 2007 dai Francescani dell'Immacolata Mediatrice (fondati nel 1970), per svolgere un'analisi critica del suo pensiero.67 L'intenzione del convegno era contrastare il «cosiddetto 'spirito del Concilio', che funestamente ha preteso di ergersi come maestro di una nuova chiesa, scevra di grossolanità tradizionali e sbocciante da una nuova architettura teologica».68 Gli undici teologi relatori hanno inteso mostrare quanto l'orientamento soggettivista di Karl Rahner «sia vicino a quel continuo effondersi dello 'spirito del Concilio', fino a travisarne i contenuti». Rahner infatti a loro giudizio «non ha giocato un ruolo marginale in questo impasse storico-critico contemporaneo».69 Nella stessa prospettiva il domenicano Giovanni Cavalcoli, uno dei relatori del convegno70 ha pubblicato un intero volume sul tradimento del Concilio imputato all'influsso del teologo tedesco: Karl Rahner. Il Concilio tradito.71 Nella stessa collana è apparso anche un libro di Brunero Gherardini (altro relatore al Convegno di Firenze) dal titolo emblematico Ecumene tradita.72 I periodici dei tradizionalisti, come Si, si No, no (15 e 30 novembre 2009), citano con compiacenza questi scritti e sviluppano ampie riflessioni sui "periti conciliari", divenuti "cattivi interpreti" del Vaticano II.

10. Continuità e rottura: Chiesa e salvezza

Gli episodi richiamati sono circoscritti, ma la posta in gioco è di portata più generale. Riguarda infatti la continuità della vita di fede nella varietà delle dottrine e nei cambiamenti profondi che esse subiscono lungo i secoli. Un esempio molto chiaro di queste acquisizioni è l'uso della formula «fuori della chiesa nessuna salvezza». Il Concilio di Firenze nella Bolla Cantate Domino (4 febbraio 1442) ha scritto: «quelli che si trovano fuori della Chiesa cattolica, non soltanto i pagani, ma anche ebrei o eretici e scismatici, non possono prendere parte alla vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli (Mt 25, 41), a meno che alla fine della vita non siano stati aggregati ad essa». E ha precisato: «Nessuno può salvarsi, per quanto gradi possano essere le sue elemosine, anche se versa il sangue in nome di Cristo, se non ha dimorato nel seno e nell'unità della Chiesa cattolica».73 L'affermazione è fondata sulla convinzione che Cristo è l'unico mediatore della salvezza e che la chiesa è il suo prolungamento nei secoli. Essa, infatti «crede fermamente, professa e insegna che mai uno concepito da uomo e da donna è stato liberato dal dominio del demonio, se non per la fede nel mediatore tra Dio e gli uomini Gesù Cristo nostro Signore».74 Ciò vale anche per gli ebrei poiché le leggi mosaiche e le prescrizioni della tradizione ebraica «dopo la proclamazione del Vangelo non possono più essere osservate, pena la perdita della salvezza eterna». Occorre quindi considerare «esclusi dalla vita eterna, salvo che si pentano dei loro errori, tutti quelli che, dopo quel tempo, osservano la circoncisione, il sabato e le altre prescrizioni legali».75

A distanza di 522 anni il Concilio Vaticano II ha dichiarato: «quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e con l'aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna».76 Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes (7 dicembre 1965) lo stesso Concilio ha detto: «dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti [gli uomini] la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale».77

I due Concili come si vede parlano un linguaggio molto diverso e trasmettono messaggi discordanti.

A questo proposito il teologo spagnolo José Maria Castillo osserva che mentre in un primo momento la fede in Cristo veniva considerata via di salvezza per tutti coloro che la esercitavano, con il passare del tempo si è verificata una progressiva restrizione. La Chiesa ha cominciato a presentare se stessa quale arca di salvezza in modo da escludere tutti gli eretici. In seguito la Chiesa cattolica ha rivendicato l'esclusività della salvezza di fronte agli scismatici orientali. Infine un Papa ha potuto assumersi la responsabilità della salvezza di tutti quando, «nel concilio romano del 18 novembre 1302», Bonifacio VIII «arrivò a formulare solennemente la definizione del potere universale del Romano Pontefice in termini di dominio assoluto: 'dichiariamo, affermiamo e definiamo che sottomettersi al Romano Pontefice è completamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana'».78 Il teologo commenta: «questo assolutismo del potere papale, a giudizio di Bonifacio VIII, ha la sua ragion d'essere nella volontà di Dio [...]: il papa possiede e usa un potere così assoluto perché è Dio onnipotente che vuole che così sia».79

Ora i documenti ecclesiali sono molto più prudenti. Nel frattempo l'estensione progressiva dell'azione pastorale ha richiesto alla Chiesa cattolica un ampliamento delle strutture centrali. Esse in un periodo nel quale l'umanità comincia a vivere a livello planetario, costituiscono certamente un grande beneficio e possono essere considerate quali doni dello Spirito. A condizione però che siano animate da una vera sensibilità universale, che sappiano cioè riconoscere l'azione di Dio ovunque si esprime e sappiano accogliere le novità suscitate dallo Spirito ovunque fioriscono. Attitudine che tutto il popolo deve alimentare.

Il gesuita francese Bernard Sesboüé, nel volume Fuori della chiesa nessuna salvezza80 sostiene che la formula, sorta «verso la metà del III secolo»81 per censurare coloro che coscientemente avevano abbandonato la Chiesa, «dall'epoca patristica e nel corso del Medioevo» ha acquisito un «senso sempre più assoluto», ed è stata estesa anche «a quelli che non le erano mai appartenuti»82 fino a presentarla «come un dogma e come una parola infallibile».83 Oggi, «in un movimento di conversione, la Chiesa riconosce i suoi torti nei confronti degli altri e [...] ha rinunciato a impiegar [la] ».84 A chi preferisce passare sotto silenzio il cambiamento e il fatto che dopo il Vaticano II «la formula non ha più valore», egli risponde che: «essa figura sempre nella raccolta del Denzinger come formula ufficiale della Chiesa cattolica. Essa dimora sempre nelle coscienze e, quando la si evoca davanti ai migliori cristiani, essa provoca disagio e incomprensione».85 Sesboüé perciò propone «che una dichiarazione ufficiale venga a esprimere non un pentimento, ma una presa di distanza in rapporto al detto antico e dica come oggi lo recepisce e dunque lo traduce e lo converte. Sarebbe un bell'esempio di interpretazione attualizzante».86

Un analogo documentato studio sulla storia della formula è stato pubblicato dal teologo bresciano Giacomo Canobbio.87 Egli «sostiene la possibilità per i singoli di salvarsi anche la di fuori della chiesa, ma afferma la necessità della chiesa perché l'umanità nella sua totalità abbia la piena conoscenza e la speranza della salvezza. Senza la chiesa non si avrebbe nella storia la certificazione che Dio vuole condurre tutti alla comunione con sé e non si avrebbe il simbolo efficace di tale comunione».88 Per cui Dio «sebbene sia sommamente libero di raggiungere le [singole] persone umane per vie solo a lui note, 'ha bisogno della chiesa', poiché egli l'ha posta nella storia come il segno e lo strumento della sua volontà salvifica universale».89 Questo modo di intendere l'assioma consente di mantenerlo in uso, a condizione che lo si legga, «all'interno dell'affermazione della libertà di Dio rispetto ai mezzi da lui stabiliti per la salvezza dell'umanità».90 Egli, partendo dalla distinzione tra singoli e umanità nel suo complesso termina il libro con l'interrogativo: «Non si potrebbe pensare che la misteriosa relazione dei singoli salvati con la chiesa sia mediata dall'umanità, cui essi appartengono, che è/sarà salvata (escatologicamente) mediate la chiesa? ».91

11. Lo stesso soggetto ecclesiale in cammino

Il problema dei cambiamenti dottrinali e pastorali nella Chiesa è giunto al pettine della coscienza critica di ambiti ecclesiali sempre più estesi. Nei secoli scorsi aveva interessato molti studiosi di storia, una minoranza di teologi e qualche vescovo illuminato. Ora si sta estendendo a tutta la comunità cattolica per due ragioni fondamentali. La prima è il ritmo veloce dei processi culturali: i modelli mentali cambiano a ritmi molto più frequenti che in altri secoli e una generazione può fare esperienza diretta della mutazione. La seconda ragione è l'ampiezza e la diffusione delle ricerche storiche per cui i dati relativi ai cambiamenti delle dottrine lungo i secoli sono molto più abbondanti e la loro conoscenza non è limitata esclusivamente agli specialisti ma può attingere facilmente tutti.

Nello stesso tempo la coscienza storica ha diffuso la convinzione che la Chiesa nel proporre le verità di fede lo fa in modo imperfetto e limitato, prospettico e inadeguato. Essa può commettere errori e con il peccato può resistere allo Spirito.

Sesboüé conclude lo studio citato sulla formula relativa alla salvezza nella chiesa chiedendosi: «perché impiegare tante sottigliezze, mettere in conto tanti parametri per comprendere una formula apparentemente assai semplice e che alla fine rimane scioccante ai nostri occhi? La preoccupazione della giustificazione della continuità non è esagerata rispetto alle rotture evidenti? Non sarebbe più semplice e più onesto dire: la Chiesa per tanti secoli si è sbagliata rendendo indebitamente universale la portata della sua formula? ».92

Di fronte a questi legittimi interrogativi credo sia opportuno riprendere la riflessione sulla continuità nella fede, stabilita dallo stesso soggetto guidato dallo Spirito verso la Verità tutta intera (Gv. 16, 13) in un faticoso cammino, o fedeltà dinamica, includente momenti di deviazione e di ripresa, di peccato e pentimento.

Il problema sta quindi nella legittimità dei cambiamenti nella Chiesa. Che cosa costituisce la fedeltà della Chiesa nel cammino di testimonianza del Vangelo? Il permanere delle identiche dottrine o il riferimento agli stessi eventi salvifici e quindi l'accoglienza continua dell'azione divina che la conduce verso la verità?

12. La continuità del cammino ecclesiale

Le valutazioni relative alla continuità della Tradizione e le richieste di una revisione del Concilio sono fondate su alcuni presupposti teologici erronei e su alcune ambiguità che è opportuno chiarire.

Il primo errore riguarda il concetto di Tradizione e di novità dottrinale. I tradizionalisti mostrano di ritenere che il contenuto della Tradizione consista in "dottrine" e "pratiche" che dovrebbero rimanere identiche lungo i secoli. Essi citano spesso la formula di un monaco del V secolo Vincenzo da Lérins (morto verso il 450) il quale ha indicato come criterio di cattolicità: «ciò che sempre, in ogni luogo e da tutti è stato creduto».93 Seguendo questo criterio Gherardini espone con chiarezza la revisione che si attendeva dalle autorità ecclesiali e alla quale cerca ora di supplire. Essa riguarda in particolare la Costituzione Pastorale,94 la Costituzione sulla Rivelazione,95 la Costituzione sulla Chiesa, le Dichiarazioni sull'Ecumenismo, sulle religioni non cristiane e sulla libertà religiosa.96 Non è possibile ora esaminare i diversi punti. Voglio solo mostrare l'incongruenza della continuità di credenze e di pratiche come criterio di cattolicità.

Se questo fosse il criterio nessuno potrebbe dichiararsi cattolico perché è impossibile che anche una sola verità di fede sia stata creduta da tutti, ovunque e sempre allo stesso modo. Anche limitando l'analisi ad un solo periodo storico se si esaminano le convinzioni dei cattolici su Dio, Cristo, l'Eucaristia, il peccato ecc. si troverebbero opinioni diversissime. Ma le varie modalità di pensiero non impediscono lo stesso cammino di salvezza, né precludono l'appartenenza alla stessa comunità di fede. Il cammino di salvezza non è determinato dal modo di pensare ma dall'esercizio delle virtù teologali: l'abbandono fiducioso in Dio nell'ascolto della sua Parola, nell'attesa del suo Spirito e nella apertura a quella forza arcana «per cui tutti vivono» (cfr. Lc. 20, 38). In questa prospettiva l'educazione alla fede non consiste primariamente nella trasmissione di idee o di dottrine, ma nell'inserimento in una comunità di fede che cammina nella storia e alimenta la crescita personale fino ad assumere il «nome scritto nei cieli» (cfr. Lc. 10, 20). La Tradizione perciò non ha come oggetto primario dottrine da credere, bensì, ambienti vitali da costruire, esperienze da vivere, doni spirituali da consegnare. Dalle dinamiche comunitarie emergeranno convinzioni vitali che si diffonderanno per contagio. Trasformeranno la visione del mondo e della storia.

All'erronea pretesa della identica dottrina lungo i secoli è legata anche l'inadeguatezza del concetto di Rivelazione. Essa viene intesa come comunicazione di dottrine o infusione di idee da parte di Dio mentre in realtà la Rivelazione consiste nell'acquisizione di verità vitali per il coinvolgimento negli eventi di salvezza, attraverso i quali Dio conduce il suo popolo al traguardo definitivo. Le verità di fede, così, emergono dall'esperienza salvifica compiuta nella storia, sostenuta dall'azione dello Spirito, che guida «alla verità tutta intera» (Gv. 16, 13). Il cammino si svolge attraverso le tortuose vie della fedeltà umana, a piccoli passi, in modo spesso frammentario e provvisorio.

Gherardini riconosce che il Papa propone «la linea ermeneutica» «della continuità nella riforma»97 per cui secondo l'autentico «spirito conciliare» vede nella Chiesa «solo 'continuità' in una sorta di mai interrotta autoriforma». Per lui, perciò, «l'importanza del Vaticano II» sta nella «dichiarata continuità riformistica».98 A chi stenta a vedervi «i segni del precedente Magistero o non l'accetta affatto perché vede in esso il tradimento della Tradizione, Benedetto XVI l'addita come la sintesi insieme e il contenitore di tutto l'insegnamento conciliare d'oggi e di ieri».99

Dopo questo riconoscimento credo sia chiara la differenza notevole tra l'impossibile continuità dottrinale propugnata dai teologi tradizionalisti e la fedeltà del cammino storico nella riforma della comunità ecclesiale, che già il teologo Ratzinger proponeva e che ora Benedetto XVI insegna. Il punto di divergenza è tutto qui: la continuità non sta nelle idee umane, sempre inadeguate, bensì nell'azione continua di Dio che alimenta il rinnovamento della Chiesa fino al compimento.

Il criterio del monaco Lerinense è di fatto improponibile. Le scienze linguistiche ed ermeneutiche hanno messo in luce che, per il mutare degli orizzonti culturali, i significati delle formule umane cambiano sempre e in modo anche profondo. Per mantenere e trasmettere intatti gli stessi contenuti dottrinali, perciò, è necessario procedere alla loro riformulazione. Del resto nella storia della chiesa non vi è alcuna verità che sia stata ritenuta da tutti, sempre e ovunque allo stesso modo. D'altra parte non sono le idee umane a consentire la permanenza della Chiesa nella verità salvifica, bensì l'azione di Dio che, accolta dalla Chiesa, la fa crescere, introducendo novità di vita e prospettive dottrinali inedite. Il Concilio stesso ha ricordato che il passaggio ad una concezione dinamica ed evolutiva, in atto nella cultura, avrebbe suscitato «una congerie di problemi che avrebbero richiesto nuove analisi e nuove sintesi» (GSp 5). La continuità dottrinale non consiste nella persistenza delle stesse concezioni e delle medesime interpretazioni, bensì nella fedeltà con cui la Chiesa accoglie per la fede le testimonianze del passato, attende per la speranza lo Spirito che conduce alla verità tutta intera e per la carità fa fluire nelle società umane il dono di Dio.

Benedetto XVI nel noto discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ha contrapposto all'ermeneutica della rottura quella «della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino». È la Chiesa il soggetto che permane nella verità salvifica in virtù dell'azione divina mentre mutano le interpretazioni per i cambiamenti della cultura. Analoga argomentazione il Papa ha utilizzato nell'Enciclica Caritas in veritate dove, parlando dello sviluppo della dottrina sociale, si riferisce «alla continuità della vita della Chiesa» e precisa: «Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. [...] Coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta».100 È questa fedeltà dinamica dell'unico soggetto ecclesiale a costituire l'unità del processo storico entro il quale fioriscono continuamente la novità della vita, l'approfondimento dottrinale degli eventi di Rivelazione e le innovazioni delle teologie.

La remissione della scomunica ai Vescovi lefebvriani da parte del Papa (21 gennaio 2009) è stata interpretata da alcuni come una conferma di questa interpretazione del Concilio comune a tutta l'area lefebvriana. Ma nella lettera di chiarimento inviata ai Vescovi cattolici (10 marzo 2009) il Papa afferma senza ombra di equivoci la portata dottrinale del Concilio, ribadisce la necessità della sua accettazione e ne richiama alcuni temi fondamentali. Il Papa afferma che la remissione della scomunica costituisce solo il primo passo, che lascia insoluti i problemi di tipo dottrinale esistenti con la Fraternità S. Pio X: «Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l'accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei papi. [...] Non si può congelare l'autorità magisteriale della Chiesa all'anno 1962: ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità». Conseguentemente il Papa ha dichiarato l'intenzione di sottomettere l'attività della Commissione incaricata di seguire i rapporti con i lefebvriani alla Congregazione per la dottrina della fede. In tale modo: «Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei cardinali al mercoledì e la plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei prefetti di varie congregazioni romane e dei rappresentanti dell'episcopato mondiale nelle decisioni da prendere».

Nello stesso tempo a coloro che interpretano il Concilio Vaticano II in chiave di assoluta novità e di discontinuità il Papa ha ricordato che il Concilio prosegue la lunga storia di fedeltà della Chiesa allo Spirito e non può essere disgiunto dalla tradizione. Scrive: a «coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l'intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l'albero vive».

Il prof. Alberto Melloni che in un primo tempo aveva parlato di «una reticenza complessiva del magistero ratzingheriano verso il Vaticano II, di cui il tempo fornisce continuamente nuove prove»,101 dopo la pubblicazione della lettera scrive: «Benedetto XVI dice di capire che il Vaticano II non è un caso disciplinare su cui far lavorare qualche apprendista del diritto canonico o della disciplina liturgica, ma un vero punto «dottrinale» (sei volte) nel quale è richiesta una comprensione profonda della transizione epocale che il Concilio fu ed è nella e per la Chiesa»102.

Il criterio suggerito da Benedetto XVI nel discorso alla Curia nel 2005 e ripreso nell'enciclica Caritas in veritate, coincide di fatto con quello che Giovanni XXIII in rapporto al compito del Vaticano II aveva chiamato aggiornamento. Il termine riforma, usato da Benedetto XVI, appare oggi più esatto per quegli ambiti della dottrina e della disciplina ecclesiali nei quali è necessaria una correzione di rotta a causa di errori o di ritardi nella riformulazione della dottrina. L'ermeneutica della riforma proposto dal Papa suppone lo sviluppo della stessa vita ecclesiale e insieme le novità nella sua dottrina: «il Concilio costituisce un approfondimento del magistero nella continuità della vita della Chiesa».103 Egli precisa che in questa prospettiva «coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta». La Chiesa propone «un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo» (ib. ). La continuità quindi non riguarda sempre i contenuti dottrinali proposti nei vari documenti, bensì il cammino dell'unico soggetto che è la Chiesa. Già la Commissione teologica internazionale, allora presieduta dal Card. Ratzinger, ha scritto: «l'ortodossia non consiste nel consenso a un sistema, ma nella partecipazione al progredire della fede e così all'io della Chiesa che sussiste, una, attraverso il tempo, e che è il vero soggetto del Credo».104 La Chiesa, guidata dallo Spirito, rimane se stessa mentre percorre il cammino verso la verità tutta intera attraverso scelte storiche a volte imperfette ma sufficienti, con le dovute correzioni, a mantenere la rotta verso la giusta direzione.

A questo punto si impone la domanda: «che cosa costituisce la continuità del soggetto Chiesa nel cammino di fede»? se non sono identiche le dottrine e se cambiano le discipline?

La risposta del Nuovo Testamento è chiara: la vita ecclesiale è costituita dalla continuità storica dalla struttura teologale: fede, speranza agape (cfr. 1 Ts. 1, 3; 1 Cor. 13, 13 e paralleli). La fede è l'accoglienza della Parola divina tradotta negli eventi di salvezza, la speranza è l'attesa dello Spirito, che guida al futuro e l'agape è nel presente la sintonia con l'Azione divina che offre vita da donare ai fratelli. Questa struttura vitale stabilisce la chiesa quale unico soggetto di verità salvifica e continuo strumento di redenzione nel mondo. La pura permanenza della dottrina non è sufficiente a costituire il soggetto ecclesiale come segno efficace di salvezza. È possibile infatti conoscere in modo perfetto tutte le dottrine ecclesiali come si sono sviluppate lungo i secoli e accettarle per motivi diversi, senza esercitare la struttura teologale. Questa solo garantisce la fedeltà alla Parola di Dio e alle sollecitazioni dello Spirito. D'altra parte è possibile crescere nella vita teologale anche quando modelli culturali imperfetti non consentono formulazioni esatte della dottrina di fede.

Ci sono certamente situazioni nelle quali autorità ecclesiali hanno espresso punti di vista diversi, ma tra loro compatibili. Esistono però anche numerosi casi nei quali qualche Papa o la Congregazione per la dottrina della Fede o i Vescovi di qualche nazione hanno sostenuto dottrine apparse poi errate. Sbagliavano, ad esempio, i Vescovi tedeschi quando in un sinodo di Colonia nel 1860, partendo dalla convinzione che «i progenitori furono creati immediatamente da Dio (Gen. 2, 7) », dichiararono «del tutto contraria alle Sacre Scritture e alla fede la sentenza di coloro i quali ardiscono asserire che l'uomo, quanto al corpo, è derivato per spontanea trasformazione da una natura imperfetta, che di continuo migliorò fino a raggiungere l'umana attuale».105 Sbagliava in modo grave Pio IX quando denunciava le numerose «aberrazioni del darwinismo» e lo considerava: «un sistema che la storia, la tradizione di tutti i popoli, la scienza esatta, l'osservazione dei fatti e persino la stessa ragione naturale concordemente rifiutano». Egli era convinto il darwinismo «non avesse bisogno di alcuna confutazione, se la lontananza da Dio e la tendenza al materialismo, frutto della corruzione, non cercasse avidamente un sostegno in questo tessuto di favole».106

Si potrebbero citare molti esempi di questo tipo, ma non sono sufficienti per negare il cammino della Chiesa verso la verità, perché non sono le dottrine degli uomini a costituire la fedeltà della Chiesa bensì l'azione di Dio. Quando essa esercita la sua struttura teologale procede sicura verso la «verità tutta intera» (Gv 16, 13), nonostante momentanee deviazioni. La Parola di Dio attraverso gli eventi salvifici, continuamente rievocati e meditati, emerge in significati sempre nuovi, il suo Spirito attraverso esperienze di comunità profetiche apre orizzonti inediti al cammino ecclesiale, nonostante le interpretazioni sempre provvisorie delle formule umane.

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Note

  1. Rouquette, La fin d'une chrétienté. Chroniques I (Unam Sanctam, 69a), Paris, Cerf, 1968, 259. Rouquette aveva espresso questa convinzione nelle cronache del Concilio pubblicate nella rivista dei Gesuiti francesi Études 96/316 (1963) 04 in cui dal 1957 teneva la rubrica di attualità religiosa. Testo

  2. Küng H., Il concilio dimenticato, in Concilium 41 (2005) 4 p 139-151 qui 151. Testo

  3. Chenu M. D. La fin de l'ére constantinienne, in Un concile pour notre temps, Paris, Cerf, 1961, 59-87. Cfr. Zamagni G., Fine dell'era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, Il Mulino, Bologna 2012. Testo

  4. Cfr. AA.VV., (Bottoni G., a cura) Fine della cristianità. Il cristianesimo tra religione civile e testimonianza evangelica, Il Mulino, Bologna 2003. Testo

  5. La formula originaria del Papa era considerata modernista, accusa questa rivolta a Roncalli fin dagli anni giovanili secondo un dossier che era conservato al S. Uffizio, e che il Papa volle vedere. Testo

  6. Commonitorium, IV,2,5. Questo monaco (+ 450 circa) in polemica con Agostino sul tema della grazia e intento a «scoprire le frodi ed evitare i lacci degli eretici» ha formulato un principio della tradizione: «id teneamus quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est" (teniamo ciò che sempre, da tutti e ovunque è stato creduto) e ha indicato come criterio la continuità dei significati: «eodem tamen sensu, eademque sententia» (conservando lo stesso senso e la stessa portata). Testo

  7. Melloni A., Papa Giovanni. Un cristiano e il suo Concilio, Einaudi, Torino 2009, 301 n. 5. Testo

  8. Melloni A., Papa Giovanni, 283. Testo

  9. Melloni, ib. 283 n. 131. Testo

  10. Melloni A., Ruggieri G. Introduzione a AA. VV. Chi ha paura del Concilio?, Carocci, Roma 2009, 9. Testo

  11. Alberigo G., Il Vaticano II e la sua storia in Concilium, 4/2005, 17-31 qui 23. Testo

  12. Alberigo, ib., 22 s. Testo

  13. Alberigo, ib., 28 s. Testo

  14. È una raccolta di 58 articoli e recensioni, relativi al Concilio Vaticano II, di cui sei inediti e gli altri già pubblicati in varie riviste e giornali, Editrice Vaticana 2005. Testo

  15. Le citazioni sono tratte dal resoconto di Sandro Magister in www.chiesaespressoonline.it del 22 giugno 2005 che cita anche il volume Ruini C., Nuovi Segni dei tempi. Le sorti della fede nell'età dei mutamenti, Mondadori Milano 2005. Testo

  16. De Mattei R., Il Concilio Vaticano II: una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010, p 625. Testo

  17. Id. o. c., p 228, 333 Testo

  18. Id., o. c., 338. A questo proposito De Mattei sostiene che mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), "il volto più visibile" ( 333) del Coetus internationalis, non ne "fu però il leader intellettuale e operativo", così nel post-concilio "venne presentato come il 'capo' dei tradizionalisti", ma "in realtà egli fu solo l'espressione più visibile e alimentata dai mass-media di un fenomeno che andava ben al di là della sua persona [...]. L'arcivescovo francese fu il più noto, ma non l'unico, rappresentante di un movimento di resistenza vasto e ramificato, che talvolta sfociò purtroppo nello scisma o nella perdita della fede" 580. Testo

  19. Vita e Pensiero Milano 2010, 384, l'edizione originale americana è del 2008. Testo

  20. Pesch Otto H., Il Concilio Vaticano II. Preistoria, svolgimento, risultati, storia postconciliare, (BTC 131), Queriniana, Brescia 2005. Testo

  21. Routhier G., Dalla storia dei testi al corpus conciliare, in Id. Il Concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica, Vita e pensiero, Milano 2007, 266. Testo

  22. Routhier G., Dalla storia dei testi al corpus conciliare, in Id. Il Concilio Vaticano II, 20 s. Testo

  23. Melloni A., Breve guida ai giudizi sul Vaticano II, in AA.VV., Chi ha paura del Vaticano II?, Carocci, Roma 2009 p 107-145 qui 107. Testo

  24. Gherardini B., Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare Mariana Editrice Frigento, 2009, 260. Testo

  25. Id. ib.,79. Testo

  26. Id. ib., 17. Testo

  27. Si-si/No-no, La trappola della continuità, 28 febbraio 2011 p 1-3. Testo

  28. EV 9 (1983-1985) nr. 1785 1745. Testo

  29. ib. 3. L'articolista si riferisce al libro Concilio Vaticano II. Un discorso da fare (Mariana ed., Frigento 2009. Testo

  30. Si-si/No-no, 31 marzo 2011, p 1-8; l'anonimo recensore si firma Alaphridus. Testo

  31. Lindau, Torino 2011. Il testo è stato pubblicato anche come Divinitas del 2010 Testo

  32. Si-si/No-no, 31 marzo 2011, 1. Testo

  33. Gherardini B., Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau, Torino 2011. Testo

  34. Gherardini B., Concilio Vaticano II. Un discorso da fare, 9. Testo

  35. Gherardini B., Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, 63. Testo

  36. Id., ib., 61-62. Testo

  37. Amerio R., Iota unum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX., con prefazione di Negri, Fede e cultura, Verona 2009; Id., (a cura di Enrico Maria Radaelli), Lindau, Torino 2009. Testo

  38. Amerio R., Iota unum, Fede e cultura Verona, 2009 quarta di copertina di Fede e cultura. Testo

  39. Gherardini B., recensione in Divinitas 52 (2009) n. 3, 371-373. Testo

  40. Cavalcoli G, Nota orientativa in Amerio R., Iota Unum, Fede e cultura, Verona 2009, 11-13. Testo

  41. Id. in ib., 13. Testo

  42. Gheradini B., in Divinitas, 373. Testo

  43. Id., ib., 373. Testo

  44. Id, Divinitas, 371 mia sottolineatura. Testo

  45. Gherardini B., Concilio ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana editrice, Frigento 13. Testo

  46. Negri L., Prefazione a Amerio R., Iota unum , Fede e cultura, Verona 2009 p 5-8. Testo

  47. Id., ib., 5. Testo

  48. Id., ib., 6. Testo

  49. Id., ib., n. 1 p6-7 Testo

  50. Amerio R., Jota unum, Fede e cultura, Verona 2009 586 Testo

  51. Castrillo Card. Hoyos D., L'inalterabile identità della Chiesa, in Amerio R., Jota unum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX., (a cura di Enrico Maria Radaelli) ed Lindau, Torino 2009 5 Testo

  52. Amerio R., Iota unum, o. c., § 245. Testo

  53. Id. ib., § 245. Testo

  54. Id., ib. Testo

  55. Card. Hoyos, ib. 5. Testo

  56. Amerio R,. ib., 299 n.1 Testo

  57. Amerio R., ib. 589 Testo

  58. Amerio R., ib. 589 Testo

  59. Amerio R., ib. 590 Testo

  60. Vat. II, Decreto sull'Ecumenismo UR 6, EV 1, 520 Testo

  61. Vat. II, Decreto sull'Ecumenismo UR 4, EV 1, 509 Testo

  62. Vat. II, Decreto sull'Ecumenismo UR 4, EV 1, 512 Testo

  63. Vat. II, Decreto sull'Ecumenismo UR 4, EV 1, 508 Testo

  64. Pio X Codice di Diritto Canonico Can. 1325 §3 Testo

  65. Pio XI Enciclica Mortalium animos (6 gennaio 1928) n. 10. Testo

  66. Suprema sacra Congregazione del S. Uffizio, Ecclesia Catholica de motione oecumenica, 20 dicembre 1949. Testo

  67. AA. VV., Karl Rahner. Un'analisi critica, Cantagalli Siena 2009 Testo

  68. Lanzetta S. M., Introduzione, o. c., 6. Testo

  69. Id., ib., 6. Testo

  70. ivi p 51-71 Testo

  71. Fede e cultura, Verona 2009 Testo

  72. Gherardini B., Ecumene tradita, Fede e cultura, Verona 2009. Testo

  73. DHü n. 1351. Testo

  74. DHü 1347. Testo

  75. DHü 1348. Testo

  76. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium n. 16, 21 novembre 1964. Testo

  77. Concilio Vaticano II Costituzione Pastorale sulla Chiesa, Gaudium et spes n. 22. Testo

  78. Castillo J. M., Dio è la nostra felicità, Cittadella, Assisi 2008, 244. Il documento citato è la nota Bolla Unam sanctam cfr. DHü 875. Testo

  79. Id. ib. 245. Testo

  80. Sesboüé B., Fuori della chiesa nessuna salvezza. Storia e significato di una formula, Desclée de Brouwer, Paris, 2004 trad. it. S. Paolo, Cinisello Balsamo, 2009. Testo

  81. Id., ib., 39. Testo

  82. Id., ib. 271. Testo

  83. Id., ib., 272. Testo

  84. Id., ib., 272. Testo

  85. Id., ib., 314. Testo

  86. Id., ib., 314. Testo

  87. Canobbio G., Nessuna salvezza fuori della chiesa? Storia e senso di un controverso principio teologico, (GdT 338) Queriniana, Brescia 2009. Testo

  88. Id., ib., 393. Testo

  89. Id., ib., 396. Testo

  90. Id., ib., 396. Testo

  91. Id., ib., 396. Testo

  92. Id., ib., 323. Testo

  93. Vedi nota n. 6. Testo

  94. Gherardini B., Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, 35-38. Testo

  95. Id., 39-41. Testo

  96. Id., 41-43. Testo

  97. Id., ib., 62. Testo

  98. Id., ib., 25. Testo

  99. Id., ib., 53. Testo

  100. Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 12, in nota richiama il suo citato discorso alla Curia. Testo

  101. Melloni A., Breve guida ai giudizi sul Vaticano II, in AA.VV., Chi ha paura del Concilio Vaticano II?, Carocci Roma 2009, 131. Testo

  102. Melloni A., Corriere della Sera, 15 marzo 2009. Testo

  103. Caritas in veritate n. 12. Testo

  104. C.T.I., Unità della fede e pluralismo teologico, tesi 4°. Testo

  105. Decreta Conciliorum Prov. Coloniensis a. 1860 1 De doctrina catholica tit.4. ca14, Collectio Lacensis 5, 292. Testo

  106. Breve del 17 maggio 1877 inviato al medico francese Charles James riportato nella seconda edizione del suo libro, Moise et Darwin, L'homme de la Genèse comparé à l'homme-singe. L'enseignement religieux opposé à l'enseignement athée, Desclée de Brouwer, Bruges 1892 332. Testo