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L'arte del vivere. La testimonianza di Pavel A. Florenskij fonte del suo pensiero

di Giuseppe Malafronte (15 agosto 2014)

1. Introduzione

La vita vola come un sogno, e non si fa in tempo a far niente in quell'attimo che è la vita. Perciò bisogna apprendere l'arte del vivere, la più difficile e la più importante delle arti: quella di riempire ogni ora di un contenuto sostanziale, pensando che quell'ora non tornerà mai più.1

Di molti autori, filosofi, scrittori, artisti, si dice che sia assolutamente necessario conoscerne la biografia per comprenderne le scelte stilistiche e tematiche. A scuola, almeno in quella italiana, si predilige l'approccio eminentemente cronologico e, prima di ogni autore, immancabilmente, si trova il paragrafo dedicato alla sua vita.

Questo approccio, però, nella sua scansione aridamente cronologica, mal si addice a Pavel Aleksandrovic Florenskij,2 pensatore poliedrico, la cui esistenza si è scontrata, ed è finita, sotto il regime comunista, in un campo di prigionia nell'inverno del 1937. Egli è vissuto ai confini dell'Impero, scienziato convertitosi alla fede ortodossa, fine teologo e filosofo, esteta e padre di famiglia, prete, fedele testimone della sua fede, vittima delle grandi purghe degli anni 1937/383: ci sono tutti gli ingredienti per poter imbastire una succosa e godibile biografia. Ogni tentativo di ingabbiamento in astratti schemi biografici renderebbe sterile la portata esistenziale e teoretica del vissuto di Florenskij.

L'intento di questo scritto, però, non è celebrare un eroe del nostro tempo,4 come forse anche meriterebbe il personaggio in questione, ma far emergere alcuni tratti e passaggi significativi del percorso di vita di Florenskij, paradigmatici della sua formazione intellettuale e specchio delle sue più originali concezioni filosofiche, artistiche, teologiche e matematiche. È necessario che la vita, la concreta esistenza biografica, possa divenire una matrice da cui poter attingere materiale utile per decifrare questo grande pensatore.

In quest'ottica non sono richieste date precise o una minuziosa cronologia, è utile, invece, comprendere come alcuni passaggi esistenziali possano assumere il carattere di una svolta teoretica nel percorso di maturazione di un autore e come la sua testimonianza5 possa divenire utile a spiegarne il pensiero nel suo complesso. Non bisogna capire la sua esistenza ma farne esperienza, proprio come Florenskij stesso amava definire la conoscenza.6

I nodi attorno cui si sviluppa la vita di questo autore russo sono principalmente tre:

Tutti questi punti hanno in comune l'approfondimento di quel compito che Florenskij stesso definisce l'arte del vivere, il cercare di dare un significato ad ogni azione dell'esistenza, anche la più banale, perché unica e irripetibile. In questo consiste l'eccezionalità della figura di tale autore: la sua vita, nei suoi punti nevralgici, può aiutare a illuminare il suo pensiero, perché non sono due entità staccate -- vita da un lato e riflessione teoretica dall'altro -- ma un'unica ed indistinguibile realtà. Il pensiero è azione, la vita è pensata.

2. L'infanzia e la giovinezza

Tutto il mio sapere sulla vita si era formato nelle mie primissime esperienze, e quando la coscienza le rischiarò le trovò completamente formate, terreno ubertoso che attendeva solo condizioni propizie per dar frutto.7

La formazione intellettuale e spirituale di Florenskij passa attraverso alcuni grandi passaggi che lui stesso intravede, in nuce, nelle sue prime esperienze giovanili. Egli reputa importanti questi anni di formazione, passati lontano dalla Russia per il lavoro del padre, e li rilegge nel suo libro di memorie dedicato ai figli.8

Aiutato da questo prezioso documento mi soffermerò su alcune delle suggestioni che l'infanzia suggerisce al nostro pensatore. Innanzitutto, però, è bene presentare le figure importanti e significative di questi anni. Pavel, nato nel 1882,9 era il primogenito di otto fratelli, a capo di questa grande famiglia vi erano il padre, Aleksandr Ivanovic, e la madre, Ol'ga. Molto importante, per un'affinità grande e intensa, è la figura della zia, sorella del padre, Julia e, per la vicinanza d'età -- solo due anni e mezzo10 -- la prima sorella, Ljusia. Nato a Evlach, un piccolo centro di campagna dell'attuale Azerbaigian, dopo un anno e mezzo la famiglia si trasferì a Tiblisi, oggi capitale della Georgia. All'età di quattro anni, la famiglia si sposta Batumi, un piccolo villaggio georgiano dove il padre lavora alla costruzione della ferrovia.

Le esperienze, involontariamente forti, quali la paura e il terrore verso ciò che era sconosciuto misero in contatto il piccolo Florenskij con il mondo del mistero e dell'assoluto che si cela dietro ogni empirico apparire11: un mondo che gli presentava la realtà come un insieme unito.12

Nel suo primo contatto con il mondo esterno, attraverso le passeggiate fatte con il padre, il giovane Pavel sperimenta la natura che gli si presenta ostile e misteriosa insieme.13

Col trasferimento a Batumi le impressioni si fanno più forti, l'ambiente circostante è molto più selvaggio con colori, suoni e profumi molto più vivaci. Si riaffaccia in Florenskij quel senso del mistero che si presenta attraverso la semplicità degli eventi naturali -- il molo, il mare, le alghe -- ma che apre lo sguardo alla contemplazione del meraviglioso. Ed è qui che la percezione del mistero si arricchisce di una nuova sfumatura: esso attraversava, indistintamente ogni cosa, animata e inanimata, è l'elemento comune di ogni cosa.14 Egli sentiva vivamente la sua comunanza, di più, la sua intima appartenenza ad ogni cosa che lo circondasse.15 Ed era così palese tale comunanza con il mistero che il piccolo Pavel si meraviglia di come gli adulti non se ne accorgessero.16 Alle sue domande sul senso, sul mistero, i grandi sapevano dare solo risposte che, seppur esatte, erano parziali e incomprensibili per chi, come Florenskij, cercava la totalità.17

La totalità misteriosa del mondo era permeata da un principio vitale forte.18 Al contrario delle macchine, tutto ciò che era vivo conteneva molto di più di ciò che, singolarmente, rappresentasse: era la stessa totalità che, ogni volta, si dischiudeva alla contemplazione. A partire da questa matrice misteriosa Florenskij si "innamorò" del mondo e della sua materia: non quella delle scienze, bensì l'essenza stessa della materia con la sua bellezza e integrità.19

Il mistero, quindi, si palesa, in Florenskij, nel suo interesse rivolto alla natura: così gli si presenta quel mistero vitale sempre vivo ai suoi occhi. Il giovane riconosceva in essa la presenza del bello e del particolare20: non era il meccanismo naturale ad abbagliare i suoi occhi, ma il mistero mai svelato della sua singolarità e bellezza. In questo stato d'animo l'accostamento che Pavel aveva con la natura non poteva assolutamente dirsi analitico o scientifico quanto diretto al centro, alla forma delle cose.21

Osservare e analizzare la natura diveniva l'unica cosa che realmente avesse valore, ma solo perché apriva una strada d'accesso ad un altro mondo.22 Così le percezioni non erano ordinate in una serie precisa di causalità meccanica ma, a volte eterogeneamente, si rimandavano tra di loro per una sorta di legame o parallelismo vivente.23

La natura, agli occhi di Florenskij, viveva una propria ed autonoma vita;24 ed è solo una percezione infantile, integrale a saperla cogliere e spiegare. La percezione adulta si ferma alle differenze, alla linearità del tempo e dello spazio e non lascia penetrare le cose nel vissuto personale e quotidiano.25 La comprensione adulta o scientifica, fermando in un attimo i fenomeni ed analizzandoli per se stessi, li rende anche estranei fra di loro e inavvicinabili: tentando di unificare la realtà, essa riesce solo a renderla indistinta e neutra. La visione infantile, invece, accettando la frammentazione del mondo, la supera dal di dentro: coglie l'unità essenziale del tutto oltre la mera apparenza. Florenskij, cerca di scrutare la profondità delle cose e non solo la loro estensione superficiale; per approcciare la natura opta per una via verticale e non orizzontale.26

La natura si presenta agli occhi del giovane come un mistero, apre alla contemplazione attraverso un approccio sintetico e complessivo, in una parola: mistico. Ma questa parola evoca un altro territorio semantico, quello proprio delle fede, ed è da questo punto che riprende il percorso florenskijano lungo la sua infanzia. Il sentimento religioso era pressocchè bandito dalla famiglia Florenskij, eppure nel cuore del piccolo Pavel aleggiava sempre, represso, qualcosa di simile al sentimento religioso.27 Per motivi familiari o per motivi personali, però, egli rifiutava sempre sdegnosamente di confrontarsi con la religione.

Certo, come lo stesso Florenskij riconoscerà, il sentimento del religioso non poteva essergli stato trasmesso in alcun modo dalla famiglia che lo aveva cresciuta nell'unica fede che consisteva nel tenerlo lontano da qualsiasi fede.28 Ogni riferimento a Dio o al divino era completamente bandito; ma da quel poco di religiosità, soprattutto paterna, -- intrisa di senso dell'infinito e piccolezza dell'uomo -- l'adolescente Pavel poté intuire l'esistenza della Religione, cioè dell'essenza del religioso oltre ogni applicazione storicamente e dogmaticamente determinata.29

Nel cuore del giovane Florenskij la sua ricerca e scoperta del religioso si è compiuta proprio sulla scorta, prima, e in opposizione, poi, delle credenze paterne. E il credo di Aleksandr Ivanovic consisteva in una fede irremovibile nell'umanità e nelle sue capacità e nell'applicazione, portata all'estremo, del principio della tolleranza.30 L'umanità, però, da sola non riusciva a tenere insieme le forze misteriose che la agitavano e la tolleranza, spinta agli estremi, diveniva solo un misero strumento dogmatico.31

Naturalmente queste prime avvisaglie di un sentimento religioso rimasero implicite nell'animo di Florenskij, combattute tra l'indifferenza familiare, l'ostilità di una formazione scientifico-positivistica e l'attrazione emotiva.32 È importante notare come si affacciasse in lui l'esigenza di mettersi in contatto con il mistero e che tale mistero avesse i caratteri, ancora non ben delineati, di Dio. Lottare e contendere con Dio significava, comunque, già affermarlo, in qualche modo, determinante per la sua esistenza.

Il mistero apriva all'idea che esistessero due mondi: quello dell'apparenza e scientifico e quello della mistica e ontologico. Esso, nella mediazione florenskijana, si manifesta nel particolare, nel singolare.33 Il particolare funge la funzione di presentificare il punto di unione tra il mondo fenomenale e quello noumenale che è dato dal simbolo. Così si esprime Florenskij:

Per tutta la vita ho pensato, in sostanza, a una sola cosa: al rapporto tra fenomeno e noumeno, al rinvenimento del noumeno nei fenomeni, alla sua manifestazione, alla sua incarnazione. Sto parlando del simbolo. E per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del SIMBOLO.34

L'attenzione al particolare fa scaturire la consapevolezza che esso è anche oltre il suo semplice significante, comprende, mistericamente, ogni cosa pur non negando mai la sua individualità. Tra il positivismo che distrugge l'essenza e la metafisica astratta che perde di vista la singolarità Florenskij sceglie l'anima incarnata.35 Il giovane Pavel cerca sempre di tenere insieme i due momenti della realtà concreta e del suo senso profondo senza confonderli, ma anche senza separarli troppo. Nella dicotomia fra essere e apparire egli sceglie entrambi,36 perché entrambi si rimandano vicendevolmente. Ma qui si apre anche la lacerazione tra la visione paterna e quella di Pavel: da un lato la piana continuità del pensiero scientifico paterno, la Weltanschauung positivistica; dall'altro la discontinuità, la visione olistica del mondo compreso nei suoi salti misterici, la «Weltanschauung del prodigio, della fiaba».37

La fiaba38 diviene per il giovane Florenskij il paradigma della sua nuova concezione del mondo: lì dove la continuità cessa di essere legge, tutto diviene possibile e accettato.39 E la fiaba fece apparire vero ciò che nella testa degli adulti era pressoché inammissibile40: dove si cercava linearità rintracciare la discontinuità, dove l'uguaglianza invece la contraddizione. Eppure aderire al fiabesco non significò mai rinunciare alla concretezza, non era un ritirarsi dal mondo, quanto, bensì, un entrare più profondamente in contatto con esso. La materialità, la concretezza, la vita, il corporeo rimasero sempre il punto d'avvio per ogni riflessione di Florenskij, perché solo dietro di esso si cela il mistero.41

La discontinuità, insieme all'attenzione al particolare concreto, si erge come acerrima nemica di tutto ciò che si vuole regolare.42 Il centro delle riflessioni florenskijane erano, e resteranno, le eccezioni, il disubbidiente, ciò che si oppone alla semplificazione scientista.43 A Florenskij stava a cuore principalmente non l'apparenza delle cose ma il far emergere, attraverso il fenomeno, la loro vera essenza, la forma.44 Cogliere la forma significa andare alla totalità implicita nel fenomeno, giungere lì dove il fenomeno si apre alla contemplazione dell'intero; per questo si spiega la rivolta contro la concezione scientifica del mondo -- paterna -- secondo cui spiegare era separare e distinguere, quindi distruggere l'interezza concreta.

Giunto ormai al ginnasio, Florenskij annota come in lui convivevano, come piani paralleli, una concezione scientifica del mondo e la fiaba che apre al mistero45: da un lato le leggi della natura, dall'altro la libertà di questa stessa natura. L'accostamento di queste due prospettive evidenziava le fratture che nascevano dal loro confronto e scontro, ed egli si sentiva più attratto per le crepe di queste leggi, per le eccezioni: percepiva che solo esse aprissero lo sguardo a ciò che davvero significasse natura mentre le leggi non facevano che schermarla.46

Il giovane Pavel continuò con successo i suoi studi che si concentravano, per la ferrea volontà paterna, soprattutto nell'ambito scientifico-tecnologico, pur lottando, nel suo animo, con il gusto per il mistero.47 Gli restava ancora del tutto preclusa la strada per poter mettere in accordo queste due strade: le crepe non evidenziavano nessun tipo di ricomposizione dei diversi piani.

Una prima intuizione giunge a Florenskij, inaspettata, dallo studio del principio di relatività che rappresentò un approccio al mondo simile al suo, una fiaba del mondo raccontata con altre parole.48 E continuando su questa scia egli ebbe chiara in sé la consapevolezza che si fosse giunti ad una svolta epocale: «lo strappo della storia mondiale».49 Questo strappo era rappresentato dalla fine, quasi fisiologica, del dominio della comprensione scientifica nell'universo europeo, che ne simboleggiava in qualche modo anche il cuore, per far posto all'irrompere del concreto fenomeno nella sua insindacabile singolarità e peculiarità. Ma questo strappo non era certo né condiviso né semplice.50

Scosso e turbato da questi pensieri il giovane Pavel giunge, infine, all'estate del 1899, periodo determinante per tutta la sua esistenza.51 Attraversato da una profonda crisi spirituale che gli toglieva ogni forza per la riflessione e per lo studio, chiuso in un labirinto di cui non ritrovava l'uscita il ragazzo diciassettenne era come ingabbiato nelle sue stesse dicotomie che non era riuscito a ricomporre. In quest'oscurità gli si affaccia, per la prima volta, un nome: Dio.52 Non era ancora una rivelazione piena, né tantomeno una conversione, ma la presa di coscienza che quella conciliazione di cui era in ricerca fosse possibile e attuabile attraverso l'idea e l'esperienza di Dio. E fu tanto forte lo choc e la scoperta che

per quel colpo inatteso mi svegliai all'improvviso, come destato da una forza estrema e senza sapere perché, ma, tirando le somme di quanto accaduto, gridai per tutta la stanza: "No, non si può vivere senza Dio! ".53

Dopo tante riflessioni Florenskij vede una strada per riconoscere in quel mistero, che gli si era presentato fin dalle primissime impressioni infantili e via via si era andato approfondendo, proprio il volto di Dio come punto di unione tra la realtà concreta e il senso profondo e complessivo cui essa rimanda.

A questa prima percezione Pavel ne aggiunge subito un'altra altrettanto fondamentale: "questo" Dio non era solo una costruzione logica, intellettuale o psicologica, ma aveva tutta la forza della sua personale ontologicità.54 Era una "persona" a interpellare Florenskij e questa chiamata chiedeva, in qualche maniera, una risposta e una reazione.55

Aperta la breccia verso Dio e verso una Weltanschauung integrale, Florenskij non si trovò, però, di fronte un cammino spianato: saranno ancora lunghi gli anni di riflessione e di meditazione. Quel grido gli si presentò come una possibilità attraverso cui poter fare quella sintesi tanto agognata.

Trovata una probabile soluzione al dissidio tra la scientificità e l'umanità o, per meglio dire, comprendere il mistero, restava ancora da chiarire in che senso essa trovasse una qualche armonia56: spostando troppo l'accento sulla scientificità si rischiava di renderla inumana, soffermandosi troppo sull'umanità, essa appariva priva di senso. Per far questo Florenskij doveva ancora sconfiggere tutte le reticenze che ancora lo tenevano legato al mondo, chiaro e definito, della scientificità paterna.57 E quel tarlo, silenziosamente lo portò alla definitiva osservazione che:

anche la visione scientifica del mondo era una congerie di quisquilie e convenzioni che non avevano nulla a che spartire con la verità, con la vita e il suo fondamento; e neanch'esse erano di alcuna utilità.58

Dovendo scegliere tra le due strade Florenskij comprese che quella del mistero, della fiaba, era più ampia e includeva la pista scientifica; e non poteva essere il contrario. Lo sfarzoso edificio del pensiero scientifico cadde sotto i colpi di una realtà più vera e profonda, dimostrandosi costruito di soli trucioli, cartone e stucco. L'ultimo grande sforzo di donare dignità proprio al pensiero scientifico, inteso come un monolite senza rapporti con l'esterno, rovinò miseramente.59

Non per questo Florenskij rinunciò alla scienza. La sua rinuncia era semplicemente quella di trovare un principio interno alla visione scientifica stessa che ne spiegasse le sue motivazioni. La scienza, la fisica, la matematica resteranno sempre valide nelle proprie analisi ma solo se riferite a una visione più globale e ontologica, integrale.

Proprio nelle ultime pagine delle sue memorie appare una parola rivelatrice che segnerà la ricerca florenskijana per il resto della sua formazione intellettuale e spirituale: la verità. Essa gli si presenta come un miraggio che al tempo stesso è necessario e vitale per l'uomo, luogo del mistero che al tempo stesso si rende presente e tangibile.60

Florenskij lascia la casa paterna per andare all'Università di Mosca a studiare matematica con la certezza di cercare questa verità che appare nel mistero, ma anche con l'ansia di non esserne ancora lontanamente in possesso.

"La verità è la vita" mi ripetevo più volte al giorno; "senza verità non si può vivere. Senza verità non c'è esistenza umana.61

3. Il Sacerdozio

Guardandomi indietro, ringrazio il mio Signore, che mi ha donato la Sua grande misericordia. Non starò qui a parlare della grandezza del dono in quanto tale, forse non lo comprendo ancora neppure in minima parte. Lo dico rispetto alla mia vita. Che cosa avrei fatto, come avrei potuto vivere senza la vocazione sacerdotale? Come mi sarei agitato, quanto sarei stato infelice... quanto avrebbero avuto a soffrire per causa mia Anna e i bambini. Anche ora, non è che tutto vada bene, ma in quel caso saremmo periti tutti. Certo, ho avuto sofferenze, contrasti anche a causa del ministero sacerdotale, ma che cosa sono mai, in confronto al dono della grazia! .62

Il secondo passaggio nell'analisi dell'esistenza di Florenskij ci è dato dalla scelta, meditata e complessa, del sacerdozio: di quella particolare forma di sacerdozio per uomini sposati contemplata nell'ordinamento ecclesiale Ortodosso. Il sacerdozio, essere un pope sposato dal caratteristico abito bianco, è visto come il cuore armonico di tutta l'esistenza dallo stesso filosofo.

Laureatosi presso la Facoltà di Matematica di Mosca, Florenskij decide di iscriversi presso l'Accademia Teologica della stessa città che aveva sede presso il villaggio di Sergiev Posad, terminando gli studi nel 1908. Dopo anni di travagliata ricerca spirituale egli si sposerà nel 1910 con Anna Michajlovna Giacintova e verrà ordinato sacerdote nel 1911, svolgendo il suo ministero quasi esclusivamente presso la cappella dell'Ospizio delle Suore della Misericordia della Croce Rossa a Sergiev Posad.63

È lo stesso padre Pavel a focalizzare tutto il senso della sua vita nella costante fedeltà al sacerdozio che, oltre le normali avversità quotidiane, ha saputo donargli quella pace e serenità interiore come un dono della grazia.64 Nel groviglio delle contraddizioni e delle perplessità aperte durante la sua giovinezza e approfonditesi durante il periodo universitario la vocazione sacerdotale, nella forma specifica prima indicata, diverrà il punto sintesi, mai scontato, di tutte quelle istanze. Da un lato Florenskij vedeva la sicurezza delle scienze positive, dall'altro il silenzio della mistica; da una parte la ricerca, dall'altra la contemplazione. E, ancora, se da un lato si ergeva l'ideale familiare di un focolare accogliente e affettuoso, dall'altra lo attraeva la concezione ascetica di una vita solitaria e monastica. Tra queste lotte interiori si aprì una breccia di luce che gli portò la convinzione che l'unica strada a lui possibile fosse quella del sacerdozio.65

Bisogna, quindi, intendere la scelta sacerdotale come una rinascita che non cancella, con in un solo colpo, tutto ciò che è passato, bensì lo ricompone e lo armonizza affinché si possa ancor di più approfondire come ricerca e meditazione. Per Florenskij il sacerdozio è semplicemente l'inizio di una nuova vita.66 E questa nuova esistenza, in Cristo e nella Chiesa, rappresenta un ulteriore sviluppo nel cammino perché tutto ciò che ha scritto e meditato da quel momento in poi Florenskij resta imprescindibilmente legato al suo abito talare.

La scelta sacerdotale cozzava con una prima grande idea: la famiglia. Cresciuto in un ambiente piuttosto agnostico, l'unico credo veramente professato era quello di mantenere e curare una famiglia solida, unita e stabile.67 Florenskij, inizialmente, ha accarezzato l'ideale monastico: ritirarsi dal mondo, estraniarsi da esso per dedicarsi, magari nel chiuso di una cella, alla riflessione e alla preghiera. Tutto questo sarebbe stato impossibile se avesse seguito, invece, il suo desiderio di "avere" una famiglia, con la sua quotidianità tutta impastata di concretezza e piccole cose.

Cosa scegliere? La vita monastica e dello spirito che tanto lo affascinavano oppure la totale immersione nel mondo, che altrettanto lo intrigava e di cui la "famiglia" era una delle più vive immagini? Ed anche qui, inaspettatamente, le sue ricerche teoriche lo aiutarono a chiarire e dissipare ogni difficoltà. Tra il mito familiare propugnato dal nonno prima e dal padre poi e l'ideale ascetico gli si affacciò l'esperienza concreta e viva dei suoi avi più remoti, antichi e poveri parroci di Kostroma.68

Lo studioso russo concepì, grazie a quel chiaro esempio donatogli durante lo studio della sua genealogia, che non era possibile conseguire un itinerario di "religione atea" con al centro il fantoccio stilizzato di una famiglia perfetta, perché, come ogni cosa umana, senza il sostegno della fede e dello Spirito, essa tende a deludere. Tantomeno poteva scegliere una strada di rinuncia totale al mondo, non perché non fosse valida in se stessa, ma in quanto non si addiceva al suo carattere e alle sue mire che proprio dal confronto con la realtà concreta e con il sapere letterario e scientifico traevano spunto ed efficacia.

E così Florenskij risolse questa prima contraddizione: Dio non prese il posto della famiglia, né tantomeno avvenne il contrario. Nella famiglia gli si rivelò più chiaramente proprio quel Dio di cui era tanto alla ricerca.

Alla prima contraddizione tra Dio e famiglia, Florenskij ne aggiunge un'altra ancor più lacerante: il dissidio, a prima vista incolmabile, tra il sacerdozio e la scienza. Essa gli si presentò prestissimo non appena intraprese gli studi all'Accademia Teologica; e si manifestava nel cercare una sintesi possibile e senza compromessi tra un'adesione sincera alla pratica ecclesiale e un rigoroso approccio scientifico-filosofico alla realtà.

Giungere alla sintesi tra cultura ecclesiastica e cultura laica, essere pienamente unito alla chiesa, ma senza nessun compromesso, accogliere con rispetto tutti gli insegnamenti positivi della chiesa, la concezione scientifico-filosofica e insieme l'arte ecc.; ecco come mi si presenta uno dei più immediati obiettivi dell'impegno pratico.69

Certo sembravano due mondi inavvicinabili, e lo stesso Florenskij, sulle prime, tentennò alla proposta di continuare con l'insegnamento presso l'Accademia sembrandogli più appropriato il ritiro monastico e la vita eremitica. Infatti da un lato ormai la vita esclusivamente tecnico-scientifica non lo soddisfaceva più, ma anche l'ambiente accademico sembrava intriso di quello stesso positivismo e tendenza alla scepsi che Florenskij riconosceva come il più grande errore della teologia moderna, e che egli bollerà, con il nome di dogmatismo.70

Esisteva ancora un'altra alternativa sia al mondo della gerarchia ecclesiastica che a quello del positivismo scientista: l'universo dell'intelligencija71 religiosa sua contemporanea. Pur partecipando a diverse iniziative che si rifacevano a questo movimento di rinascita religiosa del gruppo intellettuale, Florenskij non riuscì mai a convincersi che fosse la strada giusta, non solo per se stesso, ma per l'intero popolo russo. L'intelligencija, infatti, pur dedicandosi alla riflessione religiosa con rigore e passione, negava in modo assoluto il concreto sviluppo della Chiesa storica e i suoi contenuti dogmatici e rituali; riteneva la Chiesa Ortodossa solamente un inutile peso verso un vero cammino di conversione e di rinascita spirituale. Il filosofo russo, pur condividendo le perplessità nei confronti della Chiesa, non accettò mai la conclusioni, a volte violente, sicuramente polemiche, dei vari gruppi facenti capo all'intelligencija, perché fondamentalmente non coglievano la vera essenza dell'organizzazione ecclesiastica, si fermavano al guscio. Se, per un verso, questo gruppo di intellettuali aveva messo allo scoperto i problemi della società contemporanea e posto al centro dell'attenzione i temi spirituali, per un altro verso faceva riferimento solo al proprio stesso mondo: in modo autoreferenziale era l'intelligencija stessa a dover "salvare il mondo"72! Egli, al contrario, grattando questa buccia un po' ruvida e indigesta riuscì a cogliere il germe fecondo della Chiesa, il suo grano santo: essere aperta, nelle molteplici difficoltà, all'azione redentrice di Dio.73

Questo terreno fertile permise di coniugare il lato mistico e il lato indagatore della sua esistenza. La figura del pope incarnava proprio questa armonia: essere cercatore della Verità, essere uno "scienziato", ed essere un concreto contemplatore di quella stessa Verità, un mistico, il tutto senza dimenticare che entrambi i lati di questa Verità andavano comunicati.74 Florenskij riusciva a coniugare insieme, nel suo sacerdozio, il legame profondo con la terra, ereditato dall'infanzia, e lo slancio verso l'alto, proprio del ministero liturgico sacerdotale, ed entrambi gli atteggiamenti erano così compenetrati l'uno con l'altro da non poter essere mai disgiunti, ma anzi arricchiti l'uno dell'altro.75

Il sacerdozio di Florenskij, quindi, non si situa solo come una tappa fondamentale lungo tutto il suo percorso esistenziale, ma ne rappresenta anche un nucleo teoretico essenziale e necessario per poter meglio comprendere la sua ulteriore riflessione, il centro spirituale della sua personalità.76 È proprio nella scelta presbiterale, nella determinata forma del pope sposato, che il filosofo russo rintraccia la possibilità di giungere sia alla Verità che a Dio, i due concetti che, con forza, nella giovinezza lo avevano conquistato e guidato. Anzi, il sacerdozio renderà evidente che la Verità è Dio e viceversa.

Se l'idea di una Verità complessiva e unitaria lo aveva colto e affascinato, pur restando nella sua alterità, nel sacerdozio Florenskij trova, come dono della grazia, questa identica Verità espressa nelle forme liturgiche e della fede. Tutte le sue ansie, le sue piste di ricerca che sembravano così antitetiche, assumono senso senza affatto mortificarsi: egli resta pienamente scienziato, matematico, teologo, mistico, esteta, letterato, ma soprattutto, sacerdote. Il sacerdozio è quel passaggio ulteriore ed essenziale verso l'armonizzazione di tutto quel materiale che nella giovinezza aveva ribattezzato semplicemente realtà.

Quindi da un lato, almeno all'apparenza, il sacerdozio di Florenskij sembra assumere i caratteri della contraddizione e della dispersione, ma alla ragione purificata esso appare come un tutto coerente, come un organismo, complesso sì, ma armonico.77 Nella vastità dei suoi interessi, l'essere un pope divenne il centro unificante di ogni sua azione e questo perché tale stato non derivava da un suo semplice atto di volontà, bensì da un dono, corrisposto, della grazia, che gli si annunciava in quella dimensione di confine della celebrazione liturgica.78 In quello che sembra un'umiliazione, rinunciare a un parte della propria volontà, Florenskij trovò una ricchezza: la totalità viva di una comunità che attraversava trasversalmente il mondo, fino a giungere alle più alte sfere celesti, fino a toccare i fondali più bassi degli inferi.

4. Il martirio

Retaggio della grandezza è la sofferenza, sofferenza che viene dal mondo esterno, e sofferenza interiore, che viene da noi stessi. Così è stato, è, e sarà. [...] Sì, la vita è fatta in modo che si può dare qualcosa al mondo solo pagandone il fio con sofferenze e persecuzioni. E più il dono è disinteressato, più crudeli sono le persecuzioni, e dure le sofferenze. [...] Per il dono della grandezza è l'uomo che deve pagare con il proprio sangue.79

L'ultima parte della sua esistenza, dall'arresto alla prigionia e alla morte nel gulag, rappresenta non solo una testimonianza del coraggio di Florenskij, ma è anche emblematica dell'attualizzazione del suo pensiero. Le sue lettere80 sono uno spaccato del suo essere, un vero e proprio saggio di tutti i suoi interessi e della sua originalissima esistenza. È perciò importante osservare quest'ultima parte della sua vita anche dal punto di vista più strettamente teoretico, quasi si fosse di fronte ad una summa organica di tutto il suo pensiero.

Presa la decisione di non poter mai abbandonare la sua terra e diventare un emigrato, il pensatore russo affronta in pieno tutte le conseguenze di questo gesto.81 Arrestato una prima volta nel 1928,82 viene definitivamente imprigionato nel 1933.83 Da quel momento in poi lo aspetteranno quattro anni di prigionia, fino alla morte per fucilazione avvenuta nei pressi di Leningrado (l'attuale San Pietroburgo) nel 1937.

Dall'arresto in poi Florenskij viene inghiottito inesorabilmente dal totalitarismo. Persino la sua morte resterà chiusa per anni in un aura di premeditato silenzio: le autorità, solo dopo molto tempo, intorno al 1950, comunicano alla famiglia una presunta data ufficiale della sua morte, il 15 dicembre del 1943, poi rettificata in quella del 1937 agli albori dei primi anni Novanta del XX secolo. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, il fascicolo del KGB relativo al suo caso mostrò lo svolgimento effettivo della vicenda: Pavel Aleksandrovic Florenskij venne fucilato l'8 dicembre del 1937. Il rinvenimento nel bosco di Sandormoch, presso Leningrado, sessant'anni più tardi, di alcune fosse comuni di prigionieri delle Solovki,84 potrebbe aver svelato il posto in cui giacciono le spoglie mortali di Pavel Florenskij.

Gli ultimi anni e il martirio sono il naturale sbocco dell'esistenza di Florenskij: lo stile di vita che emerge dalle lettere alla sua famiglia, il suo atteggiamento nel gulag, sono anch'essi parte integrante del suo pensiero, la perfetta realizzazione di ciò che andava speculando durante tutta la sua vita. Realizzare pienamente la propria umanità, fatta di studio e azione, è coinciso in lui con il dono totale, col prezzo del sangue. Cercando la grandezza, non quella degli applausi ma quella di uno sguardo armonico e complessivo, egli si trovò di fronte la dimensione della sofferenza, che accolse pienamente: accolse la propria croce.85

Con il martirio, scelto consapevolmente, Florenskij realizza l'ideale di quella comprensione integrale tanto desiderata. Le lettere, pur non potendo esplicitamente riferirsi a concetti religiosi,86 a causa della famigerata censura, riecheggiano splendidamente di questa ricchezza spirituale che l'itinerario dell'autore portava a compimento esprimendo il punto di arrivo delle sue fatiche intellettuali e spirituali.

La contemplazione del mondo come un insieme unitario,87 se durante l'infanzia e la giovinezza fu percepita confusamente e durante la maturazione, che si concretizzò con l'ordinazione sacerdotale, fu accolta e coltivata, è con l'esperienza della prigionia che divenne pienamente realizzata. La contemplazione unitaria consisteva nell'accogliere e significare dall'interno ogni cosa: incarnarsi88 con la realtà per trovare il senso profondo di ciò che si manifesta e di quello che si nasconde, dell'immanenza e della trascendenza. Florenskij si incarna nel momento stesso in cui non resta passivo di fronte ad una realtà dolorosa che non ha scelto, ma da cui non si sente sconfitto definitivamente.89 L'atto di incarnazione è costituito dall'accoglienza della contingenza storica che viene raccolta in una visione più ampia, oggettiva e altra rispetto al soggetto, che riesce a mettere insieme ogni tassello della realtà.

Non è la realtà portatrice di senso ma, al contrario, è il senso a creare la realtà così che, nonostante tutto, Florenskij riesce a leggere la stessa prigionia come un'esperienza di libertà.90

La ricerca affannosa, nella sua vita e nei suoi studi, di una comprensione olistica si appianava nella scoperta che l'essere stesso si donava a lui gratuitamente. E questa gratuità che doveva essere coltivata e imparata: l'arte della gratuità.91 Essa è un'arte che non ha maestri né manifatture ma che dà un ulteriore senso alla vita, anche quando essa sembra in balia di forze irresistibili e contrarie; un'arte che, insomma, rende liberi interiormente.

La gratuità diviene l'ultimo dono che Florenskij può ancora fare al mondo e agli uomini, il più puro e il più grande. Nella gratuità, nella grazia,92 l'animo del nostro autore si innalza perché essa non è in suo possesso ma un dono ricevuto che, a sua volta, chiede di essere donato senza parsimonia. Ed egli, nel gulag, tra le mille sofferenze e le tante tribolazioni,93 scopre che non può essere piegato dai semplici fatti, bensì può ricondurre tutto a quel senso più alto che è dono divino.

Florenskij, quindi, scopre la contemplazione dell'unità sia come dono gratuito che come processo di accoglienza: da un lato essa si apre alla visione, dall'altro va ricercata e portata in superficie, accolta, nella sua misteriosità. Il tramite perché ciò avvenga resta sempre il particolare concreto. L'esperienza di impotenza chiarisce al pensatore russo che l'universale resta sempre al di là di ogni apprensione, pur non potendo mai esimersi dal confronto con la realtà.94 Non si può restare chiusi nel semplice particolare, non si può saltare direttamente nell'astratto: l'universale è ciò che mantiene insieme, senza confusione, entrambi questi momenti particolari.

Quasi in una circolarità, il pensatore riconosce proprio nello spirito dell'infanzia l'approccio adatto a poter tenere insieme la concretezza del particolare con lo scavo verso la profondità delle cose.95 Lo spirito infantile è geniale perché riesce ad andare al fondo delle cose senza perdere il contatto con esse, tende a convogliare tutto il mondo verso un unico centro di senso. Forte proprio di questo spirito, che non lo faceva mai essere pago nella ricerca,96 Florenskij riesce anche a poter fare sintesi delle sue multiformi ricerche nei più svariati ambiti del sapere, riunite intorno alla ricerca dell'universalità.97

Tu non puoi capire cosa prova un padre che desidera che i suoi figli siano non solo irreprensibili, ma rappresentino come l'immagine stessa del valore. Non per gli altri, ma per se stessi bisogna essere così, e non importa cosa gli altri penseranno di voi: essere e non apparire. Avere una disposizione d'animo chiara e trasparente, una percezione del mondo integrale e portare avanti un'idea disinteressata: vivere così da poter dire nella vecchiaia di aver preso il meglio della vita, di aver fatto proprie le cose più nobili e più belle del mondo e di non aver macchiato la coscienza con le sozzure di cui si sporca la gente e che, una volta esaurita la passione, lasciano un profondo disprezzo.98

Queste parole, scritte in una delle ultime lettere inviate, rappresentano l'apice dell'esistenza del pensatore russo, ma anche la sua vetta speculativa: ogni parola, se analizzata a fondo, può essere oggetto di riflessione. Tre sono i modi per essere che si possono così tradurre: possedere una piena e corretta coscienza di se stessi,99 riuscire a comprendere l'universalità e ad esperirla, non avere interessi particolari o parcellizzati.

Queste tre modalità sono state via via perfezionate da Florenskij lungo tutto il suo originale percorso esistenziale. La conoscenza di se stesso, in profondità più che in superficie, è stato uno dei motivi che ha spinto alla ricerca Florenskij, in uno scontro-incontro con ogni tipo di sapere che sottintendeva sempre una partecipazione personale. In questo particolare itinerario ha avuto sempre come obiettivo quello di cogliere un'universalità viva e concreta, oltre il semplice concetto astratto. Tutto, poi, è stato guidato da un metodo scevro da ogni preconcetto o da una visione parziale e legata ad un singolo punto focale, persino, nell'esperienza del gulag, slegata dall'istinto di conservazione.

Con parole quasi profetiche è Florenskij stesso a dare una chiave di lettura teoretica al suo sacrificio e alla sua uccisione: essi sono uno strumento per poter arrivare a quella visione d'insieme tanto auspicata, perché

per vedere "la Colonna della Verità" bisogna domare la geenna, bisogna distruggere la "colonna della malvagità contraria a Dio".100

E l'unico modo per domare questa colonna è il sacrificio del sangue.

Questo sacrificio che consente di accogliere pienamente lo svuotamento101 totale che emerge proprio dall'ultima lettera a noi pervenuta del 19 giugno 1937 -- meno di sei mesi prima della morte -- in cui c'è l'amara consapevolezza che «devo continuamente separarmi da qualcosa»,102 ma che apre lo sguardo per interessarsi dell'altro e del suo benessere, che sa donare parole di conforto e di innalzamento gratuite, che apre sprazzi di luce che non sono lontani, una mezz'ora, ma che bisogna avere la volontà di trovare.

Quanto vorrei che i figli avessero più gioie e buone impressioni! Vai a volte fuori città? Devi farlo assolutamente il più spesso possibile, se non altro percorrere quel vico stretto (non ricordo come si chiama) che arriva ai campi, per ascoltare il canto delle allodole e osservare le spighe. In fondo, è talmente vicino che ti basta una mezz'ora.103

5. Conclusione

Per arrivare alla Verità bisogna rinunciare alla propria aseità, uscire da se stessi e questo ci è decisamente impossibile perché siamo carne. E allora come aggrapparsi alla Colonna della Verità? Non lo sappiamo e non lo possiamo sapere. Sappiamo soltanto che tra le crepe del raziocinio umano si intravede l'azzurro dell'Eternità; è inattingibile ma è così. Sappiamo anche che "il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e non il Dio dei filosofi" e dei dotti viene a noi, viene al nostro giaciglio notturno, ci prende per mano e ci guida in una maniera che non avremmo nemmeno potuto prevedere.104

Queste parole riassumono per intero il percorso di Florenskij attraverso queste tre tappe emblematiche della sua vita. Parole giovanili, scritte nel 1914, eppure cariche di un senso che si invererà proprio l'8 dicembre 1937, giorno della morte di Florenskij.

Per trovare la Verità il pensatore russo ha dovuto abbandonare la cura di sé, lasciarsi maltrattare in un campo di prigionia fino a divenire un oggetto. Proprio in questo dolore profondo emerge l'azzurro,105 il senso più recondito della sua esistenza che non può essere appreso con un sistema puramente razionale ma deve essere accolto nella sua insondabilità.

Guidato per mano attraverso l'oscura notte dell'oppressione sovietica Florenskij oggi sopravvive ai suoi stessi uccisori con una originalità, forza e attualità che non avremmo nemmeno potuto prevedere. L'integralità del suo pensiero con la reale e dolorosa esistenza siano un faro per chiunque voglia intraprendere la strada della cultura e della riflessione senza voler coinvolgere la vita concreta.

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Note

  1. P. A. Florenskij, Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Mondadori, Milano 20062, p. 397 (corsivo mio). Testo

  2. Per una visione completa della vita e del pensiero di Pavel A. Florenskij si vedano: M. Silberer, Die Trinitätsidee im Werke von Pavel A. Florenskij. Versuch einer systematischen Darstellung in Begegnung mit Thomas von Aquin, Augustinus Verlang, Würzburg 1984; R. Slesinski, Pavel Florenskij. A Metaphisycs of Love, St. Vladimir's Seminary Press, New York 1984; M. G. Valenziano, Florenskij. La luce della verità, Studium, Roma 1986; N. Valentini, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 1997 (edizione rivista e ampliata nel 2012); L. Zak, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998; G. Lingua, Oltre l'illusione dell'Occidente. P. A. Florenskij e i fondamenti della filosofia russa, Zamorani, Torino 1999; M. žust, Á la recherche de la Vèritè vivante. L'experience religieuse de Pavel A. Florensky (1882-1937), Lipa, Roma 2002; N. Valentini, Pavel A. Florenskij, Morcelliana, Brescia 2004; S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano 2006; F. J. Lopez Saez, La belleza, memoria de la resurrección. Teodicea y antropodicea en Pavel Florenskij, Monte Carmelo, Burgos 2008; A. Pyman, Pavel Florenskij. La prima biografia di un grande genio cristiano del XX secolo, Lindau, Torino 2010; V. Rizzo, Vita e razionalità in Pavel A. Florenskij, Jaca Book, Milano 2012; S. Tagliagambe, Il cielo incarnato. Epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij, Aracne, Roma 2013. Testo

  3. Con il termine Grandi purghe si intende una vasta repressione avvenuta nell'Unione Sovietica nella seconda metà degli anni Trenta del secolo scorso, voluta e diretta da Stalin dopo l'omicidio di Sergej Kirov, importante dirigente del Partito a Leningrado, per epurare il partito comunista da presunti cospiratori. Il periodo viene pure indicato con i termini di Terrore o Grande Terrore. La repressione, eseguita spesso con procedimenti giudiziari sommari, colpì anche semplici cittadini, non iscritti al partito, considerati ostili al regime, ed ebbe vasta risonanza in Occidente in seguito ad alcuni processi celebrati dal 1936 al 1938 contro i massimi dirigenti del Partito Comunista. Oggetto di arresti e condanne furono, pure, numerosi esponenti delle comunità straniere, inclusa quella italiana, emigrati nella nuova patria socialista per sottrarsi alle persecuzioni politiche dei paesi di origine o per contribuire al suo sviluppo. Cfr. G. Averardi (a cura di), I grandi processi di Mosca 1936-1937-1938: precedenti storici e verbali stenografici, Rusconi, Milano 1977; A. Brissaud, Le "grandi purghe" di Mosca, Edizioni Ferni, Ginevra 1973; R. Conquest, Il Grande Terrore, BUR, Milano 2006; D. Rayfield, Stalin e i suoi boia: una analisi del regime e della psicologia stalinisti. Milano, Garzanti, 2005. Testo

  4. Qui, però, senza nessuna amara ironia come per l'eroe del romanzo di Lermontov, Pecorin. Testo

  5. La categoria della testimonianza ha assunto, in questi ultimi anni, uno spessore teoretico sia dal punto di vista filosofico che teologico. Sull'argomento si vedano: P. Ricoeur, Testimonianza, parola e rivelazione, Dehoniane, Roma 1997; P. Ciardella, Testimonianza e verità. Un approccio filosofico, in P. Ciardella -- M. Gronchi (edd.), Testimonianza e verità, Città Nuova, Roma 2000, pp. 37-51; A. Fabris, Per una filosofia della testimonianza, in P. Ciardella -- M. Gronchi (edd.), Testimonianza e verità, Città Nuova, Roma 2000, pp. 53-79; R. Latourelle, Testimonianza, in R. Latourelle -- R. Fisichella (curr.), Dizionario di Teologia Fondamentale, Cittadella, Assisi (PG) 1990, pp. 1312-1331. Testo

  6. «Raccontano che in Occidente si impara a nuotare in palestra, sdraiati sul pavimento; allo stesso modo si può diventare cattolici o protestanti sui libri, senza contatti con la vita, nel proprio studio. Per diventare ortodossi, invece, bisogna immergersi di colpo nell'elemento ortodosso, vivere l'ortodossia. Non esistono altri metodi» (P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p. 13). Testo

  7. P. A. Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2009, p. 113. Testo

  8. P. A. Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2009. Per Florenskij è centrale non perdere nulla del passato familiare, come raccomanda nel suo testamento: «Cercate di fissare per iscritto tutto quanto potrete sul passato della nostra stirpe, della famiglia, della casa, l'arredamento, le cose, i libri, ecc. Sforzatevi di raccogliere ritratti, scritti autografi, lettere, opere stampate e manoscritte di tutti coloro che hanno avuto rapporti con la nostra famiglia e stirpe, di conoscenti, parenti e amici, affinché l'intera storia della stirpe rimanga fissata nella vostra casa e tutto attorno a voi sia intriso di ricordi e niente sia morto, meramente materiale e non vivificato dallo spirito» (P. A. Florenskij, Testamento, in Id., Non dimenticatemi, cit., pp. 413-414). Testo

  9. «E in mezzo alla steppa, in una località selvaggia, nacqui io, il 9 gennaio 1882, verso le sette di sera, un'ora che è sempre stata la mia preferita. [...] Per farmi nascere venne una levatrice da Tflis. Vennero, poi, le sorelle della mamma: zia Liza e zia Remsò, che allora aveva 17 anni, e forse anche la zia Sonja. Mi chiamarono Pavel in onore del santo apostolo Paolo (ma chissà, poi, se all'apostolo pensarono davvero) e in ricordo di mio nonno Pavel Gerasimovic Saparov, che si era spento da poco» (Id., Ai miei figli, cit., p. 62). Testo

  10. Cfr. Ibidem, p. 71. Testo

  11. «Guardando più attentamente dentro me stesso, trovo ancora qualcosa che ho appreso da quel nostro vivere in due appartamenti collegati da un cortile. Ed è la convinzione ferma, organica, nell'"essere" mistico contrapposto all'empirico "apparire"» (Ibidem, p. 65). Ancora: «Da bambino il senso del mistero era in me dominante, era lo sfondo della mia vita interiore contro il quale si stagliavano la tenerezza e l'affetto per i genitori» (Ibidem, p. 74). Testo

  12. «Fu allora che in me nacque la comprensione del fatto che la divisione dello spazio può solo sembrare tale che, nonostante l'apparenza esteriore, ci può essere un'unità interiore che sia unità e non unificazione» (Ibidem, p. 65). Testo

  13. «Mio padre mi portava spesso con sé a passeggiare in città, e quelle passeggiate finivano sempre con qualche acquisto emozionante di dolci o giocattoli. [...] In quelle passeggiate mi si rivelò la forza della natura, ancora misteriosa, ma già sicuramente ostile» (Ibidem, pp. 67-68). Testo

  14. «Non ci si può accostare al mistero impunemente. [...] Nella terra c'era acqua, dentro di me c'era acqua, e anche le meduse erano acqua... Eravamo diversi d'aspetto, ma tutt'uno quanto a sostanza» (Ibidem, p. 82). Proprio sottolineando come le sue percezioni infantili fossero più dirette, volte a cogliere nella realtà quel dato noumenico che sempre sfugge, aggiunge: «Quel mare, il mare beato della mia infanzia beata, non potrò più vederlo se non dentro di me. Se n'è andato dove se ne va il tempo, probabilmente, tra i noumeni. Ma un tempo quel noumeno io l'ho visto, l'ho annusato e ascoltato. E so, più di ogni altra cosa che appresi in seguito, che, sebbene non sia più profonda che mai: ora se n'è andata, ma resta comunque dentro di me» (Ibidem, p. 85). Testo

  15. «Nelle sue profondità [della natura] si celavano vite senza numero, animali e vegetali strani e splendidi, tutti legati interiormente a me, e che interiormente si mettevano in relazione con la mia vita, inviandole le irradiazioni del proprio essere e riconoscendomi come proprio simile, membro del regno infinito di quella vita misteriosa e baluginante di luce fluorescente» (Ibidem, p. 89). Testo

  16. «A me, alle mie domande, i grandi fornivano una qualche spiegazione che poco aveva a che fare con quel che chiedevo, ma che non ho mai ritenuto necessario confutare: i grandi mi volevano bene, ma capivano molto poco, o così sembrava, del senso delle mie domande» (Ibidem, p. 91). Testo

  17. Florenskij domandava insistentemente ai genitori notizie sul senso dei fenomeni marini, ricevendo sempre risposte molto corrette e dettagliate dal punto di vista scientifico, che, però non lo soddisfacevano mai in pieno. «Così bisognava dire quando si parlava con gli adulti, pensavo; come molte altre spiegazioni di scienze naturali, mi pareva anche quella una sorte di accondiscendenza, un eufemismo che non sfiorava il mistero e che di fatto non corrispondeva a verità» (Ibidem, p. 95). Testo

  18. «Il mondo era permeato della vita che vi era riversata e che lo organizzava, il mondo aveva in sé il fulgore interno delle profondità, mentre le cose fatte a macchina mi parevano inanimate, piatte, prive di mistero, comprensibili in tutto e per tutto» (Ibidem, p. 95). Testo

  19. «La materia del mondo mi insegnò ad amarla ed ammirarla. Ed io la amai. Non la materia dei fisici, però, ma la materia stessa, con la sua verità e la sua bellezza, e con la sua integrità» (Ibidem, p. 97). Testo

  20. «Io non amavo l'uomo in quanto tale, mentre ero innamorato della natura. E, in secondo luogo, il regno della natura lo ripartivo in due categorie: il bello e il particolare» (Ibidem, p. 109). Testo

  21. «La mia vista non era di tipo analitico, non estrapolava -- acuendoli -- singoli elementi; quel che coglievo era soprattutto la forma. Le forme lievi di oggetti razionalmente appena percettibili producevano in me reazioni inspiegabili» (Ibidem, p. 110). Testo

  22. «Sin da piccolo gli odori erano per me l'espressione dell'essenza più profonda delle cose, e tramite l'odore sentivo di fondermi con la cosa in sé. I colori, gli oli eterei e soprattutto le resine profumate li percepivo come uno squarcio indubitabile su questo mondo e come via d'accesso nell'altro» (Ibidem, p. 114). Testo

  23. «Ogni percezione rimandava a un'altra, e nella mente si formava una sorta di sistema in cui quanto era eterogeneo si correlava per dettagli piccoli ma, a mio parere, significativi. [...] Fenomeni atmosferici, colori, odori, sapori, corpi celesti ed eventi sotterranei si intrecciavano tra loro in legami multiformi, andando a formare il tessuto del parallelismo universale» (Ibidem, p. 125). Testo

  24. «Il mondo viveva e io comprendevo quel suo vivere» (Ibidem, p. 126). Testo

  25. «La comprensione scientifica del mondo fiacca la differenza esteriore tra i fenomeni, rendendoli estranei l'uno all'altro persino quando essi sono qualitativamente identici, così che il mondo, privato di una vivace varietà, non solo non si unifica, ma al contrario si disperde. La percezione infantile supera la frammentazione del mondo dal di dentro (Ibidem, p. 127). Testo

  26. «Ero abituato a vedere le radici delle cose. Tale abitudine visiva fecondò poi l'intero mio pensiero e ne determinò il tratto fondamentale: la tendenza a muoversi in verticale e lo scarso interesse per l'orizzontale» (Ibidem, p. 140). Testo

  27. «In me c'era l'eccitazione repressa del sentimento religioso: ne ero stato tagliato fuori in modo tanto efficace che con la forza della mia inclinazione interiore innalzavo ancor di più il muro che era stato eretto tra me e la religione. Tanto maggiore era la mia esigenza religiosa, tanto più io, sul cammino a me indicato, mi allontanavo mea sponte dall'eventualità di appagarla» (Ibidem, p. 159). Testo

  28. «Nella nostra famiglia, invece, la sostanza religiosa dell'educazione religiosa era racchiusa nel tenere scientemente lontano qualsivoglia influsso religioso esterno -- positivo o negativo che fosse --, compreso quello dei miei stessi genitori. Non ci venne mai detto che Dio non c'era o che la religione fosse superstizione o che i sacerdoti fossero degli imbroglioni, così come non ci sentimmo mai dire neanche l'inverso» (Ibidem, p. 160). Testo

  29. «Per quanto inappellabile suonasse il suo giudizio al riguardo, tuttavia, mi rendo conto che è proprio dai sovratoni dei suoi[del padre] giudizi lapidari che si sono cristallizzati gli embrioni delle mie opinioni successive, vale a dire, in sostanza, che non esistano le religioni, ma che esista la Religione» (Ibidem, p. 162). Florenskij riprende questi argomenti, da un punto di vista teologico e del dialogo ecumenico nello scritto Cristianesimo e cultura (cfr. Id., Cristianesimo e cultura, in Id., Bellezza e Liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, Mondadori, Milano 2010, pp. 49-68, qui in particolare pp. 55-58). Testo

  30. «Umanità: era questa la parola preferita di mio padre, quella con cui voleva rimpiazzare il dogma religioso e la verità religiosa. Nell'umanità, nella benevolenza, egli scorgeva il regolatore universale di ogni sorta di rapporti sociali e personali da sostituire alla religione, al diritto e alla morale, l'unica cosa da predicare e instillare» (Id., Ai miei figli, cit., p. 166). Testo

  31. «La professione della tolleranza come dogma porta inesorabilmente all'intolleranza nei confronti di coloro che, invece, un tale dogma negano» (Ibidem, p. 171). Testo

  32. «Sotto una coltre di indifferenza, il mio rapporto con la religione era fluttuante e non poteva certo essere definito distaccato. Ero combattuto tra un'appassionata attrazione e degli eccessi di ostilità contro quanto non conoscevo ma la cui realtà mi era data imperiosamente. [...] L'unica via d'uscita era la lotta contro Dio. Io sapevo che Dio c'era, ma sapevo anche dell'amore e delle qualità dei miei genitori, e ancor più della mia dignità di essere umano. E allora a momenti insorgevo contro Dio; non per negarlo, però, bensì per non sottomettermi a Lui» (Ibidem, pp. 191-192). Testo

  33. «Quanto era particolare, insolito, mi pareva foriero di un altro mondo e incatenava il mio pensiero, o meglio la mia immaginazione. [...] L'incognito nutriva la mia mente, mentre quel che non meravigliava, che non generava meraviglia, era una sorta di pula secca priva di sostanze nutritive» (Ibidem, p. 200). Testo

  34. Ibidem, p. 201. Testo

  35. «Il positivismo mi disgustava, ma non meno mi disgustava la metafisica astratta. Io volevo vedere l'anima, ma volevo vederla incarnata. Qualcuno vorrà chiamarlo materialismo. Non si tratta, però, di materialismo, ma della necessità del concreto, o simbolismo. Sono sempre stato un simbolista» (Ibidem, p. 202). Testo

  36. «Nel kantismo si oppone la cosa alla sua manifestazione. [...] L'opposizione tra "apparire" ed "essere" consisteva per me nei fenomeni stessi, nelle stesse manifestazioni. Ci sono manifestazioni superficiali e ce ne sono di più profonde. E sono esse stesse a dare testimonianza di sé in quanto tali. Si osserva il fenomeno e ci si accorge che esso è la scorza di un altro fenomeno più profondo» (Ibidem, p. 203). Testo

  37. «Se mi ci soffermo è perché nella concezione di mio padre l'idea della continuità era il baluardo e il fulcro della visione scientifica del mondo, della scientificità, mentre l'anima del fiabesco, secondo lui, era l'idea inversa: la discontinuità» (Ibidem, p. 212) «Mio padre riteneva che proprio l'idea della discontinuità fosse l'abisso che si apriva tra la visione del mondo della sua generazione e la mia, la Weltanschauung del prodigio, della fiaba, a cui tendevo» (Ibidem, p. 204). Testo

  38. Una simile concezione del mondo fiabesco si ritrova anche nell'opera di Cristina Campo: «La caparbia, inesausta lezione delle fiabe è dunque la vittoria sulla legge di necessità, il passaggio costante a un nuovo ordine di rapporti e assolutamente niente altro, perché assolutamente niente altro c'è da imparare su questa terra» (C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 34). Testo

  39. «Il mondo intero era una fiaba in alcuni punti nascosta e in altri svelata. Ma anche là dove la fiaba del mondo pareva assopita vedevo una finzione: essa aveva gli occhi socchiusi e sbirciava sorniona tra le ciglia (P. A. Florenskij, Ai miei figli, cit., p. 210). Testo

  40. «Imparai presto a vivere con due teste: in superficie con la testa degli adulti, accogliendo le leggi della logica, e in profondità con la mia testa di bambino, percependo il mondo da seguace dell'idealismo magico» (Ibidem, p. 222). Testo

  41. «Nei meandri del corporeo c'è il mistero, che dietro il corporeo si cela ma che corporeo non è, e il corporeo del mistero non solo non cancella il mistero stesso, ma anzi in determinate occasioni può esserne a propria volta cancellato. In qualsiasi momento, pensavo, il mistero può ergersi in tutta la sua statura e gettar via, lontana, la maschera del corporeo» (Ibidem, p. 225). Testo

  42. «La regolarità era il mio nemico; venuta a conoscenza di una qualche legge della natura, la mia mente tormentata dall'ansia, da un senso di limitatezza e di mesta oppressione riacquistava serenità solo quando saltava fuori un'eccezione alla legge stessa» (Ibidem, p. 234). Testo

  43. «Il contenuto positivo del mio pensiero, il suo punto fermo sono sempre state le eccezioni, il non-spiegato, il disubbidiente, la natura che si oppone alla scienza; le leggi, al contrario, erano qualcosa di passeggero, che prima o poi era condannato a sparire» (Ibidem, p. 235). Testo

  44. «Quel che avevo caro, al contrario, era il fenomeno in toto, quanto era concretamente osservabile. Era la forma della sua unità che mi dava pena: per la forma era la realtà» (Ibidem, p. 235). Testo

  45. «Più o meno quando frequentavo la sesta classe del ginnasio, o forse un po' prima, il mio rapporto scientifico col mondo era completamente formato, se non canonizzato. Ma, lo ripeto, sotto di esso tenevo per me, quasi inesprimibile a parole, la fiaba che sgorgava dal paradiso infantile nascosto nel profondo del mio cuore» (Ibidem, p. 242). Testo

  46. «La legge è l'autentico recinto della natura; ma anche il muro più spesso ha crepe sottilissime attraverso le quali si inflitra il mistero» (Ibidem, p. 243). Testo

  47. Ibidem, p. 245. Testo

  48. «Il principio della relatività, che accolsi senza troppe elucubrazioni e senza neanche studiarlo, in quanto si trattava di un flebile tentativo di dare forma concettuale a un altro modo di comprendere il mondo. Il principio generale della relatività è in un certo senso la mia fiaba del mondo, pur se sgrossata e semplificata» (Ibidem, p. 247). Testo

  49. Ibidem, p. 250. Testo

  50. «Mi fu di colpo chiaro che "il tempo era uscito dai cardini" e che, di conseguenza, si era concluso qualcosa di estremamente importante non solo per me, ma per la storia tutta. Era una sensazione di nostalgia mortale, di dolore pungente, di insopportabile consapevolezza che ciò che era stato costruito a costo di sforzi imponenti, e non parlo dei miei, ma di quelli di tutti, di quelli dell'Europa, stava crollando. In quel dolore lancinante, però, si intuiva l'inizio della liberazione e della resurrezione, anche in questo caso non solo miei, ma di tutti» (Ibidem, pp. 250-251). Testo

  51. «L'estate del 1899 segnò una svolta interiore particolarmente rapida e perciò la ricordo come assai lunga e densa di eventi, senza paragone possibile con le estati precedenti e con molte delle successive. [...] Dopo gli anni dell'infanzia è l'estate del 1899 il pilastro della mia coscienza» (Ibidem, p. 265). Testo

  52. «Con una fermezza che non ammetteva dubbio alcuno sentivo quanto impotente fosse ciò che mi aveva interessato fino a quel momento nella zona di buio in cui ero capitato. [...] Fui preso da una grande disperazione e dovetti ammettere l'impossibilità di uscire di lì, l'evidenza di essere definitivamente tagliato fuori dal mondo visibile. In quell'attimo un raggio sottilissimo, che era o una luce invisibile o un suono impercettibile, mi recò un nome: Dio. Non era ancora un'illuminazione né una rinascita, ma solo la notizia di una possibile luce. Però conteneva la speranza e nel contempo la consapevolezza tumultuosa e improvvisa che la morte o la salvezza erano tutte in quel nome e in nulla più» (Ibidem, p. 267). Testo

  53. Ibidem, p. 267. Testo

  54. «E contro quella roccia io sbattei, e da ciò ebbe inizio la consapevolezza dell'ontologicità del mondo spirituale. Per quanto ne so, fu proprio da quel momento che comparve la repulsione, ancora non espressa a parole, ma acuta nella determinazione, per il soggettivismo protestante e intellettuale in genere» (Ibidem, p. 271). Testo

  55. «Nell'aria riecheggiò una voce assai nitida e forte che chiamò due volte il mio nome: "Pavel! Pavel!" e non disse altro. Non era né un rimprovero, né una richiesta, non c'era rabbia e neanche tenerezza, era solo una chiamata in chiave maggiore e senza mezzitoni. Essa esprimeva in maniera diretta e precisa proprio e solo ciò che voleva esprimere: una chiamata. [...] Non so che egli volesse chiamare e perché, ma in effetti prestò la sua gola e le sue labbra a un'altra voce e chiamò me» (Ibidem, pp. 271-272). Testo

  56. «Da una parte c'era l'esperienza, indubbiamente autentica e riguardo a cose autentiche, dall'altra il pensiero scientifico, di cui mi fidavo fino a un certo punto. Era la malattia tipica di tutto il nuovo pensiero, di tutto il Rinascimento¸ora col senno di poi, posso definirla come il distacco tra umanità e scientificità. Da un lato c'era il pensiero scientifico inumano, dall'altro l'umanità priva di pensiero» (Ibidem, p. 274). Testo

  57. «Non riuscivo a dichiarare a me stesso, né trovavo le parole necessarie a riconoscere, la possibilità di un'altra visione del mondo, altrettanto ragionevole, altrettanto esprimibile a parole» (Ibidem, p. 277). Testo

  58. Ibidem, p. 300. Testo

  59. «In un attimo era stato reciso e svilito tutto ciò di cui ero vissuto, per lo meno così come esso veniva recepito dentro di me. Tutte le obiezioni contro il sapere scientifico che avevo sentito o letto a suo tempo di colpo si rivoltarono contro di me, e da cavilli convenzionali, facilmente confutabili alla bisogna e artificiosamente elaborati, di colpo si fecero un sostegno minaccioso di quel nuovo pensiero, di colpo si ritrovarono in grado di colpire al cuore la visione scientifica del mondo. Nel giro di un attimo, come sferzato da una scossa sotterranea, lo sfarzoso edificio del pensiero scientifico si tramutò in ciarpame, e di colpo si scoprì che non era fatto di materiali pregiati ma di trucioli, cartone e stucco. Quando mi alzai dal pendio su cui ero seduto, non avevo nulla da raccattare nemmeno tra i resti dell'edificio del pensiero scientifico in cui credevo e al quale -- o accanto al quale -- mi ero impegnato indefessamente. Corsi via da quelle macerie non solo svuotato, ma finanche disgustato» (Ibidem, p. 301). Testo

  60. «"La verità è irraggiungibile", "non si può vivere senza la verità": queste due asserzioni ugualmente forti mi straziavano l'anima e portavano all'agonia il mio spirito» (Ibidem, p. 302). Testo

  61. Ibidem, p. 305. Quasi come una parabola le memorie della giovinezza di Florenskij si concludono con la ricerca della verità che gli si era presentata come intuizione già dall'infanzia. «Pur potendo contare su una cospicua riserva di vivacità, sin da bambino ero bloccato dalla consapevolezza di non essere solo e dal sapere che sopra di me c'era la Verità» (Ibidem, p. 73). Testo

  62. Appunto di Florenskij del 23 aprile 1916, cinque anni dopo la sua ordinazione sacerdotale, in riferimento alla sua vita personale e familiare, cit. in Igumeno Andronik (A. S. Trubacëv), SvjaŠcennik Pavel Florenskij -- professor Moskovskoj Duhovnoj Akademii i redaktor "Bogoslovskogo vestnika", Bogoslovskie trudy 28 (1987), p. 295. Testo

  63. Per maggiori dettagli su questa pagina della biografia di Florenskij: A. Pyman, Pavel Florenskij. La prima biografia di un grande genio cristiano del XX secolo, Lindau, Torino 2010, pp. 173-273. Testo

  64. Al sacerdozio inteso come dono dello Spirito Florenskij lega, indissolubilmente, anche la sua vocazione matrimoniale: «Molto semplicemente mi sono sposato per adempiere alla volontà di Dio, che mi fu chiara da un segno [...]. Meccanicamente, non ricordo perché, mi chinai e presi tra le dita una fogliolina. La raccolsi e vidi, con mia grande sorpresa, che era un quadrifoglio, il simbolo della "felicità". Il pensiero che ebbi subito (e sentivo che quel pensiero non era mio) era che si trattava di un segno: la volontà di Dio» (da una lettera conservata nell'archivio familiare citata da Id., Žizn' i sud'ba, cit. in P. A. Florenskij, Socinenija v cetyreh tomah (vol. I), Mysl', Moskva 1994, p. 17). Testo

  65. Quando nel 1911 Florenskij fece domanda per essere ordinato sacerdote queste sono le impressioni suscitate dalla sorella scritte in una lettera indirizzata alla madre il 4 aprile 1911: «So che Pavlja in questi giorni ti ha dato un grosso dolore con il suo desiderio di farsi prete. Nemmeno io so che cosa pensare, ma vedo che Pavlja sta facendosi impetuosamente largo nella vita, e finora ha vissuto in modo da ottenere tante soddisfazioni. Parla della sua nuova scelta con un volto così luminoso e con un tale amore che non vorrei distruggere la sua gioia con condanne o dubbi...» (cit. in Id., La vocazione di Florenskij, La Nuova Europa 5 (2007), p. 53). Testo

  66. Ecco come si esprime sull'ordinazione sacerdotale lo stesso Florenskij in una lettera dell'11 maggio 1911 indirizzata all'amico V. V. Rozanov: «Un mondo interiore inesprimibile, ineffabile, incomprensibile a me stesso mi ha inondato l'anima, il cuore, il corpo. Esteriormente è tutto come prima: mi irrito, mi arrabbio, sono scontento. Ma nel profondo dell'animo è come se questo avvenimento, questo compimento, questa definitività avesse nidificato e ora stesse maturando una nuova vita...» (Id., SvjaŠcennik Pavel Florenskij -- professor Moskovskoj Duhovnoj Akademii i redaktor "Bogoslovskogo vestnika", cit., p. 293). Testo

  67. L'ideale del "focolare domestico" gli venne in eredità dal nonno e dal padre, ma con esso anche la profonda difficoltà di poterlo realizzare. Qui, in una lettera a V. V. Rozanov del 28 maggio 1910: «Pensate alla vita di mio padre, di mio nonno. Il nonno era figlio di un prete... Aveva concluso brillantemente gli studi in seminario ed era stato mandato all'Accademia teologica, ma per amore della scienza abbandonò tutto per entrare all'Accademia Medica Militare... Aveva due desideri: formare una famiglia solida, unita, "stabile", e possedere un pezzetto di terreno per non dover vivere in città. Ma la sua amata sposa, mia nonna, morì giovane e la seconda moglie fu per i figli la vera "matrigna delle favole". Insomma, la sua famiglia fallì e si disgregò peggio di quelle senza fondamenti "ideali". Quanto a lui, morì di colera curando i malati. Anche mio padre sognò per tutta la vita la stessa cosa, cioè la famiglia ideale e la vita in campagna. E anche lui fallì, anche lui morì nell'espletamento dei suoi doveri sociali, anzi proprio per causa loro... Neppure io posso negare che la vita in campagna e un'amicizia, in famiglia o altrove, ma tale da donarmi rapporti intimi, profondi, costituisca il mio sogno. Ma ormai so che questo è impossibile a realizzarsi, e vorrei soltanto morire non per il puro espletamento dei miei doveri professionali, ma per qualcos'altro...» (cit. in Id., La vocazione di Florenskij, cit., p. 51). Sembra essere un tratto genetico la ricerca frustata di una vita attorno al focolare domestico: «nella nostra stirpe, tutte le generazioni avevano lo stesso sogno: quello di vivere una vita tranquilla, dedicandosi a un orticello, se non altro in vecchiaia. Ebbene, nessuno è mai riuscito a realizzare questo sogno» (P. A. Florenskij, Non dimenticatemi, cit., p. 167). Testo

  68. «"Onorare i genitori" significa in primo luogo, concretamente, cercare di conoscerli. Personalmente nella mia famiglia c'è un'eterogeneità incredibile, si va da esponenti della borghesia fino ai conti Razumovskij... Però solo i poveri parroci di Kostroma riscuotono fino in fondo il mio interesse, e nel cuore io sono assolutamente con loro» (Da una lettera a V. V. Rozanov del 1915 cit. in Igumeno Andronik (A. S. Trubacev), La vocazione di Florenskij, cit., pp. 50-51). Pur provenendo da una famiglia di parroci, il padre, che morì prima del matrimonio e dell'ordinazione sacerdotale di Florenskij, non capì mai la sua scelta "religiosa" e la sua vita presso l'Accademia teologica. Ecco cosa riporta Florenskij di una delle rare visite di suo padre a Segiev Posad nella primavera del 1905: «Mi sembrava che egli non avesse voglia di vedere la lavra e l'Accademia -- era duro poiché suo figlio ora era legato a quei luoghi... Non riesco a ricordare se io interpretai qualche parola di mio padre come se esprimesse svogliatezza nel visitare la lavra o se egli lo disse chiaramente; ora mi pare che mio padre temesse, nel visitare la lavra, di offendermi con il suo atteggiamento esteriore, miscredente nei confronti della lavra, e nello stesso tempo non volesse o non fosse in grado di assumerne un altro e perciò desistette completamente dal visitarla» (P. A. Florenskij, Besporjadocnye zametki ob otce moem Aleksandre Ivanovice Florenskom, in Id., Detjam moim. Vospominaija, Moskovskij Raboij, Moskva 1992, p. 301). Florenskij era molto legato alla tradizione genealogica della sua famiglia tanto che dedica delle intere lettere dalla prigionia per spiegare ai figli i tratti della propria stirpe (Cfr. P. A. Florenskij, Non dimenticatemi, cit., pp. 165-167). Testo

  69. Lettera del 1904 conservata nell'archivio di famiglia; la citazione è ripresa da: E. V. Ivanova, L. A. Il'junina, K istorii otnoŠenij s Andreem Belym, Kontekst-1991. Literaturno-teoreticeskie issledovanija, Nauka, Moskva 1991, p. 4. Testo

  70. Nel novembre del 1913 ecco come si lagna Florenskij dei suoi colleghi all'Accademia con il vescovo Fedor: «I rappresentanti del clero, che esercitano la loro autorità nella Chiesa, alcuni a buon diritto, altri come usurpatori, tendono più di chiunque altro a identificare la Chiesa di Cristo e i suoi attributi con il tradizionale modo di vita, gli atteggiamenti e gli interessi dei nostri preti. Non è certo mia intenzione asserire che il clero sia male di per se stesso, ma sono sicuro di poter dire non solo che tale realtà mi è del tutto estranea ma che non vedo neppure alcuna ragione per cui debba conformarmi ad essa. Eppure, proprio dal clero promana un buon numero di meschine imposizioni apparentemente esercitate nel nome di Cristo ma semplicemente e incomprensibili a chiunque non si sia formato in quell'atmosfera» (Cfr. P. V. Florenskij, S. B. Šolomov (a cura di), Ostajus' vaŠ dobroželatel' i bogomolec. K istorii vzaimootnoŠenij sviaŠcennika Pavla Florenskogo i mitropolita Antonia (Chrapovickogo), Žurnal Moskovskoj Patrarchii 6 (1998), pp. 67-80). Già nel 1905, durante la sua formazione teologica presso l'Accademia Florenskij aveva riflettuto sulla differenza tra una genuina dogmatica, tutta innervata dall'esperienza vivente e confessante, e un vuoto ed astratto dogmatismo, frutto di sterili e intellettualistici tentativi di imbrigliare la fede in una staticità posticcia. Alla vera dogmatica «è subentrato il dogmatismo, ecco la ragione della nostra freddezza di fronte alle forme meravigliose, ma ormai prive di vita, di questa dogmatica. La dogmatica nella coscienza contemporanea ha spezzato il suo legame con i vivi sentimenti e le vive percezioni. L'anima e il corpo della concezione religiosa del mondo si sono separati» (P. A. Florenskij, Dogmatismo e dogmatica, in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999, p. 152). Testo

  71. La formazione dell'intelligencija, termine derivante dal francese, è un fenomeno eminentemente russo che si diffonde negli anni Sessanta dell'800, e indicava quel gruppo di intellettuali che riesce, dopo gran pena e gran tempo, ad affrancarsi dal dominio ecclesiastico e gerarchico nell'ambito culturale. Infatti fino all'età di Pietro il Grande la vita intellettuale russa era dominata dal clero. Essa si andò a formare, sin dai suoi esordi, come un movimento progressista, seppur diviso in molte correnti e filoni, più o meno radicali, ma che si contraddistinguevano tutti per una certa avversione per il connubio tra potere spirituale e temporale del regime russo. Nato come fenomeno letterario, esso si allargherà a tutti gli ambiti del tessuto intellettuale dell'intera Russia, in special modo della vita delle grandi città. Se in un primo momento l'avversione al potere costituito si era espressa anche sotto forme di ateismo, all'epoca di Florenskij, alcune frange dell'intelligencija rivendicavano per se stesse un'autonoma ricerca della verità spirituale e morale che prescindesse dalla guida, a volte opprimente, della gerarchia Ortodossa. Cfr. G. K. Piovesana, Storia del pensiero filosofico russo (988-1988), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1992, pp. 187-212. Per comprendere il significato di intelligencija a cavallo tra le due rivoluzioni, 1905-1917, è interessante leggere il testo collettaneo Vechi, che appunto cerca di mettere ordine e chiarezza nel vasto movimento intellettuale di quegli anni; utile anche perché molti degli autori dei saggi sono vicini per tematiche e, come Bulgakov, anche per amicizia, a Florenskij. Cfr. Aa. Vv., La svolta: Vechi. L'"intelligencija" russa tra il 1905 e il 1917, Jaca Book, Milano 19902. Testo

  72. Bulgakov traccia in questo modo la differenza tra l'ideale eroico dell'intelligencija e l'ascetismo cristiano: «Tra l'eroismo dell'intelligencija e l'ascetismo cristiano, nonostante una certa somiglianza esteriore, non esiste alcuna affinità interiore, nessun contatto sia pure sotterraneo. Il compito dell'eroismo è la salvezza esteriore dell'umanità (più esattamente di una futura parte) con le proprie forze, secondo un proprio piano, "a nome proprio"; l'eroe è colui che realizza nel grado più alto la propria idea, magari rovinando a causa d'essa la propria vita, è l'uomo-dio. Il compito dell'ascetismo cristiano è di cambiare la propria vita in un'invisibile abnegazione ed obbedienza, adempiere il proprio lavoro con tutta l'intensità, autodisciplina, auto dominio e vedere in esso e in se stesso solo uno strumento della Provvidenza. Il santo cristiano è chi ha trasformato, nella più alta misura, la propria volontà personale e tutta la propria personalità empirica con un incessante e indefesso sacrificio fino a lasciarsi permeare dalla volontà Divina nella massima misura possibile. Il modello della pienezza di questa penetrazione è il Dio-uomo, venuto "a fare non la sua volontà, ma quella del Padre che l'aveva mandato", di colui "che viene nel nome del Signore"» (S. N. Bulgakov, L'eroe laico e l'asceta, in Aa. Vv., La svolta. Vechi. L'"intelligencija" russa tra il 1905 e il '17, cit., p. 61. Testo

  73. In una lettera, del 15 giugno 1905, al suo amico A. Belyj, Florenskij si rammarica delle divergenze che si erano create all'interno proprio di uno di questi gruppi di intellettuali, circa la sua concezione di Chiesa: «... e si adirano con me sempre per la stessa cosa, per la Chiesa storica. Capisco bene per quale motivo a questo riguardo mi infurio con tutti, perché in un certo periodo mi sono infuriato anche con me stesso. Allora io mi avvicinavo alla Chiesa guardandola obiettivamente "come guarda la madre un bambino che si è separato dal suo organismo" [...]. E allora io vedevo migliaia di difetti, vedevo una crosta spessissima, sotto la quale per me non c'era nulla tranne simboli divenuti stantii. Ma non so cosa -- interpretatela come volete -- qualcosa mi ha messo contro la mia volontà nell'atteggiamento soggettivo verso il popolo, e insieme ad esso anche verso la Chiesa, che esso ama. Sono penetrato all'interno di ogni guscio, mi sono messo al di là dei difetti. Davanti a me si è aperta la vita, forse un po' turbolenta, ma vita, si è aperto senza dubbio il santo midollo. E allora ho capito che non uscirò più da dove ho visto tutto questo, non ne uscirò, perché non credo nella generatio spontanea spirituale, non credo nella possibilità "di edificazione" della Chiesa. La "nostra" Chiesa, mi sono detto, o è una completa assurdità, o deve crescere da un grano santo. Io l'ho trovato e ora lo farò crescere, lo condurrò fino ai misteri, ma non getterò in pasto ai socialisti tutti i colori e le sfumature. Se sono colpevole, Boris Nikolaevic, nell'interpretare la vita e la santità dietro una grossa crosta di sporcizia (che, forse, a me sembra più grande che agli altri, perché mi procura dolore), se è peccato amare ciò che è santo, allora io sono davvero colpevole davanti a tutti coloro che la pensano diversamente da me. Ma posso soltanto dire loro: io posso fingere, ma non posso smettere di sentire ciò che sento. Fate ciò che volete e come volete. Il vostro biasimo potrà far male, ma l'amore da parte loro potrà soltanto divenire più forte...» (A. Belyj, P. A. Florenskij, L'arte, il simbolo e Dio. Lettere sullo spirito russo, Medusa, Milano 2004, pp. 65-66). Testo

  74. Ordinato sacerdote da ormai dieci anni, Florenskij annotava sul suo diario (23 settembre 1921) come procedesse la sua missione spirituale attraverso, ma mai nonostante, il suo essere scienziato. Dopo una lezione in un istituto statale sui trasformatori elettrici così si esprime: «Avevo l'impressione che nessuno avesse capito, e di aver parlato in maniera caotica, confusa. Ma evidentemente si vede che le mie preghiere a San Sergio, che avevo invocato in mio aiuto -- non per compiacere la mia ambizione ma per amore della Chiesa, perché nessuno potesse guardare con disprezzo il clero -- hanno funzionato. Difatti in seguito mi hanno detto che la mia lezione aveva fatto impressione, anzi "furore". Dio lo voglia! Non ho nessun bisogno della gloria, è solo un peso sia esteriore che interiore, ma io in fondo sono andato all'Accademia per poter unire insieme il mondo laico e quello religioso, nel desiderio di entrare nel mondo religioso come esponente della società laica, e ora faccio lezione con la talare nel desiderio di penetrare nel mondo laico come esponente della comunità religiosa; la mia gloria è la gloria di Dio, e tutto ciò che guadagno con l'aiuto di Dio lo offro al Signore, lo pongo davanti a lui come un frutto, un bottino che il Signore stesso mi ha inviato ad acquistare. Magari con i trasformatori riuscissi a guadagnare al Signore anche una sola anima!» (Cit. in cit. in Igumeno Andronik (A. S. Trubacev), La vocazione di Florenskij, cit., p. 52). Fa eco la testimonianza di Bulgakov: «In padre Pavel si erano incontrate e a loro modo si erano unite cultura ed ecclesialità, Atene e Gerusalemme, e questa unione organica è già in se stessa un fatto che ha un significato storico ed ecclesiale» (S. N. Bulgakov, Il sacerdote Pavel Florenskij, in Id., Lo spirituale della cultura, Lipa, Roma 2006, p. 150). Testo

  75. In Florenskij si incarnava ciò che egli stesso aveva notato scrivendo la vita del monaco Isidoro: «Viveva nel mondo, ma non era di questo mondo; stava con la gente, ma non come semplice uomo. Non disdegnava niente e nessuno, ciò nonostante era al di sopra di tutto, e tutto ciò che è terrestre si chinava e restava penosamente sospeso innanzi al suo mite sorriso. Con lo sguardo rendeva nulle tutte le convenzioni umane, giacché egli stava al di sopra del mondo» (P. A. Florenskij, Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro, Qiqajon, Magnano (VC) 1992, p. 25. Testo

  76. Nonostante tutta la sua multiforme attività, sia culturale, che spirituale o scientifica, egli rimarrà sempre intimamente legato al suo sacerdozio, tutto troverà una sintesi nel suo essere essenzialmente e profondamente un pope. Ecco qui la toccante testimonianza tracciata da S. N. Bulgakov in un memoriale scritto nel 1943, allorquando il regime sovietico diede la notizia, poi rivelatasi falsa e postuma, della morte di Florenskij: «Ma tutto quello che si può dire dello straordinario talento scientifico di padre Pavel, come anche della sua originalità, in virtù della quale poteva sempre dire la sua, come una qualche rivelazione su tutto, è tuttavia secondario e di poca importanza se non si riconosce in lui la cosa più importante. Il centro spirituale della sua personalità, il sole che illuminava tutte le sue doti era il suo sacerdozio» (S. N. Bulgakov, Il sacerdote Pavel Florenskij, cit., p. 148). Testo

  77. Scrivendo,nel 1908, una piccola biografia sul monaco Isidoro, suo padre spirituale, così conclude: «L'abba Isidoro era un autentico portatore dello Spirito di Dio. Ecco perché quanto di eccezionale è in lui era e continua a restare inafferrabile per il nostro linguaggio, impercettibile per il nostro intelletto. Di per sé tutto d'un pezzo, unitario, l'abba diventa interamente contraddittorio nel momento in cui si tenta di caratterizzarlo a parole, dicendo: "Ecco, era questo e quest'altro". È vero, sottostava ai digiuni, ma al contempo li violava. È vero, era dotato dello spirito di sottomissione, ma anche di indipendenza. È vero, viveva relegato dal mondo, ma amava tutta la creazione come nessuno mai. È vero, viveva tutto assorto in Dio, ma non trascurava di leggere i giornali e di dilettarsi di poesia. È vero, era di carattere mite, ma sapeva essere anche severo. In una parola, al nostro intelletto egli si presentava come un'insanabile contraddizione. Ma alla ragione purificata egli appare come un tutto coerente come nessuno mai. Anche la sua unità spirituale sembra costituire una contraddizione sul piano razionale. Viveva nel mondo, e al contempo non era di questo mondo. Non disdegnava nulla, eppure si manteneva sempre al di sopra, in una dimensione celeste. Era spirituale, pneumatoforo, e nella sua persona era possibile comprendere che cosa significhi la spiritualità cristiana, che cosa significhi essere cristiani "non di questo mondo"» (P. A. Florenskij, Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro, cit., pp. 114-115). Testo

  78. «Che cosa cercava nel sacerdozio padre Pavel? Non era una chiamata alla pastorale e alla catechesi, anche se è chiaro che non le rifiutava. Prima di tutto e sopra a tutto era un'attrazione ad essere presente al trono del Signore, alla celebrazione liturgica» (S. N. Bulgakov, Il sacerdote Pavel Florenskij, cit., p. 151). Testo

  79. P. A. Florenskij, Non dimenticatemi, cit., pp. 374-375. Testo

  80. L'epistolario tra Florenskij e la sua famiglia copre tutto l'arco che va dal suo arresto nel 1933 fino divieto di corrispondenza che viene comunicato al detenuto nel 1937, pochi mesi prima della sua uccisione. In esso si trova la dolcezza per i figli, cui sono dedicate intere lettere, per la moglie, la madre e per gli altri familiari, ma anche la difficoltà e la tristezza per la serenità perduta. Testimonianza unica e preziosa che è giunta fino a noi grazie alla cura dei familiari che hanno conservato questa preziosa testimonianza. È un testo che ha avuto molta fortuna, come testimoniano, solo in Italia, le diverse edizioni stampate. Testo

  81. Ecco come descrive questa scelta l'amico Bulgakov: «È come se la vita gli avesse offerto la scelta tra le Solovski e Parigi, ma egli scelse... la patria, benché si trattasse delle Solovski, volle fino alla fine condividere la sorte del suo popolo. Padre Pavel non poteva e non voleva internamente diventare un emigrato, nel senso di un distacco volontario o involontario dalla patria. Lui stesso e il suo destino sono la gloria e la grandezza della Russia, e nello stesso tempo il suo più grande delitto» (S. N. Bulgakov, Il sacerdote Pavel Florenskij, cit., p. 153). Testo

  82. «Florenskij fu arrestato la mattina del 21 maggio [1928]. Il mandato di arresto era sottoscritto dal capo supremo dell'OGPU, Gerich Jagoda, e fu messo in atto dal "commissario della sezione di azione" Žilin, che arrestò Florenskij e ne perquisì la casa. Fortunatamente non toccò i manoscritti, e del resto difficilmente un agente operativo semianalfabeta (i suoi rapporti sono pieni di errori di grammatica) sarebbe riuscito a raccapezzarcisi. Trovò invece sospette una medaglia della Croce Rossa e una fotografia dello zar e le sequestrò come materiali compromettenti. [...] Essere un nobile o un sacerdote era già un delitto, e ancor peggio era essere in possesso di una foto dello zar o della famiglia imperiale: questa era già una prova materiale» (V. Šentalinskij, I manoscritti non bruciano. Gli archivi letterari del KGB, Garzanti, Milano 1994, pp. 178-183). Rimando a questo testo anche per approfondire tutti i passaggi del processo e della condanna del nostro autore russo. Inoltre si veda anche: «Non tradire le tue convinzioni...» La verità sulla fine di Pavel Florenskij, in L'Altra Europa, 1 (1991). Testo

  83. L'acuta e documentata analisi di V. Šentalinskij esprime chiaramente il vero motivo della condanna. «Santità è un'altra parola che ha quasi abbandonato il nostro vocabolario, invecchiata di colpo, all'apparire dell'epoca sovietica. Non c'è posto per la santità quando è già difficile conservare un sembiante umano! Tengo tra le mani un fascicolo voluminoso. L'ho aperto e l'ho richiuso subito. Volti, volti, volti di giovani e di vecchi, di uomini e di donne: pagine piene di fotografie, e sai già che sono volti di condannati, sai già che queste persone, prima o poi, in un modo o nell'altro, sono state uccise. L'ho chiuso, poi mi sono fatto coraggio e l'ho aperto di nuovo. Ottanta persone -- teologi, sacerdoti, monaci, studiosi, artisti, mercanti, infermiere, contadini -- riunite qui dal pugno di ferro dell'OGUP e da una colpa comune: la fede in Dio. [...] Un nome spicca tra gli altri, un nome grande: Pavel Aleksandrovic Florenskij, il "Leonardo da Vinci russo", come lo hanno definito» (V. Šentalinskij, I manoscritti non bruciano. Gli archivi letterari del KGB, cit., p. 172). Testo

  84. L'arcipelago delle isole Solovski era uno dei più grandi monasteri della Russia, trasformato dal regime sovietico in un gulag. Trasformare un posto di vita e nascita spirituale in uno di morte e tortura è stata una delle follie che il regime comunista è riuscito a fare cercando di cancellare ogni traccia della storia russa antica e moderna. Testo

  85. Diversi anni prima lo stesso Florenskij riconosceva proprio nella croce la struttura profonda dell'essere umano, la sua più alta vocazione: «L'uomo è ad immagine di Cristo e perciò la Croce è l'immagine di Dio nell'uomo, il suo tipo, mentre il tipo della Croce, il prototipo dell'uomo, è la stessa Santissima Trinità: la Santissima Trinità è la Croce, è l'uomo» (P. A. Florenskij, Il timore di Dio, in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999, p. 278). Testo

  86. La censura era rigorosissima su questo aspetto: non era consentita nessuna allusione alla dimensione trascendente, a concetti spirituali e, persino, alla mitologia. Solo in due occasioni Florenskij fa esplicito riferimento a dei concetti teologici: una prima volta, parlando di Grazia in un componimento poetico dedicato al figlio Mik, una seconda volta ricordando il concetto di Incarnazione (Cfr. Id., Non dimenticatemi, cit., pp. 276-277 e 324-325). Testo

  87. «Che cosa ho fatto io per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà unica, ma in ogni istante o, più precisamente, in ogni fase della mia vita, da un determinato angolo di osservazione» (Ibidem, p. 379). Testo

  88. «L'Incarnazione è il precetto fondamentale della vita: l'Incarnazione che è realizzare le proprie potenzialità nel mondo, accogliere in sé il mondo e formare la materia di sé. Solo con l'Incarnazione si può misurare la verità e il valore di se stessi, altrimenti non è possibile neanche una critica obiettiva di sé» (Ibidem, pp. 324-325). Testo

  89. «Conosco abbastanza bene la storia e lo sviluppo storico del pensiero per poter prevedere che un giorno si metteranno a raccogliere i cocci di ciò che hanno distrutto. Tuttavia, questo non mi rallegra affatto, anzi mi infastidisce e questa odiosa stupidità umana, che perdura fin dagli inizi della storia e sembra intenzionata a durare fino alla fine» (Ibidem, p. 253). Testo

  90. Così scrive ad uno dei figli nel novembre del 1933: «Sarebbe ora che tu capissi che tutto ciò che succede ha un suo significato e si combina in modo tale che, in ultima analisi, la vita si dirige verso il meglio. I dispiaceri, nella vita, non si possono evitare; ma i dispiaceri sopportati consapevolmente e alla luce degli avvenimenti generali ci educano e arricchiscono e, in seguito, portano i loro frutti positivi» (Ibidem, p. 76). Testo

  91. «Nel momento stesso in cui riuscivo a possedere una certa materia, ero costretto ad abbandonarla per motivi indipendenti dalla mia volontà e dovevo iniziare ad affrontare un nuovo problema, sempre partendo dai suoi fondamenti, per spianare una strada che non sarei stato io a percorrere. Forse in questo si nasconde un significato profondo, dato che questa situazione si ripete sempre, nel corso di tutta la vita: l'arte della gratuità» (Ibidem, pp. 397-398). Testo

  92. In una lettera (8-9 aprile 1936) al figlio più piccolo dedica una piccola poesia in rima baciata in cui, con una semplicità e una profondità estrema, si accorge che la sua vita ha da offrire, come unico dono, solo la grazia. «Ahimè, in questo tempo tremendo di fame,/ Chi potrebbe procurarsi un regalo?/ Ho cercato intorno qualcosa da donare a Mik,/ E ho trovato un dono: la grazia./ Vorrei che la quiete di Dio/ Ti avvolgesse, bimbo mio» (Ibidem, pp. 276-277). Testo

  93. È chiaro che le lettere non sono solo una sorta di pacata o artefatta esibizione di sopportazione, quanto bensì lo specchio reale delle sofferenze di un uomo. Per sedare qualsiasi dubbio in tal senso, diverse sono le espressioni di dolore o di sconforto che emergono dalle lettere e che contribuiscono a raffigurare Florenskij nella sua completezza non stilizzata né idealizzata. Ecco un esempio fra tutti di una lettera datata 4 giugno 1937. «Tutto ormai è finito (tutto e tutti). Negli ultimi giorni sono stato incaricato di fare la guardia di notte alla nostra produzione di iodio nell'edificio dell'ex Iodprom. Qui si potrebbe occupare il tempo utilmente (in questo momento scrivo questa lettera per esempio), ma il freddo disperato nella fabbrica morta, le pareti spoglie e il vento che ulula, infilandosi tra i vetri rotti delle finestre, non dispongono a occuparsi di niente di utile, infatti vedi bene dalla mia scrittura che con le dita congelate non si riesce nemmeno a scrivere una lettera» (Ibidem, p. 402). Testo

  94. «Non parto da affermazioni e supposizioni generali astratte, ma seguo la strada della sintesi e dell'approfondimento dei casi concreti specifici, i quali cerco di cogliere in tutta la loro concretezza. Fin quando io stesso, con le mie mani, non ho pesato, sminuzzato, effettuato le analisi, calcolato, non capisco un fenomeno. Posso, sì, parlarne e ragionarne, ma non è ancora diventato mio. Ecco, proprio questo lavoro "grossolano" porta via tempo ed energie. Non è che non possa, ma non voglio permettermi di accostarmi ai fenomeni in modo "generale" e astratto. Se passassi sopra a questo mio sentimento, nessuno probabilmente, lo noterebbe; ma, dinanzi al decorso astratto del pensiero, a me stesso viene un senso di disonestà e di ciarlataneria, e proprio così vedo la maggior parte delle generalizzazioni fatte dagli altri ricercatori. Invece, in ciò che è particolare e concreto deve risplendere ciò che è generale: l'universale» (Ibidem, pp. 380-381). Testo

  95. «Il segreto dell'attività creativa sta nel conservare la giovinezza. Il segreto della genialità, nel conservare l'infanzia, la disposizione d'animo dell'infanzia per tutta la vita. È proprio questa disposizione che dà al genio una percezione obiettiva del mondo, non centripeta, una sorta di prospettiva rovesciata del mondo, e per questo motivo tale percezione è integrale e reale. La percezione illusoria del mondo, invece, per quanto splendente e chiara possa essere, non sarà mai definita geniale. Infatti, l'essenza stessa della percezione geniale del mondo sta nella capacità di penetrare nel profondo delle cose, mentre l'essenza della percezione illusoria sta nel nascondere a se stessi la realtà. Le figure più tipiche della genialità sono Mozart, Faraday e PuŠkin: essi sono bambini per la loro forma mentis, con tutti i pregi e i difetti che da ciò derivano» (Ibidem, p. 400). Testo

  96. «Ripassando nella mente la mia vita (è ora di tirare le somme) noto una serie di campi e questioni che ho iniziato io e di cui, dopo, si sono occupati tutti, o almeno tanti, mentre io o sono stato costretto ad abbandonare l'opera o l'ho abbandonata di mia volontà, perché ho orrore di studiare problemi dei quali tutti vogliono occuparsi e cercano di impadronirsi» (Ibidem, p. 399). Testo

  97. «Forse ti interesserà [Kirill] l'elenco di quelli più importanti. In matematica: 1) I concetti matematici come elementi costitutivi della filosofia (discontinuità, funzioni, ecc.). 2) La teoria degli insiemi e la teoria delle funzioni delle variabili reali. 3) Gli immaginari geometrici. 4) L'individualità dei numeri (numero-forma). 5) Lo studio delle curve in concreto. 6) I metodi di analisi della forma. In filosofia e storia della filosofia: 1) Le radici culturali delle origini della filosofia. 2) La base culturale e artistica delle categorie. 3) Le antinomie della ragione. 4) Lo studio filologico-linguistico della terminologia. 5) Le basi materiali dell'antropodicea. 6) La realtà dello spazio e del tempo. In critica d'arte: 1) I metodi di descrizione e datazione degli oggetti dell'arte antica russa (intaglio, articoli di gioielleria, pittura). 2) La spazialità nelle opere d'arte, in specie nelle arti figurative. In elettrotecnica: 1) Lo studio dei campi elettrici. 2) I metodi dell'analisi dei materiali elettrici: la base della scienza dei materiali elettrici. 3) Il significato delle strutture dei materiali elettrici. 4) La diffusione delle resine sintetiche. 5) La diffusione e l'elaborazione degli elementi della depolarizzazione aerea. 7) Le classificazioni e la standardizzazione di materiali, elementi, ecc. 8) Lo studio dei minerali di carbonio come gruppo. 9) Lo studio di una serie di rocce. 10) Lo studio sistematico della mica e la scoperta della sua struttura. 11) Lo studio di suoli e terreni. E così via. Sono poi a parte la fisica del gelo; l'uso delle alghe» (Ibidem, p. 399). Testo

  98. Ibidem, pp. 400-401. Testo

  99. In questo punto si trova anche tutta la critica a Kant e la predilezione per Platone. «Florenskij scoprì che la filosofia di Platone mira ad una conoscenza integrale del mondo, ovvero che essa è il frutto maturo di una tale conoscenza; nella filosofia di Kant, invece, trovò l'esempio di una conoscenza frammentaria» (L. Žak, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998, p. 163). Il confronto con Kant, l'accettazione delle sue idee o la critica ha rappresentato un nodo teoretico importante nello sviluppo della riflessione florenskijana. Cfr. P. A. Florenskij, Kosmologiceskie antinomii Immanuila Kanta, in Id., Socinenija v Cetyrex tomax (tom 2), Mysl', Moskva 1996, pp. 3-33. Testo

  100. P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., p. 273. Testo

  101. In termini teologici Florenskij parlerà di kenosis come categoria sia trinitaria che antropologica. Sarebbe oggetto di un diverso articolo che qui non è possibile approfondire. Cfr. L. Žak, L'interpretazione di Fil. 2, 6-8 e la concezione della kenosis nell'opera di P. A. Florenskij, in A. Strus, R. Blatnicky (edd.), Dummodo Christus annuntietur. Studi biblico-patristici in onore del prof. Heriban, Roma 1998, pp. 349-371. Testo

  102. P. A. Florenskij, Non dimenticatemi, cit., p. 409. Testo

  103. Ibidem, p. 406. Testo

  104. Id., La colonna e il fondamento della verità, cit., p. 496. Testo

  105. Tante sono le considerazioni sul cielo e sul suo colore intenso che emergono anche nell'epistolario dal gulag. Testo