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Semiotica e teologia. Riflessioni in margine a una recente ricerca su Charles S. Peirce

di Gaetano Iaia (2 ottobre 2012)

1. Coordinate per una metafisica del significato

Il processo di riconsiderazione delle idee di Charles Sanders Peirce (1839-1914), iniziato ormai da alcuni anni, ha riguardato non solo gli aspetti del suo pensiero più direttamente legati alla logica o all'epistemologia, ma anche quelli a più spiccata connotazione religiosa. In questa scia si inserisce l'interessante saggio God and the World of Signs. Trinity, Evolution and the Metaphysical Semiotics of C. S. Peirce, pubblicato dalle edizioni Brill.1 Con esso l'autore -- Andrew Robinson, Honorary University Fellow in Teologia presso l'Università di Exeter -- intende offrire alla comunità degli studiosi non solo (1) uno studio filosofico, da inserirsi nel più vasto ambito dei rapporti tra scienza e teologia (nello specifico, utilizzando la filosofia di Charles S. Peirce come elemento di mediazione tra la biologia evoluzionistica di stampo darwiniano e la teologia cristiana), ma anche (2) un contributo alla teologia sistematica, in quanto il testo presenta una formulazione in nuove categorie della teologia trinitaria e un "modello semiotico della Trinità" e, infine, (3) una proposta per una nuova struttura metafisica di riferimento -- alternativa alla filosofia del processo di Alfred North Whitehead -- nella quale scienza e teologia possano trovare una "casa comune".

Peirce è una delle più importanti personalità filosofiche vissute tra Ottocento e Novecento e può essere considerato il più grande filosofo che gli Stati Uniti abbiano mai espresso, pur non avendo mai avuto, ai suoi tempi, grande notorietà. Nato a Cambridge, nel Massachussets, nel 1839, era figlio di Benjamin Peirce, docente di astronomia e matematica a Harvard, che si occupò personalmente dell'educazione del figlio. Charles, fin dai suoi primi anni di vita, mostrò evidenti i tratti del genio: a quattordici anni possedeva già notevoli competenze in chimica e aveva studiato la logica, la matematica e la filosofia. Dopo aver conseguito, nel 1863, il Bachelor of Science presso la Lawrence Scientific School di Harvard (con la votazione di summa cum laude, conferita per la prima volta nella storia dell'Università), la sua carriera accademica sembrava destinata a grandi successi: appena laureatosi ottenne un incarico -- procuratogli dal padre -- presso il servizio geodetico americano, per il quale lavorò molti anni e durante il quale produsse una serie di ricerche scientifiche che ebbero una notevole risonanza internazionale. Fu poi impiegato come osservatore all'Osservatorio Astronomico di Harvard e in seguito assistente dello stesso Osservatorio, ove compì ricerche di notevole successo in ambito fotometrico, raccolte nell'unico piccolo volume che egli riuscì a pubblicare nel corso della vita.

La sua notorietà non ebbe infatti ulteriore seguito: tra il 1864 e il 1865 insegnò logica e filosofia della scienza a Harvard e dal 1879 al 1884 ebbe un incarico di logica alla John Hopkins University, che però perse. Da quel momento nessuna Università volle più conferirgli un incarico, nonostante le pressioni dei suoi amici e conoscenti. I veri motivi di quest'insuccesso accademico e poi anche pratico sono ancora poco noti o poco conosciuti; probabilmente ebbero un notevole peso le sue vicende private -- conduceva una vita notoriamente sregolata -- e il clamore destato dalle sue vicende sentimentali, ma non andrebbe sottovalutata la patologia di cui soffriva, una "nevralgia facciale"2 estremamente dolorosa e particolarmente influente sull'umore, la quale potrebbe averlo progressivamente condotto all'isolamento sociale. Si ritirò infatti a vita privata e, negli ultimi anni della sua vita, visse dimenticato, sconosciuto e in miseria, aiutato solo dai suoi amici, primo fra tutti Williams James.

Tranne la piccola raccolta di studi astronomici più sopra ricordata, nel corso della sua vita non pubblicò mai alcun volume ma solo una serie di articoli che però non ebbero la risonanza che avrebbero meritato. Nessun editore volle mai pubblicare quella che egli chiamava la sua Grande Logica. Alla sua morte, fu ritrovata una notevolissima quantità di carte scritte (più di ottantamila fogli) che la moglie vendette all'Università di Harvard. Solo a partire dagli anni '30 del XX secolo la sua fama cominciò a diffondersi nel mondo, anche grazie ad alcune raccolte sia dei saggi che aveva già pubblicato nel corso della vita, sia dei manoscritti, i quali diedero luogo a una prima serie (composta di otto volumi) della Raccolta di scritti. L'attuale fama di Peirce -- ormai da anni diffusa in tutto il mondo -- si basa su questa iniziale raccolta, la quale ha permesso di comprendere che Peirce è stato non solo un uomo geniale e singolare ma, certamente, uno dei filosofi più importanti della nostra epoca.3

Lo studio di Robinson parte da due centrali idee del filosofo statunitense circa la natura della ricerca in sé. In primo luogo quella che Peirce chiama la "irritazione del dubbio", per la quale il processo di ricerca della verità non può partire da un elemento arbitrariamente scelto ma deve, al contrario, derivare da un genuino dubbio circa l'adeguatezza di una credenza o di una serie di credenze. Il dubbio dal quale egli parte per la sua ricerca è quello sulla coerenza della teologia cristiana quando posta a confronto con i risultati della biologia evoluzionistica.

Il secondo principio che giustifica quest'esercizio afferma l'impossibilità di procedere in qualsivoglia investigazione senza sottoscrivere una visione del mondo generale di tipo metafisico. Come Peirce ha affermato, "Cerca un uomo di scienza che si propone di procedere senza metafisica [...] e avrai trovato uno le cui dottrine sono completamente viziate da una grossolana e acritica metafisica [...] Ogni uomo ha una metafisica, e deve averne una; e questa influenzerà notevolmente la sua vita. Molto meglio, allora, valutare criticamente questa metafisica e non consentire ad essa di procedere in maniera sciolta".4

L'idea di sviluppare una nuova teologia della natura a partire dalla teoria dei segni e dalla metafisica di Peirce non può, conseguentemente, che essere considerata come una nuova e provocatoria proposta nel campo dei rapporti tra scienza e teologia. Essa ha, come suo centro, quella che potremmo definire una metafisica del significato e, come elemento a essa soggiacente, una precomprensione dai profondi risvolti teologici: la configurazione fondamentale del mondo è esattamente quella richiesta dall'emergenza del senso e della rappresentazione che conduce alla verità. L'emergenza della vita -- o almeno della protovita -- sarebbe quindi contrassegnata dall'esistenza di entità capaci di interpretare l'ambiente a loro circostante e la storia dell'evoluzione biologica, di conseguenza, sarebbe storia delle crescenti capacità del farsi del senso e del cercare il senso.

A questa va associata una ulteriore considerazione: la teologia cristiana ha sempre affermato che l'umanità è importante, per certi versi centrale, negli scopi creativi di Dio mentre la biologia evoluzionistica, specie negli ultimi tempi, ha sembrato mettere in discussione questa posizione ormai considerata al punto tale da poter essere ritenuta come un assunto. Una domanda dinanzi alla quale occorre fermarsi a riflettere è quindi la seguente: è possibile affermare una proprietà e/o un processo -- al tempo stesso biologicamente plausibile e teologicamente soddisfacente -- che possa essere considerato (teologicamente) come un genuino scopo dell'evoluzione? Più ancora, può questa proprietà-processo essere intesa come in continuità con il resto dell'evoluzione biologica e della storia prebiotica dell'universo, in maniera che la sua piena o distintiva emergenza nell'umanità appaia, in certo senso, come una continuazione e un compimento del processo evoluzionistico e non, piuttosto, come una "curiosità" periferica?

Il campo della biosemiotica sembra offrire la prospettiva di una tale proprietà.5 I sostenitori di tale ipotesi hanno avvalorato le loro posizioni facendo riferimento ad affermazioni come quella del biologo molecolare Jesper Hoffmeyer, per il quale «L'aggiunta dualità di codice all'autopoiesi dei sistemi viventi rende immediatamente evidente che la vita è [...] un fenomeno semiotico»,6 o quella del biologo teorico Claus Emmeche, che considera i «fenomeni segnici come ricorrenti dappertutto in natura, ivi compresi quei campi in cui gli uomini non hanno mai messo piede [...] È una storia che risale all'origine della vita», poiché «le cellule viventi, per sopravvivere come sistemi complessi, dovevano possedere un codice o una descrizione parziale della loro stessa struttura, in modo da poter iniziare a raccogliere descrizioni di sopravvivenza».7

Considerato che per la biosemiotica il processo evoluzionistico consiste nell'accrescimento -- in estensione e varietà -- delle manifestazioni del più generico processo di semiosis,8 la semiotica sembra poter sollecitare, più in generale, una risposta teologica alle conseguenze previste dalla teoria dell'evoluzione. Le obiezioni a questa prospettiva non sono mancate, particolarmente per il fatto che il vocabolario semiotico -- con i suoi segni, significati e interpretazioni -- quando relazionato ai processi biologici fondamentali è piuttosto una convenzione e non una riflessione sulla realtà soggiacente alla biologia. In primo luogo occorre quindi enucleare lo spessore scientifico e filosofico della prospettiva biosemiotica al fine di ribadire le eventuali conseguenze che essa può avere sulla teologia, specie per quanto riguarda il pensiero trinitario e la teologia dell'incarnazione.

In secondo luogo, non bisogna dimenticare che la capacità di un'entità di interpretare i segni all'interno del suo ambiente è una fondamentale proprietà della vita. Più ancora, l'interpretazione può e deve essere considerata come un'utile proprietà diagnostica delle entità protobiotiche. Per dimostrare tutto questo, occorre stabilire una definizione generale del concetto di interpretazione, prestando attenzione a che essa non presupponga i concetti che si propone di sperimentare e che, al tempo stesso, non sia semplicemente riducibile alle relazioni causali di stampo meccanicistico. Il riferimento diretto è alla rilettura del pensiero semiotico di Charles S. Peirce compiuta da Thomas Lloyd Short, per il quale il concetto darwiniano di selezione naturale rinvierebbe a una spiegazione -- naturalistica ma pur sempre irriducibile -- dello scopo,9 mostrando in questo modo come Peirce si sia appropriato di questa teleologia presente in natura facendone la base per la sua comprensione in categorie finalistiche dell'interpretazione.10

Soggiacente a tutta questa teoria è l'idea che gli scopi siano tipi generali di risultato sempre possibili, un'intuizione che può essere fatta risalire ad Aristotele ma che, in molte discussioni contemporanee sulla teleologia -- specie in ambito biologico -- è stata posta in secondo piano, operando una disconnessione della funzione dallo scopo. L'innegabile compito esplicativo di questo tipo generale sta nel fatto che esso rende le spiegazioni teleologiche irriducibili alle interpretazioni meccanicistiche, giacché queste ultime, al fine di chiarire i particolari, fanno riferimento ad altri particolari. Di conseguenza un elemento caratteristico, proprio a ogni organismo selezionato mediante selezione naturale, può dirsi il fatto che "esiste per uno scopo" in quanto la selezione, inclusa la selezione naturale, è sempre selezione per un possibile risultato di tipo generale.

Nella rilettura di Short, la spiegazione di questo scopo può essere così definita:

Lo scopo P di un'entità Q è:
    un risultato di tipo generale, o un effetto P
    che spiega l'esistenza di Q
    giacché Q è selezionata in quanto possiede gli effetti di tipo generale P
(laddove P non è costitutivamente legato a Q).11

Robinson sceglie di spingersi ulteriormente in avanti, modificando la stessa definizione di Short al fine di assicurarsi che nella definizione non sia presupposto nessuno dei concetti che essa intende spiegare:

La risposta, R, di un'entità è un interpretante di un X come segno di qualche oggetto O, se e solo se:
1. l'entità ha la proprietà Q di subire un cambiamento di stato S in risposta a un X, laddove R è ogni istanza attuale di questa risposta;
2. (a) R tende ad aumentare la probabilità di un effetto di tipo generale P;
(b) Questa tendenza di R dipende dalla relazione tra X e O, laddove l'occorrenza di X non implica necessariamente l'occorrenza di O;
3. La proprietà Q è stata selezionata per la tendenza delle istanze di R ad attualizzare effetti di tipo generale P.12

Nel caso di uno scenario di tipo "semplice" il meccanismo di selezione della proprietà Q sarà quindi la selezione darwiniana; ponendo invece la risposta interpretativa su altri e più complessi livelli potranno entrare in gioco altri meccanismi di selezione, quale ad esempio la selezione deliberata di risposte per mezzo di agenti coscienti.

Tutto ciò, quando riferito al campo delle ricerche sull'origine della vita, comporta una riconsiderazione dei diversi criteri necessari per l'emergenza della vita stessa. Per ognuno di essi (ad esempio, la localizzazione, l'autocatalisi, la replicazione), è utile chiedersi quale possa essere il prossimo passaggio evoluzionistico possibile (in inglese riassunto con l'acronimo PNES, Probable Next Evolutionary Step) del sistema considerato.

Questa definizione generale di interpretazione costituisce un ulteriore sviluppo della spiegazione della natura del processo semiotico delineata da Peirce e ricomprende tutte le istanze e i livelli dell'interpretazione stessa.

2. Semiotica e teologia: un possibile incontro

Ponendo ora l'attenzione su alcuni risvolti teologici del programma di ricerca delineato da Robinson, non possiamo non considerare -- in primo luogo -- lo schema generale della sua proposta, nel quale la semiotica viene ad assumere il ruolo di "quadro metafisico" di riferimento per la teologia cristiana:13

Le idee portanti per la sua strutturazione possono essere così riassunte: anzitutto, la struttura ontologica del mondo può essere riletta alla luce delle categorie peiceane in quanto riflette la struttura triadica dei segni e dei processi segnici; in secondo luogo, i modelli triadici identificati nella struttura dell'ordine creato possono trovare interessanti paralleli con il pensiero trinitario cristiano in quanto costituiscono un modello per una rilettura delle relazioni intratrinitarie. In altri termini, la semiosis viene vista come modello della pericoresi. In terzo luogo, infine, la struttura triadica del mondo è un riflesso della continua opera di creazione e ri-creazione del mondo da parte di Dio giacché le categorie -- come manifestato e reso esperibile all'interno dell'ordine creato -- e i modelli tripartiti di semiosi creaturale sarebbero niente altro che vestigia della Trinità nella creazione.

2.1. Semiotica e Trinità

Charles S. Peirce aveva definito il segno come la risultante del rapporto d'interazione tra un veicolo segnico, un interpretante (l'elemento di mediazione) e un referente (l'oggetto reale) .14 Tutto questo, fondandosi sul fatto che non solo le culture umane operano sulla base di complesse reti di segni di ogni tipo ma anche molte specie animali presenti nel mondo sono guidate da segni iconici o indessicali,15 basati rispettivamente sulla similitudine e sulla relazionalità. Su questa base l'approccio filosofico può farsi (e si fa) approccio teologico, quando si considera la maniera in cui l'idea di una relazione triadica viene a inserirsi nel modello semiotico peirceano, relazionandosi al tripartito sistema di categorie che a esso è retrostante.

Per derivare queste ultime -- e adottando un approccio fenomenologico -- Peirce scelse infatti di rimuovere progressivamente (prescindere) dall'esperienza quotidiana i suoi diversi livelli, nella consapevolezza che il pragmatismo16 rendeva nulla la distinzione tra mondo dei fenomeni e mondo noumenico: il mondo aperto all'osservazione era, di conseguenza, l'unico mondo possibile e un mondo reale. Inoltre, egli intendeva fornire una soluzione alternativa all'interrogativo sulla necessità e sulla libertà presenti nel mondo, risposta che rintracciò nell'ipotesi del caso. Sempre in riferimento a questa ipotesi egli poté anche spiegare la tendenza della natura a produrre ordine e razionalità, in base al quale si poteva affermare che il mondo reale era un continuum mentale.

Partendo quindi dalle osservazioni sul mondo poté sia evidenziare la presenza -- in ogni fenomeno -- di tre generi di elementi, sia affermare che ogni scienza ben fondata non poteva non possedere, nel suo apparato epistemico, tre categorie. Pur seguendo lo stesso schema della logica delle relazioni alla quale stava lavorando, e pur dando luogo a un completo sistema metafisico e cosmologico, la giustificazione delle categorie fu da lui fatta risiedere, in ultima analisi, nella loro coerenza con l'esperienza e nella loro fecondità filosofica piuttosto che in un'aprioristica garanzia della loro verità.17

Egli chiamò le tre categorie Primalità, Secondarietà e Terziarietà.18 La Primalità è la categoria del puro essere o della qualità in se stessa; essa è elusiva in quanto ogni descrizione, comparazione o generalizzazione non potrà che introdurre immediatamente le altre due categorie. È la categoria della spontaneità e della potenzialità, astratta da ogni concreta attualizzazione. Per Peirce questa categoria, sebbene sfuggente, è una reale e irriducibile caratteristica del mondo.19

Una volta che un segno viene ad essere stabilito e posto a confronto con un oggetto, si ha la categoria della Secondarietà, ossia la categoria dell'alterità e della distinzione: il segno è altro rispetto all'oggetto. Se la Primalità è la categoria della potenzialità, la Secondarietà è la categoria della bruta attualità. Tutti la sperimentiamo ogni volta che il mondo ci resiste o abbiamo la dimostrazione di aver sbagliato qualcosa. Peirce sottolinea:

L'idea di Secondo è facile da comprendere. Se quella di Primo è così tenera da non potersi toccare senza rovinarla, quella di Secondo è eminentemente dura e tangibile. È anche molto familiare, si rivolge quotidianamente contro di noi, è la principale lezione della vita.20

La Terziarietà è, infine, la categoria della sintesi, della comunicazione, della memoria, della mediazione, della generalità. L'esperienza, ad esempio, del trovarsi assoggettati a una legge, quale quella di gravità, è un'esperienza di Secondarietà nella misura in cui ci si trova vincolati da essa (non possiamo volare), ma di Terziarietà in quanto essa connette istanze particolari (gli oggetti cadono in accordo alla legge di gravità). Nei termini della triade semiotica, l'interpretante media tra il segno e l'oggetto, fornendo Terziarietà alla relazione.

Peirce, inoltre, fa corrispondere alla Primalità il tychismo (ossia la dottrina del caso), alla Secondarietà l'agapismo (ossia la dottrina per la quale il caso, evento reale, è il risultato di un'attività psicologica) e alla Terziarietà il sinechismo (la dottrina per cui il mondo, come già detto, è un continuum mentale).

Uno degli scopi primari della ricerca di Robinson, come si diceva in esordio, è il tentativo di porre un parallelo tra le tre categorie peirceane e il pensiero teologico-trinitario, in un approccio che parte dalla prospettiva storico-esegetica per farsi metafisico. Per quel che attiene alla persona del Figlio, egli muove dalla considerazione che la teologia cristiana dovette, fin dal suo inizio, confrontarsi con l'apparente tensione tra l'unicità di Dio e l'affermazione della divinità di Gesù Cristo. Proprio al fine di risolvere questa tensione, la seconda Persona della Trinità venne allora intesa come Parola di Dio.

In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.21 Queste parole del prologo del quarto Vangelo forniscono a Robinson un valido punto di partenza per l'elaborazione di un modello semiotico della Trinità. Le parole del prologo giovanneo attingevano al concetto ebraico della dabar che, unitamente alla Sapienza e allo Spirito, era "personificazione" delle divina attività creatrice;22 conseguentemente, non deve destare meraviglia se il più esplicito riferimento all'incarnazione, il versetto 14 del prologo (il Verbo si fece carne) sia stato reso utilizzando una metafora semiotica. Nella formulazione giovannea, infatti, il Verbo è presso Dio, affermazione che lascia pensare al fatto che il Verbo è, in qualche modo, distinto dal Padre. Il Verbo è manifestazione dell'alterità, caratteristica cardinale della Secondarietà peirceana, la quale gli permette quindi di essere o rappresentare qualcos'altro. Giovanni, a parere di Robinson, rende chiaro tutto questo affermando che ciò che il Figlio/Verbo rappresenta è Dio Padre, il quale sarebbe altrimenti inconoscibile, tema questo più volte rintracciabile non solo nel quarto Vangelo ma anche nella letteratura paolina.23

Sia ai tempi del NT, sia in seguito, il Verbo giovanneo offrì ricche possibilità trinitarie. Anzitutto, offriva la possibilità di identificazione e distinzione. Da una parte, le parole procedono da un oratore; essendo una modalità di estensione dell'oratore esse sono, in certo senso, identiche a esso ("il Verbo era Dio"). D'altro canto, però, la parola è anche distinta da colui che la pronuncia ("il Verbo era presso Dio"). Di conseguenza, Cristo fu/è identificato con, ma anche distinto da, YHWH. In secondo luogo, Dio ha sempre pronunciato la parola divina ("in/nel principio"); il Verbo "era" (e non "è venuto per essere") Dio. In questo contesto, Verbo stimola riflessioni sulla personale e eterna preesistenza del Logos-Figlio [...] Terzo [...] le parole rivelano il loro oratore. Disgraziatamente o fortunatamente, le parole esprimono ciò che è nella nostra mente e nel nostro cuore. Nell'AT, l'espressione parola di Dio ripetutamente denota la rivelazione di Dio e della divina volontà. Il Vangelo di Giovanni può agevolmente muoversi a partire dal linguaggio del Verbo per concentrarsi sul fatto che "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito [...] lui lo ha rivelato" (Gv 1, 18). Questo Verbo offre a tutti la luce, venendo nel mondo (Gv 1, 9), tema successivamente sviluppato, grazie a Filone, ai Medioplatonici e/o al pensiero Stoico, da Giustino martire, Origene e altri.24

Nel II secolo d. C. gli Apologisti, volendo articolare più chiare formulazioni delle relazioni tra Padre e Figlio, fecero infatti ricorso proprio all'idea del Verbo; il riferimento diretto era a quel Logos il cui concetto era stato formalizzato dal pensiero stoico, che vedeva in esso la ratio universale, il principio attivo che, diffondendosi nella materia inerte, la animava e le dava forma.25 La distinzione tra Logos eterno e Logos fatto carne poté, conseguentemente, essere facilmente compresa nei termini della distinzione esistente tra il pensiero razionale interno, il discorso interiore (logos endiathetos) e l'espressione di questo interiore pensiero, il discorso profferito (logos prophorikos).

Nonostante la ricchezza di questa metafora, l'espressione della fede trinitaria formulata nei Concili di Nicea e Costantinopoli non fu però modellata sulla base del concetto di Logos, probabilmente per le implicazioni, apparentemente subordinazioniste, delle cristologie del Logos. Nel cristianesimo preniceno un certo grado di subordinazionismo era quasi universalmente accettato, in quanto fondato sui testimoni biblici dell'economia della salvezza, che consideravano il Figlio inviato inferiore al Padre che lo inviava nel mondo. La crisi ariana impose un chiarimento, al fine di ribadire che l'apparente subordinazionismo -- implicito nell'economia della salvezza -- non comportava nelle relazioni intra-trinitarie un subordinazionismo di tipo ontologico. In questo contesto, non deve meravigliare se i Padri di Nicea, nel formulare il Credo conciliare, scelsero di non tenere in alcun conto la cristologia del Logos, apparentemente subordinazionista. In seguito, per di più, il pensiero cristiano scelse come titolo cristologico per eccellenza non più Logos, bensì Figlio.

Alla luce della semiotica peirceana proprio la distinzione eterna del Figlio dal Padre, affermata dalla teologia trinitaria, trova un suo equivalente nell'irriducibile realtà dell'alterità propria alla categoria di Secondarietà, riconfermando in questo modo l'adeguatezza e la fruibilità del concetto di Logos.

I paralleli tra la Primalità e la Persona del Padre sono, correlatamente alla categoria considerata, più sottili. Un elemento che permette di comprenderli è l'idea della natura ingenerata del Padre, come abbiamo visto altra rispetto a quella generata del Figlio.

Dopo la crisi ariana le confessioni di fede del IV secolo vennero elaborate non solo per trasmettere l'ortodossia trinitaria alla cultura del tempo ma anche per differenziarsene e per trovare fra i cristiani unità di espressione della fede. Ario aveva affermato che il Figlio era creato dal Padre e, di conseguenza, che esso era creatura; il Credo di Nicea rifiutò quest'argomento, affermando che il Figlio era homoousios (consustanziale) con il Padre. Dopo Nicea, la reazione -- per certi versi inaspettata -- che cercò di rivalutare favorevolmente le idee di Ario spinse le comunità cristiane a ricercare nuove terminologie e nuove formulazioni; solo come esempio, ricordiamo che nel Sinodo di Costantinopoli del 360 si giunse anche ad affermare una soluzione di compromesso, affermando che il Figlio era simile (homoios) al Padre secondo la sostanza, ma non consustanziale a Lui.

Uno sviluppo teologico che facilitò l'accettazione dell'homoousios fu la chiarificazione, operata da Atanasio, circa due termini fino a quel momento considerati intercambiabili. La sfida posta da Ario poteva quindi essere considerata come dipendente da una ambiguità nella terminologia adottata per descrivere il carattere trascendente del Padre. Nello specifico, non era chiara la differenza esistente tra agenetos (da gignomai, non creato) e agennetos (da gennao, non generato), sebbene fosse opinione comune che il Padre era agennetos.26 Gli Ariani per parlare del Figlio scelsero il termine genetos, al fine di differenziarlo dalla natura increata del Padre. Fu solo grazie ad Atanasio che quest'ambiguità venne risolta mediante una esplicita distinzione tra i due termini: da quel momento agennetos indicò l'ingenerato e agenetos l'increato e, in questo modo, si poté sostenere che il Figlio era generato (gennetos) ma non creato (agenetos).

La differenza terminologica trova il suo parallelo nel modello semiotico:

Affermare che un fenomeno manifesta la Primalità peirceana è equivalente ad affermare che lo stesso fenomeno è agennetos. In altre parole, la Primalità diviene la categoria della ingenerazione, la qualità dell'essere astraibile da una relazione con qualcosa d'altro. La Primalità è logicamente precedente alle altre categorie, in quanto è la loro origine o sorgente. Tuttavia [...] la stessa presenza di Primalità dipende da certe regolarità e strutture del mondo rese possibili dalle categorie di Secondarietà e Terziarietà. In altre parole, la priorità logica della Primalità è, ciò nonostante, consistente con la sua dipendenza ontologica dalle altre due categorie. Una volta che è posta all'interno delle strutture del mondo la Primalità può, come pura qualità, sensazione o stato, essere "prescissa" dalla relazione con, dalla dipendenza da, o dalla determinazione da parte di qualcos'altro.27

Procedendo analogamente, la categoria di Secondarietà descrive quindi un fenomeno che è gennetos (generato; il suo essere è definito in quanto differente da qualcos'altro, o opposto a esso). Descrivendo i fenomeni all'interno dell'ordine creato con i termini della Primalità e della Secondarietà, il modello semiotico è quindi capace di illustrare la differenza tra gennetos e agennetos in maniera da non confonderli con la questione dell'essere creato o increato (genetos o agenetos). In breve, il modello semiotico è capace di affermare (contro l'Arianesimo) la coerenza dell'affermazione che il Figlio è generato ma non creato.

Più ancora, esso non è soltanto capace di chiarire il concetto dell'ingenerazione del Padre, ma può anche offrire una costruttiva modalità per pensare la prima Persona della Trinità; questo sia perché non si fonda su una metafisica della sostanza, sia perché permette di evitare talune connotazioni del termine ingenerazione (come ad esempio la immutabilità) in relazione alle Persone della Trinità. Il Padre, secondo il modello semiotico, è caratterizzato dall'inafferrabile e incomprensibile ricchezza delle qualità insite nella Primalità.

Per quanto attiene alla Persona dello Spirito, il modello semiotico afferma che questi manifesta le caratteristiche della Terziarietà. Nella tradizione biblica è la sorgente dell'interpretazione (1Cor 12, 10; At 2) ed è Colui che aleggia sull'abisso descritto in Gen 1, 2 con la promessa di dare ordine (generalità, Terziarietà) all'informe vacuità (caos, Primalità). Nell'AT lo Spirito, allo stesso modo della Terziarietà, è descritto come la sorgente della vita (Sal 103, 29-30; Ez 37, 1-10), sia umana (Gen 2, 7; Gb 33, 4) sia non umana (Gen 6, 17; 7, 15; Gb 34, 14-15; Sal 103, 24-25). Nel Nuovo Testamento, poi, l'enfasi si sposta sul ruolo dello Spirito in quanto sorgente della nuova creazione, della nuova vita proclamata dalla Risurrezione (cfr Rm 8, 11). Alla luce di questo background biblico è quindi legittimo identificare una delle caratteristiche distintive dello Spirito, quella di Terziarietà, con la capacità di recare il potere vivificante di Dio alle creature.

In aggiunta a questo, le similarità tra lo Spirito e la Terziarietà trovano un ulteriore parallelo nel fatto che lo Spirito è sempre stato visto come la sorgente dell'apertura al futuro, coerentemente con la nozione peirceana per la quale la Terziarietà è la categoria dalla quale dipende ogni genuina libertà. Questa apertura verso il futuro è strettamente connessa con la natura dell'amore: Agostino di Ippona, interpretando lo Spirito come la comunione e l'amore che sussiste tra il Padre e il Figlio,28 permette infatti di correlarlo con la categoria peirceana della Terziarietà in quanto fondamento della mediazione.

Così come la biosemiotica associa l'origine dell'interpretazione all'origine della vita, il Credo Niceno-Costantinopolitano confessa lo Spirito come il Signore e il datore della vita. Più ancora, il dono della vita da parte dello Spirito e in continuità con le distinte manifestazioni della semiosi negli umani: Egli "ha parlato per mezzo dei profeti" ed è grazie all'azione operata da lui -- che è il convocato per aiutare a convocare29 -- che la Chiesa può essere "costituita" (cfr At 2).

Alla luce di questi paralleli, Robinson si domanda se non sia giustificata l'affermazione per la quale, così come per la Terziarietà, la caratteristica identificativa dello Spirito sia la funzione di mediazione. Per dare risposta a essa egli aggiunge che «né la Scrittura né la tradizione hanno posto in essere con chiarezza una tale identificazione, almeno non allo stesso modo in cui [hanno affermato che] la caratteristica distintiva del Padre è l'ingenerazione (Primalità) e quella del Figlio è l'alterità/l'essere generato (Secondarietà) ».30

L'assenza di chiarezza circa le caratteristiche distintive dello Spirito può, in effetti, essere vista come il fondamento delle difficoltà, che la tradizione teologica ha sempre avuto, ad esprimere adeguatamente la collocazione e il ruolo dello Spirito nella Trinità e, di conseguenza, della tendenza a trascurare, nella teologia e nel culto, la Persona dello Spirito.

In effetti, nella letterature greca pre-cristiana e non cristiana il termine parakletos, normalmente tradotto come avvocato, convocato o aiutante, può anche indicare un mediatore.31 La principale difficoltà nel rendere il senso di parakletos sta nel fatto che questo termine copre potenzialmente una vasta area di significati. La traduzione tradizionale, consolatore, può essere per certi versi fuorviante in quanto rinvia solo a uno degli aspetti di ciò che lo Spirito può fare. Più ancora, una traduzione ispirata al concetto di avvocato legale sembra essere particolarmente restrittiva, specie per le connotazioni negative insite nel termine avvocato (in alcune culture l'avvocato è sì infatti colui che deve convincere i giudici, ma che talvolta esercita questo suo compito in maniera disinvolta, esponendo la propria verità e, per certi versi, mentendo professionalmente) .32

L'apostolo Paolo, quando affermò che l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5, 5) e che lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili, scelse invece proprio il linguaggio della mediazione; in questa scia si pose anche Agostino, quando affermò che lo Spirito Santo è una specie di ineffabile comunione tra il Padre ed il Figlio.33

La teoria semiotica di Peirce, e le categorie metafisiche che a essa soggiacciono, possono quindi avere interessanti corrispondenze con alcuni degli aspetti-chiave del pensiero trinitario; considerate da un'altra angolazione, queste corrispondenze potrebbero anche rinviare a delle nuove opportunità per chiarire taluni problemi perenni della tradizione trinitaria, quali -- ad esempio -- il tri-teismo o il subordinazionismo.

Se, infatti, si assume la metafisica di Peirce come modello retrostante il pensiero trinitario queste posizioni, considerate dalla tradizione cristiana come eretiche, possono essere evitate, sulla base del fatto che le tre categorie sono reciprocamente irriducibili e ognuna di esse possiede una sua propria realtà;34 più ancora, sebbene distinta dalle altre, nessuna di esse può essere ritrovata in completo isolamento. Prescindere mentalmente le categorie può aiutare ad apprezzare la loro realtà individuale pur rinviando ognuna, immediatamente, alle altre due. Sulla base di questo modello, di conseguenza, il triteismo non è possibile in quanto le Persone, sebbene distinte, sono fondamentalmente non separabili. Ancora, sebbene sussista un certo tipo di ordine delle categorie dalla Primalità alla Secondarietà alla Terziarietà, l'ordine costituisce una taxis logica e non una gerarchia ontologica, elemento che permette di evitare il subordinazionismo.

Avvicinando l'altra perenne tentazione per il pensiero trinitario, quella del modalismo, la soluzione adottata per evitare questo tranello teologico è sempre stata l'adozione di una metafisica della relazione; ma da dove provengono le "relazioni" intratrinitarie? «Il nostro parlare di 'relazioni' trinitarie deve [...] riconoscere che all'interno della Trinità, e non esternamente a essa, vi è la possibilità stessa delle relazioni. Se così non fosse, allora la categoria della relazione sarebbe o una 'sostanza' sottostante o una coercizione esterna all'essere di Dio».35 La prospettiva metafisica di Peirce potrebbe aiutare a risolvere questo dilemma, giacché offre non un approccio relazionale alla Trinità bensì un approccio trinitario alla relazione: la Terziarietà è la relazione della mediazione, la Secondarietà è la relazione della distinzione, la Primalità è la relazione "di ordine zero", ossia l'auto-relazione, la condizione dell'essere presumibile a partire dalla relazione con qualcos'altro. Grazie a questa prospettiva semiotica le tre Persone vengono a essere distinte l'una rispetto alle altre; la possibilità della loro distinzione viene ad essere derivata dalla Secondarietà del Figlio rispetto al Padre, mentre le relazioni di comunione sono mediate dalla fonte di ogni mediazione, lo Spirito. «Ogni ipostasi, la quale è resa distinta dalle altre dall'alterità fondata nel Figlio e condotta alla comunione con le altre dalla mediazione fondata nello Spirito, ha un suo caratteristico modo di essere; questa possibilità di avere una qualità e un carattere distintivo trova fondamento nella sorgente di ogni possibilità e qualità, il Padre».36

L'irriducibile scambio triadico tra Primalità, Secondarietà e Terziarietà, che soggiace ai processi di semiosi, diviene di conseguenza un modello grazie al quale è possibile ri-comprendere la pericoresi trinitaria. Grazie ad esso è in effetti possibile risolvere e chiarire molti aspetti problematici della dottrina, specie per quanto attiene alla eterna e irriducibile tripersonalità divina. Inoltre, il modello semiotico sembrerebbe offrirsi come strumento valido a comprendere anche altri elementi teologici, come l'economia della salvezza e lo stesso significato della persona (storica) di Gesù di Nazareth.

2.2. Semiotica e Incarnazione

La peirceana tassonomia dei segni rende infatti possibile anche un approccio semiotico alla dottrina dell'Incarnazione. Come si è visto, il processo di significazione è niente altro che una relazione tra tre elementi: il segno, l'oggetto e l'interpretante. Alla luce di questo, la tassonomia degli segni deriva dal fatto che:

(a) vi sono tre possibili modi in cui qualcosa possa essere veicolo segnico; (b) vi sono tre possibili tipi di relazione tra il segno e l'oggetto; (c) vi sono tre possibili modi in cui il segno può relazionarsi all'interpretante.37

Tutto ciò può essere visualizzato grazie alla seguente tabella38:

Tassonomia dei Segni

Veicolo segnicoRelazione del segno all'oggettoRelazione con l'interpretante
Legisegno
Una replica prodotta secondo una regola
Simbolo
Relazionato per convenzione
Argomento
Fa appello alla ragione
Sinsegno
Occorre singolarmente
Indice
Relazionato direttamente (es.: causalmente)
Dicente
Asserisce qualcosa
Qualisegno
Una qualità
Icona
Relazionato per somiglianza
Rema
Presenta qualcosa

Le colonne della tabella possono anche essere viste come riflessi, rispettivamente, della Primalità (il segno in sé), della Secondarietà (la relazione segno-oggetto) e della Terziarietà (la mediazione dell'interpretante). Analogamente è per le righe, se considerate dal basso verso l'alto: la Primalità è nella qualità, nella somiglianza e nella presenza, la Secondarietà è nell'attualità, nella causalità e nel vigore, la Terziarietà nella legalità e nella ragione.

L'aspetto più conosciuto della tassonomia di Peirce è la distinzione tra icone, indici e simboli, mostrata nella colonna mediana della tabella, distinzione fondata nella relazione tra il segno e l'oggetto. L'icona significa il suo oggetto in virtù della relazione di somiglianza fra segno e oggetto; l'indice rappresenta il suo oggetto in virtù di una qualche relazione diretta tra i due, così che il carattere che rende segno l'indice potrebbe perdersi qualora l'oggetto venga rimosso; il simbolo, infine, è un segno attribuito a un oggetto in virtù di una regola di interpretazione.

Un elemento forse meno conosciuto di questa tassonomia è la natura del veicolo segnico, mostrata nella colonna sinistra. Per chiarire i termini, il legisegno è un segno che significa qualcosa in virtù del suo essere una replica di un tipo, replica prodotta secondo una regola per gli scopi della significazione. Di conseguenza, tutti i simboli sono legisegni ma non tutti i legisegni sono simboli. Di conseguenza, quando un veicolo segnico è un legisegno la sua relazione con l'oggetto potrà essere simbolica, indicativa o iconica:

La parola cane è un legisegno simbolico. Essa si riferisce al suo "oggetto" per convenzione ed è prodotta (utilizzando le lettere c-a-n-e) secondo una regola. Il gesto di bussare ad una porta [...] è anch'esso prodotto secondo una regola allo scopo di significare ed è, quindi, un legisegno. È però di tipo indicativo in quanto vi è una connessione diretta (causale) tra il segno (il bussare) e l'oggetto (la persona che sta alla porta e bussa). Le linee di contorno in una [...] mappa sono legisegni iconici. Esse sono prodotti secondo determinate regole [...] ma le linee rappresentano il loro oggetto (confini di un territorio) non per assunzione arbitraria ma iconicamente, in quanto hanno la stessa forma degli effettivi contorni del territorio.39

La Celebrazione dell'Eucaristia può anch'essa essere considerata come un'altra forma, più complessa, di legisegno iconico. Ogni celebrazione segue infatti un (ampio) modello, la regola fondamentale del quale è stata istituita da Gesù nell'Ultima Cena (Lc 22, 14-40 e paralleli); l'Eucaristia è quindi un legisegno, un "tipo" (l'Eucaristia in generale) replicata nella forma di singole "liturgie" allo scopo di significare qualcosa. La relazione tra il veicolo segnico (Eucaristia) e l'oggetto è tuttavia di somiglianza, per cui essa è un legisegno iconico.

Il sinsegno è invece la singolare occorrenza di ciò che esso significa; a differenza del legisegno non è prodotto secondo una regola:

Il gesto di Gesù nel Tempio (Mc 11, 15-17 e paralleli) ci fornisce un esempio di sinsegno iconico [...] [giacché] il rovesciamento dei tavoli dei mercanti fu un evento singolare. Non lo ripeté egli stesso e non suggerì ai suoi seguaci di compierlo al fine di significare qualcosa [...] La relazione tra segno oggetto è qui, tipologicamente, ancora di somiglianza.40

Il rovesciamento dei tavoli fu uno sconvolgimento (sebbene minore) del sistema-Tempio, a simboleggiare una futura maggiore catastrofe: proprio per questo l'azione, riletta in categorie semiotiche, può essere quindi definita come un sinsegno iconico.

Il qualisegno, infine, è un veicolo segnico che è segno in virtù della qualità che esso istanzia. Tutti i qualisegni sono icone ma, analogamente a quanto detto per il legisegno, non tutte le icone sono qualisegni.

Il qualisegno non può significare senza essere in qualche modo incarnato e, in questo senso, ha qualche similarità con la categoria del sinsegno (in quanto il qualisegno significa solo quando incarnato in un'istanza attuale). Ma la sua incarnazione non è parte del suo carattere come segno.41

L'idea di un qualisegno iconico è il fondamento per la proposta di una semiotica dell'Incarnazione:

Affermare che Gesù è la "immagine del Dio invisibile" (Col 1, 15), la Parola incarnata del Padre (Gv 1, 14), la "impronta della sua sostanza" (Eb 1, 3), significa affermare che tutta la vita di Gesù fu un qualisegno iconico della presenza, salvifica e trasformante, del Dio d'Israele. Così come il colore incorporato in un pezzo di tessuto può essere un qualisegno iconico del vero colore, la nostra ipotesi è che la persona e la vita di Gesù di Nazareth incarna la vera qualità dell'essere di Dio. In quanto qualisegno iconico, la vita di Gesù agisce come segno,42

in quanto essa è la qualità che incarna, la qualità della presenza trasformante di Dio. Tutto quanto detto finora viene riepilogato nella seguente tabella:43

Per mostrare i vantaggi derivanti dall'adozione del modello semiotico in ambito cristologico, viene considerata la distinzione euristica che può essere fatta tra tre dimensioni della cristologia. Anzitutto quindi la dimensione "orizzontale", che concerne la questione del come le due nature, divina e umana, possano essere presenti in un unico individuo:

In questa dimensione il rischio principale è quello di dimenticare che le "nature" divina e umana non sono due esempi della stessa cosa... La comprensione in termini di qualisegno dell'Incarnazione evita questo pericolo, sottolineando il fatto che tutta la vita di Gesù è incarnazione della presenza di Dio. Come l'inno biblico afferma, "Egli è immagine del Dio invisibile [...] Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza" (Col 1, 15. 19).44

In secondo luogo, la dimensione "verticale" della cristologia, che considera la distinzione tra gli approcci "dall'alto" e "dal basso" all'Incarnazione; questi sono stati talvolta visti come punti di partenza in competizione tra loro, sebbene attualmente vi è un sempre maggiore consenso sul fatto che debbano essere considerati come complementari.

L'aspetto "dall'alto" dell'approccio semiotico comporta l'affermazione e la riformulazione degli approcci cristologici tradizionali al Logos, ponendoli nel più vasto quadro del nostro modello semiotico della Trinità. Come il prologo del Vangelo di Giovanni afferma, "In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio [...] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1, 1. 14). L'aspetto "dal basso" del approccio semiotico sottolinea il carattere del mondo in generale, e degli umani in particolare, in quanto potenziale tessuto dell'incarnazione di un qualisegno iconico di Dio [...] Nella totalità della persona umana di Gesù, prodotto degli stessi nostri tipi di processi evoluzionistici e socio-storici, la vera qualità di Dio è venuta ad essere nel mondo, la carne è divenuta Parola.45

La terza dimensione della cristologia considera, come sue polarità, l'Incarnazione in quanto "enigma" o "paradigma". La cristologia può infatti apparire anche come un enigma, allorquando la domanda sulla quale essa ferma l'attenzione diviene la seguente: come possono due nature, umana e divina, convivere in un'unica persona, quella di Gesù di Nazareth? Questo approccio parte dall'assunzione che

noi conosciamo essenzialmente a cosa la natura divina e la natura umana sono simili, e il problema è quindi quello di chiarire il come queste due nature possano essere unite. Chiamiamo l'approccio alternativo [quello] del paradigma in quanto intende l'Incarnazione come un invito a considerare sia Dio sia il mondo in maniera differente. Una maniera in cui l'approccio semiotico ci invita a considerare il mondo differentemente è quella di presentarci la questione: A cosa deve somigliare il mondo (e l'umanità) affinché le creature possano avere il potenziale di riconoscere e interpretare il qualisegno iconico dell'essere di Dio? Come ha affermato Rahner, "Dio può rivelare solo ciò che l'uomo è capace di ascoltare".46

2.3. Alcune conseguenze sulla teologia della creazione

Quest'ultima affermazione permette di compiere un ulteriore passo in avanti, interpretando l'ordine finito -- in maniera quasi "mistica" -- come manifestazione delle vestigia della Trinità nella creazione. L'appropriazione di questo concetto va oltre la semplice affermazione di una analogia o somiglianza tra Dio e il mondo: queste vestigia troverebbero infatti il loro reale fondamento nel ruolo che ognuna delle Persone trinitarie ha avuto (ed ha) nel continuo atto di creazione.

Robinson ricorda come la prima profonda ed estesa formulazione dottrinale della creazione si debba ascrivere a Ireneo; al centro della sua visione vi è l'idea che Dio non ha bisogno di nulla per creare il mondo e lo ha, in effetti, creato solo con le proprie mani. Quando infatti Dio dice facciamo -- chiosa Ireneo -- intende le sue due mani, ossia il Figlio e lo Spirito.47 Essi, fin dal principio, ossia da sempre, sono presenti in mezzo agli uomini ed esercitano tra di essi, fin dalla creazione, la loro opera. Se la perenne opera creativa di Dio dipende dalla mediazione di coloro che Ireneo chiama le due mani di Dio, è allora possibile affermare che queste "mani" divine hanno realmente lasciato la loro impronta nella struttura ontologica del mondo.48

Il modello semiotico offre, su questo argomento, la possibilità di chiarire l'opera distintiva di ogni Persona trinitaria. Se il Figlio viene, come si è visto, considerato nell'ottica della Secondarietà, nell'atto di creazione si può pensare che abbia avuto il compito di fornire gli elementi per una distinzione tra Dio e l'ordine creato. Questa idea può essere fondata sulla base di una serie di riferimenti biblici (Gv 1, 1-3; 1Cor 8, 6; Col 1, 15-17; Eb 1, 1-3) e, teologicamente, ha lo scopo di affermare la bontà che l'ordine creato possiede pur nella sua autonomia dipendente, contribuendo di conseguenza a rafforzare l'idea di una creatio ex nihilo (ossia senza alcun intermediario se non Dio stesso). L'assoluta alterità del mondo rispetto a Dio è garantita e viene a fondarsi proprio sulla distinzione intratrinitaria del Figlio rispetto al Padre. Diviene quindi plausibile l'ipotesi che tutte le istanze dell'alterità/distinzione dentro l'ordine creato trovino, come fondamento della loro possibilità, questa stessa alterità intratrinitaria.49 Un precedente scritturistico di quest'idea può essere ritrovato in Gn 1, laddove Dio parla al fine di stabilire una successione di distinzioni: la separazione della luce dall'oscurità, delle acque dal cielo e dalla terra, del giorno dalla notte.

La nostra esperienza dell'alterità si muove in un'altra direzione; noi conosciamo anzitutto i diversi tipi di alterità presenti nel mondo, e [solo dopo questo] possiamo muoverci a ipotizzare la realtà di un'assoluta alterità (e successivamente, nel pensiero trinitario, un'eterna alterità all'interno dell'essere di Dio).50

Se tutte le istanze dell'alterità intramondana sono fondate nell'alterità intratrinitaria del Logos/Figlio rispetto al Padre, l'esperienza delle alterità presenti nel mondo diviene esperienza dell'opera creativa del Logos. Questo però non significa affermare che le relazioni intratrinitarie possano essere dedotte semplicemente a partire da una riflessione fenomenologica sull'esperienza; il fenomeno dell'alterità presente nella creazione può essere compreso e esperito come fondato nel Logos solo quando l'esperienza generale del mondo viene ad essere riflessa alla luce della più ampia rete di elementi che costituiscono la tradizione cristiana.

Alla luce di questa tradizione, tuttavia, è legittimo ipotizzare che la nostra esperienza del mondo rifletta la maniera in cui l'ordine creato è strutturato sulla base dell'intimo modello divino e plasmato dal Logos [...] I riferimenti neotestamentari alla mediazione creatrice del Logos sono esposti non nei termini di austeri e razionali argomenti teologici ma in linguaggio poetico, il quale certamente invita ad un'interpretazione del contenuto concettuale dell'affermazione: "... per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui".51

Estendendo lo stesso modello di pensiero al ruolo dello Spirito nella creazione è logicamente possibile sostenere che questi abbia avuto il compito di mediare tra Dio e il mondo, colmando il divario esistente tra l'assoluta alterità dell'uno rispetto all'altro, vale a dire tra coloro che, altrimenti, sarebbero stati separati dalla alterità propria alla Secondarietà. Questo, peraltro, è in accordo con vari testimoni biblici, quando la Scrittura parla di Dio che entra nel mondo -- nell'Incarnazione -- per mezzo della mediazione dello Spirito (Mt 1, 20; Lc 1, 35), e della riconciliazione del mondo con Dio considerata come opera dello Spirito (Rm 8, 1-27). Se il Figlio può essere considerato come il fondamento della distinzione tra Dio e la creazione e, al tempo stesso, come la sorgente in essa di tutte le distinzioni (Secondarietà), analogamente lo Spirito può essere visto sia come il fondamento della mediazione tra la creazione e Dio sia come la sorgente di ogni mediazione (Terziarietà) nella creazione.

In questo senso l'approccio semiotico alla Trinità, quando considera la presenza nella creazione delle tre categorie -- inclusa la loro manifestazione nei naturali processi di semiosi -- può allora parlare, riprendendo il pensiero agostiniano, delle vestigia della Trinità che, in quanto presenti in essa, possono essere in essa contemplate, in un'apertura alla theosis.52

Il vantaggio derivante dall'adozione di un approccio semiotico alla Trinità, nella quale si trova la fonte suprema di tutte le cose, la bellezza perfetta, il gaudio completo53 e grazie al quale rintracciare nella creazione le tracce della divinità, è anzitutto quello di poter affermare una intrinseca connessione tra i suoi fenomeni e l'essere di Dio; in secondo luogo, non è da sottovalutare l'indubbia ri-centralizzazione della dottrina trinitaria nel contesto della ricerca teologica, sviluppando un concetto teologico negletto dalla maggior parte degli studiosi e avvicinandosi costruttivamente a quello che è uno dei principali problemi per la teologia trinitaria contemporanea, vale a dire la ricerca di una modalità per riconnettere, in un rapporto reciproco, il pensiero trinitario economico con il pensiero trinitario immanente.54

In sintesi, per il Dio Trinità la semiosi è pericoresi, nella creazione la semiosi è il vestigium trinitatis, per le creature la semiosi è theosis: mentre Alfred N. Whitehead aveva descritto il Cristianesimo come «una religione in cerca di una metafisica»,55 il modello semiotico proposto da Robinson sulla base delle idee di Peirce offre un nuovo e adeguato sfondo metafisico per la comprensione dei rapporti tra Dio e la creazione, una interfaccia per il dialogo tra scienza e teologia, un supporto ulteriore a «una spiritualità che pone le forme fondamentali dell'esperienza fenomenologica all'interno del contesto delle più specifiche ipotesi cristiane circa l'economia della salvezza».56

3. Conclusioni: una teologia al/del limite?

Il lavoro di Andrew Robinson indubbiamente invita a riflettere e testimonia l'esigenza di un programma di integrazione tra diverse branche dello scibile umano: si pone a contatto con alcuni fondamentali problemi in ambito scientifico -- l'origine della vita, la relazione tra biologia e fisica, le qualità minime richieste ad un organismo vivente -- ma reca con sé anche notevoli questioni di carattere filosofico -- cosa è il senso? Cosa lo scopo? Cosa è la intenzionalità? -- e ancor più teologico. Riprendendo gli scopi esposti in prefazione, si può affermare che esso realmente cerca di offrire un quadro concettuale capace di racchiudere in sé la biosfera, la cultura umana, le relazioni tra Dio e il mondo, lo stesso essere di Dio. Sinteticamente, le differenti tipologie di questioni che esso solleva possono essere riepilogate in due macroaree: da una parte quella biologica, dall'altra quella teologica. Al discorso sulla natura degli organismi e dell'evoluzione biologica vengono infatti ad accostarsi le riflessioni sulle relazioni tra il mondo naturale e il Dio Unitrino della tradizione cristiana, riattualizzando e rimettendo in questione gli stessi scopi delle ricerche interdisciplinari tra scienza e teologia.

Non si può poi non ammettere che l'approccio peirceano al religioso e la sua ri-trascrizione, effettuata sia in God and the World of Signs che nel dibattito seguito alla sua pubblicazione, siano suscitatori di pensiero. Sebbene Peirce sia stato infatti più volte oggetto di studio per le sue opere nel campo della logica, della filosofia della scienza, delle semiotica, poca attenzione è stata data alla provocatorietà dei suoi scritti più direttamente incentrati su tematiche teologiche o, più in generale, religiose (è peraltro da lamentarsi l'assenza di una loro edizione in lingua italiana).

Sono qui opportune due annotazioni: anzitutto, l'approccio al religioso di Peirce opera sinfonicamente con la teoria della conoscenza da lui elaborata e, in secondo luogo, il suo atteggiamento pragmatico non è posto in essere in opposizione a essa. Sotto quest'aspetto, il lavoro peirceano è estremamente suggestivo. Un elemento da non sottovalutare sta poi nel fatto che egli sceglie di porsi dinanzi agli elementi critici e problematici della sua teoria sia in quanto credente sia come investigatore scientifico, considerando attentamente le conseguenze e le ricadute derivanti dal confronto con essi e analizzando come i differenti punti di vista si siano sviluppati o sono maturati e come questi possano essere ulteriormente rivisti.

Alla luce di questo, un esame di God and the World of Signs non può non suscitare la domanda del cosa è avvenuto prima: ha l'autore applicato la semiotica primariamente alla biologia e solo in seguito alla teologia, o viceversa? Mentre infatti in alcuni approcci interdisciplinari emerge, talvolta in maniera estremamente chiara, la sensazione che lo studioso (o gli studiosi) in questione abbia una posizione teologica (o anche solo fideistica) da difendere e che, di conseguenza, sia alla ricerca dei concetti scientifici più appropriati a sostenere le proprie conclusioni teologiche preesistenti, in altri casi la precomprensione di non-scientificità della teologia ha portato a ricercare quante più conclusioni scientifiche possibili al fine di dichiarare l'irrazionalità delle affermazioni teologiche e, più in generale, religiose.

Robinson riesce a non ricadere in questi due estremi; avendo come obiettivo quello di costruire una nuova "metafisica del senso", egli è in grado di evitare sia una metafisica del fisicalismo, tesa a escludere ogni discorso su Dio e le altre realtà religiose, sia una pura teologia delle proposizioni dalla quale, e in base alla quale, derivare il senso di ogni cosa. Così, egli può partire dalla metafisica del senso delineata da Peirce e declinarla in modo da ottenere delle chiare e distinte posizioni circa la Trinità, l'incarnazione, l'antropologia, il discepolato del credente e la stessa esperienza mistica. La sua proposta, sotto questo profilo, è estremamente chiara: Dio è «il fondamento della possibilità di ogni farsi del senso e di ogni ricerca della verità e, al tempo stesso, lo scopo ultimo dell'emergente capacità dell'universo di interpretare i segni».57

Per coloro che guardano con scetticismo a un'interpretazione del divino con le categorie greche della metafisica della sostanza, tra i quali ci sono anche io, il riferimento a Peirce è al tempo stesso ristoratore e fruttifero. Ovviamente, coloro che conoscono le complessità del dibattito trinitario staranno attenti alle potenziali insidie [insite in Peirce], e certamente ne troveranno alcune.58

Un aspetto di essa che è, al tempo stesso, notevolmente stimolante ma anche "insidioso" e che, proprio per queste sue caratteristiche, certamente non mancherà in futuro di provocare dibattiti, è il ripensamento dell'Incarnazione nei termini della metafisica peirceana, a seguito del quale l'evento-Cristo viene considerato non come un'occorrenza singolare quanto piuttosto come una qualità.

Strictu sensu, il segno nella prospettiva peirceana rappresenta, per dirla con Gadamer, un punto di partenza ininterrogato che può prestarsi a false univocità ma, allo stesso tempo, ad altrettanto false moltitudini di interpretazioni59. Al contrario, il messaggio cristiano ha costretto il pensiero umano ad accettare una specie del tutto nuova di impostazione, per la quale l'oggetto del conoscere pensante non è più solo l'ordine (cosmos), nella sua regolarità e nella sua forza formativa. Nel caso di Cristo si tratta dell'inconcepibile fattosi ciò che è una volta soltanto, evento quindi, accadimento al tempo stesso unico e perennemente nuovo.

Senza sottovalutarne gli elementi problematici, occorre qui ulteriormente annotare che l'attribuzione della categoria di qualisegno all'Incarnazione, per mezzo di un ragionamento certo non facile, permette almeno di realizzare -- grazie a una sorta di metafisica della differenza -- una soluzione altra rispetto alle teorie classiche circa l'incarnazione del Logos preesistente o a quelle, talune anche recenti, di stampo adozionista o che guardano al Cristo considerandolo solo come un "esempio morale" da seguire.

Peraltro, le stesse categorie di Peirce (e il pragmaticismo da lui sostenuto) permettono di recuperare, nel pensiero cristiano, quella prospettiva trinitaria spesso non sottolineata a sufficienza -- particolarmente nell'ambito della teologia della creazione -- e, al tempo stesso, di produrre un effetto trasformativo sui simboli cristiani i quali, considerati alla luce delle categorie, possono essere riletti come segni finiti dell'Infinito che eccede ogni segno.

Se Dio viene infatti considerato come il "fondamento", Egli allora non può che essere la condizione trascendente di tutte le cose e questo aspetto, a sua volta riletto nelle categorie di Peirce, permette di affermare che quelli che potrebbero essere considerari anche solo come simboli, ossia la Trinità e l'Incarnazione, sono effettivi, veri e reali:

Le scoperte della scienza e le previsioni che essa ci permette di fare circa il corso della natura, sono prove inconfutabili del fatto che, se anche non possiamo pensare ogni pensiero di Dio, possiamo -- per così dire -- cogliere almeno un frammento del suo pensiero.60

Dio è "infinitamente incomprensibile"61 ma personale, ha creato il mondo ma non è immanente in esso,62 può essere detto amore in quanto è "paradigma" dell'amore agapico che si può ritrovare nell'evoluzione del mondo.63 Riprendendo (e parafrasando) le tre categorie, Egli è l'inizio, il medio e la fine dell'universo:

Il punto di partenza dell'universo, Dio il Creatore, è il primo Assoluto; il terminus dell'universo, Dio completamente rivelato, è l'Assoluto secondo; ogni stato dell'universo in quanto misurabile punto nel tempo è il terzo.64

Questa relazione, intimamente presente in Dio, è fondamento anche del comportamento etico: l'elemento religioso presente nella vita del credente, infatti, non può non generare determinati e coerenti comportamenti:

Se Dio davvero è, ed è benigno [...] dovremmo naturalmente aspettarci che ci sia un qualche argomento per la Sua Realtà che sia ovvio per tutte le menti [...] che seriamente si sforzano di trovare la verità della questione; e inoltre, che questo argomento presenti la sua conclusione non come una proposta di teologia metafisica ma in una forma direttamente applicabile alla condotta di vita, in quanto nutrimento per il massimo giovamento dell'uomo.65

Tra Creatore e creazione vi è quindi una stretta (e intima) relazione, elemento quest'ultimo che lascia intravvedere l'inclinazione peirceana verso il panenteismo (se non addirittura verso il panteismo): Dio ha il completo controllo della natura perché è, al tempo stesso, più della natura e parte di essa, completamente coinvolto in ogni fase della sua creazione. Le operazioni di terzietà del nostro universo, che si sviluppa a partire dalla caotica primarietà nel previsto progetto divino, sono simultaneamente la realtà di Dio nel mondo e l'opera di un trascendente piano divino. Il Dio panenteistico di Peirce, di conseguenza, non può che essere un Dio dinamico: se parte del suo Essere è nella creazione, e questa è sottoposta al processo evolutivo, si deve quindi concludere che anche Dio è sottoposto a un qualche cambiamento evolutivo, insieme alla natura. L'evoluzione della natura e la divina creatività nella natura vengono quindi a essere interrelazionati.

Grazie a tutto questo costrutto anche il ruolo della "scienza teologica" e della stessa religione non possono che essere rivisti. In un suo saggio del 1893, The Marriage of Religion and Science, Peirce affermò che il potere della religione poteva ricevere un ulteriore rafforzamento (e i suoi scopi potevano essere raggiunti più proficuamente) solo incorporando in essa lo spirito scientifico della libera investigazione. Tale affermazione non deve essere vista come un appello al riduzionismo: il suo scopo era quello di condurre scienza, religione e filosofia a un'unità di metodo e verità.66 In uno dei due fondamentali articoli scritti per esporre la sua teoria della conoscenza, egli infatti aveva affermato che la verità è ciò su cui gli esperti di un determinato settore possono convergere quando a essi è concesso sufficiente tempo per riflettere.67

Partendo quindi dalla conoscenza dell'universo realizzabile per mezzo dell'investigazione scientifica, la religione, e il pensiero riflesso da essa generato, dovevano trovare il coraggio di sottoporre le idee su Dio (e gli stessi ideali di condotta professati) ad un graduale processo di verifica, rivedendosi nella consapevolezza della propria contingenza, del proprio essere nel limite e, proprio in virtù di questo, di essere oltre il limite. In base a questo, e considerato sia che l'esperienza è la sorgente ultima (e il metro di valutazione) di tutte le credenze e conoscenze umane, sia che quello religioso è un elemento attivo e fondamentale della vita umana, è allora

assurdo affermare che la religione è una semplice credenza. Si potrebbe anche dire che la società è una credenza, che la politica è una credenza, che la civiltà è una credenza. La religione è una vita, e può essere identificata con la credenza solo a condizione che la credenza sia una credenza vivente -- una cosa da vivere piuttosto che da dire o da pensare.68

Su questa base è anche possibile superare e ritenere risolto quel biasimo da lui formulato nei confronti dell'atteggiamento dei teologi del suo tempo, ritenuti eccessivamente conservativi: il tentativo di Robinson mostra che quanto più la teologia accetterà la sfida del dialogo con le altre istanze del sapere, comprese le scienze, tanto più essa potrà divenire una creativa modalità di vita e una teologia dell'anticipazione:

Ovviamente, non potrà esserci convergenza -- né progresso razionale -- se non formuleremo le migliori spiegazioni cui possiamo giungere e le sottometteremo alla critica di altri. Di conseguenza, la riflessione e gli argomenti della metafisica restano importanti. E poi, sapere che la convergenza è posta nel futuro, forse in un futuro molto lontano, non potrà che favorire quell'umiltà che manca nelle affermazioni di molti teologi.69

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Note

  1. A. Robinson, God and the World of Signs. Trinity, Evolution and the Metaphysical Semiotics of C. S. Peirce, Brill, Leiden-Boston 2010. Testo

  2. Probabilmente oggi verrebbe diagnosticata come nevralgia del Trigemino. Testo

  3. Alcune recenti edizioni italiane delle sue opere: R. Fabbrichesi Leo (ed.), Categorie, Laterza, Roma-Bari 1992; W. J. Callaghan (ed.), Scritti di filosofia, Fabbri, Milano 2005; M. Luisi (ed.), Esperienza e percezione: percorsi nella Fenomenologia, ETS, Pisa 2008; G. Maddalena (ed.), Scritti scelti, UTET economica, Torino 2008; M.A. Bonfantini (ed.), Opere, Bompiani, Milano 2009; M. Annoni - G. Maddalena (eds.), Alle origini del pragmatismo: Corrispondenza tra C. S. Peirce e W. James, Aragno, Torino 2011. Testo

  4. A. Robinson - C. Southgate, «Semiotics as a Metaphysical Framework for Christian Theology», Zygon, 45(2010)3, 710. Testo

  5. Cfr J. Hoffmeyer, Signs of Meaning in the Universe, Indiana Univ. Press, Bloomington 1996; W. Wheeler, The Whole Creature: Complexity, Biosemiotics and the Evolution of Culture, Lawrence and Wishart, London 2006; in ambito italiano è da certamente da menzionare G. Prodi, Le basi materiali della significazione, Bompiani, Milano 1977. Testo

  6. J. Hoffmeyer, The Semiotic Body-mind, in N. Tasca (ed.), Essays in Honor of Thomas Sebeok, Fundaçao Eng. Antonio de Almeida, Porto 1995, 18. Testo

  7. C. Emmeche, «The computational notion of life», Theoria. Rivista de teoria, historia, fundamentos de la ciencia, 9(1994)21, 12. Testo

  8. Cfr Hoffmeyer, Signs of Meaning in the Universe, 11-23. Testo

  9. Cfr T. L. Short, «Darwin's Concept of Final Cause: Neither New nor Trivial», Biology and Philosophy, 17(2002)3, 323-340. Testo

  10. T. L. Short, The Development of Peirce's Theory of Signs, in C. Misak (ed.), The Cambridge Companion to Peirce, Cambridge University Press, Cambridge 2004, 214-240. Testo

  11. Cit. in T. L. Short, Peirce's Theory of Signs, Cambridge University Press, Cambridge 2007, 135. Testo

  12. Robinson, God and The World of Signs, 200. Testo

  13. Da A. Robinson - C. Southgate, «Semiotics as a Metaphysical Framework for Christian Theology», Zygon, 45(2010)3, 691. Da ora in poi citeremo questo articolo con la sigla SMF seguita dal numero di pagina. Testo

  14. Cfr C. S. Peirce, Principles of Philosophy, Book 3, Chapter 1, §3: CP1.292. Le opere fondamentali di Peirce sono raccolte in C. Hartshorne -- P. Weiss (eds.), The Collected Papers of Charles Sanders Peirce, Harvard University Press/The Murray Printing Company, Cambridge (MA) 1931-1958. Le citazioni da questa edizione sono normalmente rese con la sigla CP seguita dal numero del volume e dal numero del paragrafo. Anche noi seguiremo questo metodo di citazione. Testo

  15. Nella lingua inglese l'equivalente è indexical; il termine è volto a connotare un certo tipo di espressione la cui interpretazione non può essere indipendente dal contesto in cui è enunciata, stabilendo in questo modo un rapporto di dipendenza tra interpretazione e variazione del contesto. Testo

  16. O, meglio, il pragmaticismo, termine da lui coniato per sottolineare «l'autonomia e il diverso carattere rispetto a quello dei "pragmatisti" più in voga, come James e Schiller» della sua impostazione filosofica: cfr G. A. Roggerone, Peirce e James, in A. Bausola (ed.), Questioni di Storiografia filosofica. Il pensiero contemporaneo/1, La Scuola, Brescia 1978, 600. Testo

  17. Cfr Short, Peirce's Theory of Signs, 65. Testo

  18. La disamina da lui compiuta è contenuta in Principle of Philosophy, Book 3, Chapter 2: CP1.300-353. Testo

  19. Sebbene non facile da collocare in maniera precisa all'interno della triade segno-oggetto-interpretante, il suo ruolo nei processi semiotici diverrà più chiaro allorquando si prenderà in esame la tassonomia dei segni. Testo

  20. C. S. Peirce, A Guess at the Riddle, in N. Houser -- C. Kloesel (eds.), The Essential Peirce: Selected Philosophical Writings, Volume 1 (1867-1893), Indiana University Press, Bloomington 1992, 49. Testo

  21. Gv 1,1-3. Testo

  22. Cfr M. Priotto, «Logos, Sophia, Pneuma», Theotokos, VIII(2000), 457-484. Testo

  23. Cfr 2Cor 4,4; Fil 2,6; Col 1,15; Eb 1,3. Testo

  24. G. O'Collins, The Tripersonal God, Continuum Books, London-New York 1999, 79. Testo

  25. E che, secondo il pensiero stoico, era la manifestazione più chiara dell'esistenza di una divinità-principio attivo e rettore del mondo e della vita di tutti i suoi abitanti. Cfr M. López Sanchez, Fede e ragione in Seneca: tra Stoicismo e Cristianesimo, in F. Carderi -- M. Mantovani (eds.), Momenti del logos, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012, 177-196. Testo

  26. Cfr questo già in Giustino, Dialogo con Trifone, 5: «Dio soltanto è increato (agenneton) e incorruttibile (aphtharton)». S. Giustino, Dialogo con Trifone, G. Visonà (cur.), Paoline, Roma 1988, 100. Testo

  27. Robinson, God and the World of Signs, 79-80. Testo

  28. Cfr De Trinitate, XV.43. Testo

  29. Questo perché un interessante parallelo può essere ritrovato, a livello etimologico, tra i termini parakletos ed ekklesia: entrambi infatti derivano dal sostantivo klete, a sua volta derivato da kaleo (chiamare, convocare). Testo

  30. Robinson, God and the World of Signs, 87-88. Testo

  31. Cfr W. Bauer - F. Ginrich -- F. W. Danker, A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature, University of Chicago Press, Chicago/London 2000, 623. Testo

  32. Cfr J. P. Louw - E. A. Nida, Greek-English Lexicon of the New Testament: Based on Semantic Domains, United Bible Societies, New York 1988, §12.19. Testo

  33. De Trinitate, V.11.12. Testo

  34. Cfr C. S. Peirce, Principles of Philosophy, Book 3, Chapter 1, §4: CP1.299. Testo

  35. Robinson, God and the World of Signs, 106. Testo

  36. Idem, 107. Testo

  37. SMF, 696. Testo

  38. Robinson, God and the World of Signs, 118 (i corsivi sono nostre aggiunte). Testo

  39. SMF, 698. Testo

  40. Ivi. Testo

  41. Idem, 699. Testo

  42. SMF, 699. Testo

  43. SMF, 698. Testo

  44. SMF, 700. Testo

  45. Ivi. Testo

  46. Ivi. Testo

  47. Cfr Adversus Haereses, 4.7.4; 5.5.1; 5.28.1. Testo

  48. Effettivamente, il fatto che Ireneo parli dei ruoli del Figlio e dello Spirito nella creazione, ma senza specificarli ulteriormente e, conseguentemente, lasciando inevasa la domanda sul loro (necessario) ruolo in essa, costituisce indubbiamente un elemento debole del suo impianto teologico. Testo

  49. In questo richiamando alla mente talune affermazioni di W. Pannenberg, Teologia Sistematica/2, Queriniana, Brescia 1994, 39 e 75-76. Testo

  50. SMF, 708. Testo

  51. SMF, 708-709. Testo

  52. Cfr De Trinitate, 6.10.12. Testo

  53. Idem. Testo

  54. Cfr O'Collins, The Tripersonal God, 200ss. Testo

  55. A. N. Whitehead, Il divenire della religione, Paravia, Torino 1963, 50. Testo

  56. SMF, 709. Testo

  57. SMF, 691. La frase è di non facile traduzione e, per questo motivo, preferiamo citarla qui anche nella sua versione originaria, in lingua inglese: Theologically, we understand God to be the fundamental ground of the possibility of all such meaning-making and truth-seeking and the ultimate goal of the universe's emerging capacity for interpreting signs. Testo

  58. Clayton, «Critical Afterwords», 768. Testo

  59. Cfr H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000. Testo

  60. C. S. Peirce, Scientific Metaphysics, Book 1, Chapter 12, §6: CP6.346. Testo

  61. C. S. Peirce, A Neglected Argument for the Reality of God, §2: CP6.466. Testo

  62. C. S. Peirce, A Survey of Pragmaticism, §4: CP5.496. Testo

  63. C. S. Peirce, Scientific Metaphysics, Book 1, Chapter 5, §14: CP6.157; Cfr Scientific Metaphysics, Book 1, Chapter 11, §1: CP6.287. Testo

  64. C. S. Peirce, Principles of Philosophy, Book 3, Chapter 3, §1: CP1.362. Testo

  65. C. S. Peirce, A Neglected Argument for the Reality of God, §1: CP6.457. Testo

  66. In quanto la verità è «il frutto della libera investigazione». C. S. Peirce, A Religion of Science, §3: CP6.450. Testo

  67. Cfr C. S. Peirce, The Fixation of Belief, già pubblicato in Popular Science Monthly, 12(November 1877), 1-15, ora in Houser -- Kloesel, The Essential Peirce, 109-123. Testo

  68. C. S. Peirce, A Religion of Science, §2: CP6.439. Testo

  69. Clayton, «Critical Afterwords», 770. Testo