Salta il menù

Invia | Commenta

La donna universale? L'assoluto della speranza. Analisi di Pietà di Kim Ki Duk (Corea del Sud, 2012)

di Lorenzo Marras (11 ottobre 2013)

Non per malvagità, né per odio essi si fecero male l'un l'altro, ma a causa dell'ostilità dei tempi che vivevano.
-- Platone, Menesseno, 244a

Ho comunque pietà di lui, lo sventurato, anche se mi è ostile, perché irrimediabilmente incatenato ad una sinistra sventura.
-- Sofocle, Aiace 121-123

Donna è gentil nel ciel che si compiange di questo 'mpedimento
ov'io ti mando, sé che duro giudicio là su frange.
-- Inf. II, 94-96

*

1. Un Double Bind tragico come unica speranza di salvezza dell'uomo

La filmografia di Kim Ki Duk si è sempre contraddistinta sia per la grande ambiguità delle vicende narrate sia per l'uso di immagini fortemente connotate in senso iconico, le quali difficilmente possono essere ridotte a spiegazioni univoche. Si pensi a Ferro3, nel quale, come poi didascalicamente ricordò il regista alla fine del film, è difficile distinguere cosa sia reale e cosa sia fantasia. Ma il gioco del regista è sempre stato quello di strutturare i propri film su un registro intermedio a questi due opposti, cioè un registro simbolico.

*

Pietà, nonostante la lunghissima pausa dalle scene del regista (quasi quattro anni, un'eternità per un autore che ha realizzato sedici film in poco più di dieci anni) ripropone tale poetica ed anzi sembra amplificarne il carattere appunto simbolico, se non addirittura equivoco.

Si ottiene, così, una pellicola che, al di là della superficiale tessitura visiva -- abbastanza chiara nelle sue intenzioni "polemiche" e civiche -- rivela una struttura non solo complessa, ma anche profonda, la quale mette sempre in discussione lo stesso livello di lettura superficiale. Ed è questo che solitamente distingue un film d'autore -- che ha il respiro del classico ed è supportato da un impianto visivo che tre la sua forza dalla potenza delle immagini e dal loro autonomo registro stilistico -- , da uno che vorrebbe sembrare di esserlo, ma che non riesce ad andare oltre una seriosità da salotto intellettuale, e nel quale quasi sempre le pretese cinematografiche -- che concernono sempre il «visibile» -- abdicano ad una pretenziosa e didascalica verbosità. Per questa ragione nelle grandi opere classiche la complessità è quasi sempre in ordine alla profondità, e quindi alla semplicità espressiva; una complessità senza profondità, invece, spesso si riduce solo ad un vuoto esercizio intellettuale.

Come abbiamo detto, ad una prima lettura l'intento della pellicola appare abbastanza chiaro, ed il film scorre per come si è presentato, cioè una parabola sul capitalismo tardo moderno e neoliberista: l'economicizzazione totale di tutta la sfera esistenziale dell'essere umano, raffigurata nella sua concretizzazione « materiale», cioè il denaro, sta disgregando il tessuto connettivo tra le persone fin nella sua forma elementare, cioè la famiglia (pervertendo, così, anche il significato originario del termine economia, cioè quello di oikonomía). In questo modo i rapporti sociali ed esistenziali vengono fatti regredire quasi allo stato brado, rendendo sempre più labili i confini tra umanità ed animalità; si vedano le inequivocabili scene in cui il protagonista torna a casa con una «preda» appena «cacciata» e ancora viva (un pollo, un pesce, un coniglio, un'anguilla etc.), e che verrà uccisa e fatta a pezzi lì per lì per essere consumata all'istante.

* *

* *

Il protagonista porta a casa la «cacciagione» ancora viva.

L'individuo, sempre più isolato l'uno dall'altro, ed avendo rinunciato all'utopia di una forma civile basata su di una struttura regolata dalla logica dell'un per l'altro, vive invece secondo la logica dell'uno contro l'altro. L'unità sociale e civile diventa uno scontro di tutti contro tutti, dove il denaro permea ogni cosa, ed il guadagno pecuniario rappresenta lo scopo finale e l'essenza stessa dell'uomo, mentre il commercio e lo scambio rappresentano la «guerra» per il proprio interesse: il denaro è diventato l'ultima e più spietata incarnazione di quello che nell'antichità si chiamava "fato", il destino di ogni essere umano, cioè la ruota della fortuna a cui niente e nessuno sembra potersi opporre. Una realtà, questa, dove regnano il demiurgo Denaro e la sua sposa e profetessa Debito, autoproclamatisi come il principio e la fine di tutte le cose; ed i loro arconti, i grandi controllori, portano il nome di prestito, utile, profitto, efficienza, interesse, costi/benefici, egoismo economico. Soltanto da una radicale contraddizione a questo ordinamento, a questo kosmos, è forse possibile che emerga una speranza. Ma le parole con cui verrà narrata la storia di questa contraddizione non possono che essere parole di sangue.

*

I due protagonisti, la straordinaria Jo Min-soo e l'intenso Lee Jeong-jin: «Che cosa è il denaro? Il principio e la fine di tutte le cose»

2. Excessus ultionis: la risonanza della colpa e della violenza

Dolori, dolori, sventure inaudite ed orribili, aiai, versate lacrime nell'apprendere questo flagello [...] ululati a lutto, strida dolenti su poveri morti.
-- Eschilo, Persiani, vv 256-258 e vv. 281 (trad. Loraux, che mostra anche come il testo originale greco -- attraverso l'equivocarsi fonetico di interiezioni dolorose come aei, aiei e soprattutto aiai -- fa risuonare le parole come fossero una lamentazione funebre, un lamento del dolore)

Ahi! Ahi! O carissimo, mandatomi attraverso luttuosissime vie, mi hai uccisa, o amato fratello. Perciò tu accoglimi in questa tua urna, nel nulla, poiché anche io sono nulla nel tuo nulla, affinché io con te per sempre viva sottoterra.
-- Sofocle, Elettra, vv. 1161-1167.

In corpore Filius, in mente Genitrix erat crucifixa.
-- Lorenzo Giustiniani

*

Il protagonista principale di Pietà non «appare» mai. Esso, infatti, è interpretato dal quadro sociale testé descritto: la società capitalistica neoliberistica. Tale protagonista è forse quello meno evidente nel suo perenne «fuoricampo», nella sua «assenza» dall'orizzonte meramente percettivo, cioè in quanto oggetto dei sensi; ma quella della società -- per utilizzare i termini di una certa teoria sociologica -- è un'assenza sempre presente, se non massimamente presente proprio nel suo essere «assente», e quindi un inaggirabile orizzonte di senso (e che parafrasando Mead ed Otto si potrebbe definire come un «totalmente altro generalizzato»); un orizzonte, cioè, che rende possibili i vari rapporti sia tra gli uomini sia degli uomini con l'ambiente «oggettivo». Quella descritta in Pietà è una società talmente postmoderna, da andare ben oltre lo stesso postmodernismo, una società dove i confini tra colpa, trasgressione e desiderio paiono crollati, rendendo così sempre più evanescenti anche gli ultimi tabù sociali rimasti (ad esempio cannibalismo ed incesto). Anche tali tabù, nel venire risucchiati nell'economicizzazione totale di ogni aspetto della vita, assumono la forma di una merce tra le altre, che i consumatori possono scegliere come si fosse al mercato; una società, quindi, che agisce sulla scena del gioco del mondo, quello economico, al pari degli altri agenti attoriali, assumendo così quel ruolo che nelle tragedie greche era impersonato dal coro.

In tale contesto si muovono gli altri due protagonisti. Il primo è Kang-Do, sociopatico e spietato esattore di una banda di strozzini (e in un'epoca dove il denaro è debito ed il debito è denaro, il personaggio principale non poteva che assumere questo ruolo, che, per così dire tautologicamente, viene visualizzato fin dalle prime scene). Il secondo è Jang Mi- sun, una donna misteriosa, che appare all'improvviso al cospetto di Kang-Do e sostiene di essere la madre che lo ha abbandonato appena nato e si sente per questo responsabile della sua insensibilità e bestialità. Kang-Do respinge la donna, pensandola pazza, ma di fronte alla sua insistenza egli comincia a dubitare e chiede alla donna delle prove che sia così come lei sostiene; prove che -- in un crescendo di violenza sempre più insopportabile -- lo spingono fino ad un punto estremo: violentare Jang Mi-sun.

A seguito di questo drammatico evento, Kang-Do «accetta» la madre, che si trasferisce a casa sua ed assume quel ruolo di madre premurosa che mai aveva potuto interpretare. Quello che si trova di fronte entrando nella vita di Kang-Do è un mondo domestico disordinato, caotico, malsano, chiara proiezione di una sua percezione del mondo esterno come appunto un disordine, un caos dove «tutto va male». In questo modo Jung Mi-sun cerca di soddisfare tutti quei bisogni che nella sua assenza in quanto madre non aveva garantito. Nella vita di Kang-do, Jang Mi-sun irrompe appunto come quel «principio ordinatore» del caos esterno del quale tutti i «bambini» hanno bisogno per strutturare un percezione del mondo esterno dove tutto sia in ordine e non una minaccia, cioè la madre. Quindi la madre diventa una «sacerdotessa dell'ordine», ma non, come ha ben mostrato Peter Berger a proposito di questi aspetti, nel senso di questo o quest'altro ordine sociale o politico storicamente esistente, ma dell'ordine stesso dell'universo, cioè il fatto che la realtà esterna è appunto «ordinata», ha un senso e non è minacciosa. Lo si vede dal primo momento in cui ella entra nella casa, mettendosi fin da subito a pulire ed ordinare il caos in cui Kang-do vive. Per questa ragione ogni «principio ordinatore» è sempre un simbolo di trascendenza, cioè che c'è un altro mondo, un'altra vita, un'altra possibilità di relazionarsi agli altri. Il mondo esterno sembra così riacquistare un aspetto gradevole e rassicurante, cosa che può notarsi nelle scene dove Kang-do passeggia con la madre, si diverte con il clown, fa shopping ed altro ancora.

D'ora in avanti Kang-do subirà una metamorfosi che in un certo qual modo lo «intenerisce» anche nei confronti dei debitori che precedentemente trattava senza alcuna pietà o rimorso (soprattutto quelli che li si vede avere una madre, e sui quali egli, proprio per questo, sembra infierire ancora di più). Ed è così che lentamente Kang-Do inizia a sviluppare un attaccamento quasi morboso verso Jang Mi-sun (quello che Bowlby/Ainsworth definirebbero come attaccamento resistente). Si potrebbe dire, sempre insieme con Ainsworth, che Kang-do in pochissimo tempo faccia esperienza delle varie tipologie di attaccamento tutte assieme, e delle quali egli era stato privato nella sua infanzia, passando così improvvisamente dall'una all'altra senza soluzione di continuità: dall'attaccamento evitante a quello disorientato passando, magari a distanza di sole poche ore, per quello sicuro e quello resistente.

A questo proposito ci sarebbe da notare come per una logica narrativa lineare lo sviluppo dell'attaccamento sicuro e resistente, e quindi il rovesciamento stesso della personalità di Kang-do (da spietato aguzzino a figlio «amorevole»), nello sviluppo diegetico del film viene visualizzato con una rapidità non del tutto plausibile. Tale nodo problematico, però, risulta più comprensibile allorché si decida di approcciarsi a Pietà per come il mondo è visto in una logica mitica, cioè una visione del mondo non obbiettiva e realistica, ma simbolica (senza che però vengano del tutto meno i problemi di scrittura filmica). Peraltro ci sarebbe da considerare anche che nella sociopatia di Kang-do si potrebbe scorgere una strutturazione della mente di stampo «borderline», la quale si basa proprio su di una repentina ed improvvisa modificazione degli stati umorali nei confronti del mondo e degli altri, e che, invece, ha una sua plausibilità nella precisa costruzione drammatica in cui si dipanano le vicende.

Una volta assaporata questa inattesa svolta esistenziale, la paura di «perdere» di nuovo «sua» madre (magari per la vendetta di qualcuno dei debitori che aveva mutilato) viene a modificare la percezione della vita e delle relazioni umane di Kang-do, ripercuotendosi così anche nell'efficienza del suo lavoro; vita e relazioni che per la prima volta, dopo anni di solitudine e rifiuto di ogni atteggiamento empatico verso l'altro, egli sta cominciando a conoscere. Tale processo trova il suo punto di svolta al momento che Kang-do, arrivando a prendere coscienza della propria funzione sociale (fino ad allora opacizzata), chiede alla «madre»: «Che cosa è il denaro?» L'icastica risposta è: «Il principio e la fine di tutte le cose: amore, odio, rabbia, gelosia, vendetta... la morte».

A questo punto il plot viene a subire un'ulteriore svolta, e si scopre (ma veramente è una scoperta?) che Jang Mi-sun non aveva detto tutta la verità su di lei e sul suo passato, e lo aveva fatto proprio al fine di generare in Kang-do questo morboso attaccamento personale. Veniamo così a sapere che è la madre di uno dei debitori al quale Kang-do aveva fatto visita, e che in seguito ad essa si è suicidato (lo vediamo nella primissima scena del film). È, questa, una scena straziante, nella quale Jang Mi-sun dà sfogo ad una vera e propria lamentazione funebre, la quale solo può essere espressione, altrimenti indicibile, dei suoi misteri dolorosi, ed in cui sembra riecheggiare, seppur in una forma appunto preverbale, qualcosa del meraviglioso monologo dell'Elettra sofoclea che abbraccia l'urna funebre del fratello (vv. 1126-1170).

*

La madre abbraccia l'urna del figlio morto.

Jang Mi-sun si fa così vero e proprio «coro del mondo», la voce addolorata di un'umanità oppressa dal giogo dell'Impero del Denaro/Debito.

*

Jang Mi-sun come voce addolorata di un mondo in lutto

Lo scopo di Jang Mi-sun -- che allo stesso tempo si svela come Clitemnestra, Medea ed anche, se non soprattutto, Erinni (dato che, come le Furie della classicità, nelle sue intenzioni riesce ad essere imperterrita, maligna e vendicatrice) -- è stato quindi quello di far nascere in Kang-do un forte attaccamento familiare, per così fargli provare quel dolore estremo che hanno provato molte delle sue vittime ed in questo magari farlo impazzire: il dolore per la perdita di coloro che si amano più di se stessi. Più che limitarsi semplicemente ucciderlo, è questa la tremenda punizione che Kang-do si merita per la sua condotta di vita malvagia ed insensibile verso il prossimo. Ma perché tale piano raggiunga il suo vero scopo, e non si riduca quindi ad una edificante messa in scena, non è sufficiente sparire nuovamente e non farsi più trovare. No, perché il piano abbia successo Jang Mi- sun deve compiere il sacrificio più estremo, cioè morire realmente davanti agli occhi di Kang-do. Al momento che la propria missione arriva a coincidere con il sacrificio della propria vita, allora tale missione diventa non un qualcosa di meramente esteriore, ma un caso serio, un caso, cioè, che fonde il proprio essere in quanto persona con il proprio agire: l'io di Jang Mi-sun e la propria missione sono lo stesso. Ed è appunto questa fusione che determina la realissima tragicità del personaggio e l'estrema serietà della questione di cui ella si fa portavoce.

*

La scena teatrale dell'ultimissimo atto.

A tale fine Jang Mi-sun architetta un finto rapimento per far credere a Kang-do che la responsabilità della propria morte sia da attribuire ad una delle sue vittime in cerca di vendetta. Scelto il luogo di uno dei «delitti» di Kang-do come scena teatrale nel quale aggettare la propria morte, Jang Mi-sun -- pronunciando come sue ultime parole «non sarai più solo» -- si suicida lasciandosi cadere nel vuoto da un palazzo in costruzione. Kang-do, che si trova alla base, non può fare altro che assistere e non può capire che si è trattato di uno stratagemma al fine di farlo morire di dolore e disperazione. Poco prima di gettarsi nel vuoto Jang Mi-sun mostra che nonostante tutto non riesce a voler male a Kang-do («il mio caro Kang-do» ella afferma) e nonostante la sua malvagità e quella del mondo -- evidentemente non sufficienti per estinguere l'universale vocazione di madre -- dimostra di provare una profonda pietà per lui. Jang Mi-sun subisce così l'imprevisto contraccolpo derivante dalla convivenza con Kang-Do, del suo forse inconsapevole e non voluto ruolo «sacerdotessa dell'ordine», e si trova ora stretta tra due «doveri» e due «ingiunzioni» ugualmente validi ma contraddittori: doversi uccidere per far soffrire fino alla follia Kang-do, e compiere la propria vendetta retributiva, ed allo stesso tempo «doverne» provare pietà in quanto ci si è affezionata al punto di provare amore per lui.

* *

Jang Mi-sun subisce il contraccolpo della pietà, e la sua impassibilità nell' odiare e non voler perdonare Kang-Do, il suo «caro» Kang-do, vacilla.

Di fronte a tale situazione paradossale ed indecidibile, Jang Mi-sun arriva forse a comprendere che l'unica soluzione per spezzare questo doppio vincolo può darsi unicamente nella conversione del sacrificio per la vendetta in sacrificio per il perdono. In ogni caso Jang Mi-sun muore, lasciando però aperto il dilemma se la pietà sia giunta troppo tardi e quindi il destino aveva oramai fatto il suo corso, oppure se ella capisce che lo stesso sacrificio può convertirsi da espressione della vendetta ad espressione assoluta della pietà. La consegna al sacrificio estremo rimane intatta, ma risulta equivoca la sua natura: è un sacrificio per la vendetta o per il perdono?

Dopo di ciò si vede Kang-do che seppellisce Jang Mi-sun dove ella le aveva indicato di fare nel caso le fosse successo qualcosa. Nell'esaudire la volontà della madre Kang-do scopre -- e noi con lui -- che in quel luogo Jang Mi-sun aveva seppellito il corpo del figlio suicida da lei conservato attraverso la ghiacciaia/urna di cui abbiamo parlato poco sopra. Ecco anche spiegate, quindi, le sue ultime parole: «non sarai più solo» (un riecheggiare anche qui dell'Elettra sofoclea?). In questo senso il piano vendicativo di Jang Mi sun si scopre essere un agire per «economia», secondo il detto Aliud loqui, aliud agere: loqui quod non sentiunt, sed quod necesse est, cioè non rivelare ciò che si pensa e non agire per contrario rispetto a ciò che si pensa, e la propria dissimulazione diventa necessaria in ordine allo scopo, più alto, che ella si è prefissa. Un'economia che, come vedremo in sede critica, sembra strutturarsi come il contraddittorio assoluto dell'economia in senso moderno, cioè quello nel quale si è venuta a categorizzarsi l'idea di un mercato giuridicamente regolato (o, detto altrimenti, della società civile).

A quel punto Kang-do, che si scopre come il figlio della perdizione, prende il gancio e la catena che servirono al figlio suicida per uccidersi, si incatena sotto al camion della moglie di una delle sue vittime, e sfruttando il buio per non farsi scoprire attende che poco prima dell'alba la donna esca per andare a lavorare come venditrice ambulante. In questo modo Kang-do non si uccide, ma si lascia uccidere, facendosi trascinare dal camion e «macellare», in una sorta di rito sacrificale ed espiatorio, il quale solo attraverso l'effusione del sangue per tutti (lungo le varie arterie dell'organismo urbano, della città e/o metropoli, cioè il corpo stesso della società capitalistica), può sperare di spezzare il circolo infinito della colpa e della violenza. Da notare, infatti, che le prime inquadrature del film sono proprio sul gancio usato per suicidarsi dal figlio e poi utilizzato da Kang-Do per lasciarsi uccidere, in una sorta di ricorsività tautologica dove l'inizio è la fine e la fine è l'inizio, circolarità destinale, cioè il destino stesso, che solo nel sacrificio della pietà sembra trovare la propria fine.

*

Effusione del sangue lungo le arterie dell'organismo urbano della società capitalistica: la metropoli.

Ultimo particolare da sottolineare è che il regista aveva filmato anche un finale alternativo, poi accantonato perché ritenuto più banale ed eccessivamente connotato in chiave superficialmente religiosa: Jang Mi-sun, tenendo sulle braccia il figlio suicida -- in una rappresentazione iconica della medesima scena della Pietà di Michelangelo -- si dà fuoco davanti a Kang-do. Non sappiamo se il film, presentando tale scena, terminasse con essa oppure si concludesse come nel montaggio finale, cioè con il sacrificio di Kang-do. Comunque sia, crediamo che il finale attuale sia stata la scelta migliore, in quanto questo altro, così teatrale ed estetizzante, avrebbe forse depotenziato l'inquietudine generata delle provocazioni dello skàndalon della pietà. Quindi, con il finale alternativo avremmo avuto una rappresentazione più univoca, comprensibile e di grande impatto visivo nella sua sovrabbondante estetizzazione, ma allo stesso tempo si sarebbe avuta una problematizzazione più superficiale e quindi, appunto per tale eccesso di calligrafismo estetico, una anestetizzazione.

*

Kim Ki Duk in un significativo saluto di «resistenza» anticapitalista durante la premiazione di Pietà a Venezia. Alle sue spalle (sulla destra) il regista Michael Mann, presidente della giuria 2012.

3. La «madre» come icona di una colpa eterna e della pietà senza perché.

Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L'attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori.

-- 1Tim, 6, 9-10

*

Un poster con una delle immagini più iconiche del film.

Anche se ci si limitasse a seguire la sinossi, non dovrebbe essere difficile notare come Kim Ki Duk abbia cercato di intelaiare una tessitura narrativa e visiva stratificata, dalla potenza espressiva devastante (ogni immagine è portatrice di senso, e quindi ambigua, non riducibile ad un significato univoco), a tratti insopportabile nella sua rappresentazione del lutto e del dolore; rappresentazione nella quale i livelli di lettura (quello letterale, quello psicologico, quello socio-economico-politico e quello spirituale) si sovrappongono e si intrecciano senza soluzione di continuità, mescolando critica sociale, tragedia e parabola.

In questo senso quanto andremo a sostenere è dettato da due precise scelte ermeneutiche, le quali mostrano la risoluzione di quelle che riteniamo essere le maggiori ambiguità di Pietà.

La prima concerne la seguente vexata quaestio: Jang Mi sun è la madre naturale di Kang-do oppure soltanto una donna in cerca di vendetta per la morte del vero figlio? Ad una prima visione sembrerebbe che ella non è la madre, ma ad una riflessione ulteriore tale opzione appare non essere del tutto congrua con la stessa strutturazione narrativa proposta e con le intenzioni di senso che la sembrano animare, ed anzi ne mini il valore strettamente cinematografico. Per questa ragione crediamo che Jang Mi-sun sia la madre naturale di Kang-do.

La seconda vexata quaestio è: la consegna al sacrificio di Jang Mi-sun è per la vendetta o per il perdono? Per chi scrive è vera la seconda delle ipotesi. D'altronde lo stesso Kim Ki Duk ha affermato che l'ultima parola del film è la speranza; cosa, questa, che crediamo non possa essere se fosse la vendetta per la vendetta ad avere la parola conclusiva).

Da come si interpretano tali ambiguità viene a determinarsi, quindi, un diverso statuto qualitativo del film, ed il livello di lettura più «superficiale» (che non intendiamo in senso valutativo) viene ad essere risucchiato da una stratificazione in profondità, circolare e riflessiva, oscura e forse ancor più insostenibile nella sua violenza psicologica ed emotiva (rispetto alla mera rappresentazione fisica della violenza stessa).

Si deve precisare che il film funziona ugualmente a prescindere da come si decide di interpretare tale problematica: la pietà, come contraddizione della logica dell'uno contro l'altro in nome del denaro, emerge in tutti i casi nella sua potenza espressiva.

In questa sezione discuteremo la prima vexata quaestio, e cercheremo di mostrare le varie spie disseminate nel tessuto visivo che riteniamo supportino la nostra interpretazione. Nella sezione seguente, attraverso una lettura spirituale, cercheremo di mostrare come la consegna (paradosis) al sacrificio di Jang Mi sun sia interpretabile in ordine al perdono e non alla vendetta fine a se stessa.

Come detto, ad una prima visione la costruzione della pellicola sembra suggerire che Jang Mi-sun non sia la madre, ma una donna in cerca di vendetta. Allo stesso tempo, però, non emerge mai chiaramente che sia così (almeno da quanto desumibile dalla versione che abbiamo visionato, cioè quella tradotta in italiano), lasciando spazio alla classica equivocità kimkidukiana: Jang Mi-sun è «realmente» la madre o lo è solo nella «fantasia» dei protagonisti (e nella nostra)?

Se non è la madre, allora Pietà rimane un ottimo film, ma allo stesso tempo riteniamo che perda qualcosa ed in alcuni casi rischi l'eccesso fine a se stesso di una caratterizzazione dei personaggi ridotti ad astrazioni personificate, e quindi non credibili né del tutto coerenti a livello narrativo. Inoltre, Pietà in questo modo non sembra aggiungere molto alla lunga schiera di film coreani sulla vendetta (se non per qualche riferimento alla mistica cristiana dell'abbandono) e ad altri sulla barbarie del tardo capitalismo.

Peraltro se si abbraccia l'ipotesi della falsa maschera di madre impersonata da Jang Mi-sun madre, anche a livello strutturale Pietà sembra mostrare il fianco a diverse criticità:

  1. Che il comportamento di Jang Mi-sun -- pur ipotizzando nella sua caratterizzazione il già citato registro emotivo di tipo borderline -- apparirebbe iperbolicamente sacrificale nella sopportazione delle umiliazioni più indicibili, e quindi non sarebbe più del tutto plausibile, o, tutt'al più, molto meno plausibile in quanto, come madre naturale, il peso di una sua colpa "assoluta" giustificherebbe la sopportazione ed accettazione delle tremende prove che è costretta subire. Diverso, e più credibile, sarebbe se Jang Mi-sun avesse fin dal principio l'intenzione di «redimere» Kang-do, e non quello di vendicarsi. E tale problema rimane vero anche considerando che in Pietà Jang Mi-sun, esattamente come Kang-do, è caratterizzata come un simbolo, un desiderio collettivo personalizzato. E appunto per questo in un'opera cinematografica i personaggi e gli eventi sono legittimamente soggetti ad una raffigurazione ellittica, dove le situazioni si susseguono attraverso drastiche accelerazioni temporali, repentine cesure narrative ed improvvisi cambi di registro sia stilistici sia psicologici.
  2. Anche se fosse così, cioè ella non è la madre naturale, si evidenzierebbe però una possibile incongruenza nel machiavellico piano escogitato e che muove la protagonista e l'intero plot.
  3. Dal punto di vista della costruzione narrativa ci si potrebbe chiedere quale sia esattamente il vero colpo di scena spesso decantato come sconvolgente, visto che il film fin dal principio sembra volerci instillare l'idea che ella non sia la madre.

Se invece si sceglie di leggere Jang Mi-sun come la madre naturale di Kang-do, allora Pietà diventa un film semplicemente straordinario, fuori parametro nella costruzione tragica quasi dar far invidia ad Eschilo, aggiornando tale costruzione all'epoca del regno delle nuove divinità e del suo nuovo signore degli dei, cioè il Denaro/Debito. In questo senso, Pietà non sarebbe neanche più definibile come un film sulla vendetta o sulla barbarie del turbocapitalismo. Infatti, per quanto tali aspetti siano presenti e determinanti, quando unilateralizzati ed assolutizzati essi rischiano di trasformare l'opera in mero "teatro civico" e così farle perdere -- nella sua messa in scena del lutto, del dolore e della speranza -- ogni vocazione realmente universalistica. Al momento che essi vengono ad essere inseriti in un disegno più ampio, pur rimanendo intatta la propria funzione civica e polemica, riescono ad assolvere ad una funzione drammaturgica di ben altro spessore, evitando di scivolare negli stereotipi dei film a tesi, peraltro del peggior tipo, cioè quelli affetti da provincialismo congenito (cosa che comunque non è il caso di Pietà in qualunque modo si voglia interpretare la questione in oggetto). Al momento che si legge Jang Mi-sun come essere veramente la madre del protagonista, Pietà assume il valore di un film sulla colpa eterna ed universale, e in questo una rappresentazione del destino, la responsabilità e la punizione, della «guerra civile» in quanto «guerra nella famiglia» e viceversa, del sacrificio del perdono come unica possibilità di ritrovare se stessa di un'umanità persa nell'inferno della propria disperazione.

*

L'irruzione della madre nella vita di Kang-Do comincia a farlo riflettere sulla propria condotta di vita e sul suo rapporto con gli altri.

Innanzitutto bisogna considerare che nel film Jang Mi-sun non afferma mai e/o fa capire esplicitamente di non essere la madre naturale di Kang-do e/o che ha inscenato tutta quella storia solo per «vendicarsi» dell'aguzzino del vero figlio. Anzi -- ci riferiamo sempre alla traduzione italiana, che però non è detto sia attendibile al 100% -- quando lo affronta mentre è addormentato sulla sedia dove si è suicidato l'altro figlio, a lui si rivolge con frasi come «perché sei stato così malvagio? Perché hai fatto questo? Non ti perdonerò mai...». Perché una donna che si vuole vendicare di un «estraneo» che ha causato la morte del vero figlio, dovrebbe dire «perché sei diventato così?», che è affermazione che direbbe più un parente stretto ad un altro familiare? Inoltre come abbiamo detto nella sinossi, nell'ultima scena Jang Mi-sun prima di gettarsi nel vuoto si rivolge a Kang-do con un «il mio caro Kang-do», altra affermazione «materna», non del tutto giustificabile con il mero affetto che una donna/madre avrebbe potuto aver cominciato a sviluppare per un uomo che poteva essere suo figlio (e che anzi ne era il responsabile della morte). Poteva dire, come Odisseo nell'Aiace di Sofocle, «io ora lo capisco», «ne provo pietà», ma difficilmente avrebbe detto «il mio caro...».

*

La madre esprime il proprio disprezzo per tutto ciò che Kang-do è diventato.

Quindi (sempre dando credito alla traduzione italiana) se Jang Mi-sun non è la madre, semplicemente lo sviluppo del personaggio di Jang Mi-sun risulterebbe incongruo, poiché il proprio arco narrativo si svilupperebbe in maniera non plausibile, per salti e cesure, mancando così di un passaggio diegetico credibile che garantisca una coerenza nella repentina trasformazione da Erinni a donna compassionevole nei confronti di quello che potrebbe essere un suo figlio, ma non lo è. In realtà, come in seguito vedremo in dettaglio, tale passaggio potrebbe essere rintracciato in una tra le scene più «forti» del film. Ma anche non considerando che in quel caso tale passaggio sarebbe non del tutto giustificato, vedremo pure come tale ipotesi a sua volta sia indebolita da ulteriori aspetti che paiono essere incongrui.

*

I due protagonisti in una immagine promozionale cool & stylish ben lontana dall'estetica "slumdog" del film.

Un altro aspetto non del tutto chiaro, almeno ad una prima visione, è il presunto colpo di scena. Se Jang Mi-sun ha solo finto di essere la madre, quale sarebbe esattamente il colpo di scena? Infatti non può essere lo scoprire che non è sua madre, dato che non crediamo che ci possa essere anche un solo spettatore che non abbia pensato, di fronte il misterioso atteggiamento della donna, che lei potesse essere la madre (od un familiare) di una delle numerose vittime di Kang-Do. Ora, dovremmo forse pensare che un regista come Kim Ki Duk abbia costruito il film su di un colpo di scena che è praticamente «telefonato» per tutta la prima parte del film? Non può essere questo, o quantomeno soltanto questo, poiché risulterebbe demenziale. Riteniamo più probabile che tale soluzione sia così smaccatamente evidente, appunto perché si vuole in un certo senso ingannare lo spettatore, facendogli credere che sia così come egli aveva ipotizzato, quando il vero colpo è ben lungi dall'essere svelato.

In questo senso, seppur per iperbole, Pietà potrebbe essere descritto come un Noir classico. Ed infatti nel Noir non ha importanza lo scoprire chi è l'assassino e/o il colpevole -- solitamente lo veniamo a scoprire fin da subito -, ma l'approfondimento della sua personalità e del rapporto (genetico) con l'ambiente cittadino, spesso malfamato, in cui i protagonisti agiscono. D'altronde chi meglio di Jang Mi-sun potrebbe essere descritta come una forma particolare di "femme fatale", dato che la sua irruzione (come avviene per ogni Dark Lady nel Noir classico) sovverte gran parte dell'universo esistenziale, morale e mentale del protagonista e lo conduce alla negazione di se stesso? Certo, tale fatalità e tale negazione rispetto al Noir classico avvengono per sub-contrarietà, cioè in ordine non ad uno scacco fine a se stesso, ma alla positività della speranza e del perdono. E non sarebbe fuori luogo, in questo contesto, sostenere che la madre, come ogni madre, è sempre la «prima seduttrice», per dirla con Freud, portatrice di quel sedurre che è sempre l'altra faccia del prendersi cura; quel prendersi cura che è l'inizio, per il bambino, di un percorso di separazione da lei (la seduzione è sempre un percorso di separazione, un condurre verso un'altra strada) verso l'autonomia del proprio sé nei confronti del mondo.

*

Altra immagine promozionale stylish, con Jang Mi-sun appunto in una stilizzazione che sembra richiamare la figura «noir» della Femme Fatale, stilizzazione poi -- e per fortuna -- mai filmata.

Per tutta questa serie di ragioni un'altra interpretazione potrebbe sostenere, con ben più plausibilità, che il colpo di scena sia il machiavellico piano della «madre», la quale non vuole uccidere Kang-Do, ma appunto come novella Erinni, vorrebbe farlo impazzire di dolore nel perdere una persona a cui teneva più che a se stesso, e per riuscirci è disposta a sacrificarsi fino all'umiliazione più estrema ed alla morte. Tale possibilità è ben supportata dalla costruzione del film, ma anche non considerando che se fosse così ciò non toglierebbe nulla della banalità della prima parte -- con uno schema appunto prevedibile -- ugualmente non tarderebbero a manifestarsi ulteriori criticità. Infatti, il piano così laboriosamente architettato dalla «madre» alla fine sembra contraddirsi, rischiando di vanificare tutto quanto fatto fino a quel punto e la stessa morte sacrificale della donna. A cosa ci riferiamo? Al fatto che la Jang Mi-sun chiede a Kang-Do di seppellirla vicino all'albero che ella gli aveva chiesto di piantare. Solo che in quel luogo lei aveva seppellito il vero «figlio», de facto rischiando di rivelare a Kang-Do che non era la madre, ma una donna in cerca di vendetta, e quindi depotenziando la vendetta basata sull'iperbolico dolore da fargli provare, visto che «in fondo» non era la madre, ma «solo» una donna in cerca di vendetta. Che senso potrebbe avere tutto ciò? Non è dato saperlo, a meno che lei non sia veramente la madre. In realtà, anche se è vero che così facendo il pericolo che Kang-Do possa pensare che ella non è la madre ci sarebbe anche se fosse veramente la madre, il grado di contraddizione sarebbe di livello ben diverso, ed il rischio di vanificare il tutto diventerebbe decisamente inferiore, se non residuale; questo perché facendo eventuali ricerche sul «fratello» impiccatosi egli potrebbe in qualche modo verificare se effettivamente la donna è sua madre o meno, o quanto meno potrebbe esserlo.

Ragione per la quale, se Jang Mi-sun è la madre, allora anche se Kang-do sospettasse qualcosa e si mettesse alla ricerca di prove, ciò confermerebbe la cosa, altrimenti tutto il piano verrebbe vanificato. Sì, Jang Mi-sun ha risvegliato in Kang-do una sorta di coscienza empatica ed una capacità affettiva, lo ha fatto affezionare a lei, ma tutto ciò non garantirebbe il successo del piano, poiché tale radicale affezione avrebbe senso unicamente se lui crede che ella è realmente la madre . Oltretutto non risulterebbe altrettanto credibile nenache che Kang-do, saputo che la donna era una mistificatrice, non subisca alcun contraccolpo in se stesso nella propria personalità vicina alla tipizzazione borderline (esattamente come lo ha subito dopo averla riconosciuta come sua madre), e quindi schiacciata da una radicale ed improvvisa variazione di stati emotivi antitetici, enantiodromici direbbe forse Jung. In altre parole, se lui dovesse comprendere o solo sospettare che non è la madre, allora potrà anche essere dispiaciuto per una donna a cui si era attaccato emotivamente ma A) a causa di ciò potrebbe diventare ancor più furioso per il terribile inganno B) ed anche se così non fosse, l'impatto emotivo della morte non sarebbe, così crediamo noi, lo stesso. In ogni caso tutta la machiavellica costruzione di Jang Mi-sun rischierebbe di crollare su se stessa.

*

Anche in questo patinato scatto pubblicitario si evidenzia una stilizzazione seducente e perturbante di Jang Mi-sun che mai vedremo impressa sulla pellicola.

Insomma, al momento che si accetta che Jang Mi-sun non è la madre naturale di Kang-do, abbiamo tre possibili «colpi di scena».

  1. Che ella non è la madre.
  2. Che il suo piano non è uccidere Kang-do, ma uccidersi lei stessa per farlo impazzire.
  3. Che Jang Mi-sun alla fine non è più convinta di volersi vendicare, e prova pietà per lui (soprattutto se si interpreta questa «consegna» al martirio come una conversione da sacrificio per la vendetta in sacrificio per la pietà).

Considerando che le ipotesi B e C potrebbero anche coesistere, si può dire, però, che il primo caso sarebbe demenziale, il secondo sarebbe quello più facilmente accettabile e credibile, il terzo è quello più interessante ed efficace, più plausibile, nella sua potenza provocatoria (la pietà senza perché, in un mondo senza senso, è il colpo di scena più sconvolgente), ma anche quello più difficile da cogliere ad una prima visione. In tutti e tre i casi, come visto, se Jang Mi-sun non è la madre naturale di Kang-do è la stessa costruzione filmica che sembra gettare delle ombre sulla tenuta dell'impianto narrativo, che si rivelerebbe non perfettamente orchestrato, lasciando adito a diversi dubbi e non poche forzature ed ellissi, squilibrato tra continue polarizzazioni di eccessi e semplificazioni. Mentre, se Jang Mi-sun è la madre naturale, allora non solo questi squilibri sarebbero almeno in parte mitigati, ma si avrebbe, così crediamo, un colpo di scena di ben altra portata, e che farebbe riconsiderare la prima parte «telefonata».

Un particolare che ci sembra supportare l'idea che ella sia veramente la madre, è il seguente: durante una delle prime scene si vede Kang-Do bloccare una porta a scorrimento frapponendo la mano ed impedendone la chiusura senza, apparentemente, provare alcun dolore. Ebbene, la stessa cosa la fa la «madre» allorquando cerca di entrare per la prima volta a casa di Kang-do.

*

*

Kang-do sopporta il dolore... esattamente... come fa anche Jang Mi-sun.

Quale senso narrativo può avere questo esplicito equivocarsi di immagini? Probabilmente si vuole far percepire allo spettatore la «familiarità» dei due personaggi. Si potrebbe sostenere che la «madre» utilizza questo mezzo per ingannare Kang-Do su tale «familiarità», ma anche non considerando l'improbabilità che ella si sia messa a spiarlo nei minimi particolari (che lo abbia fatto non è però impossibile, dato che nel luogo in cui ella tiene il corpo del figlio morto si vede una foto di Kang- Do segnata da quelli che sembrano fendenti di coltello) al punto di cercare di ingannarlo attraverso tali espedienti, risulta non plausibile che Kang-Do stesso possa notare questi particolari, che avrebbero senso solo al di là dello schermo, cioè per gli spettatori. Quindi, a meno della coincidenza improbabile, oppure, peggio ancora, che la protagonista non si rivolga tanto a Kang-do, bensì direttamente agli spettatori per suggerire che stia cercando di ingannarlo, è lo stesso regista che vuole indicare un qualcosa che non ha particolare importanza per i protagonisti, ma ne ha appunto per gli spettatori.

Un'altra scena fortemente simbolica, ma di non facile interpretazione, è quella che vediamo in alcuni frame in cui vengono ad essere inquadrati in close up gli anelli della catena che è servita al figlio suicida per compiere il proprio gesto disperato. Per più di una volta, infatti, tale catena viene inquadrata con un primo piano che mette in evidenza come tra le sue maglie siano rimasti impigliati dei capelli del suicida. Quale può essere il significato di tale insistita inquadratura? Non ci è stato possibile determinarlo con certezza, ma allo stesso tempo ci ha riportato alla mente uno dei celebri stratagemmi retorici di Sofocle, allorquando egli ha dovuto narrare il riconoscimento di Oreste da parte di sua sorella Crisostemide attraverso una ciocca di capelli lasciata sulla tomba del padre, e che per lei poteva essere solo del fratello.

*

L'immagine fortemente simbolica con i capelli del figlio suicida tra le maglie della catena utilizzata per uccidersi.

La scena più importante del film, di certo per quanto concerne il discorso che stiamo portando avanti, è anche quella più controversa. Ci riferiamo a quando si vede Jang Mi-sun mettersi a dormire accanto a Kang-do, ed egli in quel momento ha una inconsapevole e pulsionale spinta al coito (che avevamo già visto al principio del film, ad indicare fin da subito la natura animalesca del personaggio). Appena comprende cosa sta accadendo, Jang Mi-sun si allontana dal letto, ma subito dopo -- forse di fronte alla visione di un uomo (figlio) ridotto dalla sua sociopatia sadomasochista allo stato selvaggio delle pulsioni più elementari -- infila la mano sotto la coperta e lo masturba, aiutandolo così a soddisfare quei bisogni elementari di affetto che nessuna madre gli aveva mai donato.

*

La «madre» comincia a provare pietà per il «figlio»

È, questa, un'altra chiara espressione della già ricordata funzione materna di «sacerdotessa dell'ordine», questa volta non prevista da Jang Mi-sun; quella funzione che, quando i bambini si svegliano la notte spaventati dalla minaccia del buio, da un disordine sconosciuto ed incontrollabile, fa accorrere la madre e dire: «non ti preoccupare, va tutto bene, tutto (il mondo attorno a te) è in ordine». Ma è anche espressione di quella che funzione che insieme con Freud abbiamo definito come «prima seduttrice», per la quale la madre, non certo nel modo qui descritto, prende il bambino «con evidente chiarezza come sostituto di un oggetto sessuale in piena regola», solo che oramai adulto, manifestazioni come l'accarezzare, il cullare, il baciare (che Freud appunto vedeva come espressioni pur sempre erotiche) non sono più adatte alla sessualità di Kang-Do, oramai completamente matura. Una forma certo estrema di prendersi cura -- e proprio nella sua estremizzazione ovviamente inadeguata, se non perniciosa -- , quasi di «riparazione» per il proprio fallimento patologizzante nei suoi confronti in quanto genitrice. Un debito, viene da dire, il quale la «madre» è spinta ora a ripagare nella misura in cui -- nel suo essere stato sempre più rimosso -- si è andato sempre più alimentando: il fato chiede sempre conto, con tutti gli interessi, delle proprie responsabilità. Ma perché, il punto è questo, una donna che è in cerca di vendetta dovrebbe «masturbare» il carnefice del figlio di sua spontanea volontà e senza che lui ne sia cosciente, visto che lo fa mentre dorme, e quindi risultando inutile ad un livello, per così dire, «strategico», cioè in ordine al suo "piano"?

*

Jang Mi-sun osserva la natura pulsionale del «figlio».

Certo, per contrario tale scena potrebbe anche suggerire che lei non è la madre naturale, data la fortissima pressione che il tabù dell'incesto esercita sulle genitrici (mentre, com'è noto, sui padri tale tabù è meno connaturato). In altre parole, una madre difficilmente farebbe una cosa di questo genere, quantomeno nella norma dei rapporti sociali attuali, ed anche se la terribile vicenda biografica di Jang Mi-sun, con il senso di colpa radicale che la attanaglia, potrebbe permettere di determinarne la genesi e le ragioni.

Ma se ciò può essere accettato per vero, ci sono ulteriori aspetti che, anche in questo caso, contribuiscono a revocare in dubbio tale ricostruzione. Innanzitutto, come detto, in tale scena Kang-Do non è cosciente, e quindi non sa che la «madre» lo sta aiutando a soddisfare questo suo «bisogno» elementare; bisogno insoddisfatto dalla mancanza di affetto nell'infanzia, e dalla impossibilità -- che da questa insoddisfazione talvolta scaturisce -- di instaurare una vera e propria relazione empatica con l'altro. Di nuovo, quale senso può avere -- se ella sta fingendo di essere la madre -- una scena del genere al momento che Kang-Do non è cosciente e non ricorderà cosa ella ha fatto? Si potrebbe sostenere -- ne abbiamo fatto cenno in precedenza, quando abbiamo analizzato le curiose affermazioni materne verso Kang-do -- che il senso della scena sia quello di mostrare che proprio in questo momento Jang Mi-sun sta iniziando a subire una trasformazione, cominciando da qui a comprendere la natura profondamente psicotica del ragazzo, e quindi per la prima volta si rapporta a lui con «amore». Comprendere che Kang-do è carnefice non solo delle sue vittime, ma anche di se stesso, sembra iniziare a modificare la percezione di Jang Mi- sun della vendetta che deve compiere, ed appunto per questa ragione inizia a provare per Kang-do tristezza e pietà, pietà per un genere umano ridotto dal denaro allo stato primitivo e pulsionale. Come dicevamo in precedenza una sorta di metanoia, poiché talvolta la «conoscenza empatica dell'altro» diviene amore; quantomeno se si segue l'adagio patristico: la conoscenza diviene sempre amore, come vedremo meglio allorquando accenneremo al fatto che la pietà assoluta perdona non perché comprende, nel senso dell'empatia nella psicologia analitica e/o del sé, ma perché ama.

*

Jang Mi-sun prende coscienza di cosa ha appena fatto...

Tale spiegazione ha una sua validità, e sembra sfuggire alle varie incongruenze che abbiamo fin qui fatto valere, ma -- anche non considerando che drammaturgicamente rimarrebbe ugualmente una trasformazione troppo repentina e la psicologia del personaggio apparirebbe al limite della psicosi e che ciò varrebbe anche se lei fosse la madre -- la scena successiva sembra far vacillare la coerenza di tale ricostruzione, poiché vedremo la «madre» recarsi in bagno a lavarsi la mano quasi con rabbia, come se la «sporcizia» del gesto incestuoso non volesse andare via. Tale scena sembrerebbe indicare un senso di colpa per quanto fatto, senso di colpa che probabilmente non sarebbe così intenso se non fosse implicata una dimensione realmente incestuosa.

*

... e corre immediatamente a «lavare» via da sé la colpa appena perpetrata.

E tutto ciò, non considerando che se anche la scena si spiega per una sua funzione logica nella tesi generale del film -- serve cioè a mostrare come la frequentazione di Kang-do stia agendo sulla psicologia e sull'emotività di Jang Mi-sun e sulle sue motivazioni più profonde -- anche in questo caso non esula, o quantomeno non dovrebbe, la costruzione filmica dal mantenere una coerenza visiva e narrativa con la propria logica interna, con il proprio autonomo universo narrativo. Esattamente come nel caso delle affermazioni materne, se tale scena fungesse solo da spartiacque, allora tale coerenza logica e narrativa verrebbe ad incrinarsi, dato che il senso della scena diventerebbe plausibile solo in funzione dello «svolgimento tematico generale» del film e non per il suo adeguarsi alla tessitura drammaturgica che vorrebbe la protagonista come falsa «madre». Più semplicemente ancora: i personaggi non possono risultare narrativamente inconseguenti solo perché servono ad esprimere un'idea generale ed astratta.

Viene da sé, allora, che mostrare una donna che vuole vendicarsi del figlio ucciso, la quale poi masturba il suo carnefice in maniera «gratuita» -- senza cioè che lui ne abbia coscienza e senza che abbia una funzione in ordine al proprio piano dei rivalsa (funzione che, pur nella sua scandalosa enormità, aveva il «lasciarsi» violentare e poi comportarsi come se nulla fosse successo) -- , rischia di risultare un compiaciuto eccesso fine a se stesso. Soprattutto considerando che tale gesto «amorevole» è stato donato appunto dopo essere lei già stata da lui violentata, che non è come essere stata presa a schiaffi o cos'altro. Questa violenza subita come è ovvio risulta una ulteriore aggravante, la quale rende doppiamente eccessiva, iperbolica, tale scena: perché una donna dovrebbe masturbare gratuitamente il carnefice non solo del figlio, ma anche il proprio, e che sembra essere intenzionata a punire con la più terribile delle torture? Anche in questo caso non sembra essere dato saperlo.

Come oramai dovrebbe essere chiaro, a nostro di vedere se Jung Mi-sun è la madre naturale di Kang-do, allora tali eccessi, pur rimanendo problematici, acquisiscono maggiore coerenza con la stessa intelaiatura narrativa e con la complessa psicologia dei personaggi.

Quest'ultima scena, attraverso la sua estrema polarizzazione di stadi affettivi, cioè «o tutto o niente» -- da donna distrutta per essere stata violentata a, subito dopo, madre premurosa che amorevolmente prepara la colazione al proprio carnefice, e da donna amorevole fino al punto di soddisfare i bisogni del figlio, financo quelli sessuali, a crudele e spietata Erinni decisa a torturarlo fino a farlo impazzire dal dolore per la perdita di coloro che si amano -- sembra indicare una sorta di parentela con il già accennato modo di funzionamento ed organizzazione della mente cosiddetto borderline (cioè liminare tra nevrosi e psicosi). Cotale modalità di risposta affettiva ed umorale nei confronti dell'altro è spesso caratterizzata da cambi di registro improvvisi, radicali e di natura contraddittoria, in cui la persona viene ad essere caratterizzata come totalmente buona o totalmente cattiva, passando da una categorizzazione all'altra anche nel giro di poche ore (come peraltro è nei cambi di registro testé ricordati). È possibile constatare ciò anche nelle scene successive: proprio il mattino seguente a tale "amorevole" gesto Jang Mi-sun mette in moto la fase terminale della "tremenda" vendetta, scomparendo per una prima volta, mentre la sera stessa è Kang-do che va a dormire nel letto della madre, anche se lei questa volta lo scaccia in malo modo -- dall'unione più intima alla separazione più brutale -- od anche, ovviamente, nell'indecidibile doppio vincolo ultimo (di vendetta e pietà) nella scena in cui ella sta per completare il proprio piano.

Quindi Jang Mi-sun -- almeno da quanto è possibile riscontrare nella pellicola -- pare mostrare una personalità che sembra accordarsi con una organizzazione borderline della mente, la quale a sua volta pare ben accordarsi con la personalità sociopatica del «figlio», dato che un atteggiamento anaffettivo, non empatico, se non appunto sociopatico, può derivare da atteggiamenti radicalmente polarizzati dei genitori nei confronti dei figli. Il «registro borderline» della «madre» diventa in questo modo un ulteriore indizio di un grado di parentela che appare essere molto stretto, mentre se così non fosse tale atteggiamento risulterebbe non pienamente comprensibile, ed anche fuori luogo nel suo eccesso, denotando appunto una personalità al limite della psicosi, che cioè ha perso ogni contatto con la realtà, anche quella chiusa nell'ordito del suo raffinato e complesso piano vendicativo; piano che quindi risulterebbe a sua volta difficilmente attuabile per una persona che mostra di non riuscire ad organizzare una coerente struttura di pensiero ed una coesa forma narrativa del proprio sé, come è tipico di alcune forme psicotiche.

Tutti questi, pur nella loro indecidibile ambiguità, rappresentano indizi che sembrano convergere nella risoluzione per la quale la protagonista può essere realmente identificabile come la madre naturale di Kang-do; ed abbiamo già detto che indizi del contrario -- tralasciando quelli ipotizzati come eventuale contraddizione alle varie ipotesi proposte, ed a loro volta revocati in dubbio -- non sembrano essercene, risultando così maggiormente indebolita e talvolta resa incongrua proprio dai medesimi indizi. Ma anche se da un punto di vista della coerenza diegetica i punti deboli potessero trovare spiegazione logica, il problema principale rimane pur sempre quello che abbiamo testé accennato, cioè che dal punto di vista strettamente narrativo il film funzionerebbe altrettanto bene, poiché anche se si procede per ellissi ed iperboli, tali eccessi devono sempre essere inseriti nel tessuto cinematografico (cioè in ordine al linguaggio visivo) in maniera funzionale e coerente. Ad esempio nella Seul di Pietà non sembrano esserci forze dell'ordine, e quindi le vittime vivono come lasciate alla mercé dei propri aguzzini; aguzzini, poi, che possono circolare liberamente senza temere conseguenze e così continuare a fare ciò che più gli aggrada. Le stesse vittime, inoltre, neanche si supportano a vicenda (anche se questa sarebbe proprio una delle conseguenze del solipsismo metodico dell'ontologia neoliberista). Insomma, a Seul sembra essere in vigore e legalizzata l'anarchia ed il darwinismo sociale più brutale, cosa francamente improbabile. E che dire del capo della banda di usurai, cioè un tizio anonimo ed imbolsito, che se ne sta da solo in una specie di retrobottega, e che può essere facilmente sopraffatto da una donna di mezza età senza che ella incontri alcuna opposizione?

Ebbene, anche tali aspetti secondo una logica obiettivante non sono del tutto plausibili, ma come già abbiamo avuto modo di sottolineare, ogni impostazione narrativa mitologica -- come per noi è quella di Pietà -- non pretende mai di offrire una visione «oggettiva» del mondo, cioè una visione realistica e scientifica; una narrazione mitologica, invece, si predica attraverso una visione del mondo esistenziale, mondo che viene sempre esteriorizzato, oggettivato, sulla base di tale percezione. D'altronde in una logica mitica il mondo è un universo simbolico, una realtà, cioè, che per i protagonisti appare sempre come un grande dramma cosmico e/o sociale, nel quale l'uomo è soggetto ai capricci di entità sovrannaturali da cui si sente minacciato, ma delle quali ha pur sempre bisogno per sopravvivere; ed è solo in questo senso che il mito può essere considerato oggettivante, cioè nel senso -- diverso da quello scientifico -- che «oggettiva» -- rende presenti, naturali -- realtà invisibili e sovrannaturali. In un universo simbolico, diversamente dall'universo della scienza sperimentale, la realtà «oggettiva» è un sistema di significanti esistenziali, i quali vengono oggettivati in «potenze» che appaiono nella quotidianità come esseri concreti; potenze le quali, quindi, allo stesso tempo e per il medesimo rispetto appaiono sia come immanenti sia come trascendenti l'universo di senso percepito dai protagonisti.

Ci troviamo, quindi, all'interno di una logica esistenziale, quella appunto del dominio del Denaro/Debito, dell'etica mercatista dell'uno contro l'altro e della barbarie, cioè figurazioni di potenze numinose, distanti, invisibili ma onnipresenti, inaccessibili e sinistre, le quali sono il fondamento della prigione della sofferenza in cui si vive; una sorta di mano invisibile che muove i fili del destino. Quindi all'interno di tale impostazione logico-mitica, gli aspetti «oggettivamente» non credibili testé ricordati, pur nella loro estrema semplificazione, appunto ellittica, allo stesso risultano funzionali al folclore prescelto e quindi coerenti con le regole -- le «leggi naturali» -- dell'universo narrativo creato dagli autori.

Non così, invece, se Jang Mi-sun non fosse la madre naturale di Kang-do, poiché, a differenza degli aspetti problematici di cui sopra, la madre ed il figlio sono il motore stesso della narrazione, e se risultano non credibili loro, allora verrebbe a perdere in coerenza e credibilità l'intero impianto mitologico scelto, cioè il film nella sua totalità. Una così fatta scelta, inoltre, renderebbe i personaggi, nelle loro estremizzazioni, simili a delle ellissi di una ellissi. Troppo anche per un regista come Kim Ki Duk, il quale ha fatto della confusione tra realtà e fantasia la propria cifra stilistica.

Detto altrimenti, a nostro avviso interpretare Jang Mi-sun come madre naturale di Kang-do non pregiudica la coerenza della pellicola e non ne modifica le intenzioni ed il senso. Se lei è la madre il plot è reso incoerente? No, od almeno risulta difficile scorgere tali incoerenze. Anzi molte scene ellittiche acquistano maggiore coerenza e plausibilità. La tesi principale e la critica al denaro ne esce depotenziata? No. Insomma, cosa cambierebbe -- in peggio -- se Jang Mi-sun viene ad essere considerata come la madre naturale? A nostro modo di vedere nulla, o poco, se non che si potrebbe pensare che provare pietà per il proprio figlio sarebbe probabilmente in qualche modo più semplice che se Kang-do non lo fosse, dato che una madre, così sembrerebbe, ha sempre pietà dei propri figli; ma così sarebbe solo se la madre allo stesso tempo non fosse quella colpa assoluta che ha messo in modo la macchina della tragedia e ne subisce tutto il peso.

4. La donna e la salvezza del mondo: la vendetta del perdono

Senza contraddizione dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà.
-- 1Tim, 3. 16

Carezzate piuttosto le fiere, perché diventino mio sepolcro, e nulla lascino delle mie membra, affinché, da morto non sia di peso a nessuno [...] Ora, incatenato, imparo a spogliarmi di ogni desiderio.
-- Ignazio D'Antiochia, Ai Romani, IV

Che cosa aspetta? -- La prova... -- Ma non lo sappiamo noi che ciò è vero? -- Noi le abbiamo parlato, ma le nostre non erano che parole. Ora è lei che deve dargli significato divino. Far sì che ciò che è vero si inveri. -- E come darà questa prova? -- Come fu data nel calvario! La prova non si scrive che con parole di sangue.
-- Thierry Moulnier, Giovanna ed i suoi giudici.

Aver mostrato perché Pietà risulta maggiormente coerente allorquando si sceglie di vedere in Jang Mi-sun la madre naturale di Kang-do, ci introduce alla seconda vexata quaestio ricordata in principio della sezione precedente: la consegna al sacrificio di Jang Mi-sun è in ordine alla vendetta od al perdono? Per definire le ragioni che ci portano a sostenere l'ipotesi del senso filmico tutto giocato in ordine al perdono, crediamo sia necessario un livello di lettura diverso rispetto al precedente, che era definibile più come «testuale», mentre in questo caso leggeremo tale questione da un punto di vista spirituale. In questo senso, nel senso cioè di un testo che diventa un paratesto e/o un pretesto, lo stile adottato rifletterà questa scelta, che privilegia la sintesi all'analisi, e quindi l'esegesi, per quanto cerchi sempre di rimanere ancorata al «testo», non sarà certo esente da inevitabili lacune e presupposizioni (molte della quali, ovviamente, inconsapevoli).

Pietà, pur nella drammaticità di una rappresentazione della «violenza» a tratti insostenibile, come tutte le grandi parabole e tragedie risulta adatta a tutti e comprensibile a chiunque, a prescindere dalla collocazione geografica e culturale degli spettatori. Allo stesso tempo, appunto come ogni grande parabola e tragedia e proprio nella sua strutturazione a più livelli, Pietà lascia spazio ad ulteriori letture, e talvolta si apre ad una espressione di senso la quale riesce ad eccedere le stesse intenzioni dell'autore. Difatti i simboli, in quanto archetipi, non sono qualcosa in nostro completo possesso, e fanno parte del codice genetico (o, meglio, memetico) della psiche dell'uomo, ed in quanto tali possono venirsi a generare in maniera inconscia.

In questo senso Pietà, a prescindere dal giudizio che se ne vuole dare ed al peso assegnato ai difetti che pur presenta, è una di queste opere. Un'opera, cioè, che trova la sua forza drammatica non tanto nel chiudersi nello strato superficiale di una «tesi» -- il denaro che corrompe tutto e tutti, e limitarsi così, seppur efficacemente, ad esporla -- ma nell'alimentarne la problematicità, la complessità, l'ambiguità e financo il mistero (appunto quello della pietà). E le grandi tragedie, come le grandi parabole, diventano classici universali proprio perché il «mistero» che esse mettono in campo non viene mai sciolto del tutto, ma alimentato incessantemente dall'inesauribilità delle interpretazioni che l'opera, di epoca in epoca, continua a provocare. Per questa ragione le domande e le ipotesi che qui proponiamo non vogliono essere definitorie, e sono pur sempre destinate a rimanere aperte, per offrire così la possibilità di riflessione, uno spunto per ulteriori approfondimenti ed interpretazioni. D'altronde è così che ci siamo posti di fronte a Pietà, come un testo che è sempre pretesto.

Ripercorrendo le vicende narrate nel primo paragrafo risulta quindi chiaro, in primis, il perché, al momento che si sceglie di sovrapporre parabola e tragedia, al regista non sia possibile esimersi da una decisa rappresentazione della crudeltà e del sacrificio teso all'umiliazione estrema: solo il sacrificio della pietà -- il mors mea vita tua, per questo la protagonista non poteva che essere una «madre» -- permette di sfuggire alle maglie dell'etica del capitalismo e del denaro -- il mors tua vita mea, e per questo il protagonista non poteva che essere un esattore di una banda di usurai -- . E come in ogni tragedia, perché il meccanismo drammaturgico funzioni e riesca a rendere credibile la psicologia dei personaggi, la descrizione della crudeltà e della violenza deve essere lasciata essere in tutta la sua «pornografia». Infatti, come già accennato, il sacrificio e la sofferenza -- la pietà -- hanno senso unicamente se sono un «caso serio» (un impegno assoluto, essenziale ed esistenziale), non una maschera docetistica senza effettiva realtà, un trucco o, peggio, uno strumento per fungere da esempio moralizzatore; cosa, questa, che sarebbe stata se Jang Mi-sun avesse solo inscenato la propria morte, rischiando così di ridursi ad essere l'attrice di se stessa.

La perdonanza di Jang Mi-sun non appare come quella derivante dalla mera comprensione dell'altro (la quale direbbe «io lo capisco...»), bensì l'unico perdono che abbia senso universale, e che possa spezzare la spirale della vendetta, quello del sacrificio estremo, cioè il perdonare dell'amore. La pietà che Jang Mi-sun prova è infatti ad essa stessa incomprensibile («non so perché mi sento così triste per lui» afferma), poiché il vero perdono non è mai tale solo perché -- empaticamente e psicologicamente -- comprende l'altro, ma perché lo ama. La pietà non è un qualcosa che è in nostro possesso, e del quale possiamo disporre a nostro piacimento; anzi talvolta la pietà è qualcosa che ci possiede contro la nostra volontà. È in questo senso che la consegna (paradosis) alla morte passa così da quella della «legge del mondo» -- cioè la consegna alla morte dei figli da parte dei genitori, quella dei genitori da parte dei figli e quella dei fratelli da parte dei fratelli (che in fondo è lo stesso arco narrativo di Pietà) -- alla consegna di se stessi, alla morte, per tutti costoro come «debito» della ricevuta di vita ottenuta dalla morte dell'altro per me. Debito non in senso finanziario, dato che il debito della paradosis all'altro non è determinato da alcun un previo «calcolo» di note di credito future ed un interesse (tokos) -- in questo caso il Dio cristiano, come peraltro è stato vaticinato, sarebbe una sorta di banchiere -- e quindi è sempre un debito per excessus (charis), il quale appunto per questo si converte nella negazione del debito (chreos).

Il perdono qui rappresentato ha senso solo se il dono offerto è il proprio sé, la propria vita. E non nel senso di un edificante «impegno» solidale a favore degli altri, ma proprio l'impegno «assoluto» del sacrificio. Il sacrificio di Jang Mi-sun diventa, così, un estremo atto di sympatheia con Kang-do, ed attraverso di lui con l'umanità tutta; umanità che solo in questo atto sembra avere l'unica speranza di ritrovare se stessa. Jang Mi-sun, quindi, non rappresenta una donna in generale (un astratto principio universale), ma quella donna lì, con quel nome e quel cognome, realissima nella sua carnalità e finita nella sua mortalià. Come detto in altra sede a proposito de L'idiota di Dostoevskij, Jang Mi-sun non è costruita come «un caso singolo o particolare di una struttura generale, semmai è il caso particolare che, nella sua assoluta unicità e irripetibilità, mostra «l'universale»» della pietà; è, questa, l'iperbolica logica del simbolo, nella quale viene a manifestarsi come la più perfetta e ferrea identità sia allo stesso tempo indice della più assoluta ed ontologica differenza: la forma particolare più radicale -- quella della carne e del sangue -- è l'universalità assoluta. Ma tale manifestazione può essere presa sul «serio» solo allorquando è disposta ad abbracciare la propria morte.

Il perdono diventa un atto genetico e restituisce la vita in quanto debito ontologico, la restituisce a chi l'ha perduta, non la ha mai avuta o non ha mai saputo di averla: la pietà è sempre una morte, al proprio sé, che vivifica. È cosa è, questa morte vivificante, se non il carisma della maternità spirituale della donna, cioè il suo essere fonte di vita?

In tale vera e propria metanoia, Jang Mi-sun compie il proprio tragico arco trasformazionale: da discordia a collera, per arrivare ad assumere le sembianze non tanto di benevolenza, quanto quelle di una Theotokos postmoderna. Discordia, cioè Eris, perché, in quanto «madre» di Kang-do, è all'origine di tutti i mali e le cattiverie delle quali è lei stessa vittima (esattamente come fu per Eva, vergine decaduta e causa di morte per l'intero genere umano). Collera, cioè Erinni, dato che vuole furiosamente perseguitare Kang-do fino a farlo impazzire. Theotokos, poiché -- al momento che arriva a comprendere che la pietà, e non la vendetta, è l'unica legge dell'evoluzione umana -- ella prende le sembianze non tanto di una delle Eumenidi, cioè la benevolenza, bensì quelle di una donna realissima e mortale, in cui pietà, perdono e sacrificio di sé diventano la medesima cosa (e così in qualche modo ricapitolando -- anakephalaiosis -- il suo essere stata un'Eva altrettanto postmoderna). Perché la pietà, a differenza di ogni benevolenza, è tremenda nella sua sconvolgente «violenza».

Per questa ragione tale figurazione della pietas risulta essere ben diversa dal medesimo concetto sviluppato nell'antichità classica, come anche della traduzione meramente devozionale fattane nella latinità occidentale. Ci riferiamo, tra i molti esempi possibili, all'idea della pietà espressa da Ulisse nell'Aiace sofoclea o, soprattutto, quella di Oreste che prova il medesimo sentimento verso la madre nelle Coefore di Eschilo. Anche in Eschilo, infatti, si trova una figura, appunto quella di Oreste, stretta tra due ingiunzioni: il dover uccidere la madre, e vendicare il padre, e provare pietà per la madre (ed orrore per il crimine assoluto del matricidio): qualsiasi sia la decisione, disubbidire ad una delle due equivarrebbe ugualmente ad una colpa tremenda; ma alla fine la religiosità apollinea -- se così la si può definire -- e quella ancor più ancestrale ed aorgica della famiglia e della stirpe, lo convincono della necessità di commettere il matricidio e rendere così giustizia di sangue.

Nell'Elettra di Sofocle, invece, Oreste ed Elettra stessa non sono soggetti a tale double bind e non provano quel senso d'orrore per il matricidio, risultando ben più risoluti nel loro piano vendicativo (anche se Elettra si sottrae dal compiere materialmente l'omicidio). Tale determinazione al matricidio senza alcuna pietà, viene da Sofocle resa accettabile anche attraverso una ricercata caratterizzazione di Clitenmestra, la quale a differenza di Eschilo ed Euripide -- od anche, da quel che ne sappiamo, di Stesicoro e Pindaro -- , è totalmente disumanizzata, cioè resa una sorta di mostro che per la sua condotta non presenta più alcun barlume di maternità e/o femminilità -- come constatabile proprio nella crudeltà estrema verso la figlia Elettra -- , rendendone così accettabile ed ancor più giustificabile il sacrificio senza rimorso alcuno.

Infine l'Elettra euripidea, che si pone all'antitesi di quella Sofoclea e diventa una tragedia totalmente laica e civile, desacralizzata, sradicata cioè da ogni riferimento alla giustizia religiosa e/o familiare. L'assassinio di Clitemnestra non deriva da alcuna imposizione e la colpa del male è ascrivibile solo all'uomo, venendo così meno ogni presunta funzione di strumento della giustizia: il matricidio è solo un orrendo crimine che deriva unicamente dalla sete dei vendetta dei cospiranti (soprattutto di Elettra, qui ben più determinata di Oreste -- il quale contesta anche la legittimità dell'ordine divino -- e partecipe attiva dell'assassinio, del quale se ne assume la completa responsabilità), ed in quanto tale -- fin dallo stesso coro -- viene condannato senza appello.

In Pietà Jang Mi-sun non viene a manifestare tali istanze vendicative, se non nelle intenzioni del progetto di vendetta, ed anzi ne rappresenta la messa tra parentesi e la trasfigurazione, assurgendo così a manifestazione assoluta della donna universale: non prova pietà, è essa stessa pietà. Jang Mi-su non è un guscio che trasporta un tesi astratta -- valida per tutti ed adatta a nessuno -- che dovrebbe edificare il mondo, bensì nel suo percorso trasformazionale arriva ad esprimere l'identità formale tra la sua persona e la sua «missione» (perciò, dicevamo, ella non è un'allegoria, ma, tutt'al più, un simbolo), ed è per questa ragione che solo il sangue è quell'unica parola, la prima e l'ultima, che può inverare il suo esser autentica «mater dolorosa». Tutte le altre opzioni avrebbero rischiato di convertire in farsa la tragedia. Anche perché, se ella non fosse la vera madre di Kang-do, od anche non avesse mai potuto esserlo veramente per averlo abbandonato, allora nel frequentarlo, e vederlo rinascere attraverso la sua amorevole presenza, vedrebbe ugualmente il suo pur strumentale perdonare restituirgli la propria umanità, dargli la vita, ed in questo assolvere alla propria vocazione materna al di là delle propria inconfessa volontà. La madre, come ogni madre, trova la propria maturazione in donna, nel vedersi diventare, allo stesso tempo, cibo e donazione.

Nello scegliere od accettare il sacrifico estremo di sé al posto dell'omicidio del colpevole e quindi nella scelta di rivolgere la vendetta verso se stessi, la vendetta per la colpa e la violenza si viene a trasformare nella vendetta del perdono. La vendetta della vendetta è la pietà; poiché la verità del perdonare e dell'amore materno deve sottrarsi (a Kang-do), affinché possa così meglio offrirsi (a tutti). Il piano vendicativo di Jang Mi-sun si scopre e/o si trasforma in un «agire per economia», quella della salvezza, e mette in moto un «circuito inverso» rispetto al mors tua vita mea. Rimette in circolo (recirculatio), attraverso l'effusione del sangue per le arterie/strade dell'organismo urbano, la possibilità di una diversa concezione dei rapporti umani, una nuova strada, una via d'uscita dal labirinto della disperazione in cui il Demiurgo Denaro ha costretto l'uomo. Jang Mi-sun -- di contro a tutte le versioni edificanti e buoniste dell'agire cristiano -- sembra prendere alla lettera e così interpretare in maniera iperbolica il ruolo antinomico della colomba e del serpente (Mt. 10, 16). Il piano di vendetta, cioè, si trasfigura in una missione di redenzione, poiché la «giustizia vendicativa» della madre viene (re) diretta a distruggere la malvagità del mondo -- la logica dell'uno contro l'altro, del mors tua vita mea in nome dell'efficienza e dell'egoismo dei propri interessi -- al fine di estirparla dalle anime (in una ricapitolazione che appunto è sempre una ricircolazione). Poiché solo nell'accettazione di inenarrabili atrocità e sofferenze su di sé per sconfiggere la colpa, che la vendetta può assumere la forma di quell'unica giustizia vendicativa che abbia senso (proprio nel rivolgersi a sé diviene allo stesso tempo giustizia distributiva, Rom. 13, 7). L'unica «vendetta» che non sia vile e spregevole, cioè, si compie solo non compiendosi, o compiendosi nel suo contrario, nel sacrificio di sé, il quale è quella pietà che è sempre un «cristallo trasparente» (hyalos diauges, Ap. 21, 21), nel quale si trasmette, e quindi si comunica, un mistero che da per sé (vendetta) si converte in un per tutti (perdono).

È per questo che nel sacrificio estremo la fine si trasforma sempre in un altro inizio, poiché solo nella sottrazione della propria mediazione la pietà può manifestarsi e trasmettersi, compiendo così se stessa; ed è solo nel sacrificio della morte, realissima, essa può convertirsi in un atto vivificante: la morte doveva rappresentarsi come (pen) ultima parola. Per questa ragione l'unica e vera pietà è sempre un morire. D'altronde se si interpreta in profondità il Kyrie eleison, con il quale peraltro si conclude Pietà, si scopre che il «Signore, pietà» è solo una delle sue possibili significazioni, mentre un'altra -- più particolare, ed in uso con più frequenza nella mistica del cristianesimo ortodosso -- potrebbe renderne il significato con «Signore, manda il tuo spirito». Ecco, quindi, che la pietà diventa quella mediazione che sempre si sottrae per far passare lo spirito, la vita, cioè la pietà è lo stesso spirito in quanto passaggio, soffio vitale che -- nella pietà, nel sacrificio dell'un per l'altro -- attraversa come un fiume gli esseri umani senza mai fermarsi e trovare fine (Ap. 22, 1 Kai edeixen moi potamon hydatos zoes lampron hos krystallon).

*

*

Kang-Do viene incatenato (dedeménos) dal mistero della pietà alla strada che dovrà percorrere per «spogliarsi di ogni desiderio» -- lungo le vie di quel mercato che è la società, le vie delle fiere -- e così (nella recirculatio) non essere più angoscia a nessuno

È possibile interpretare così anche il «sacrificio» di Kang-do, poiché il dono della pietà non funziona con un donum superadditum (cioè un qualcosa di sopraggiunto, di esteriore, di accessorio), cioè come un qualcosa che non tocca la natura stessa di chi lo riceve (vulneratus in naturalibus), il proprio io più nascosto, e da esso viene trasfigurato nella sua essenza, non potendo così più vivere come il vecchio se stesso. La pietà non è come l'oggetto di un «contratto», che se non rispettato può essere revocato, ma la negazione stessa di ogni contrattualismo. La pietà, quantomeno nel senso trasfigurato da Gesù Cristo, talvolta è più violenta della violenza fisica; violenza nel senso anche, se non soprattutto, del biazetai di Luca 16, 16 (kai pas eis autên biazetai), cioè di una «parola» che scardina l'ordine costituito e lo fa violentemente, avanzando in maniera inarrestabile. Tutto ciò può compiersi unicamente nella «violenza», cioè attraverso il sangue della paradosis, la quale chiede che sia compiuto ciò che deve essere compiuto (cfr. anche Matteo 11, 12: tôn ouranôn biazetai kai biastai). Ed è questo l'unico «debito» che non può essere mai eluso, il quale prende violentemente possesso di noi (synéchein, con angoscia e sofferenza). Esattamente come l'éros desiderante per Riccardo di San Vittore, quell'éros che coincide con la violenza dell'amore, cioè la violenta caritas, la pietà incatena (ligat), consuma fino allo spossamento (languidum facit), ferisce (vulnerat) fino a far venir meno (defectum adducit). Per questa ragione la pietà è sempre un «caso serio», e quindi diventa per Kang-do l'unico vero debito che non è eludibile, e che soltanto in un modo può essere saldato, cioè facendosi esso stesso pietà e sacrificio per gli altri, poiché -- come ebbe a dire anche Solov'ev, ogni individuo trova salvezza e giustificazione della propria individualità solo nel sacrificio della stessa individualità e del proprio egoismo, cioè nell'amore.

Quindi il sacrificio di Jang Mi-sun è come se indicasse la via (matris), facendosi appunto Odigitria («Colei che indica la via»), la quale mostra a Kang-do le strade che dovrà percorrere nel morire alla «legge» di questo mondo, e far ricircolare la speranza, invertendo, così, il circuito della disperazione, la legge del Denaro/Debito: l'effusione del sangue lungo le arterie dell'organismo metropolitano può determinare una nuova circolazione: la pietà, potremmo dire insieme con Bulgakov, in quanto amore sacrificale è sempre non solo un'antinomia, ma un'antinomia concreta: sacrificio e ritrovamento di sé attraverso il sacrificio.

La celebre formulazione di Campbell -- per la quale «l'effetto della vittoriosa avventura dell'eroe è di far fluire nuovamente la vita nel corpo del mondo» -- ci sembra adatta a mostrare come Pietà, pur nel tono disperante che ne permea ogni fotogramma come ogni mito si venga a concludere con un acuto di speranza.

In questo senso Jang Mi-sun, sacrificandosi per la vendetta della pietà, sembra esprimere una sorta di «Ecce Mater tua», il quale «costringe» a quella paradosis che non può far altro che rispondere attraverso un «Ecce Filius tuus».

Il sacrificio, allora, è realmente un mistero della pietà, poiché la pietà ed il perdono sono sempre senza perché (an-arché). La pietà, nella sua anarchia, si rivela così la follia, la contraddizione ultima del capitalismo tardo moderno; quel capitalismo che ha trovato la sua forma nel potere accordato alle enormi concentrazioni bancarie e finanziare.

Ebbene, questa è solo una delle ipostasi del potere di questo mondo, potere che si manifesta unicamente attraverso un'astuta universalizzazione della propria particolarità, la quale proprio in questa universalizzazione nasconde continuamente se stessa. Insomma, una falsa coscienza che si diffonde nel nascondimento della propria falsità, cioè agendo senza mai entrare in scena, senza mai apparire in quanto tale e quindi al di fuori di ogni controllo. Tale ideologia assoluta (assoluta perché talmente pervasiva da sparire dall'orizzonte percettivo e categoriale, e sembrare appunto che non esista in quanto tale) si è andata sempre più sostituendo -- anche per il tramite di Cavalli di Troia come una vaga e vagheggiata democrazia diretta -- alla governabilità democratica, cioè alla democrazia rappresentativa, la quale a sua volta si è ridotta sempre di più maschera di una onnipervasiva ideologia monetaria e mercatista. Intendiamo qui mercatismo nel senso della totale equiparazione dell'essere umano a consumatore di merci, ed ovviamente ad oggetto/merce esso stesso, e dell'esistenza stessa ad un mercato. In questo senso, il mercatismo viene a configurarsi come la negazione stessa dell'economia, intesa nel senso che storicamente si dava a questo termine fino al medioevo e agli albori della modernità (ma soprattutto nel cristianesimo patristico), cioè un servizio reso agli altri in vista di un fine che va al di là del proprio egoistico interesse, financo contro di esso; per questo si usava parlare di economia della salvezza nell'umiliazione e nella schiavitù di Gesù Cristo, interprete realissimo dell'economia del Padre all'interno nella totalità del «piano» della redenzione e nella sua amministrazione (Ef. 1, 10 e 3, 9) e quindi, anche in questo caso, assolutamente non uno strumento. Nel cosiddetto mercatismo, invece, l'economia diventa il piano per l'universalizzazione dell'egoismo economico, della guerra di tutti contro tutto secondo la logica del mors tua vita mea. D'altronde proprio la trasformazione del denaro in debito -- al punto che nell'economia monetaria tardo moderna senza debiti non ci sarebbe neanche il denaro (quantomeno la sua riproduzione ed espansione) -- rende il debito quel marchio senza il quale non è possibile né comprare né vendere, cioè non è possibile vivere.

Non è un caso che per la legge di questo mondo -- il mondo del Denaro/Debito -- il numero e la numerabilità, ed il poter contare, sono coessenziali all'essere stesso delle cose, poiché il denaro è esso stesso un continuo tener conti, un calcolo, una numerazione, anzi, oggigiorno è la forma suprema della numerazione, ben più decisiva di quella fisico- matematica. Ma la pietà, come ben dissero i Padri Cappadoci, è al di là della numerazione e della contabilità; per questo, non è possibile stabilire un ordine, un numero, all'interno dell'Uni-Trinità: se così fosse si negherebbe la trinità stessa. Allo stesso tempo, se la pietà fosse «calcolabile», numerabile, quantificabile, sarebbe soggetta alla legge del mondo. Ma la pietà eccede sempre ogni possibilità di calcolo e numerazione. C'è una scena che per questo rispetto ci appare interessante. Kang-do, senza idee su dove possa essere scomparsa la madre, si mette a controllare il proprio taccuino, in cui annotava le note di credito e debito dei suoi. Probabilmente lì cerca di scovare un qualche indizio su chi può essere stato a rapire la madre. Di certo è questa la ragione del suo rileggere attentamente quei nomi e quei numeri, fatto sta -- così ci permettiamo di interpretare -- che in quel tener conto di denari e debiti non troverà alcun indizio che possa fargli comprendere cosa sta succedendo realmente, poiché l'agire della pietà è appunto al di la della numerabilità e della calcolabilità.

Solo il mistero della pietà, lo svuotamento per l'altro fino alla morte, il proprio perdonare la vita, cioè il «per donargli» la vita, può quindi contrastare il mistero dell'iniquità, del denaro come inaggirabile destino, cioè l'etica della barbarie e dell'ingiustizia legalizzata (quella dell'efficienza come dell'unico criterio di giustizia), e così realizzare la vera «economia», la quale non concerne il profitto e/o l'interesse per sé, ma la salvezza dell'uomo in quanto tale. Solo la pietà spoglia del loro potere i Principati (Col. 2, 13-15) dell'eone contemporaneo (il Denaro/Debito) e sconfigge i suoi arconti (archontôn, cioè prestito, utile, profitto, interesse, costi/benefici, banche, mutui etc.; cfr. 1Cor. 2, 6). Per questo si viene a mostrare, allo stesso tempo, come la pietà ed il suo mistero nulla abbiano a che fare con l'etica o con una «dottrina della virtù o della morale», soprattutto quelle strutturate in maniera furiosamente individuale; come anche nulla sembrano avere a che fare con qualsiasi teoria della giustizia razionalmente concepita, cioè basata su di una razionalità strumentale. Di entrambe, invece, la pietà viene a costituirsi come lo scacco assoluto; e non è un caso che il capitalismo, nella forma di un darwinistico individualismo sociale, abbia potuto attecchire con più pervasività là dove è maggiormente penetrato il protestantesimo (e non è un caso anche che nel protestantesimo la pietà e, quindi, la Theothokos stessa siano elementi derubricati a accessori non strutturali della fede stessa). Nella dottrina cristiana prescismatica, e quindi conciliare, l'idea di «individuo» è un qualcosa di possibile soltanto dopo la caduta, come riflesso della tentazione proprio di ergersi a particolarità egoisticamente concepita, isolata ed autonoma, appunto come individuo. Prima della tentazione, infatti, l'uomo era definibile come «ipostasi», che certo non è la medesima cosa di «individuo» (più precisamente ancora, si dovrebbe affermare che l'uomo edenico è enipostatizzato, non individualizzato). Comunque sia, ogni atteggiamento morale e/o virtuoso, qualora si inscriva all'interno di un'etica del denaro (peraltro l'unica configurazione dell'etica oggi possibile), rimane pur sempre un atteggiamento monetario -- economico ed econometrico, legato unicamente al criterio dell'efficienza -- , il quale, anzi, alimenta ancor di più il dominio del «principe di questo mondo», quel «diavolo che tenta con il denaro».

La pietà -- il mors mea vita tua -- in quanto inaccessibile ad ogni numerazione, risulta invece anteriore ad ogni «legge» o «norma», ad ogni etica legalisticamente intesa. Non solo è anteriore nell'ordine dell'essenza, cioè sia nell'ordine di eminenza sia in quello di dipendenza, ma è anteriore anche allo stesso ordine dell'essenza, ed quindi è sovraessenziale (hyperousios) ogni primo principio o princeps di questo mondo. In questo senso la pietà diviene quel terzo, appunto supereminente e superessenziale, dal quale, essendone la condizione anarchica, vengono a dipendere sia la causa sia l'effetto (od il «prima» ed il «dopo» di ogni ontologia), vale a dire l'ordine della natura e del mondo.

Per tutta questa serie di ragioni la pietà qui presa in esame non ha nulla della «benevolenza», cioè nulla ha a che vedere con atteggiamenti sentimentalistici, edificanti, cioè nulla ha della pietas intesa come «esser pio», «riverente», pietas che traduce il termine più nel suo senso precristiano che non in quello trasfigurato da Cristo stesso, cioè un iperbolico «rispetto per la volontà del padre» il quale diventa il proprio martirio e la propria morte (appunto per questo per una mentalità classica il mistero della pietà è un mistero), affinché il suo spirito possa manifestarsi per tutti (anche se la concezione classica della pietà è pur sempre rintracciabile in Pietà, in quanto si pone l'accento sulla mera devozione e riverenza dei figli verso i genitori). D'altronde il termine etica non compare mai nel vangelo, così come non compare alcuna concezione moralistica del perdono, cioè come un atto di giudizio ispirato all'adeguamento a norme appunto morali, cioè -- in una concezione storicamente ancora più vicina all'attuale modo di pensare -- ad un "agire secondo una responsabilità razionale".

La pietà è al di là di ogni etica, ed è per questo che è «più potente di ogni colpa del mondo».

Il sacrificio della pietà, secondo Kim Ki Duk, viene ad essere la prima ed allo stesso tempo ultima speranza, l'unica rimasta ad un'umanità già da sempre sconfitta e schiacciata dalla labirintica configurazione del cosmo totalmente economicizzato in cui si trova imprigionato e che assomiglia sempre di più ad un sudario. In un kosmos così ordinato la forma più violenta e radicale di vendetta è il perdono: l'eccesso della vendetta diventa, così facendo, un'uscita della vendetta da se stessa, e quindi un suo rovesciamento, un excessus ultionis.

Poiché è vero che nel cristianesimo il mistero della pietà -- tês eusebeias mystêrion -- è Gesù Cristo incarnato, macellato e risorto, mentre quello dell'iniquità -- tês anomias mustêrion -- a partire da Ireneo ed attraverso varie sovrapposizioni di passi biblici -- in particolare il luogo oscuro di 2Tess 2, 1-10 ed il libro di Daniele -- si è andato codificando nella proteiforme figura dell'Anticristo (colui che si proclama e viene riconosciuto, al posto di Gesù Cristo, come l'alfa e l'omega, il principio e la fine di tutte le cose: Egô eimi to Alfa kai to Ô), il quale invece, a differenza del mistero della pietà, è perfettamente numerabile (Ap. 13, 16-18).

Tutto ciò, e nonostante quello che siamo andati suggerendo potrebbe far pensare, non significa che Pietà di Kim Ki Duk possa essere ridotto ad una banale allegoria delle suddette figure bibliche e di una precisa confessione di fede. Tant'è che lo stesso Kim Ki Duk ha più volte ricordato come egli non segua nessuna confessione religiosa in particolare, pur credendo che esse siano molto importanti per quello che egli ritiene l'aspetto più importante dell'esistenza, cioè la vita. Ma come abbiamo affermato in principio, che Kim Ki Duk abbia o meno voluto fare con Pietà un film cattolico, o con La Samaritana un film legato alla visione protestante e con Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora Primavera un film buddhista non ha particolare importanza.

Questo perché Pietà ha il merito di offrire allo spettatore un'opera dal respiro universale, nella quale la messa in scena del peccato e del dolore diventa un concentrato delle domande che sempre assillano l'uomo (come peraltro ricorda la stessa protagonista durante il film): la vendetta ed il perdono, il sacrificio e il peccato, la perdizione e la redenzione, la disperazione e la speranza, l'amore e l'odio, il sangue e il sesso, la violenza e il sacro.

Ma non solo questo, Pietà potrebbe ben fungere da monito ad un certo cristianesimo, al fine ricordargli che l'unico senso cristiano della pietà è quello trasfigurato da Gesù Cristo, non quello del solidarismo di una concezione meramente dialogica e/o relazionale (strutturata pur sempre su di un sostanzialismo identitatico). Ci si soffermi, infatti, sulla recente condizione della Chiesa Cattolica Romana, la quale sembra avere spesso ceduto alle lusinghe delle sirene neoliberiste, o del mercato in genere, non capendo che il capitalismo neoliberista è una bestia ingovernabile, una bestia che preferisce sempre agire da dietro le quinte. In tale fuori scena, egli concede sempre una solo apparente potestà ed una solo indirettamente autorità. Infatti sia la seconda sia la terza bestia, paiono non intuire che spesso tale conferimento di potere implica pur sempre una sottomissione, che sì li fa sentire seduttori, senza comprendere, però, di essere già da sempre stati sedotti. È quella logica ben descritta nell'Apocalisse di Giovanni (13, 1-2), nella quale la bestia che sale dal mare riceve autorità e potestà dalla prima bestia caduta dal cielo (ed ove fosse possibile -- purtroppo non in questa sede -- ci si dovrebbe soffermare sulla raffinata dialettica tra discesa dal cielo e salita dalla terra); a sua volta la seconda bestia ha il potere di concedere autorità e potestà alla terza bestia, che deve però riconsegnarla alla prima, farsi di essa portavoce, concludendo un percorso che è sempre un ritorno, poiché colui che ha il vero potere non lo spartisce mai.

Secondo una certa strategia sociale e politica le sirene neoliberiste spingono e seducono al fine di fare in modo che tutti gli spazi (ancora) non economicizzati, come quelli della chiesa stessa, siano anch'essi economicizzati, per trasformare così l'ecclesia stessa in mercato; e, quindi, a negarsi in quanto ecclesia, in quanto evento, in quanto sinassi liturgica: «Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato» (Gv 2, 13). Pensiamo ad esempio al volontariato, che già per come è oggigiorno concepito sembra essere un aspetto secondario, subordinato a quel poco che rimane nel proprio (poco) «tempo libero», e sempre dopo aver compiuto il proprio dovere rispetto alla legge del mondo, cioè aver agito economicamente sulla base della logica dell'efficienza; e non considerando che anche quando proposto come alternativa all'economia della barbarie, tale scelta è pur sempre un'opzione lasciata alla libera scelta e «disponibilità» individuale, e quindi, di nuovo, un aspetto piegato alla logica che si vuole contrastare e, quindi, con il rischio di presentarsi come possibilità già da sempre sconfitta. E la coincidenza tra l'arco temporale della diffusione di tali teorie economiche ultraliberiste ed il diffondersi delle variazioni ecclesiali seguite al Vaticano II, con l'avvento di quello che Hans Urs von Balthasar definì come una sorta di «neocattolicesimo», ci sembra significativa; neocattolicesimo nel quale il centro della fede non pare più essere lo scandalo della Croce, ma un astratto rispetto e amore reciproco dei fedeli. Insomma un amore che non è né eros né agape, ma tutt'al più è appunto definibile come benevolenza, quasi una parodia, cioè, dell'amore manifestato nel mistero della pietà, ed il quale, slegato da ogni bellezza e da ogni verità, si riduce ad un qualcosa che sarebbe ben più definibile come amorevolezza: un qualcosa di aleatorio, un sentimento vago ed inconsistente come la sabbia, la quale viene a sparpagliarsi di qua e di là senza alcuna direzione, non trovando mai una sua precipua e compiuta forma, cioè una figura di cui si può rendere testimonianza. Tale amorevolezza, tale rispetto e tale appellarsi reciproco, infatti, possono ben fare a meno della Croce, e quindi anche della stessa fede cristiana. D'altronde il primo passo della Chiesa in questa direzione, cioè quello di abbandonare l'evento personale che essa stessa è (o quantomeno dovrebbe essere) in quanto comunione, per ridursi ad una sorta di etica e/o dottrina morale, sempre più concepita in maniera individualistica ed impersonale, sembra essere stato compiuto proprio a partire dal suddetto arco temporale; periodo nel quale, peraltro, il cristianesimo occidentale -- adottando una forma comunicativa e un linguaggio sempre più definibili come mitologici -- non sembra aver più prodotto voci teologiche capaci di offrire sintesi universali, cioè appunto cattoliche, capaci di parlare a tutto il mondo. Di tale riduzione dell'ecclesia ad edificante etica devozionale, la cosiddetta bioetica è diventata il cavallo di battaglia più alla moda, e quindi più spendibile nel mercato delle «religiosità»; religiosità che non è la pietà (come pure, e per noi purtroppo, dal 2008 viene ufficialmente tradotta in italiano eusebeias in I Tim. 3. 16), non è l'amore e soprattutto non è il cristianesimo, il quale è un evento di comunione/donazione personale, non una religione (nel senso moderno).

Poiché solo coloro che rifiutano la pietà negano la totalità dell'economia.

5. Dialettica della maternità spirituale: la donna è il futuro dell'uomo

Lottiamo per vedere noi e gli altri come Lei vede noi. Sentire noi e gli altri come Lei sente noi, parlare con noi e con gli altri come Lei parla con noi. Dare riparo alle nostre anime e a quelle degli altri come Lei dà riparo a noi. Amare le nostre anime e quelle degli altri come Lei ama noi.

-- C. P. Estés, Veste di Frecce

Concludendo questa lunga analisi, crediamo di aver mostrato come Pietà di Kim Ki Duk possa essere letto attraverso più livelli di lettura e abbracciando diverse interpretazioni. La nostra tesi accetta l'ipotesi che Jang Mi-sun sia realmente la madre naturale di Kang do, e che essa si sacrifici in quanto pietà e non per una vendetta fine a se stessa.

*

Una suggestiva immagine di Jang Mi-sun, che poco prima di compiere l'atto finale del proprio piano/missione rimane in contemplazione a piedi «nudi» su di una lastra di ghiaccio. Che voglia sopprimere, «raffreddandola», l'insopportabile violenza della «pietà» che l'attraversa e, contro il suo volere, mina i suoi propositi vendicativi?

Prescindendo dai riferimenti diretti od indiretti, e che possono risultare più o meno adeguati, quello che risulta essenziale è che se Jang Mi-sun è la madre di Kang-do, allora non solo tutto il film acquista una significazione più universale, ma lo stesso tessuto visivo e narrativo risulta cinematograficamente più solido e coerente. In questo modo le intenzioni ed il senso della pellicola ne escono quindi rafforzati per complessità e profondità.

Pietà, quindi, racconta di una madre, Jang Mi-sun, il cui figlio è morto per responsabilità dell'altro suo figlio, da lei abbandonato, Kang-do, e quindi che non sa che quello che si è ucciso per causa sua è il fratello, e che proprio tale abbandono ha reso così insensibile e malvagio. La colpa originaria di tutto, quindi, è l'abbandono di Kang-Do, che fa così ricadere la responsabilità su Jang Mi-sun sia per la morte di un figlio sia per la malvagità dell'altro. Il senso di colpa diventa assoluto (ed è per questo che è più violento di qualsiasi aspetto violento del film) e la trasforma a sua volta in una «carnefice», stretta tra il dover vendicare un figlio «ucciso» dall'altro figlio, «uccidendolo», e dover provare allo stesso tempo pietà per lui, vittima delle sue colpe in quanto madre sciagurata ed insensibile, ma consapevole che la propria funzione materna ha generato in Kang-do un cambiamento, gli ha dato (una nuova) vita. La vendetta diventa così riflessiva: Jang Mi-sun, attraverso Kang-do, cerca di vendicarsi di se stessa (ecco un altro vero colpo di scena). In questa vendetta contro se stessa, la vendetta stessa si viene a tramutare in pietà (Eva si «converte» in Maria) compiendosi così nel suo contrario. Solo così il sacrificio (l'unica giustizia vendicativa possibile, cioè prendere su di sé la colpa del mondo ed il suo giudizio) diventa quella sottrazione attraverso la quale il perdono può offrirsi, e così generare di nuovo la vita e la speranza. La pietà dice se stessa solo nella morte.

Allo stesso tempo la madre diviene il simbolo universale di una colpa eterna, dell'ineliminabile dolore dentro il cuore stesso dell'umanità; un'umanità che abbandonata a se stessa -- e chiusa nella prigione di un eterno presente senza passato o futuro, e quindi nella sua disperazione e senza alcuna speranza -- diviene allo stesso tempo vittima di se stessa e carnefice dei propri «figli». Tale (dis) umanità solo nella pietà e nel sacrificio di sé può sperare di ritrovare se stessa e così spezzare le catene di un sistema monetario basato sull'egoismo metafisico, sistema a cui essa ha consegnato o, meglio, «svenduto» se stessa: «l'inferno non è mai pena, è sempre autoesilio» (Yannaras).

Una metanoia quindi, una katastrophé dalla più furiosa attività dell'uno contro l'altro in ordine al proprio interesse, alla più iperbolica passività del sacrificio-servizio dell'un per l'altro. Dall'abbandono del figlio (mors tua vita mea) alla morte «per» il figlio (mors mea vita tua). Va da sé che l'iperbolica passività del donarsi e del sacrificio del perdono sono una passività per antifrasi, cioè sono una passività che è sempre più attiva di ogni attività in vista dell'interesse e dell'efficienza. Ed in questo senso che ci siamo permessi di definire la conversione di Jang Mi-sun come quella di una rappresentazione, appunto iperbolica, della Theothokos, seppur declinata in chiave postmoderna.

*

Scatto pubblicitario, non presente nel girato, che richiama direttamente la devozione cristiana.

Una conclusione di questo tipo apre ad ulteriori livelli di lettura. Infatti il livello della discordia sociale, una vera e propria «guerra civile» causata dalla idolatrizzazione del Denaro/Debito, diventa specchio della discordia familiare, in quanto «guerra nella famiglia», e viceversa: la guerra civile è sempre (fonte ed origine di) una guerra in famiglia, e la guerra in famiglia è sempre (fonte ed origine di) una guerra civile. Guerra nella famiglia nel senso che assume il sintagma greco Stasis emphylos, la lotta intestina o, meglio, la discordia intestina (discordia a sua volta interpretabile come oikeia kaka, come sventura della quale l'uomo è vittima destinale). E l'aggettivazione sostantivata di emphylos può essere ben utilizzata per indicare il ruolo di vittima assoluta dell'uomo nel cosmo e nell'eterna lotta di tutti contro tutti, un ordine della realtà -- la guerra, che come già detto è sempre questione di interesse -- che è allo stesso tempo naturale e contro natura. Per questo in principio affermavamo che la società -- termine come visto oramai desueto e che andrebbe forse sostituito con il ben più adatto di «mercato» -- del Denaro/Debito viene a rappresentare il terzo (o il principale?) protagonista di Pietà, un protagonista che non appare mai sulla scena, ma che è la stessa scena, l'orizzonte di senso, l'aria stessa che si respira, l'asfissiante prigione in cui, senza apparente possibilità di scampo, sono racchiuse le persone che abitano il teatro del dolore inscenato da Kim Ki Duk.

*

Altra immagine pubblicitaria che richiama il tema del martirio.

Pietà viene così ad assumere le sembianze di una tragedia universale -- non tanto greca, moderna o contemporanea -- e forse altrettanto raffinata e complessa -- nella stratificazione ed il sovrapporsi dei molteplici livelli di lettura -- di molte tragedie antiche e moderne.

Se mai fosse possibile parlare di «tragedia cristiana», che è quasi un ossimoro, allora a Pietà di Kim Ki Duk tale classificazione calzerebbe perfettamente. Una tragedia che è allo stesso tempo parabola, una tragedia antitragica, in cui pur nella sconfitta e nella morte di tutti i protagonisti non c'è alcuna catarsi. Catarsi, cioè, nel senso di un sollievo dello spettatore per una giustizia destinale che ha fatto il suo corso riparando le colpe dei protagonisti attraverso la loro tragica fine. Tutt'al più nel perdonare che attraverso il sacrificio restituisce dignità ed umanità nell'amare (e non nel comprendere), si assiste ad una messa tra parentesi e ad un superamento della funzione catartica, e quindi della stessa forma tragica.

Perché nel sacrificio della pietà, la sconfitta e la sofferenza dei protagonisti non sono mai la «giusta» punizione per le colpe perpetrate, ma l'assoluto della speranza.

*

Una suggestiva immagine promozionale

I vostri commenti

Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!