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Nostalgia del maestro. La figura del maestro secondo Seneca nell'orizzonte del pensiero tardo-antico (2/2)

di Anida Hasic (28 febbraio 2013)

Il saggio prende in esame la figura del maestro nel pensiero di Seneca a partire dal rapporto del Filosofo con i suoi maestri che si muovono nell'orizzonte del pensiero stoico; vengono analizzati il concetto di progresso morale e il problema della conoscenza del bene che risultano, nell'impostazione teorica stoica ortodossa, aporetici; infine vengono considerati il lessico concettuale e le immagini che ricorrono nell'opera di Seneca nei passi in cui egli descrive il maestro e le vie per attuare il progresso morale. Alla luce di tale percorso il maestro emerge come una figura la cui frequentazione è volta all'interiorizzazione dello stesso. Dapprima infatti il maestro rappresenta un referente autoritario e concretamente presente nel rapporto con l'allievo, ma gradualmante egli viene «fisicamente» allontanato per assumere la funzione, tutta interiore, di qualcuno che ci allena ad accettare e a praticare la nostra permanente condizione di discepoli ovvero ad essere sempre disposti al miglioramento di noi stessi e al confronto con gli altri.

3. L'importanza del maestro

3.1. Cosa insegnare? Il progresso morale

Analizzando la dottrina stoica e i suoi principi più da vicino risulta impossibile parlare della figura del maestro, anzi essa sembra studiata apposta proprio per non dovervi fare riferimento. La dottrina stoica è uno strumento di trasfigurazione che mira ad eguagliare la nostra vita a quella divina e a questo scopo elabora la figura del sapiente. Il sapiente è pensato per avere un ruolo regolativo, per essere un esempio da imitare o una provocazione da accogliere al fine di intraprendere un certo modo di vita.1 Tale provocazione si ottiene attraverso l'esaltazione di una perfezione, ideale e irraggiungibile, imitabile, ma in definitiva, irrealizzabile. L'assenza della figura storica di un tal genere di sapiente fa sì che Zenone, Cleante e Crisippo non siano più che scolarchi. Questo non toglie certo loro autorità e ci permette comunque di abbozzare un'elementare immagine del maestro stoico,2 tenendo conto che non si trattava certo di personalità qualsiasi che passassero inosservate. Zenone fu molto austero e severo, forse legato a un modello pedagogico di matrice cinica;3 Cleante fu dotato di una forza di volontà straordinaria, capace di sopportare il peso del lavoro e dello studio, privo di vera attitudine alla filosofia eppure lodato da Zenone;4 Crisippo possedeva un ingegno talmente acuto che la sua dialettica era paragonata a quella degli dèi, nel caso ne avessero avuta una.5 Eppure questo non ci consente di rintracciare all'interno di questa scuola un maestro sul modello di quelli delle sette epicurea e pitagorica. «La riconoscibilità del saggio nel filosofo caposcuola è esplicita nell'epicureismo, che produce un vero e proprio culto della personalità del maestro; gli Stoici tendono invece a negarla [...], ma è chiaro che anch'essi non possono né vogliono sottrarsi a un gioco complesso di proiezioni e suggestioni che rinviano dalla figura del maestro a quella del saggio. ».6

Questi maestri hanno atteggiamenti che indicano consapevolezza di una posizione di superiorità rispetto ai discepoli; nelle loro scuole non ci sono stati esperimenti di vita comunitaria e vi sono casi in cui i discepoli si allontanavano definitivamente dal maestro: Aristone, ad esempio, dette addirittura un nuovo indirizzo alla scuola. Concentrandosi, infatti, su un modello ideale di sapiente, gli Stoici finiscono per squilibrare il rapporto tra maestro e discepolo: vi è la massima accentuazione del secondo estremo del rapporto, mentre è completamente svalutato il primo e con esso anche ciò che sta in mezzo. La causa di questo squilibrio va cercata negli stessi presupposti teorici dello stoicismo: infatti, almeno a prima vista, non si danno affatto ragioni per un rapporto di tipo «collaborativo» (e segnato dalla disparità) quale normalmente è il rapporto tra maestro e discepolo, anzi vi è un distacco totale tra i due poli del rapporto in quanto entrambi sono circoscritti a occupare due posizioni simmetricamente opposte e immutabili.

Anzitutto lo stoicismo si propone come «pratica di vita» che ricopra tutto l'arco dell'esistenza e, a differenza del sistema pedagogico socratico-platonico, non implica che i giovani siano i destinatari privilegiati del discorso: si pensi al bello e giovane Alcibiade allievo di Socrate da un lato e si consideri Cleante, dall'altro, che entra a far parte della scuola di Zenone in età molto avanzata.7 Inoltre, viene esclusa anche la possibilità di trasmissione del sapere a chi ancora non lo possieda; infatti per gli Stoici la comunicazione avviene soltanto tra buoni, cioè tra sapienti.8 Questa radicalizzazione, secondo cui tutti i saggi sono amici tra loro9 e secondo cui ogni azione anche se minima è utile a tutti gli altri saggi, comporta al contrario che tutti gli stolti siano tra loro ostili10 e non possano godere di alcun bene;11 insomma ad essi nulla è utile, riescono a rendere cattivo anche ciò che ricevono di buono e, di conseguenza, non sono affatto in grado di ricevere alcun insegnamento: risulta che la condizione di stolto sia incontrovertibile.

Vi sono poi le aporie che caratterizzano la dottrina stoica della sapienza: si possono compiere esteriormente tutte le azioni doverose senza per questo essere ancora sapienti;12 ossia, non importa il contenuto dell'azione ma la disposizione interiore di chi la compie. Inoltre il passaggio da stoltezza a sapienza, che deve pure verificarsi, è qualcosa di istantaneo, repentino e impercettibile, non se ne ha coscienza,13 ovvero non esiste una gradualità né processualità progressiva che permetta il raggiungimento della saggezza.

Un'etica così radicale dissocia evidentemente gli stolti e i sapienti. Di più, considerata l'idealità del sapiente, che è colui di cui «dicono che tutto quello che fa è conforme a tutte le virtù», di cui «ogni azione è perfetta e quindi non può mancare di alcuna virtù»,14 si esclude ogni possibilità di legame tra questo modello e la concreta figura del caposcuola. Gli stessi scolarchi si auto-condannano a far parte della comunità degli stolti, che peraltro risulta essere l'umanità tutta. Crisippo e Zenone, infatti, non si definiranno mai saggi. Si aggiunga poi il rifiuto, da parte degli Stoici, di qualsiasi mediazione (il concetto di vizio è assoluto, così come un bastone o è diritto o è storto, tutti gli errori sono uguali, inoltre, non si dà intermedio tra vizio e virtù): ed il maestro è per sua natura un intermediario, si colloca fra il discepolo e il sapere, come presuppone lo stesso concetto di «guida» spirituale.

Tuttavia, in questo quadro di svalutazione del maestro e del progresso, la sapienza stessa risulta irraggiungibile; così nel corso del dibattito tra Stoici e loro avversari sono state tentate alcune soluzioni mantenendo, naturalmente, la cesura stolti-sapienti. Già Zenone avrebbe ammesso distinzioni di grado fra stolti: «Platone, pur non essendo in realtà un sapiente, non è però da condannarsi alla stessa stregua del tiranno Dionisio. ».15 Questa prima distinzione, nella quale, si noti la coincidenza, un celebre maestro e un cattivo discepolo sono compresi nel novero degli stolti, anticipa il delinearsi di una figura che avrà il suo momento di massima fortuna nello stoicismo romano. Il proficiens, colui che progredisce sulla via del sapere e della virtù non è, per definizione, né maestro né discepolo, ma può assumere di volta in volta il ruolo dell'uno e dell'altro, come possiamo vedere dalle Lettere a Lucilio16 di Seneca. Quest'aspetto, di cui in seguito vedremo il risvolto, ci permette comunque di constatare come ad un certo punto nel filone stoico venisse tematizzato il progresso come eventuale soluzione al problema del raggiungimento della sapienza. Si tratta comunque di un percorso accidentato, contrassegnato dagli aut-aut e dai paradossi. In questo senso il modello del sapiente rappresenta uno stimolo costante che fa assumere allo stoicismo tratti di socratismo, come apertura continua verso un risultato mai raggiunto. Inoltre teoria del progresso dalla stoltezza alla sapienza, uno dei punti più delicati e controversi della dottrina stoica, sembra modificarsi in rapporto alla realizzabilità della figura del sapiente, anche se non sempre si tratta necessariamente di una relazione diretta tra sfiducia nella realizzabilità della figura del saggio e l'importanza attribuita dai filosofi stoici a coloro che si trovano sulla via della virtù:17 il progresso può essere ammesso per ragioni pedagogiche e senza giustificazioni teorich;18 ma è ravvisabile anche nella concezione stoica della physis secondo cui sarebbe logicamente fondato.19 In Cleante, ad esempio, l'uso di tonos in campo etico, inteso come un «protendersi verso qualcosa», rispecchierebbe l'originale terminologia biologica e fisica, forse di derivazione aristotelica, per cui il movimento corporeo si produce per espansione e contrazione.20 Inoltre sempre a riguardo del progresso morale si può parlare anche di «esigenza di un modello etico fruibile»,21 come nel caso degli Stoici più tardi e, in generale, nel quadro della filosofia romana.

Crisippo parla di colui che è giunto al culmine del progresso,22 quindi sembra vi fosse già un'elaborazione antica della teoria del progresso; tuttavia si tratta di un tema a cui bisogna accostarsi con molta cautela. Infatti gli Stoici mantennero l'antitesi saggio-stolto e la connessa teoria dell'uguaglianza degli errori, nonché la contrapposizione di vizio e virtù e l'istantaneità del mutamento di stato tra vizio e virtù. Al fine di sostenere tale dottrina si servivano di due immagini particolarmente efficaci e in grado di conciliare sia l'idea del progresso che le contrapposizioni in apparenza insuperabili succitate. La prima di queste ci descrive il progrediente come un nuotatore che cerca di approdare ad un porto sicuro, e precisamente trattasi di Canopo, situato sulla costa occidentale del Nilo;23 l'approdo a questo porto risultava estremamente difficile a causa di banchi di sabbia che si scorgevano all'improvviso e solo all'ultimo momento, cosicché il navigatore che pensava di essere oramai in salvo rischiava invece il naufragio proprio all'ultimo momento. Questo caso si mostra perfetto per i propositi dello stoicismo: esso esplica come, anche se la meta (la virtù) risulta molto vicina, lo stato di pericolo rappresentato dal vizio non è superato fino all'effettivo raggiungimento del porto; l'immagine mantiene inoltre la netta separazione tra vizio e virtù.24 La seconda immagine si riferisce al cucciolo di cane che nasce necessariamente cieco e altrettanto necessariamente acquista la vista col tempo.25 Il parallelo cecità-stoltezza e vista-sapienza illustra perfettamente sia l'idea stoica che tutti per natura tendono al bene, sia che tra vizio e virtù vi sia una contrapposizione netta, ma anche il fatto che il passaggio da uno stato all'altro implichi istantaneità. Insomma non esiste uno spazio medio e non sembra nemmeno esserci uno spazio logico per la gradualità, sebbene l'esistenza della tensione verso la virtù-meta ponga le condizioni per l'esistenza e la possibilità del progresso morale. La difesa dell'opposizione radicale vizio-virtù e bene-male colloca il prokopton, colui che tende alla virtù ma non la possiede ancora, tra i malvagi.26

Sensibilmente diverso invece il destino del proficiens a Roma. Il concetto di progresso trova campo logico nella rappresentazione spaziale di cui il progrediente è protagonista. Anche Seneca mantiene la differenza tra lo stolto e il saggio,27 tuttavia la gradualità è ammessa: essa è giustificata per mezzo della precettistica e per mezzo del tema spaziale-quantitativo. Nella lettera 94, in cui Seneca difende la precettistica in polemica con Aristone, egli compara la stessa alla cura da parte del medico. La malattia da curare è la cecità; Seneca non enfatizza l'istantaneità del passaggio dal non vedere al vedere, insiste piuttosto sulla gradualità del processo di guarigione: «quanto all'affermazione secondo cui bisogna eliminare l'oggetto che, posto davanti agli occhi, ne impedisce la vista, io sono d'accordo che non c'è bisogno di insegnamenti per vedere, ma di un rimedio che liberi la pupilla da ciò che impedisce la vista. La facoltà di vedere procede dalla natura, e chi rimuove tutto ciò che la ostacola restituisce alla natura il compimento delle sue funzioni. ».28 La componente logica del passaggio al vedere è caratterizzata dall'estensione temporale (liberare la pupilla da tutti gli elementi ostacolanti richiede evidentemente un lavoro progressivo) che permette anche il variare di intensità della facoltà visiva al fine di un graduale aumento della medesima: «le persone che hanno la vista malata ricevono dal medico non solo delle cure, ma anche dei consigli. «Non esporre subito» egli dirà «la vista ancora debole ad una luce troppo intensa; dal buio passa prima all'ombra, poi osa di più; e, poco alla volta, potrai sopportare la luce viva [...] ». ».29

Il tema spaziale-quantitativo permette poi di distinguere i progrediti e gli stolti, i quali si trovano distanziati da magna intervalla: nam qui proficit in numero quidem stoltorum est, magno tamen intervallo ab illi diducitur. Inter ipsos quoque proficientes sunt magna discrimina: in tres classes, ut quibusdam placet, dividuntur.30 I magna discrimina esistono poi anche tra gli stessi progredienti. Tre sono, difatti, le categorie in cui sono divisi i proficientes e la prima è descritta tramite la similitudine spaziale della vicinanza alla sapientia.31 La spazialità si ravvisa anche nella lunghezza del processo, già presente in Cicerone,32 in Seneca si può estendere addirittura a tutta la vita,33 è una tensione continua delle forze che consente di procedere anziché regredire.

Nella lettera 53 Seneca racconta a Lucilio una spiacevole esperienza di navigazione. Una tempesta lo colse all'improvviso durante la traversata; torturato dalla nausea convinse il capitano ad avvicinarsi alla costa e lì non aspettò che si facessero le manovre d'attracco bensì si gettò nell'acqua fredda; egli descrive la sua avventura in termini simili all'immagine summenzionata di Canopo, anzi essa ne sembra la continuazione: «mi getto in mare, avvolto in un mantello, come si addice a chi fa bagni freddi. T'immagini tutto quello che ho potuto soffrire, mentre arrampicandomi per gli scogli, cercavo di trovarmi un passaggio? Allora ho capito che i naviganti hanno ragione di temere la terra. Sono incredibili le fatiche che ho dovuto sostenere, mentre non riuscivo a sostenere me stesso. ».34 La distanza dalla costa e l'avvicinamento per mare rappresentano il saper vivere: occorre vedere la terra e poi avvicinarsi alla costa, progredire verso la virtù. L'idea che la vita sia un viaggio e per giunta faticoso che bisogna saper affrontare è data anche dall'espressione praenavigamus vitam,35 cioè «costeggiamo la vita»: esattamente come il nuotatore che deve raggiungere la terrà, il progrediente naviga costantemente vicino alla virtù.36 Anche se si tratta di un cammino pieno di affanni e pene in cui la meta è lontana, talvolta nemmeno raggiunta o conquistata soltanto in vecchiaia,37 la positività del progresso è comunque provata dal fatto che si può cominciare a godere già lungo il cammino dei traguardi realmente conquistati.38

Così, possiamo immaginare che per Seneca il progresso sia rappresentato da un continuo attracco a Canopo, non una sola e definitiva volta ma in più occasioni, come se si dovesse procedere secondo svariate tappe lungo il cammino della saggezza; questo non già perché si trascura la distinzione netta che pure il Pensatorefa tra saggio e stolto, ma perché egli formula una concreta possibilità di esperire il progresso e di goderne, anzi queste brevi conquiste sono le condizioni necessarie per continuare ad avanzare. Difatti, la terza categoria di proficientes, che non si è liberata da tutti i vizi, è ciò nonostante capace di disprezzare la morte, controllare i propri desideri e non cedere dinanzi all'avarizia.39 Oltre a ciò, come abbiamo avuto modo di constatare nel capitolo precedente, l'applicazione dei precetti consente un'immediata fruizione del bene, inteso perciò come attività. La lontanissima sapientia risulta quindi operare concretamente sulla nostra vita, essa la modella effettivamente; ciò è ravvisabile anche nella tensione che noi stessi applichiamo, impegnandoci di giorno in giorno nei suoi confronti.40

Nelle fasi del progresso morale c'è bisogno del maestro; non solo inizialmente, quando egli è coactor nei confronti di chi si è appena approcciato alla via verso la virtus, ma anche successivamente quando è custos ed exemplar. Ciò accade quando il proficiens deve tradurre in opera quel bene che ha appreso per mezzo della parola e che altrimenti rischia di vanificarsi; infatti gli insegnamenti divengono efficaci solo se resistono alla concretezza della realtà quotidiana, delle cose, degli avvenimenti.41 I progredienti che «sono sfuggiti alle malattie dell'animo ma non all'inclinazione per esse»42 hanno bisogno di una guida poiché «la malattia è un atteggiamento dello spirito ostinato al male»43 e la stoltezza che ci trae da una parte mentre noi ci dirigiamo da tutt'altra rappresenta «una forza in continuo contrasto col nostro spirito»;44 e allora «come e quando riusciamo ad emergere? Nessuno può farlo con le proprie forze: bisogna che qualcuno ci porga la mano e ci tiri fuori».45 Questa categoria abbisogna, inoltre, di una figura protettiva poiché non ha piena consapevolezza del proprio progresso e della propria vicinanza alla sapienza.46 Infatti, solo «quando avrai fatto già tale progresso, da avere un senso di riverenza anche per te, potrai licenziare il pedagogo. ».47

Il progresso morale risulta insegnabile, ma anche necessario. Proprio tramite l'idea del progresso, molto problematica nel quadro della filosofia stoica, si ha la possibilità d'attualizzare quel bene comunemente prospettato come lontanissimo. A quest'idea si lega la figura del maestro nel momento in cui è esempio di un tale bene. Di seguito vedremo come ciò sia possibile.

3.2. Perché insegnare? Un problema di epistemologia morale

Secondo gli Stoici il fine ultimo della vita, il telos, consiste nel vivere secondo virtù.48 La virtù si realizza attraverso la conoscenza di ciò che è bene; il bene quindi partecipa della virtù.49 Il bene inoltre compete a tutti, cioè tutti per natura tendono al bene, quindi hanno la possibilità di conoscerlo, attuarlo ed essere felici.

Allo stesso tempo è anche vero che la virtù summenzionata, compartecipata dal bene, si manifesta solo nei saggi che quindi conoscono e rappresentano ogni bene;50 ma i saggi, come sappiamo, sono estremamente rari, si presentano una volta ogni cinque secoli,51 quando non sono addirittura privi di un riscontro nella realtà effettiva. Quindi anche il bene che partecipa della virtù si concretizza raramente nella storia.

Ora, dal momento che risulta comunque prevista la possibilità per tutti di realizzare il bene, il fatto che il sapiens non sia un personaggio approcciabile dall'umanità potrebbe interessarci solo marginalmente. Ma purtroppo non è così; infatti, se consideriamo che occorre conoscere il bene per realizzarlo e ci chiediamo quindi come il bene sia conoscibile da parte dell'uomo, l'impostazione teorica stoica si mostra in tutta la sua problematicità. Vediamo alcuni testi che illustrano la dottrina stoica della conoscenza.

a) «Ogni intellezione si verifica attraverso la sensazione, o non in assenza di sensazione, e quindi si verifica per contatto o non senza un contatto [...] d'altra parte non potresti trovare nulla nel pensiero che non sia stato conosciuto prima per via di contatto. E questo sarà appreso o per similitudine delle cose che appaiono nel contatto o per aumento, o per diminuzione, o per composizione. ».52

b) «Così affermano gli Stoici. Quando l'uomo viene alla luce, il suo egemonico è come un foglio di carta fatto apposta per la scrittura: e difatti su di esso vengono trascritte una per una tutte le intellezioni. Il primo tipo di trascrizione è quello che proviene dalla sensazione. Quando cogliamo per via di sensazione qualcosa come il bianco, alla scomparsa dell'oggetto subentra il ricordo, e se ci sono più ricordi dello stesso tipo si ha l'esperienza: anzi l'esperienza è propriamente un gran numero di rappresentazioni simili. Delle intellezioni alcune hanno origini naturali, nei modi sopradetti e senza seguire alcun disegno, altre invece seguono ad un impegno educativo. ».53

c) «Siccome i concetti delle cose si formano negli animi o per via di conoscenza empirica, o per collegamento, o per somiglianza, o per analogia, il concetto di bene si forma proprio in quest'ultimo modo che ho messo per quarto, in quanto l'animo risale ad esso a partire, per via analogica, dalle cose che sono secondo natura. Questo bene noi lo cogliamo e lo denominiamo «bene» non per via di connessione o di aumento o per comparazione con altri termini, ma per una sua precipua caratteristica. E come il miele, per quanto sia in sommo grado dolce, si sente tale non per comparazione con altro, ma proprio per il suo tipo di sapore, così questo bene di cui parliamo, è sì di straordinario pregio, ma tale pregio dipende dalla sua qualità e non dalla quantità -- quello che si dice ??? a -- non entra né nel novero dei beni né in quello dei mali, e per quanto lo si accresca, continua a far parte del suo genere. Dunque il pregio della virtù è tutt'altra cosa: esso vale per la qualità non per la quantità. ».54

Come si vede, l'intera serie dei concetti proviene direttamente o indirettamente dall'esperienza sensoriale. Di più, dal momento che siamo esseri razionali, l'acquisizione del bene dipende dalla comprensione del bene; ci occorre, cioè, il solido possesso della conoscenza del bene. La questione profondamente problematica può essere quindi posta in questi termini: se la conoscenza del bene (concetto che acquista importanza assoluta dal momento che il telos dipende dall'acquisizione del bene) si dà solo e unicamente per via empirica ed è in teoria accessibile a tutti, ma il saggio, il sommo rappresentante della virtù che l'incarna, lascia un vuoto d'esempio, come può ognuno imparare che cosa sia il bene se nessuno è posto nelle condizioni di incontrare empiricamente un tale modello?

Altrimenti posta, la domanda suona così: per mezzo di quale processo razionale, secondo gli Stoici, noi conseguiamo la nozione di bene? È Lucilio ad avanzare la richiesta di soluzione. E la lettera 120 si occupa proprio di questa tematica, che da Seneca è definita una tra le quaestiunculas,55 cioè una questione minore.

Dopo avere distinto il bonum e l'honestum, specificando che si tratta di due concetti divisa ma non diversa, che ex uno provengono, Seneca conclude che il bene è ciò di cui non si fa alcun uso. Il bene non appartiene alla categoria dell'utile, poiché rischierebbe di essere frainteso e svalutato; difatti, vi sono cose di cui si può fare cattivo uso, come la ricchezza, la nobiltà, la forza.

Seneca dedica poi la sezione 4-5 a spiegare come noi entriamo in possesso dei concetti di bene e di onesto. Quello che espone in queste righe è l'argomento principale. «Secondo noi essa [virtù] risulta dall'osservazione e dal confronto di certi atti frequenti nella vita; la nostra scuola stoica sostiene, cioè, che si è giunti a comprendere l'onesto e il bene per analogia. Poiché questo termine ha ottenuto dai grammatici latini il diritto di cittadinanza, non penso che si debba condannarlo, ma anzi ricondurlo al suo significato originale. L'userò, dunque, come una parola non solo adottata, ma ormai entrata nell'uso. Ora, ti spiego che cosa sia quest'analogia: si conosceva cosa fosse la sanità del corpo; questa ci ha fatto pensare anche all'esistenza di una sanità dell'anima. Si conosceva la forza fisica; da questa abbiamo dedotto che c'è anche una forza morale. Certi atti di generosità, di umanità, di coraggio, ci avevano colpito di stupore; e noi abbiamo cominciato ad ammirarli come forme di perfezione. C'erano insieme anche molti difetti, che però restavano celati dalla bellezza splendente di un atto insigne, e noi li abbiamo lasciati nell'ombra. È nella natura umana magnificare ciò che merita lode. Non c'è nessuno che rievocando un fatto glorioso, non abbia oltrepassato la verità. Così da questi esempi, abbiamo tratto l'idea del bene in tutta la sua bellezza. ».56

È riconoscibile in questo passaggio il linguaggio della teoria stoica della formazione dei concetti. Abbiamo visto, infatti, come nel passo a sia citata l'esperienza diretta, l'aumento, la diminuzione, la composizione; similmente, il testo c elenca l'esperienza diretta, il collegamento, la somiglianza, l'analogia; mentre in b è specificato che alcuni concetti emergono immediatamente (il testo parla di «origini naturali») dall'accumulo di esperienze simili osservate più volte, altri, invece, richiedono l'insegnamento. Così la ripetuta osservazione di azioni e la loro comparazione critica tramite analogia, nominate in questo passo da Seneca, si accordano con l'epistemologia stoica. Attentamente osservando, non si può non notare lo spazio lasciato all'astrazione: la forza corporale ci aiuta a comprendere la forza morale, ossia l'osservazione e la successiva comparazione analitica di azioni meritevoli svolta ripetutamente permette l'assimilazione del concetto di virtù.

Quindi si arriva alla questione scottante, quella della diretta esperienza nel mondo di azioni virtuose. Seneca la risolve affermando senza imbarazzo che abbiamo sì l'esperienza di atti di gran merito ma sempre contraffatti, accompagnati da difetti che deliberatamente lasciamo nell'ombra. Dal momento che non osserviamo il sapiens, gli atti buoni di cui possiamo avere esperienze continuative devono sempre essere intaccati da debolezze che abbiamo opportunamente nascoste. Haec dissimulavimus, fingiamo di non notare questi vizi: «non c'è nessuno che rievocando un fatto glorioso, non abbia oltrepassato la verità». Che il processo cognitivo funzioni in questo modo, che a prima vista può anche sembrare un po' controverso, è comprovato dall'espressione immediatamente precedente: natura iubet augere laudanda. La natura stessa ci comanda di accrescere, esagerare, amplificare le imprese lodevoli, le azioni gloriose e il merito. Insomma è per mezzo di una propensione cognitiva, di una tendenza insita in noi grazie alla Natura, che noi privilegiamo la virtù e non il vizio nella comprensione delle cose. La natura citata in queste righe va intesa quale essenza provvidenziale che ci fornisce di questa fondamentale inclinazione. Inoltre, il ricorso ad essa mette in mostra l'implicita tensione al bene propria di ogni uomo. La nostra naturale propensione a cercare e focalizzarci sugli aspetti notevoli e meritevoli è invocata per spiegare come l'incontro con persone moralmente imperfette possa rivelarsi valido in relazione all'apprendimento del bene.

Successivamente Seneca si concentra su una parte di questo processo che -- è l'Autore stesso ad avvisare Lucilio -- potrebbe stupire. Si tratta della possibilità di conoscere in cosa il bene consista attraverso il suo contrario. L'importanza degli esempi contrari si gioca sulla loro somiglianza, confinia e similitudo,57 quella che vi è ad esempio tra prodigalità e generosità e tra temerarietà e coraggio. La falsità e l'inganno che si celano dietro il labile confine tra vizio e virtù sostengono il loro ruolo nel processo cognitivo in quanto ci inducono a distinguere debitamente ciò che rappresenta un modello del bene attualizzato dal suo lato mentitur. In un mondo lacunoso di esempi di virtù perfetta, questa mendacia mette alla prova anche l'efficacia delle operazioni di comparazione e analogia, cioè dei nostri processi mentali. Si noti come sino ad ora Seneca risulti attenersi alla impostazione empirica tradizionale.

Quindi, dopo aver trattato di esempi di virtù incompleti, Seneca introduce per contrasto colui che è buono con gli amici, scrupoloso e coscienzioso negli affari pubblici e saggio nell'azione. «Oltre a ciò egli si mostra sempre coerente con se stesso in tutti i suoi atti, è buono spontaneamente e l'abitudine alla virtù lo ha portato al punto di non poter solo agire rettamente ma di non poter agire se non rettamente. ».58 In questa figura, continua Seneca, noi abbiamo la nostra comprensione della virtù perfetta.59 Poi riformula la domanda iniziale di Lucilio: «Ma da quali segni, dunque, il nostro intelletto ha riconosciuto la virtù? ».60 Quindi risponde: ostendit illam nobis ordo eius et decor et constantia et omnium inter se actionum concordia et magnitudo super omnia efferens sese.61 L'ordine, l'armonia, la coerenza che caratterizzano la vita e le azioni di costui permettono anche a noi di intelligere il bene. L'ordo di questo soggetto e l'omnium inter se actionum concordia sono gli aspetti che permettono di giungere non solo alla comprensione della virtù ma, contemporaneamente, anche a quella della vita felice.

In questi paragrafi dell'epistola 120, evidenziando il contrasto tra qualità che si presentano saltuariamente nel mondo dell'esperienza e qualità costanti che caratterizzano la vita felice, l'Autore esalta la virtù della constantia. Essa torna ad essere proposta anche nella conclusione della lettera: «Il vero è sempre uguale, il falso è mutevole. Alcuni sono ora Vatinii, ora Catoni: e per essi ora è poco austero Curio, poco povero Fabrizio, poco frugale e sobrio Tuberone; ora sfidano Licino nella ricchezza, Apicio nelle gozzoviglie, Mecenate nelle mollezze. Un giudizio sicuro di un animo viziato è quell'ondeggiare ed agitarsi continuamente fra simulazione della virtù e l'amore dei vizi. ».62 Lo stesso argomento, oltre che per contrasto, viene poi espresso anche in negativo: sostiene, infatti, Seneca che un soggetto che non riesca a mantenere la coerenza dei propri atteggiamenti non solo non è virtuoso, ma nemmeno è un individuo riconoscibile.63 Quindi la costanza risulta aggiudicarsi un ruolo fondamentale nella soluzione del problema della conoscenza del bene nella misura in cui si presenta quale caratteristica principale della vita morale. Con l'adozione di questa strategia otteniamo che, non solo lì ove regnino ordine e coerenza noi riconosciamo il bene, ma automaticamente conosciamo in cosa consista la vita felice sulla base di parziali esperienze di buone azioni.64 Non aveva Seneca apprezzato proprio l'aspetto della coerenza sopra ogni altro ricordando i propri maestri? Ma evidentemente comprendiamo anche che il bene in Seneca non è qualcosa di astratto, non è oggetto di pura teoresi, ed è invece indistinto dalla sua attualizzazione. Non si tratta per il Nostro di elucubrazioni e cavilli sul bene o di derivazione di principi etici, ma di proporre concrete possibilità d'attuazione del bene. Il bene è opera.65 Per questo motivo la coerenza risulta essere il collante che ci permette, a partire da personaggi più o meno moralmente perfetti, di intelligere il bene. Cosa più di essa può farsi testimone della bontà in atto? Chi testimonia con la propria vita la coerenza e se ne fa esempio è capace di portare al bene gli altri. Infatti il bene ha natura pratica,66 non è solo una questione di sapere ma di agire.

Ma di chi parla Seneca quando introduce il buono che ci descrive poche righe più sopra? La figura in cui la constantia si manifesta palesemente sino alla virtù perfetta è forse il saggio, lo stesso saggio che non si presenta mai in tutta la sua realtà dinanzi all'umanità? Tornando indietro alla riga 10, dove Seneca menziona il nostro virtuoso, l'Autore usa due volte il verbo vedere, dice di lui che «lo si vede» (alium vidimus); e alla riga 11 dice che intelleximus in illo, riferendosi ovviamente alla persona virtuosa come pure fa alla riga 12, dove scrive vir ille. Inoltre, l'uso del tempo perfetto e del pronome singolare sembrano indicare una figura probabilmente idealizzata, ma quanto meno esistita nella storia.67 Quindi con ogni probabilità qui Seneca sta facendo riferimento alla forza esemplare di quei pochi saggi storicamente esistiti quali secondo lui, furono Socrate e Catone.68 Socrate e Catone sono cognitivamente disponibili grazie alla letteratura e alla tradizione; e prima ancora di servire come esempi da imitare (è proprio questa la loro funzione in quasi tutto il resto dell'opera), essi si ergono a parte del processo analitico della formazione dei concetti. Il vir ille diviene un punto di riferimento nella stima e valutazione della nostra esperienza del mondo ordinario in cui viviamo, costituito di soggetti difettosi e imperfetti. Nella misura in cui tale virtuoso attrae l'attenzione delle persone al punto che «molti compresero la sua grandezza ed egli rifulse come fiaccola fra le tenebre e attrasse a sé la simpatia di tutti col suo spirito sereno ed equilibrato, e col suo comportamento ugualmente giusto cogli uomini e con dio»,69 lo vediamo assumere un ruolo epistemologico nel mondo.

Ora, il fatto che una tale figura possa attrarre l'attenzione di ciascuno ci suggerisce che avere l'esperienza di un uomo grandioso, coerente in tutto e per tutto, contribuisca alla formazione del concetto di bene. Qualora questo concetto coincida con la vita felice, tale esperienza può avere conseguenze dirette sulla nostra condotta di vita. In breve una tale figura insegna. Tuttavia non necessariamente essa deve essere oggetto di un'esperienza diretta e immediata. A questo proposito abbiamo già visto che per Seneca è importante la frequentazione del maestro,70 ma si è visto anche come l'aiuto ci può venire dagli antichi; si pensi in particolare all'ammirazione di Seneca nei confronti di Sestio padre, del cui insegnamento egli riesce a servirsi tramite il testo scritto.

Occorre però completare il quadro che Seneca ci fa di questo saggio. Egli introduce a questo punto un tema platonico71 in modo da evidenziare il contrasto esistente tra costanza e incostanza: ci porta l'esempio della vulnerabilità del corpo in contrapposizione con l'origine dell'anima, di cui il saggio è consapevole. Nei corpi siamo come ospiti in un luogo che dovremo certamente lasciare, e proprio rendendosi conto di ciò l'uomo deve decidere di essere costante in una condotta onesta e operosa, segno distintivo della virtù.72 Questo tema è introdotto per sostenere che l'osservazione di tale contrasto, la caducità del corpo da una parte quale esperienza universale e la capacità del saggio di perseverare nel bene dall'altra, deve contribuire non solo alla conoscenza del bene ma anche all'attuazione del bene.

Riassumendo brevemente, dapprima Seneca ci propone una nozione di bene completamente distinta dall'utile, poi imposta il problema della conoscenza del bene secondo lo schema dell'epistemologia stoica. Per sottolineare come si perviene al concetto di bene pur avendo esperienza di persone moralmente imperfette egli introduce l'inclinazione naturale ad esagerare i pregi delle opere di costoro. Inoltre, tematizza la possibilità di analizzare la somiglianza esistente tra le virtù e i vizi loro corrispondenti. L'analisi del contrasto poi è fondamentale qualora si osservino comportamenti caratterizzati da costanza e quelli, al contrario, caratterizzati da incostanza; infatti questo tipo di analisi deve non solo farci conoscere il bene ma portarci a realizzarlo. L'osservazione di un tale contrasto è possibile anche qualora si porti l'attenzione sulla differente natura che caratterizza corpo e anima. Seneca accoglie la lezione platonica73 che ci insegna come cerchiamo inutilmente di afferrare l'inafferrabile e di sfuggire alla precarietà,74 e come l'unico modo per farlo sia quello di vincere il vitium del corpo tramite la ragione, perseverando nella ricerca e pratica del bene. Abbiamo visto che Seneca fa riferimento ad un personaggio della letteratura e della tradizione, quindi insieme ideale e tuttavia storicamente esistito. Quindi, alla luce di quanto rilevato sin qui, ci è possibile stabilire due elementi: 1) le generazioni che possono aver conosciuto direttamente Catone o Socrate hanno un vantaggio data la natura empirica della conoscenza; 2) figure quali Catone e Socrate fungono anche da modello nell'epistemologia morale in quanto non si propongono alla mera imitazione, ma rappresentano un segno,75 un punto di riferimento, all'interno del processo analitico della formazione dei concetti. Ad un certo momento si parla di persona idealizzata di cui servirci come punto di riferimento (intelleximuss in illo) nella valutazione dell'esperienza, esperienza che evidentemente non supera un mondo limitato e imperfetto. Così il saggio di cui ci parla Seneca ha a tutti gli effetti due funzioni. In primo luogo, non essendo l'esperienza negata anzi essendo essa il punto di partenza dell'epistemologia morale, egli è qualcosa di imitabile; ha poi una funzione completamente interna, facente leva sull'idealità, per cui è a tutti gli effetti parte del processo cognitivo. In altre parole, la sua funzione qui si propone quale alternativa al processo empirico di formazione dei concetti. Quindi l'attuazione della vita felice nonché la conoscenza del bene poggiano ad un tempo su una base empirica ed ideale.

Risulta evidente la novità senechiana: si fa ricorso ad una figura storica ma parzialmente idealizzata e per di più questa figura ci serve come contrassegno per il riconoscimento del bonum et honestum all'interno di un processo esclusivamente mentale (ossia il concetto di bene è conosciuto per mezzo della ragione e non solo empiricamente).76 Il concetto di bene abbisogna di un ideale da contrapporre alle persone che empiricamente conosciamo al fine del corretto funzionamento del processo cognitivo-concettuale; l'appello a queste figure idealizzate è sparso un po' ovunque nelle lettere dove sono nominate al plurale, di modo che vediamo spersonalizzarsi i personaggi citati in favore di una funzione simbolica: abbiamo così Zenoni e Crisippi,77 Catoni78 e Socrati, «qualcuno sia esso il grande Catone, o Scipione, o Lelio».79

Ricapitolando, caratteristica imprescindibile del bene risulta essere la coerenza. La coerenza si scorge in figure idealizzate, tuttavia storicamente esistite. La loro funzione è insieme cognitiva e morale nella misura in cui si tratta insieme di contrassegni interni al processo mentale e di esempi imitabili. L'esempio non in carne ed ossa di fronte a noi, ma interiorizzato ci rimanda alla funzione del maestro nel ricordo (esaminata nel precedente paragrafo); ma ci riporta anche, basandosi la sua efficacia sulla coerenza, alle descrizioni che Seneca faceva dei suoi maestri. Ognuno di essi, infatti, parlava come viveva e impartiva insegnamenti che a sua volta rispettava e praticava.80 Se, come riferisce Aezio nel testo b succitato, l'insegnamento possiede una funzione nella formazione dei concetti, allora il maestro capace di quella constantia per mezzo della quale il bene è riprodotto nella realtà può sostenere un ruolo all'interno del percorso verso la sapientia. Nel momento in cui il maestro viene interiorizzato in noi con valore di exemplar (da storico diviene idealizzato), vediamo come egli possa farsi contrassegno del processo cognitivo verso il bene al pari del misterioso esempio richiamato da Seneca. Sia che l'exemplar sia interiore, sia che ne facciamo esperienza diretta, egli risulta fondamentale perché la natura del bene è indistinta dalla pratica del bene.

Oltre a ciò, nella misura in cui si tratta di un modello interno al processo cognitivo ma con funzione morale, si può sostenere che: 1) lo stesso processo cognitivo non sia separabile dalla pratica della sapientia, ovviamente a condizione che l'exemplar (sia esso proveniente dall'esperienza diretta che dalla tradizione scritta) venga opportunamente interiorizzato (ciò è possibile qualora si faccia riferimento a metodi quali l'abitudine e il ricordo); 2) il momento cognitivo si interseca con il momento pedagogico-educativo, il che risulta possibile a partire dalla natura stessa del bene, inseparabile dalla sua attuazione. Di seguito vedremo come il maestro quale coactor gioca un ruolo indispensabile nella prima fase del progresso verso la sapientia.

3.3. Come insegnare?

In un tempo lontano, chiamato l'età dell'oro, fra gli uomini che facevano corretto uso della ratio regnavano la giustizia e il bene. 81 Per realizzare ciò essi ragionavano così: «la superiorità morale sta al posto della grandezza fisica. Pertanto il capo veniva scelto secondo le qualità spirituali. ».82 Ma si trattava di tempi migliori in cui si traevano giuste conclusioni da quegli stessi ragionamenti inferenziali che, come abbiamo appena visto, portano al bene. Così, l'importanza del maestro trova spazio anche nella concezione senecana del progresso dell'umanità, che implica il ricambio generazionale.

Si è ripetuto più volte che il mondo in cui ci troviamo risulta in qualche modo privo di perfezione morale; inoltre, nonostante la complessiva razionalità del tutto, la provvidenzialità e la bontà della natura e della ragione universale, il mondo degli uomini appare nel dispiegarsi della storia irrimediabilmente flesso alla cattiveria, alla corruzione, alla violenza sanguinaria, alla degenerazione,83 in definitiva, esso assume una piega decisamente anomala rispetto ai presupposti teorici stoici. La corruzione è arrivata, infatti, sin al profondo dello spirito: «La natura ci ha fatto magnanimi, e, come ad alcuni animali ha dato la ferocia, ad altri l'astuzia, ad altri la paura, così a noi ha dato uno spirito desideroso di gloria e di grandezza, che cerca dove possa vivere non con più tranquillità, ma con più onore: uno spirito molto somigliante al cielo che egli vuole imitare per quanto è consentito alle forze umane. ».84 «Ma noi dopo aver distolto la nostra mente da queste contemplazioni divine, l'abbiamo portato in un basso mondo di sozzure e meschinità, per asservirla, per fare sì che essa [...] si domandi quali altri mali possa trarne. ».85 La ratio risulta distorta a fini che non le si addicono; nemmeno il progresso tecnico e le invenzioni, secondo Seneca, appartengono ai saggi,86 anzi esse sono espressione della ratio deviata dalle proprie mete e capace solo di creare un illusorio benessere, che così inteso è pervertimento della natura, di quella umana, ma anche della natura intesa in un senso più ampio (un esempio di ciò Seneca ce lo ricorda denunciando il fatto che l'uomo vuole estrarre quegli elementi che reputa preziosi e che invece la natura nasconde). L'estensione della corruzione nel tempo della storia condanna il progresso collettivo e Seneca non si illude, il male è inestirpabile: «Tutte le epoche avranno i loro Clodii; ma non tutte avranno i loro Catoni. ».87 Quindi non si può parlare di un avanzamento dell'umanità:88 individui e generazioni sono portatori di vizi che si trasmettono incessantemente.89 Il male, di cui già abbiamo visto è maestra la solitudine, e quindi proviene da noi, ci arriva anche dall'esterno, siamo costantemente esposti alla cattiva conoscenza e al pervertimento della ratio, rappresentati dai praecepta populi,90 che non dilagano solo tra una cerchia esterna di persone che si incontrano nella quotidianità, ma si ritrovano anche tra le mura di casa: i genitori sono i primi ad inquinarci.91 Progresso e regresso fanno parte dello stesso mare e si alternano come le onde, né mai una parte prevarrà sull'altra,92 e gli individui tutti si trovano nella stessa condizione di inclinazione al male93 e possibilità, nonché tendenza, di attuazione del bene; infatti «la virtù è secondo natura e i vizi sono a questa contrari e nemici».94

Così, nel quadro di un continuo fluttuare tra alti e bassi delle vicende umane dove il male ha una forza quasi pari a quella gravitazionale,95 la sapienza, in quanto capace di conquistare la virtù, apre spazio al bene; essa «non costruisce strumenti per la necessità della vita. Perché le assegni compiti così futili? Tu vedi in lei l'artefice della vita. Le altre arti sono alle sue dipendenze [...] . Del resto, essa tende al possesso della felicità. ».96 Anche dove il vizio è tenace c'è la possibilità di correggere e rimediare,97 perché il male, in ultima analisi, viene prevalentemente da noi stessi.98

Allora vediamo che, non potendo darsi progresso nella storia dell'umanità (eccetto quello conoscitivo),99 l'itinerario del perfezionamento non oltrepassa i limiti della vita umana individuale. Se da un lato abbiamo una serie di conoscenze che si tramandano e che la storia non potrà esaurire, dall'altro abbiamo un tipo di conoscenza, quella morale che deve ripetersi sempre, essere continuamente insegnata e continuamente appresa, di uomo in uomo, di padre in figlio. Nel rinnovamento delle generazioni si presenta sempre la stessa situazione: l'uomo risulta libero di scegliere quale inclinazione seguire e in questo senso diviene responsabile del proprio bene poiché lo ha deliberatamente cercato. Il bello della saggezza, difatti, è che, non essendo un dono né frutto del caso, essa non ci viene incontro da sola, ma richiede impegno e costanza. Inoltre, ogni nuovo venuto al mondo si trova a fronteggiare su tutti i versanti il vizio dilagante; perciò, quando la saggezza è desiderata, ci è indispensabile il maestro. Infatti, come abbiamo visto, se nessuno si salva da solo, se un così gran bene non si riversa su noi in maniera fortuita, e se il bene è qualcosa che si conosce per esperienza e attraverso esempi (esempi che successivamente vengono interiorizzati fino a far parte del processo cognitivo), ma soprattutto se è necessario non solo conoscere il bene ma praticarlo per poterlo dire tale, allora è necessario non considerare disonorevole cercare chi ci insegni la virtù.100 Inoltre, dal momento che conoscenza e realizzazione della vita felice convergono sullo stesso binario del dinamismo etico e la coerenza testimoniata dalla vita di un exemplar ci porta a tale scopo, non solo abbiamo bisogno di un maestro, ma questi deve essere una figura in cui confluiscono i momenti pedagogico-etico e cognitivo.

3.4. Il coactor

La figura capace di impersonare il momento pedagogico-etico è quella che Seneca chiama coactor, e che parallelamente assume i tratti dell'exemplar. Per mezzo della virtù possiamo distinguere ciò che è male da ciò che sembra male.101 Più sopra abbiamo osservato come questa stessa capacità critica di riconoscimento del bene faccia parte del processo cognitivo. Qualora ci troviamo indotti dal maestro, costretti, a praticare la sapienza, noi entriamo in quell'ingranaggio che è insieme processo conoscitivo e saggezza praticata. La natura attiva del bene102 è tale per cui c'è bisogno di essere costretti a farne esperienza.103 Ed è per questo che abbiamo inizialmente bisogno di un coactor: egli ci è utile sia nei casi in cui il vizio non si è ancora radicato in noi, sia quando sarà necessario estirparlo,104 poiché l'animo teme ciò di cui non ha esperienza105 ed è proprio l'inesperienza che non ci permette di avere sempre una chiara percezione della retta via.106 «Dunque, è bene che ci sia un custode che ci tiri ogni tanto le orecchie e tenga lontane da noi le vane parole e le false lodi della folla. ».107

Il coactor -- dato che non basta eliminare il male108 e dal momento che siamo dei ciechi con il bisogno impellente di una guida -- ci aiuta a superare queste insufficienze con la pratica del bene; è un bisogno di cui, talvolta, non ci rendiamo nemmeno conto, abituati come siamo a giustificarci con noi stessi.109 Descrivendo la prima categoria di progredienti Seneca afferma che non sanno di sapere, scire se nesciunt;110 egli intende con ciò che non sono capaci di attuare il bene e questo perché illis adhuc inexperta fiducia est. Bonum suum nondum in usu habent.111 Il concetto di usus qui nominato richiama a sua volta altri due fondamentali concetti del pensiero di Seneca: in primo luogo quello la forza produttiva del bene che abbiamo appena vista,112 in secondo luogo quello di habitus; su questi due aspetti si reggono utilità ed efficacia del coactor. L'habitus consiste in quella costante disposizione dell'animo al bene che si ottiene tramite l'exercitatio, ossia il ripetersi di atti buoni dai quali nasce l'abitudine.113 L'abitudine al bene è qualcosa di necessario; solo per mezzo di essa possiamo giungere a conquistare quella fiducia che possa sostenerci nella costante volontà di attuare il bene:114 essa stessa conferisce forza all'animo.115 In questa fase ci si trova in una condizione di debolezza per cui il coactor non fa altro che offrire ciò che ancora non possediamo, ossia un impulso iniziale: la bona mens dipende dalla bona voluntas116 e questa a sua volta può anche essere infusa dall'esterno.117 A questo punto il maestro interviene somministrando anche dei precetti118 che devono essere applicati, dispensando così un nutrimento vitale119 grazie al quale l'anima può dedicarsi attivamente al bene e coltivarne l'abitudine. Si tratta di un metodo che agisce sine ratione120 e si rivolge agli imperitissimi121: i precetti evitano agli inesperti di incorrere nell'abitudine al male e radicano insieme l'abitudine al bene.

3.5. L'exemplar

Come i praecepta sono dotati di questa forza attiva e vitale che ci introduce sulla via del bene, analogamente anche gli exempla, che ne condividono la natura.122 Ora il maestro si fa exemplar, insegna quindi offrendo se stesso all'imitazione perché lunga è la via delle nozioni, breve e efficace quella degli esempi.123 Non contenti «di dirci quello che dobbiamo fare, essi [i maestri] ce ne danno esempio con le loro azioni; ci insegnano ciò che dobbiamo evitare e nessuno mai li sorprende a commettere quello che ci hanno raccomandato di fuggire. ».124 L'efficacia di un uomo che insegna con l'esempio sta tutta nell'ammirazione della sua opera.125 Così vediamo come collaborino l'iniziale impetus verso il bene dell'allievo (infatti, se nessuno si salva da solo, neppure si salva se non lo vuole) e la coerenza mostrata e dimostrata del maestro. Proprio a questo punto, quando il maestro da coactor si fa exemplar, noi ne vediamo la funzione pedagogico-etica sfumare in quella cognitiva. Più precisamente ciò avviene quando il maestro attraverso la funzione di testis viene interiorizzato, come fra poco vedremo. Ma per ora ci serve notare come in questo passaggio e scambio di funzione spetti al maestro nella sua veste di exemplar fungere da collante. Infatti, l'exemplar «partecipa della forza irradiante del bene che comunica»;126 inoltre gli esempi che Seneca sceglie sono modelli di coerenza e costanza, cioè esempi di fermezza che rimandano alla constantia sapientis,127 quella stessa constantia che, s'è detto poche righe addietro, permette di intelligere il bene quale incarnato in un modello ideale.

L'aiuto che ci proviene dall'esterno deve rafforzare la nostra inclinazione al bene fino a che essa non diventi per noi abitudine. Il maestro è capace di instillare in noi questa forza gradualmente, perché è concepito anche come un testimone «dinanzi alla cui presenza anche uomini malvagi cercano di reprimere i loro vizi».128 Egli è capace di ottenere questo risultato perché incarna una figura autoritaria, già si è detto, capace di rispettare i precetti e seguire i principi che si impone (nei casi estremi si tratta di un Catone e un Lelio).129 Il coactor/custos dopo averci abituati alla retta condotta si installerà in noi dove, interiorizzato, sarà esempio da imitare nonché parte costitutiva del processo cognitivo che ci permette insieme di conoscere e attuare il bene. Infatti, «un animo che tende alla verità, che conosce ciò che bisogna fuggire e ciò che bisogna cercare, che attribuisce a ogni cosa il suo valore naturale, prescindendo dall'opinione volgare, che è in rapporto con l'universo di cui esplora tutti i segreti, che sa dominare i suoi pensieri come le sue azioni [...] un tale animo s'identifica con la virtù. ».130 Ossia se troviamo qualcuno (nella vita o nella letteratura) in cui il bene è giunto ad un punto tale per cui pensiero e azione, scientia e disciplina si co-implicano, in cui la coerenza lega insieme vita e dottrina, noi possiamo farvi appello al fine di capire cos'è il bene e affinché da una tale figura ci provenga un aiuto nel lungo cammino verso la saggezza che richiede forza di volontà ed equilibrio dell'animo. «Questa tensione e questo sviluppo dello spirito saranno resi più facili se ammetteremo qualcuno a collaborarvi. Si cercherà, dunque, un uomo perfetto o che sia molto avanti sulla via della perfezione. Egli sarà utile se apporterà alle decisioni il contenuto della sua saggezza».131 Chi domina i propri pensieri e le proprie azioni è capace di coerenza ed in virtù di ciò può insieme testimoniare e insegnare il bene facendosene esempio. È così che, nell'idealità, nel ricordo, nell'interiorizzazione, la figura del maestro incarna insieme la funzione pedagogica e quella cognitiva.

3.6. Il testis

Ma secondo Seneca avviene anche qualcosa di più a partire da questa prospettiva in cui la sapientia non dipende solo dalla conoscenza ma anche dall'educazione. Dato che l'efficacia del maestro si riallaccia all'idea di quel testimone dinanzi a cui ci si corregge132 e la presenza di una tale figura è un imperativo, e dato che Seneca prevede un contrassegno interiore sia a scopo educativo che a scopo conoscitivo, lecitamente questa figura interiore diviene testimone delle nostre azioni e dei nostri pensieri133 ossia si identifica con l'oggettivazione della coscienza morale.134 ««Fa tutto» egli dice «come se Epicuro ti osservasse»»135: è la lezione epicurea che Seneca accoglie questa volta. Come abbiamo già visto, questa lezione è importante sia perché la solitudine è cattiva consigliera, sia perché abbiamo bisogno di essere protetti dai vizi che possono assalirci in qualunque momento.

Ma cos'è la coscienza per Seneca? Come la maggior parte dei temi, non si troverà nemmeno per questo concetto, all'interno dell'opera senecana, lo spazio di una trattazione sistematica. L'Autore lo riceve così come gli arriva dalla tradizione e ne parla nei seguenti termini: come ratio perfecta, come adattamento del proprio pensiero e della propria volontà al logos universale, e come il vivere coerentemente e coscientemente con se stessi.136 L'educazione impartita dal maestro, per merito del quale siamo usciti dalla palude del vizio,137 dal momento che l'animo non si educa da solo, ha agito eliminando le debolezze e rimuovendo gli ostacoli della falsa opinio che impediscono l'applicazione dei precetti e, di conseguenza, rafforzando la recta ratio.138 Tale operare della nostra guida ci ha resi atti ad accedere al maestro interiore, a questo testimone che è la coscienza.

Essere in armonia con la propria coscienza significa essere resistenti alla fortuna; solo tramite essa possiamo dichiarare il valore delle nostre convinzioni nonché la nostra libertà.139 La coscienza, infatti, non la si può ingannare140 e quando è limpida e retta non teme di esporsi alla luce del sole: bona conscientia turbam advocat; mala etiam in solitudine anxia atqua sollicita est.141 Una coscienza allenata a esaminarsi è linda, è capace di conversare con se stessa, di dirigere i propri atti e di avere l'assistenza di dio che ci offre consilia magnifica et erecta.142

Il maestro interiore che si cela dietro la coscienza opera quale iudex e ciò significa che il nostro animus stesso a questo punto è capace di svolgere tre funzioni: esso dovrà accusarsi, giudicarsi e difendersi.143 E guai a chi non si curi di questo testis interiore,144 dal momento che la natura del male è tale che nuoce alla vittima ma anche a chi lo compie.145 Inoltre in questo modo è possibile monitorare i progressi effettuati e quelli che non si è riusciti a fare: questa figura interiore ci aiuta a parlare con noi stessi, a indagare il nostro animo e misurarne le colpe e punirle.146 Attraverso tale recognitio sui possiamo sperare di avanzare verso la tranquillità e l'equilibrio, riconducendo noi stessi alla razionalità.147 Il maestro che inizialmente ci ha mostrato il bene facendo adeguare il nostro animus, per mezzo dell'abitudine, alla perfecta ratio, si «smaterializza» per insinuarsi sotto forma di exemplar nella nostra coscienza. A questo punto, sconfinando dalla propria singolarità umana per divenire guida interiore, egli insegna e ci guida dall'interno a quella conformità e costanza che compongono la virtù,148 principio della morale stoica. Da se stessi non si sfugge, e quindi in ogni momento è bene avere presso di sé questo custos149 grazie al quale siamo sanabili, fortificabili150 e capaci di vivere secondo la virtù, cioè coerentemente e in armonia con noi stessi. O, per meglio dire, si pratica il bene nello stesso modo in cui si conosce il bene, a partire cioè dall'individuazione della coerenza che l'exemplar, che abbiamo assunto quale contrassegno ideale per raggiungere la conoscenza del bene, testiomania.

È possibile superare in questo modo l'irrealtà del sapiens: il bene diventa qualcosa che ci possiamo reciprocamente scambiare.151 Quando l'allievo è oramai in piena corsa verso il traguardo, la funzione del maestro può trarre motivazione dalla sua stessa opera di educazione ormai giunta a maturità.152 Nasce così, a partire dalla epistemologia morale di Seneca, l'esigenza che ognuno di noi si faccia maestro: «Prendi tu il comando ed esprimi anche qualcosa di tuo, che altri mandino a memoria. ».153

4. Il maestro: analisi lessicale e studio delle immagini relative alla figura del maestro nelle opere di Seneca

4.1. Il peritus

Nei paragrafi precedenti si è potuta verificare la necessità e l'importanza della figura del maestro nella vita morale dell'individuo. Il suo ruolo si definisce a partire dalla possibilità del progresso morale. I progredienti, divisi da Seneca in tre categorie, hanno tutti bisogno di una figura guida che agisca a seconda della condizione del discepolo in maniera coercitiva oppure semplicemente indicativa e orientativa. Inoltre, la figura del maestro trova giustificazione anche in relazione al concetto di bene: infatti, se si intende tale concetto in quanto attualizzabile e la cui pratica sia un'attività necessaria al progresso morale, si constata anche come ci sia bisogno di una figura che possa introdurci all'esercizio del bene; se invece riflettiamo sulla possibilità e modalità di conoscenza di tale concetto, che nel quadro di riferimento stoico si dà per via sperimentale, ne consegue una volta di più l'obbligatorietà di confronto con un modello ammirevole ed edificante.

Vogliamo ora osservare un po' più da vicino -- e tenendo sempre presente quanto affermato in precedenza circa la conoscenza del bene, il maestro quale exemplar e il lato di idealità che tale figura presenta -- l'azione e il profilo del maestro così come Seneca lo presenta attraverso le immagini dei suoi testi.

Spesso e volentieri, quando esorta Lucilio, scrive al fratello Novato, o incoraggia Sereno, Seneca raccomanda di affidarsi ad una guida. Tale guida è nominata peritus154: si tratta di un esperto, un intenditore, un «uomo sperimentato». La lingua latina si è servita del termine per definire colui che possiede competenze e conoscenze acquisite per esperienza. Così Orazio parlerà dei periti earum regionum e Cicerone di peritus belli155; il primo rimanda a coloro che conoscono bene le loro aree geografiche, il secondo rinvia alla conoscenza di precise tecniche militari. Come si vede si tratta di riferimenti a situazioni in cui è necessario esercitare una conoscenza con immediati, efficaci e concreti risvolti pratici. Alla stessa dimensione tecnico-pratica allude anche Seneca quando consiglia di affidarci ad un esperto, il quale deve dare modo al nostro primo impulso verso il bene di trasformarsi in habitus, nella pratica attiva del bene. Leggiamo in proposito i passi seguenti:

«Il marinaio più cauto invece chiede a chi (cautior peritos locorum rogat) conosce i luoghi quali correnti ci siano e quali indizi si possano trarre dalle nubi, e tiene la rotta ben lungi da quella zona malfamata per i suoi gorghi. ».156

«Diciamo, allora, dove vogliamo andare e per quale via ma non senza un esperto che già conosca la strada che cominciamo a percorrere, perché certo non è come negli altri viaggi dove, se si è individuato il percorso e si chiedono informazioni agli abitanti, non si può sbagliare. In questo caso, invece, proprio le strade più battute e frequentate ci traggono in inganno. ».157

L'uso della metafora geografica, in particolare quella marina, ci riporta al concetto di progresso morale, all'idea della conoscenza della vita così come l'abbiamo accennata nel paragrafo precedente citando l'espressione senecana preanavigamus vitam. Con tale espressione si intende non una conoscenza esatta e acquisita una volta per sempre, bensì un dinamismo cognitivo e morale, che in quanto tale implica anche l'insufficienza di preparazione e consapevolezza. Ed è a questo punto che dobbiamo rivolgerci all'esperto, il quale ha già percorso il sentiero e perciò sa anticipare la direzione migliore e consigliare circa eventuali impedimenta che si possono incontrare in viaggio. Né possiamo permetterci di incamminarci su una via già battuta e credere che, poiché vi sono tracce del passaggio dei molti, la strada sia perciò quella giusta. Infatti, secondo Seneca, proprio l'opinione pubblica e il largo consenso sono indizio di una strada sbagliata: la folla cambia troppo facilmente opinione perché in realtà non sa esprimere un proprio parere, di conseguenza seguire la folla significa imitare e non ragionare, significa quindi divenire vittime di un «errore che passa di mano in mano».158 E, se appoggiarsi a chiunque preceda può risultare fatale, affidarsi ad un esperto significa trovare qualcuno che egualmente diffidi della folla poiché le cose migliori sono sgradite ai più.159 Di rimando colui che piace alla folla è un cattivo maestro,160 poiché farsi ammirare dalla folla significa anche necessariamente trasmettere insegnamenti vani,161 che si riconoscono dalle declamazioni ampollose che attirano l'attenzione sul modo in cui si parla e non sull'oggetto dell'orazione. Il buon maestro invece,162 come abbiamo visto, si riconosce per il fatto che vi è una perfetta coincidenza tra il suo dicere e il suo facere, mentre il suo discorso è semplice e disadorno, poiché il suo insegnamento è difficile e deve penetrare nell'animo. Il suo insegnamento non è scientia ma sapientia:163 egli insegna ad amare, insegna l'armonia e la coerenza dell'animo con se stesso, insegna che ci sono dei fratelli con cui dividere i beni, insegna ad accettare la privazione e la sconfitta, insegna a perseguire la virtù.164

I proficientes che sono maiusculi pueri hanno bisogno di qualcuno che sia un po' più avanti con gli anni e con l'esperienza, che possa indicare loro che «questa via conduce giù al precipizio»165 e che «di qua si sale alle stelle».166 Seneca afferma che «possa farlo a buon diritto e possa indirizzare agli altri l'operosità del proprio animo uno che ha già compiuto il servizio militare ed è in età avanzata, come è costume nelle vergini Vestali, le quali avendo ripartito gli anni tra doveri differenti, imparano a fare i sacrifici e, una volta che li hanno imparati, li insegnano. ».167 Di se stesso afferma: le »mie piaghe, che se non sono del tutto guarite, hanno cessato almeno di estendersi. Insegno agli altri la giusta via che ho conosciuto tardi, dopo un faticoso errare. Vado gridando: «Evitate i beni che piacciono al volgo e sono dono del caso». ».168 Si tenga conto però che Seneca non sta qui affermando di se stesso di aver raggiunto il traguardo della sapienza; infatti in altri passi precisa di far parte anch'egli della seconda categoria dei progredenti. Ne ricaviamo che il senso della definizione di peritus come guida nella vita morale è proprio quello del proficiens che è alle volte allievo, alle volte maestro.

È importante sottolineare la «fallibilità» del maestro-peritus quale competente ma non sapiente; essa si trova confermata nella mutualità che spesso Seneca ricorda a Lucilio: «c'è un vantaggio reciproco perché gli uomini mentre insegnano imparano. ».169 Del resto il principale titolo che agli occhi del contesto abilitava al diritto-dovere di educare, fin dai tempi più antichi a Roma quando non v'erano scuole né istituzioni di alcun genere, fu l'età più ancora che l'effettivo possesso di abilità, nozioni e cognizioni. I romani si sentirono impegnati in prima persona in funzioni educative di cui ciascuno fu socialmente e politicamente investito secondo il ruolo pubblico e privato che le circostanze gli conferivano; così, trascorso un certo numero di anni, l'individuo passava dalla condizione di discente a quella di docente pur non perdendo mai la prima.170 Come poteva Seneca, romano e figlio di un padre estremamente tradizionalista quale fu Seneca il Retore, non essere suscettibile al buon costume della sua antica Roma? Quella a cui il peritus rimanda è una credibilità e autorevolezza che posseggono coloro che vengono prima di noi; non a caso quando Seneca cita e chiama in causa gli antichi filosofi come Zenone, Cleante, Crisippo, Socrate e Platone, egli li appella sempre come priores171 che non deve identificarsi semplicemente col generico significato di anteriori e precedenti, ma anche con quello di insigni e superiori. Infatti anche altrove è proprio di questo senso del termine che Seneca si avvale; per dire ciò che «è meglio per natura» scrive natura prius est ut; inoltre, sempre nel nominare gli antichi, egli li definisce nostrorum procerum,172 i nostri insigni, oltre che parlare del magnorum virorum iudicio.173

Tuttavia quest'autorità non prevarica e non si sovrappone all'allievo col risultato di soffocarne autonomia e indipendenza. La funzione del peritus, come la metafora geografica suggerisce, è quella di condurre, di indicare la meta anche in mezzo ad un naufragio. Seneca stesso ogniqualvolta si richiama agli Stoici antichi quali autorità tiene a rivendicare la propria emancipazione:174 «Così uno lo seguirò, a qualche altro chiederò di specificare meglio il suo pensiero e può darsi che, interpellato per ultimo, non disapprovi nessuna delle posizioni sostenute da chi mi ha preceduto e dica: «in più io penso questo». ».175 Infatti, non vi è alcuna operosità d'animo, nessuna generosità in colui che non elabora creativamente gli insegnamenti ricevuti; distaccarsi dal maestro significa scire altrimenti si tratta di un semplice memoriam in alienis exercere. 176 L'uso dei verbi ducere, regere, sequi177 serve a descrivere la funzione della guida e il modo di starle a presso; l'esercitare la memoria all'ombra del pensiero altrui non è quello che Seneca intende per avere una guida. Autosufficienza e autodecisione sono caratteristiche che si conservano camminando accanto al maestro, il quale conduce, addita determinate tracce che segnano la via, ma questo è quanto di più lontano dal mittere che ha il senso di inviare a precisa destinazione e che Seneca rifiuta risolutamente: «Pretendi forse da me ancor più che mostrarmi simile alle mie guide? Che dunque? Io andrò non dove esse mi manderanno (miserint me illi), ma dove mi condurranno (sed quo duxerint ibo) ».178 Per definire la sapientia così come la intende Seneca si potrebbe usare l'espressione contemporanea life long learning che implica costanti aggiornamento e ricerca ed è proprio per questo che è indispensabile conservare la propria indipendenza: «la verità è accessibile a tutti, non è dominio privato di nessuno, e il campo che lascia ai posteri è ancora vasto. Così dunque non dovrò seguire le orme degli antichi (non ibo per priorum vestigia)? Seguiamo, sì, la vecchia via, ma se ne troviamo una più corta e più piana, cerchiamo di rendere praticabile questa. ».179 L'espressione ibo per priorum vestigia contiene in sé già tutto il senso dell'investigare, del ricercare con cura, ma si tratta pur sempre di una ricerca esclusivamente individuale in quanto dipende dalla singola volontà,180 sebbene essa vada svolta col maestro. Anzi a stretto contatto col maestro.

4.2. Digiti illorum tenentur

Come abbiamo visto, la frequentazione del maestro è fondamentale ed è spesso raccomandata; essa deve essere stretta, quotidiana, intima: Seneca parla di contubernium.181 In alcuni passi, descrivendo il tipo di aiuto e accompagnamento che si possono ricevere dal maestro, Seneca introduce, attraverso l'immagine della mano, una vicinanza corporale: precipiemus ut naufrago manum porrigat.182 Poi di nuovo: paratae sint iuvandis manus.183 La metafora tattile torna anche nel De constantia sapientis, dove Seneca sostiene come la fermezza d'animo del sapiente derivi proprio dal suo proposito di educare, correggere, emendare gli altri;184 quindi paragona il saggio ad un medico, che non si vergogna né si ritrae dinanzi alla necessità di tastare il paziente.185 Ma soprattutto nella lettera 94, che verte tutta sui metodi con cui raggiungere la saggezza, Seneca afferma come ci sia bisogno di una guida, aliquem praeire,186 di qualcuno che preceda appunto, e scrive: «Se uno aspetta il momento di conoscere da sé la cosa migliore da farsi, nel frattempo andrà fuori strada e perciò non riuscirà a giungere là dove possa trovarsi contento. Dunque deve essere guidato finché non può guidarsi da sé. I fanciulli imparano davanti ad un modello; le loro dita tenute dalla mano del maestro, scorrono lungo i segni delle lettere; poi sono invitati ad imitare il modello proposto ed a correggere, seguendo quello, la loro scrittura; così il nostro animo, mentre viene dirozzato secondo un modello, tende a migliorare. ».187

Ma a chi si riferisce Seneca quando cita il maestro che tiene la mano dei fanciulli? A Roma i professionisti in quanto ad attività didattiche erano, dal vertice in poi, maestri di retorica e oratoria (oratores sive sophistes), maestri di lingua latina e greca (grammatici Graeci sive Latini), i geometrae, gli architecti magistri, calcuratores e notarii, maestri di copisteria (librararii sive antiquarii), gli insegnanti di ginnastica (ceromatitae) , maestri di lettura e scrittura (magistri institutores litterarum o grammaticus); infine c'erano i semplici paedagogi che, in fondo alla scala dei precettori, sono da intendersi come ripetitori e insegnanti «di sostegno» come si direbbe oggi.188 Normalmente Seneca cita il paedagogus volendo si riferire a qualcuno che custodisce e sostiene per l'appunto, qualcuno con cui ci si esercita; in questo caso però egli ha in mente la figura immediatamente precedente, il maestro di lettura e scrittura. È proprio il grammaticus che Seneca sceglie di chiamare in causa in quest'immagine indirizzata a Lucilio, anche se non lo nomina esplicitamente preferendo invece descriverne l'attività. Tale maestro di scuola elementare possedeva un'abilità veramente basilare, era capace di decodificare i segni grafici e riprodurli: il grammaticus doveva impugnare la manina dello scolaro nella propria e guidarla nel tratto; tracciare sulla cera o incidere nel legno dei solchi guida, che poi lo scolaro ripercorreva familiarizzandosi così a un tempo con la figura delle lettere e l'uso del materiale: pueri ad praescriptum discunt; digiti illorum tenentur et aliena manu per litterarum simulacra ducuntur.189 La metafora tattile, che accosta lessicalmente il processo della didattica della scrittura al processo del progresso morale accompagnato dal maestro, restituisce proprio per questo motivo una forte presenza dello stesso. Si noti anche come la capacità di ripetere, pertinente al grammaticus, rimandi naturalmente alla capacità del peritus di ripercorrere un cammino che conosce. La stessa metafora si presta anche per descrivere il maestro come colui che guida lungo un percorso precedentemente da lui esplorato, pensiamo ai solchi nel legno in cui il maestro elementare ha segnato le orme. Inoltre, il propositum di entrambi è comune: ognuno di essi prende il discepolo per mano al fine di proficere,190 cioè progredire, riuscire, ottenere, conquistare (sono tutti significati inscritti nel verbo).

Restando sempre nel contesto storico-culturale in cui Seneca scrive, non possiamo dimenticare di menzionare come in merito alla natura e qualità del rapporto maestro-discepolo il Nostro, che disprezzava sinceramente l'operato dei grammatici, dei geometri, dei filologici, avrebbe senz'altro apprezzato di più quello dall'artis magister. Questo maestro è sostanzialmente l'artigiano, l'artista che dalla sua taberna, ossia bottega, trasmette i saperi professionali, tecnici, manuali, ma anche modelli comportamentali e atteggiamenti mentali. Se trasferito nella famiglia dell'artigiano in tenera età e se quivi si trovavano i figli di quello, il piccolo apprendista tendeva ad assuefarsi alla severità e autorità di questo pater. Lo studio di R. Frasca rimanda a questo proposito a Terenzio, che sottolinea il principio vigente tra i romani per cui si ritiene essere il padre non solo colui che ha generato il figlio ma anche colui che lo ha educato e istruito;191 di tale tendenza troviamo conferma anche nelle parole che Seneca rivolge a Lucilio: «ti rivendico a me, sei opera mia»,192 dove la patria potestas è evidentemente estesa al praeceptor per mezzo dell'azione educativa-formativa. Imitando l'insieme dei comportamenti del maestro d'arte i giovani allievi forgiavano il proprio profilo professionale, ma era abbastanza automatico che essi tendessero anche ad identificarsi con quell'exemplum piuttosto che imporre la propria personalità. Se in questo modo l'apprendista perseguiva l'acquisizione di abilità ma anche di comportamenti extralavorativi congrui al profilo sociale cui aspirava, è anche vero che il maestro poteva imporsi sull'allievo tanto con il carisma che con la forza fino ad inibirne lo sviluppo della personalità nonché della creatività. Abbiamo già osservato che in merito a questo aspetto Seneca avoca invece l'emancipazione. Ciò che ci interessa sottolineare in questo momento è che la bottega dell'artigiano si sostituisce alla casa -- richiamando così per la condizione della convivenza il contubernium che Seneca prospetta necessario ai fini della piena realizzazione dei benefici che ci possono provenire dalla frequentazione del maestro -- e diviene un modulo formativo in cui hanno spazio di svilupparsi vincoli di genere affettivo tra maestro e discepolo basati sul rispetto e sulla gratitudine, come testimoniano numerose epigrafi dedicate dai discepoli al proprio maestro.193 Non dimentichiamo che la lezione sul valore affettivo delle relazioni veniva trasmessa a Seneca dal maestro Attalo. Questo tipo di sentimenti contribuisce all'acquisizione di abilità specifiche con stimoli che concorrono a plasmare i giovani professionisti e a formare in loro una coscienza professionale, per cui l'ambiente della bottega e i metodi pedagogici in essa sussistenti potevano connotarsi anche come etici. Questo è esattamente il tipo di esperienza che Seneca invoca nella lettera 88, quando chiede che il geometra gli insegni a dividere la terra col fratello piuttosto che a calcolarne freddamente i centimetri. Se il Nostro non ricorre tuttavia ad esempi di maestri d'arte nelle sue opere ciò è attribuibile solo al fatto che, come egli stesso altrove dichiara mostrando di disprezzare la manualità e il progresso tecnico,194 la saggezza è qualcosa di contemplativo oltre che di attivo.

Il grammaticus, invece, non può nelle opere del Filosofo fungere da esempio di buon maestro, in primo luogo perché Seneca reputa che presso di lui si perda tempo:195 egli evita persino di ricordare i grammatici con cui è venuto in contatto da giovane, mentre, nel passo precedentemente analizzato, si astiene addirittura dal nominare il maestro di lettura e scrittura preferendo parlare di aliena mano per citarne l'attività. In secondo luogo, perché la natura del rapporto tra questo insegnante e suoi discepoli non risponde alle esigenze etiche senecane: l'estrazione sociale degli alunni che frequentavano le sue lezioni era alta o medio alta. Si trattava di bambini e fanciulli liberi di nascita, in prevalenza figli del piccolo e medio ceto e dell'aristocrazia, provenienti da ambienti familiari fortemente caratterizzati da una mentalità congrua allo status di appartenenza; presso tali famiglie il padre per tradizione ha anch'egli un ruolo educativo ed incide sull'operato del maestro. Il maestro inoltre, nel caso che fosse uno schiavo o un esiliato per motivi politici o un nobile decaduto era pur sempre di condizione sociale più bassa e nei suoi confronti gli allievi tendevano ad avere essi stessi un atteggiamento di disprezzo che suscitava nel maestro insofferenza, astio e intemperanza, portandolo anche a infliggere punizioni. Inoltre, sarebbe difficile immaginare che un genitore che manda il proprio figlio dal grammaticus possa augurargli di diventare come il maestro. Diverso invece il caso dell'artis magister, i cui allievi provengono dal ceto popolare e la cui aspirazione massima è quella di eguagliare il maestro e aprire una propria scuola.

Anche da questi ragionamenti comparativi si può osservare come la funzione educativa scaturisca dal ruolo di guida esercitato in forza di un percorso in cui si è maturata un'esperienza precedente. Proprio in quanto il peritus è qualcuno che ha accumulato più esperienze e competenze di noi, egli rappresenta «la figura di chi è già salito più in alto, è lo sperone di roccia su cui si getta la corda per poter andare più su».196 Tuttavia il fatto che Seneca affianchi al proficiens il peritus, questo esperto che tuttavia non è il sapiens che si è tratto definitivamente in salvo, ma qualcuno che alle volte può anche scambiare il proprio ruolo con quello dell'allievo (come la mutualità prospettata dall'autore conferma), ci porta a pensare chi il maestro-peritus non abbia solo il compito di guida ma risponda anche ad un esigenza etica. L'esigenza di farsi maestri risponde infatti alla necessità di diventare esempio per gli altri e in ciò si trova a sua volta la garanzia della condotta morale individuale dato che, stando così le cose, anche l'allievo potrà e dovrà trovarsi un giorno sullo sperone di roccia ad additare la via al prossimo. 197

4.3. La Magistra

Parlando del peritus e del grammaticus che tiene sempre per mano l'allievo notiamo come la fugura del maestro s'accentri attorno ad un campo semantico e metaforico facente capo alla sensibilità: il peritus conosce la strada, i luoghi, i mari, tende la mano per salvare il discepolo e con la stessa mano lo tiene a sé vicino. Nel paragrafo precedente d'altronde abbiamo potuto osservare come la conoscenza derivi secondo Seneca dall'esperienza e dall'osservazione, per cui non deve stupire il ritrovare descrizioni del maestro le cui competenze sono sempre lodate in relazione ad un contesto palesemente sensibile, sia esso geografico o tattile. Tuttavia abbiamo anche osservato come ad un certo punto parte del processo cognitivo implichi qualche cosa che si allontana dal dato empirico: più precisamente Seneca afferma che è per mezzo di una propensione cognitiva, di una tendenza insita in noi grazie alla Natura, che noi deriviamo il concetto di bene. È a partire da questo momento che il Filosofo introduce una certa idealità nel suo discorso: egli fa ricorso ad una figura storica parzialmente idealizzata, la quale ha la funzione di contrassegno all'interno del processo cognitivo volto al riconoscimento del bene. Ed è proprio in questo punto che noi vediamo incrociarsi gli aspetti sensibile ed ideale del maestro. Entrambi questi aspetti, per quanto contrastanti possano sembrare, sono anche fondamentali: il maestro di cui si è avuta esperienza permane nel ricordo e questo maestro idealizzato diviene parte della nostra stessa coscienza.

Le espressioni succitate (precipiemus ut naufrago manum porrigat e paratae sint iuvandis manus)198 sono entrambe estrapolate dalla lettera 95, dove Seneca si chiede come ci dobbiamo comportare con gli uomini; nel rispondere indica la Natura quale responsabile della condizione umana, insieme maestra e comandante delle giuste maniere che si debbono avere nei confronti degli uomini e degli dei.199 In un altro passo in cui Seneca denuncia l'inutilità ai fini morali dell'attività dei dialettici, dei cavillosi e dei sofisti, chiarisce che l'uomo felice e retto è colui che ha ogni suo bene chiuso nel proprio animo perché è stato capace di seguire gli insegnamenti della Natura, cioè accettarne le leggi.200 Parimenti nella lettera 90 dove Seneca distingue la saggezza dall'arte pratica, egli puntualizza come il saggio rivolga la propria indagine alla verità e alla Natura, poiché conoscendo la legge della vita e i rapporti di tutte le cose si possono conoscere gli dèi, seguirne la volontà e accettarne i comandi.201 Inoltre, anche nella lettera 70, dove è sviluppato il tema della morte volontaria e del coraggio necessario ad affrontarla, l'Autore afferma che maestra e responsabile di una lunga fortificazione è la ragione universale.202 Ma perché Seneca può parlare della Natura quale magistra?

Nello stoicismo il concetto di natura è ambiguo: esso comprende da un lato la realtà di tutto ciò che esiste, il complesso di quella che chiamiamo la «creazione», dall'altro considera la natura individuale caratteristica di ogni essere particolare. Aderire alla natura universale equivale a riconoscere in essa l'esistenza di un ordine razionale, persuadersi che l'universo è una ragione in atto. La natura è la persona stessa di Dio, è la ragione in sé. Tale identità di Natura e Dio è affermata nel De beneficiis203 ed ora è interessante capire qual è la funzione che Seneca assegna all'identità tra Universo e Ragione nel cammino verso la saggezza. Infatti la saggezza consiste in un'adesione all'ordine universale ed implica l'adesione alla natura particolare del saggio. Essa ha quindi due fonti: la conformità all'ordine del mondo e la conformità alla natura nostra propria, la constantia che abbiamo spesso nominata e che ci mantiene simili a noi stessi. L'adesione all'ordine universale si trasforma così nella norma etica del Naturam sequi. La concezione che Seneca ha dell'ascesa verso la saggezza consiste di svariate tappe: si acquista una prima nozione della «totalità della natura» e della saggezza stessa intimamente legata alla struttura della creazione;204 poi vi è una sorta di iniziazione al mondo delle anime, dell'invisibile205 che però è materiale, poiché non esiste altro se non la materia; la maestra-natura-saggezza espone il processo della creazione e la nascita delle cose dimostrando che la Ragione è presente in ciascuna di queste; segue lo studio dell'anima umana e quello degli incorporei, cioè parola e linguaggio.206

Per capire meglio in che modo la natura si faccia magistra occorre tenere presente anche l'impostazione psicologica e morale propria del nostro Autore.

Per quanto riguarda l'impostazione morale e il concetto di Naturam sequi ci riferiamo in particolare alla contemplazione. Nel De vita beata Seneca si chiede quale sia il migliore genere di vita da intraprendere al fine di essere felici e nello svolgimento dell'indagine egli chiarisce l'importanza della contemplazione. La Natura, la sua osservazione e studio sono il primo passo verso un genere di conoscenza che assicura la vita felice. La conoscenza che ci deriva dallo studio della Natura è una conoscenza in grado di guidarci alla scoperta di nuovi valori; scoprire che l'universo è una totalità che abbraccia tutto ciò che esiste e obbedisce a leggi rigorose equivale a scoprire l'armonia del mondo. Questa scoperta è fondamentale poiché tutto assuma un valore differente: la sofferenza umana, le apparenti ingiustizie, la morte dolorosa sono elementi dell'armonia del mondo, nei confronti dei quali occorre imparare ad esercitare un certo distacco, senza risentirne gli effetti emotivamente, sviluppando perciò l'armonia interiore. L'armonia interiore è a sua volta possibile perché noi siamo parte integrante dell'armoniosa divinità, che è il cosmo stesso. Tutto ciò ci permette di passare dal Naturam sequi al Deum sequere;207 infatti, decifrare l'ordine del mondo significa seguire Dio. Inoltre, a differenza delle piante e degli animali, l'uomo ha in comune con Dio la Ragione e la parola. Per mezzo di queste facoltà l'uomo può realizzare l'armonia di tutte le sue parti e comunicare con Dio, ossia ragionare. Tuttavia, la possibilità di farsi simili a Dio non è qualcosa di immediato; l'assimilatio dei è piuttosto qualcosa di processuale e, nonostante la facoltà di ragionare sia concessa a tutti gli uomini gratuitamente, si tratta comunque di una conquista208 che ognuno di noi è tenuto a realizzare sviluppando quei semina che la Natura ha riposto in noi.

La Ragione che l'uomo ha in comune con Dio, a differenza di quella divina che è perfetta, è perfettibile. Ed è proprio nel perfezionamento della ragione che consiste la realizzazione del bene che si identifica con la virtù. Dio ha assegnato all'uomo la natura di essere razionale e con essa anche il compito di realizzare completamente tale facoltà rendendosi partecipe della divina razionalità. A tale compito, che segna per l'uomo la strada verso il Bene, è profondamente legato anche un altro compito: contemplare l'universo e porsi i problemi che da questa contemplazione derivano, poiché «non all'azione soltanto ma anche alla contemplazione ci destinò la Natura» e «la virtù non consiste soltanto nell'azione ma anche nella contemplazione della verità».209 Se Seneca non nega il valore speculativo della ricerca metafisica: la contemplazione e lo studio dei fenomeni naturali meritano di essere perseguiti per se stessi;210 tuttavia egli cerca il più delle volte di ricavarne vantaggi spirituali.211 Colui che perviene alla «scienza delle cose divine ed umane»212 è da Seneca ritenuto non uno scienziato, ma l'educatore dell'umanità; ciò non significa che nella sua concezione la filosofia si riduca a morale pratica ed a scienza dell'educazione precettisticamente intesa, ma piuttosto che la pedagogia è intimamente legata alla filosofia. Il filosofo è l'educatore dell'umanità, non perché riduca la sua attività alla missione educativa, prescindendo dall'indagine speculativa, ma in quanto la sua ricerca del Bene e la sua indagine speculativa devono essere utili alla umanità ed a lui stesso, non rimanendo puramente teoriche, ma costituendo al contrario una solida base al compito dell'educatore (inteso anche come auto-educatore). L'auto-educazione resa possibile per mezzo dell'osservazione e dell'indagine speculativa della Natura e delle leggi dell'universo ci porta a considerare l'importanza attribuita ai principi metafisici; da essi sono fatti derivare i principi morali ed è proprio perciò che in ultima analisi Seneca può affermare che la ratio è magistra e che la Natura è magistra: per mezzo della contemplazione si scoprono le leggi rigorose di un tutto provvidente cui è necessario obbedire (il rapportarsi ad un'autorità cui obbedire da parte dell'allievo è qualcosa che abbiamo già trattato nei precedenti paragrafi).

Tale bisogno d'obbedienza è confermato anche dalla concezione psicologica di Seneca, che risponde alle sue esigenze etiche e razionalistiche. Il cammino ideale dell'uomo verso la virtù e il perfezionamento della ragione comincia con il superamento delle irrazionali tendenze ai beni vani per arrivare al perfezionamento progressivo della ragione, fino a raggiungere il possesso della virtù che è tutt'uno con l'honestum e con la ragione perfetta. Abbiamo già visto il valore attribuito dal Filosofo all'attivismo etico dell'uomo nel faticoso tendere al bene, ma c'è qualcosa di più. Seneca, infatti, tende a deviare il monismo psicologico degli Stoici nel senso di un dualismo platonico al fine di garantire all'uomo la possibilità di superare l'irrazionale: vi è una parte di noi tendente alle passioni e al piacere su cui si basa la ricerca dei beni sensibili e che si trova in contrasto con l'elemento razionale, partecipe della natura divina, su cui si basa il vero Bene. L'orientamento dualistico nella concezione psicologica di Seneca permane evidente anche quando l'Autore fa risalire razionale e irrazionale ad una unica fonte, al principale elemento dell'anima, l'egemonikon. Tale prospettiva circa la condizione dell'anima umana porta a giudicare il cammino verso la sapienza come estremamente faticoso poiché le tendenze irrazionali sono radicate nell'anima e su di esse l'io deve trionfare per realizzare il bene e l'armonia interiore che è armonia con il mondo, realizzabile nell'ordine razionale e divino dell'universo. L'essenza di Dio e quella dell'anima sono ambedue partecipi della medesima natura razionale, ma nonostante ciò essa in Dio è già completa e perfetta mentre nell'uomo è suscettibile di perfezione e proprio per questo l'uomo necessità di lavorare e studiare, di educazione e cura. L'anima che è il pensiero di Dio richiede di essere coltivata: «È dio che scende fra gli uomini, anzi è in intima relazione con loro, è in loro. Nessuno spirito è virtuoso senza dio. Divini semi sono stati sparsi nei corpi degli uomini. Se un buon coltivatore li raccoglie, essi si sviluppano conforme alla loro origine divina, fino ad acquistare tutti i caratteri dell'essere da cui sono nati. Ma se li raccoglie un malvagio, non diversamente da un terreno sterile e paludoso, li uccide e poi produce erbaccia al posto del buon grano. ».213 In tale processo la filosofia ha un ruolo fondamentale: «Possiede la virtù solo un animo colto e educato, che è pervenuto con un costante impegno alla perfezione. Noi nasciamo per raggiungerla, ma senza possederla già; e anche negli uomini migliori, prima che vengano educati, c'è materia per la virtù non la virtù. ».214

Perciò l'anima umana deve mirare a poter essere degna della sua origine divina e ad affrancarsi dalla sua temporanea prigionia del corpo, che deve esserle soggetto così come la materia passiva ed inerte lo è a Dio principio attivo ed operante ad essa. Il dualismo antropologico serve a Seneca per insistere sul concetto di perfezionamento morale, di auto-liberazione dalle inclinazioni irrazionali alla passioni, sulla necessità della completa attuazione della propria essenza razionale da parte dell'uomo. Tale concezione psicologica dualistica è fondata per quanto riguarda l'origine dell'anima nel materialismo stoico e per quanto riguarda il rapporto dell'anima con il corpo nell'idealismo platonico.

Inoltre, per quanto riguarda il concetto secondo cui la Natura -- l'universo e le sue leggi -- può essere considerata una magistra, il problema psicologico può ricondursi, come problema metafisico, in uno a quello di Dio.215 Infatti Seneca ammette una partecipazione alla medesima natura razionale da parte di Dio e dell'uomo, quest'ultimo dotato della possibilità di un cosciente accrescimento e perfezionamento ai fini della completa attuazione di sé nell'ordine razionale dell'universo. Il legame tra uomo e Dio è ribadito tramite le espressioni che il Filosofo usa riguardo all'essenza dell'anima: in corpus humanum pars divini spiritus mersa.216 In tali definizioni sulla natura dell'anima come parte dello spirito divino o come Dio ospite del corpo umano si delineano anche i problemi dell'origine e del destino dell'anima; a loro volta, essi rimandano immediatamente al concetto che Seneca ci offre di Dio. Tuttavia, tale concetto non è univoco; infatti non è ben chiarito se la divinità di cui l'anima umana è scintilla parziale si possa identificare col principio corporeo animatore dell'universo, col pneuma degli Stoici, soffio divino che permea e regola tutto il cosmo con la propria energia, o sia piuttosto un principio immateriale o trascendente, una mente creatrice e ordinatrice dell'universo. Spesso nei suoi scritti, infatti, Seneca attribuisce alla divinità delle doti che non si addicono affatto ad un principio corporeo, immanente, energia cosmica, quale è il pneuma stoico, accentuandone piuttosto gli attributi personali che si discostano persino dalla concezione personale di Cleante, il quale esaltava nel suo inno a Zeus i lati personali del principio divino (come l'idea della provvidenza). La concezione materialistica e quella spiritualistica dell'essenza dell'anima si contrappongono spesso nel pensiero senecano, si che non si può vedere chiaramente se ponendo l'anima dell'uomo in relazione ad uno spirito divino, il Filosofo intendesse riferirsi al principio attivo, corporeo ed immanente nell'universo, da cui si stacca una parte che anima l'uomo durante la sua vita per poi ricongiungersi al tutto originario, o ad un principio creatore e trascendente che di un'anima immortale informa l'uomo. Ma in un caso e nell'altro ferma appare la convinzione che l'anima (sulla cui spiritualità o materialità Seneca è pure indeciso e si stabilizza su una soluzione che ne attenua la materialità senza però escluderla)217 è di origine divina218 e che essa occupa nel corpo, formando con questo un insieme umano e divino,219 lo stesso posto che Dio occupa nel mondo; di conseguenza il corpo deve esserle soggetto come la materia a Dio.220

La sua vera patria non è di questa terra221 e l'anima ne ha coscienza quando contemplando l'universo e le cose celesti si accorge che non vi sono solo la contingenza e la miseria della vita terrena; l'anima avverte così l'affinità della propria natura con quella celeste. Trovarsi faccia a faccia con l'infinito222 è un'esperienza di crescita che permette ad ognuno di scorgere la divinità della propria origine, intravedere l'immortalità ed eternità del proprio destino223 e seguire perciò la via della sapienza. Così l'universo si rende responsabile del fascino che l'anima prova di fronte all'immensità dello stesso e dell'aspirazione ad elevarsi oltre la natura mortale; la natura quale maestra rivela all'anima la sua origine divina e le conferma la speranza dell'immortalità. Né ci può sfuggire di notare come, pur rimanendo fondamentalmente aderente alla concezione stoica, il pensiero di Seneca risenta in questo senso della tesi platonica: l'anima imprigionata nel corpo porta in sé una conoscenza innata suscettibile di risveglio alla vista delle cose sensibili in contrasto con quelle perfette ed immutabili, eterni modelli.224

Insomma le basi della concezione morale senecana si rifanno alla soluzione del problema dell'anima e sono anzi fondate sul concetto di un'origine divina di essa; analogamente, la medesima esigenza etica concerne anche il problema di Dio, dalla cui trattazione scaturiscono importanti conseguenze morali, come la sua missione educativa.

L'identità di Dio e Natura, la loro indissolubile unione, l'ammissione di un divino principio, immanente animatore dell'universo, sparso in tutte le sue parti e a cui si può dare, con molti altri, anche il nome di destino, inteso come concatenazione delle cause, poiché è Dio la causa di tutte le altre, sono principi stoici esplicitamente riconosciuti. Frequentemente, inoltre, Seneca afferma che si possono attribuire vari nomi a Dio purché implichino l'idea di una potenza regolatrice nella vita dell'universo.225 Egli è sempre causa prima anche se non diretta di ogni avvenimento. Questo principio divino non è costretto, nella sua azione regolatrice della vita dell'universo, da nessuna legge esteriore, ma dalla sua stessa eterna volontà: è la divinità medesima che ha stabilito un ordine immutabile di leggi alle quali necessariamente si sottopone. Talvolta questo principio, questo Dio è chiamato parens. Sotto questo nome egli emerge come provvidente, benefico, amante dell'uomo e premuroso nei suoi confronti; né deve stupire che un tale Dio premuroso scaturisca dalla trattazione del problema del male, di cui Seneca, uomo del primo secolo dopo Cristo, sente tutta la tragica potenza sull'uomo. Nel De providentia la presenza di un principio divino è fermamente difesa, ma in più essa è qui messa in rapporto all'uomo e da tale impostazione la legge regolatrice emerge come emanante dalla sollecita cura di un educatore paterno benché severo.226 In questa prospettiva Seneca trova modo di inquadrare il male non quale forza cieca travolgente ed ingiusta, ma quale mezzo educativo di rafforzamento morale nelle mani della divinità. Tale divinità, come abbiamo già visto, è distinta dall'uomo in quanto perfetta e buona per natura, mentre l'uomo deve faticosamente diventarlo, anzi egli deve superare «volontariamente» una parte di sé per perfezionarsi;227 la divinità fornisce all'uomo in maniera provvidente e sollecita i mezzi adatti al raggiungimento del bene col continuo allenamento che gli impone. Quindi il male viene trasformato in un elemento dal valore provvidenziale, una prova dolorosa che Dio impone (questo rimanda alla funzione coercitiva, già individuata nel precedente paragrafo, del maestro come coactor) con sollecitudine rigorosa affinché l'uomo possa esercitarsi nel bene. Tale soluzione al problema del male si presta anche a spiegare perché esso tocchi proprio ai buoni, coloro che in apparenza non se lo meritano: infatti, dalla prospettiva di una Natura magistra, la provvidenza non può passare per ingiusta poiché essa seleziona attentamente i propri allievi, sceglie i più bravi e i più meritevoli. La funzione educativa del divino trova conferma in due immagini: Seneca afferma che Dio impone le prove più dure ai virtuosi già avviati sulla via del perfezionamento morale proprio come il capitano affida ai più valorosi le imprese più dure e proprio come il maestro assegna all'allievo più bravo il compito più difficile.228 Torna nella missione educativa della provvidenza l'operosità, tanto cara a Seneca, funzionale al raggiungimento della saggezza: per diventare forti occorre allenarsi ed essere messi alla prova, solo chi è stato provato può dirsi e farsi a sua volta esempio di forza.229 Torna anche nel De providentia la distinzione tra i beni veri e i beni dei quali sono circondati i cattivi, che in realtà sono solo false apparenze di bene. È compito della divinità insegnarci la differenza fra i due come è altro suo fondamentale compito allontanarci dai beni apparenti. Ci sono uomini che non giungeranno mai a tale risultato e questo scaturisce dalle tesi che Seneca deve aver sostenuto nel De superstitione: egli intendeva dimostrare come fossero immorali coloro i quali volevano attraverso riti e culti influire sugli dèi per riceverne beni materiali, che secondo la sua concezione invece appartengono alla categoria degli indifferenti, mentre la felicità dipende solo da noi per cui risulta ridicolo supplicare gli dèi per averla. La concezione di Dio che emerge dalle tesi del De superstitione ci porta a pensarlo come un'autorità nei confronti della quale ci si rapporta con l'obbedienza e tutt'al più con il dialogo, ma non con preghiera e «reclami». Tale autorità ci guida a scoprire i beni intelligibili, a scoprire l'immutabilità del destino. In questo modo la divinità si fa collaboratrice benefica con un importante ruolo nel progresso morale che ora scopriamo dipendere sì dalla volontà individuale, ma anche dal maestro-destino cui è necessario consentire al fine di lasciarsi rafforzare spiritualmente e moralmente.230 Cercando una soluzione al problema del male, Seneca lo interpreta come un fattore pedagogico nelle mani della divinità. Di qui noi possiamo parlare del logos quale principio di tutte le cose come di una ratio magistra, ma paradossalmente solo a condizione di allontanarci dal pneuma stoico (l'energia corporea che è difficile immaginare assuma il ruolo di educatore dell'umanità) per sconfinare in una concezione almeno parzialmente differente (dato che tale principio risulta vivificato con attributi che si addicono piuttosto ad un essere personale che ad una forza immanente dell'universo). Quando Seneca ne mette in rilievo il carattere di benefattore ed esalta l'affetto che lo muove lo chiama parens noster, bonorum amantissimus.231 Nel quarto libro del De beneficiis la generosa, disinteressata beneficenza attribuitagli rende la sua opera educativa non solo in quanto rafforzante (con allenamenti proporzionati alle capacità dell'allievo e alle difficoltà legate alla meta da raggiungere) la resistenza morale dell'uomo, ma anche perché egli stesso fornisce col suo benefico prodigarsi l'esempio di ciò che è la scienza del bene.232 L'uomo deve seguirlo se vuole conquistare la scienza vera del beneficio che può riassumersi in un «dare per dare»233: beneficare per il bene in sé e non per la gratitudine e meno ancora in vista del ricambio che potrebbe da quest'opera scaturire.234 Naturalmente il risultato che un tale educatore mira ad ottenere è quello di rendere il discepolo uguale a se stesso; infatti la Natura ci fornisce di quelle facoltà che, se sapremo servircene, ci renderanno pari agli dèi: la via da seguire è sicura e gioiosa e ce la insegna la Natura.235 Tuttavia si tenga presente che nella lettera 41 il modo di educare di Dio è denotato da reciprocità. Lo spirito di Dio di cui siamo infusi ci guida sulla via della moralità tuttavia è necessaria la mutualità: Seneca avverte Lucilio che «come noi lo trattiamo egli ci tratta».236 Inoltre, assicurarsi quale maestra la Natura, i cui insegnamenti sono semplici e chiari e garantiscono l'autosufficienza, significa anche non dover dipendere da nessun altro, non dover giurare in verba magistri;237 ciò significa anche non subire il contagio sociale, l'opinio del volgo, preservando così una libertà astratta dalla società.

L'efficacia educativa di una tale figura di maestro è provata dal saggio. Il forte valore esemplare della figura del saggio rappresenta la necessità di continuazione della missione educativa anche oltre la morte del sapiens, dato che dei grandi uomini non è meno utile la presenza del ricordo.238 La parte dello spirito divino infusa nel corpo umano è evidente più che in ogni altro nel saggio, in cui appunto raggiunge la massima perfezione, testimoniando agli occhi di tutti la propria origine divina. Grazie al compimento della perfezione, il saggio conserva l'opera educativa anche quando non è più presente tra di noi. Nel ricordo, infatti, l'unica forma di immortalità ammessa da Seneca, l'uomo sopravvive e sopravvive proprio grazie alle proprie opere; tali opere sono il frutto della sapienza dell'attore umano e dell'azione formativa del destino (l'esempio di saggio che più spesso si cita nel De provvidentia è Catone, il cui gesto estremo è prova di sapienza dinanzi a Dio e per i posteri). Il ricordo che si fa immortale segue immancabilmente la virtù, facendo sì che l'uomo si eterni grazie alla memoria delle azioni virtuose compiute; tali azioni rimangono esempio efficace per le generazioni avvenire attraverso le opere dell'ingegno e attraverso i gesti coraggiosi e valorosi.

Va evidenziato come, sebbene Seneca abbia in mente, circa il problema teologico, assieme la prospettiva della dottrina stoica (spiritus diffusus, pneuma) e di quella platonica (ratio incorporalis), la funzione istruttiva ed educativa della divinità poggi sua una concezione più platonica che stoica a causa degli attributi personali delle stessa. Tuttavia siamo lungi dal concludere che Seneca anticipasse in qualche modo la rivelazione cristiana, mentre certa è la sua indecisione. Da uomo del primo secolo e pensatore libero qual era, sebbene disposto e aperto alla ricerca, egli stesso definisce il Dio di cui parla, senza prendere ulteriormente posizione, come ignoto.239

5. Conclusione

Se i tempi non sono maturi per il confronto con un'autorità trascendente come il Dio cristiano, Seneca cerca il riferimento a una figura autorevole a partire dai maestri della propria giovinezza. Il maestro delineato da Seneca è qualcuno nei confronti del quale si prova venerazione, qualcuno che è quasi un dio e più di un re; la parola da lui usata deve essere in grado di penetrare il nostro animo non solo per restarvi, ma anche per operare una trasformazione in esso. Il maestro può svolgere la propria funzione tramite il ricordo, in quanto solo ciò che è situato nel passato è al sicuro e la rievocazione di tale passato è a sua volta istruttiva e terapeutica; l'autorità del maestro diviene, tramite la memoria coltivata di costui, un'autorità tutta interiore, per cui, se inizialmente si è obbedito ad una persona, ora si obbedisce alla propria coscienza. L'obiettivo che la frequentazione del maestro si propone è l'interiorizzazione dello stesso, e questo perché alla fine l'allievo possa finalmente licenziare il maestro, per così dire, «in carne e ossa». Il maestro inteso come persona concreta è una figura cui si deve certamente obbedienza, che può arrivare ad esercitare sul discepolo misure coercitive, ma lo scopo è liberarsene. Quello proposto da Seneca è un maestro che non ha alle spalle nessuna rivelazione né alcuna illuminazione da consegnarci, che può solo prenderci per mano lungo una via che decidiamo di percorrere insieme e che egli conosce un po' meglio di noi. Ora, si potrebbe obiettare che in qualche misura emerga un profilo di maestro, per così dire, debole, di cui troppo facilmente ci sbarazziamo, la cui autorità non è retta da alcuna rivelazione trascendente, ma solo da un maggiore bagaglio esperienziale. Tuttavia tale figura di maestro, se non si inserisce all'interno di un quadro sapienziale verticale e ascensionale, acquista comunque la sua importanza secondo una prospettiva orizzontale: il maestro vive e opera non per mandato divino che discende su di lui, ma per la comunità nei confronti della quale testimonia il bene a partire dal proprio stato di avanzamento morale.

Mi pare si possa concludere che la tematizzazione della figura del maestro in Seneca porti alla luce un significativo messaggio morale, che può essere così sintetizzato: da un lato vi è l'esigenza di divenire tutti discepoli per essere sempre predisposti a ricevere il bene, rappresentato dalla disponibilità al confronto con l'altro; dall'altro si palesa l'importanza di diventare tutti maestri tramite l'esempio e in virtù di un sentimento di amicizia rivolto verso la comunità, in perfetto accordo con la concezione stoica della sympatheia universale. La nostalgia del maestro diventa in definitiva stimolo a maturare la capacità di farsi maestri per se stessi e per gli altri uomini. In questo senso il messaggio senecano ha molto da dirci anche per l'oggi.

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Note

  1. Cfr. J. Rist, Stoic Philosophy, Cambridge 1969, p. 96, l'Autore descrive questo ruolo con l'espressione «the call to be wise», ovvero, «la chiamata alla saggezza» (trad. it. mia). Testo

  2. Cfr. SVF I frr. 280 e 43: Zenone è personaggio schivo, che sfugge alla folla e vuole selezionare i propri discepoli i quali dovevano dimostrare di saper filosofare prima di accedere ai suoi scritti. Cfr. SVF I frr. 4, 6, 7, 8, dove risulta essere frugale e aspro e in quanto tale si propone come paradeigma ai propri allievi. Cfr. SVF I fr. 19, Zenone sembra fosse estremamente esigente: un giovane eretriaco dimostra al padre di aver appreso da Zenone l'arte della sopportazione. Cfr. inoltre SVF I frr. 2 e 4: è molto critico anche nei confronti di allievi di successo come Aristone. Cfr. SVF I fr. 387 e 384: Aristone proseguirà questa severità pedagogica condannando la piacevolezza e la delicatezza nell'azione educativa quali corruttrici, secondo questo stoico è necessario motteggiare e sferzare. Anche Cleante è molto severo con i propri discepoli. Testo

  3. Cfr. SVF I fr. 20, costringe un elegante allievo di Rodi a rinunciare alle sue lezioni, costringendolo dapprima a sedere a terra, poi tra i mendicanti. Testo

  4. Cfr. M. Pohlenz, La Stoa cit., pp. 34-35. Testo

  5. Cfr. Ivi, p. 41 e n. 26. Testo

  6. M. Vegetti, L'etica degli antichi, Roma 1991, p. 272. Testo

  7. Cfr. M. Pohlenz, La Stoa cit., pp. 34-35 n. 17. Se si tiene come data di nascita il 331-330 risulta che avesse più o meno la stessa età di Zenone e che avesse iniziato a frequentare la scuola a cinquant'anni. Tuttavia Pohlenz non è convinto di questa data, Secondo lui l'anno di morte è da collocare tra il 233-232, mentre la durata della sua vita risulterebbe essere di ottant'anni, e certo è che, prima di arrivare allo scolarcato, sia appartenuto alla scuola per 19 anni. Questo ragionamento sposta la sua data di nascita al 313 e propone un'ipotesi secondo cui sarebbe comunque entrato nella scuola a trent'anni (che è già un'età alta per essere allievi). Testo

  8. Cfr. SVF I fr. 216: lo stolto risulta esattamente l'opposto del saggio. Testo

  9. Cfr. Ivi, I fr. 223. Testo

  10. Cfr. Ivi, I fr. 226. Testo

  11. Cfr. Ivi, III fr. 674. Testo

  12. Cfr. Ivi, III frr. 510, 513. Testo

  13. Cfr. Ivi, III frr. 539-541. Testo

  14. Ivi, III frr. 557, 560. Testo

  15. Ivi, I fr. 232. Testo

  16. Cfr. Sen. Ep. 6, 6. (trad. it. di G. Monti, p. 79): «E non ti faccio venire solo perché tu ne tragga profitto, ma perché tu possa essere di giovamento a me; ci daremo l'un l'altro un grandissimo aiuto.». Cfr. Ivi, 50, 9 (trad. it. G. Monti, p. 311): «C'è un vantaggio reciproco perché gli uomini mentre insegnano imparano.». Testo

  17. Cfr. F. Decleva-Caizzi -- M. S. Funghi, Un testo sul concetto stoico di progresso morale, in Aa. Vv. Aristoxenica, Menandrea, Fragmenta Philosophica, a cura di A. Brancacci, Firenze 1998, pp. 85-124, qui p. 106. Seneca addita in Catone l'Uticense e Socrate, figure storiche idealizzate, l'ideale stoico di saggezza e mantiene contemporaneamente l'attenzione sul progrediente. Testo

  18. Cfr. M. Pohlenz, La Stoa cit., p. 311: «Riguardo al singolo individuo gli Stoici, non fosse altro che per ragioni pedagogiche, ammisero che pur entro lo stato di ignoranza non rimane sempre lo stesso, ma può compiere un'evoluzione verso il meglio. Parlarono molto del progresso morale, la prokope, e già Zenone ne considerò attentamente i diversi stadi. Tale progresso addirittura può condurre fino al limite che separa lo stolto dal saggio. Anzi il confine è così sottile che può essere valicato senza che l'uomo stesso se ne accorga subito». Testo

  19. Cfr. Decleva-Caizzi -- M. S. Funghi, Un testo cit., p. 100, i quali ricordano il punto di vista di O. Luschnat, Das Problem des ethischen Fortschritts in der alten Stoa, «Philologus», 1958, pp. 178-214. Testo

  20. Cfr. Decleva-Caizzi -- M. S. Funghi, Un testo cit., p. 101. Testo

  21. M. Vegetti, L'etica cit., p. 289. Testo

  22. Cfr. SVF III fr. 510. Testo

  23. Cfr. Ivi, III fr. 527. Testo

  24. Cfr. Ivi, III fr. 536 (trad. it. R. Radice, p. 1255): «[gli Stoici] Sono dell'idea che non ci sia nulla in mezzo fra virtù e vizio, mentre i Peripatetici sostengono che fra vizio e virtù c'è il progresso. Come infatti, dicono quelli, di necessità il legno o è diritto o è storto, così un'azione o è giusta o è ingiusta, e non più <o meno> giusta o più <o meno> ingiusta: lo stesso vale per le altre virtù.». Testo

  25. Cfr. Ivi, III fr. 530. Testo

  26. Cfr. Ivi, III fr. 532. Testo

  27. Cfr. Sen. De ben. II 18, 4 ; Ep. 92, 29 ; 72, 6. Testo

  28. Sen. Ep. 94, 18 (trad. it. G. Monti, p. 753). Testo

  29. Ivi, 94, 20 (trad. it. G. Monti, p. 753). Testo

  30. Ivi, 75, 8. Testo

  31. Cfr. Ivi, 75, 9: Primi sunt qui sapientiam non dum habent sed iam in vicinia eius constiterunt. Cfr. Sen. Ep. 75, 13-14. La seconda categoria si costituisce di coloro che hanno deposto la maggior parte di malattie e inclinazioni ma non possiede la securitas, ossia il possesso di quella tranquillità che permette di non ricadere nel vizio; la terza, infine, si è decisamente liberata di gravi vizi e passioni, ma è tuttavia soggetta a ira e paura del dolore. Testo

  32. Cfr. SVF III fr. 532, dove Cicerone testimonia che per gli Stoici anche chi progredisce resta tuttavia nel vizio ed è quindi in netto contrasto col saggio, tuttavia egli usa anche le seguenti parole che sottolineano la distanza che occorre percorrere: eosque qui natura doctrinaque longe ad virtutem processissent. Testo

  33. Cfr. Sen. Ep. 76, 3: tamdiu descendum est quemadmodum vivas quamdiu vivas. Testo

  34. Ivi, 53, 4 (trad. it. G. Monti, p. 327). Testo

  35. Ivi, 70, 2. Testo

  36. Si pensi anche al De tranquillitate animi, impregnato di metafore marinare, tutto incentrato sulla possibilità di raggiungere il porto sicuro, il porto della tranquillità. Testo

  37. Cfr. Sen. Ep. 76, 5 (trad. it. G. Monti, p. 513): «Affrettati poiché ti sei accinto ora a uno studio così impegnativo che, per condurlo a termine, non sempre basta vivere fino alla vecchiaia.». Testo

  38. Cfr. Ivi, 4,1: Persevera ut coepisti et quantum potes prospera, quo diutius frui emendato animo et composito possis. Frueris quidem etiam dum emendas, etiamdum componis. Testo

  39. Cfr. Ivi, 75, 14. Testo

  40. Cfr. F. Martinazzoli, Seneca: studio della morale ellenica nell'esperienza romana, Firenze 1945, p. 226: «Il destino morale dell'uomo dipende dal suo tonos. Sotto questo aspetto l'opera intera di Seneca è un appello alla forza del «tono» morale dell'individuo.». Testo

  41. Cfr. Sen. Ep. 20,1: verba rebus proba. Testo

  42. Ivi, 75, 10 (trad. it. G. Monti, p. 507). Testo

  43. Ivi, 11 (trad. it. G. Monti, p. 507). Testo

  44. Ivi, 52,1 (trad. it. G. Monti, p. 317). Testo

  45. Ivi, 52, 2 (trad. it. G. Monti, p. 317-319). Testo

  46. Cfr. Ivi, 75, 10 (trad. it. G. Monti, p. 507): «Non sanno di sapere.». Testo

  47. Ivi, 25, 6 (trad. it. G. Monti, p. 199). Testo

  48. Cfr. SVF I fr. 180, e SVF. I fr. 188. (trad. it. di R. Radice, pp. 89-91): «Zenone in verità non era affatto il tipo -- come invece era Teofrasto -- da tagliare i nervi della virtù, ma, al contrario nella sola virtù riponeva tutto ciò che riguardava la vita felice, e nulla annoverava fra i beni che non meritasse il nome di moralmente coerente: è semplicemente questo il solo e unico bene». Testo

  49. Cfr. Ivi, III fr. 70. Testo

  50. Cfr. Ivi, I fr. 216; cfr. Ivi, III fr. 557 (trad. it. R. Radice, p. 1265): »Dicono che tutto quello che fa il saggio è conforme a tutte le virtù: e in effetti ogni sua azione è perfetta e quindi non può mancare di alcuna virtù.». Cfr. inoltre Ivi, III fr. 643 (trad. it. R. Radice, p. 1295): «Il saggio è assolutamente infallibile e quindi fa ogni cosa secondo virtù e, grazie ad essa, secondo la retta ragione.». Cfr. anche Ivi, III fr. 589 (trad. it. R. Radice, p. 1277): «In generale, tutti i beni toccano ai saggi e tutti i mali agli stolti [...] il saggio ha abbastanza beni perché non gli manchi nulla per una vita piena e felice.». Testo

  51. Cfr. Ivi, III fr. 32 (trad. it. R. Radice, p. 1397): «Fino ad oggi no si è riuscito a trovare un saggio come loro dicono.». Cfr. anche Ivi, III fr. 668 (trad. it. R. Radice, p. 1303) «Tutt'al più i saggi sono uno o due [...] Tanto per cominciare di te stesso tu affermi di non essere saggio.». Testo

  52. Ivi, II fr. 88 (trad. it. R. Radice, p. 335). Testo

  53. Ivi, II fr. 83 (trad. it. R. Radice, p. 333). Testo

  54. Ivi, III fr. 72 (trad. it. R. Radice, p. 1003). Testo

  55. Sen. Ep. 120, 1. Testo

  56. Ivi, 120, 4-5 (trad. it. G. Monti, p. 1019). Testo

  57. Cfr. Ivi, 120, 8-9 (trad. it. G. Monti, pp. 1021-1023): «Aggiungerò una considerazione che potrebbe stupirti: talora il vizio si presenta sotto l'aspetto della virtù; e lo splendore della perfezione morale risulta dal suo contrario. Ci sono, infatti, come sai dei vizi che confinano con la virtù e anche atti scellerati e immorali hanno un'esteriore somiglianza col bene. L'uomo prodigo non è che una contraffazione del generoso, essendoci una gran differenza fra chi largisce generosamente e chi non è capace di conservare. A molti, o Lucilio, piace dilapidare le proprie sostanze, più donarle; ed io non chiamerei generoso chi ha in odio il suo denaro. L'uomo indifferente può sembrare uno spirito comprensivo, così come il temerario può sembrare coraggioso. Queste somiglianze ci obbligano a stare attenti e a distinguere azioni apparentemente analoghe ma in realtà del tutto opposte. Osservando coloro che si sono segnalati per qualche notevole impresa, si nota chi agisce con grande generosità e coraggi, ma solo in certe circostanze; è coraggioso in guerra, ma codardo nella vita civile; è capace di sopportare la povertà, ma si avvilisce di fronte al discredito. Si può lodare un'azione disprezzando l'uomo.». Testo

  58. Ivi, 120, 10 (trad. it. G. Monti, p. 1023). Testo

  59. Cfr. Ivi, 120, 11: Intelleximus in illo perfectam esse virtutem. Testo

  60. Ibidem, (trad. it. G. Monti, p. 1023). Testo

  61. Ibidem. Testo

  62. Ivi, 120, 19-20 (trad. it. G. Monti, p. 1027). Testo

  63. Cfr. Ivi, 120, 19-22 (trad. it. G. Monti, p. 1029): «Così si manifesta anzitutto uno sciocco: sempre diverso nei suoi atteggiamenti e, quel che è peggio, sempre incoerente [...]. Fa' che altri ti possano lodare o almeno riconoscere.». Testo

  64. Cfr. Ivi, 120, 12, a riprova di questa coincidenza tra bonum e vita beata, la domanda che Seneca pone al successivo paragrafo: Quomodo ergo hoc ipsum nobis apparuit? Non è, infatti, del tutto esplicito se l'hoc ipsum si riferisca alla vita beata descritta sopra o se faccia riferimento alla nozione di bene ripresa di seguito nel testo, il che ci suggerisce una convergenza dei due concetti. Testo

  65. Cfr. Ivi, 124, 14 (trad. it. G. Monti, p. 1063): «Il bene dell'uno evidentemente quello di Dio, è un privilegio della sua stessa natura; il bene dell'altro, cioè dell'uomo, gli deriva dall'opera sua». Cfr. anche Ivi, 9-11: è importante citare anche la distinzione che Seneca fa delle varie creature che sono più capaci di bene quanto più sono razionali, il neonato non è capace di alcun bene perché la ragione in lui non è sviluppata, mentre il bene richiede razionalità, impegno, volontà attiva. Testo

  66. Cfr. Ivi, 75, 9. Cfr. inoltre M. Bellincioni, Educazione cit., p. 85. Commentando l'espressione scire se nesciunt, Bellincioni scrive: «lo scire fa allusione al carattere sostanzialmente conoscitivo della sapientia, e il nescire indica l'incapacità di tradurla in atto, il che equivale in definitiva a negarla anche come sapere, giacché, la sapientia è indissolubile dalla sua attuazione.». Cfr. anche Ivi, pp. 97-101; Bellincioni non si ferma a questo e, sempre nella stessa opera, che a quanto mi risulta resta insuperata circa il tema della sapienza in Seneca, evidenzia come la virtus si componga di contemplatio e actio; si tratta di una tensione dialettica che da un lato ci permette di pervenire al bene e dall'altro ci costringe ad attuarlo costantemente di modo da non vanificare il bene acquisito: »Il problema pedagogico viene ricondotto alla sua prima fonte, al dinamismo etico che scaturisce dalla necessità di conciliare i due momenti opposti della speclazione e dela pratica in cui consite la vita morale [...] La verità è impegnativa, esige adesione totale dall'uomo, si traduce per lui in persuasio ad totum pertinens vitam (95, 44), quindi nuovamente in un'azione ad essa adeguata. Quanto più l'uomo penetra nei segreti dell'universo, tanto più avanza verso il bene; e quanto più si sforza di attuarlo, tanto più a fondo procede nella conoscenza del tutto. Nella dialettica ascensionale che si attua in tal modo fra i due poli opposti della teoresi e della prassi l'uomo giunge quindi ad adeguarsi eticamente all'eterno moto che rappresenta per gli Stoici la struttura ontologica dell'universo.». Testo

  67. Cfr. Sen. Ep. 120, 12. In base ai precisi riferimenti circa le vicende biografiche come il servizio militare, l'assenza di lamentele nei confronti del destino e la resa dinanzi a questo, l'accettazione del destino come un impegno assegnato dall'alterità e la funzione di esempio morale sembrano rimandare al Socrate del Phaedo. Testo

  68. Cfr. Ivi, 104, 30. Che qualcuno come Catone (ma anche Socrate) possa essere colui che ha in mente Seneca in queste righe è più che probabile dal momento che di lui è scritto: nemo mutatum Catonem totiens mutata re publica vidit. Cfr. inoltre l'articolo di M. Isnardi Parente, Socrate e Catone in Seneca: il filosofo e il politico, in Aa. Vv. Seneca e il suo tempo: atti del Convegno internazionale di Roma-Cassino, 11-14 Novembre 1998, a cura di P. Parroni, Roma 2000, pp. 215-225, dove le figure di Catone e Socrate vengono a coincidere perché rappresentano il saggio che sa bene vivere e ben morire, sempre in armonia con se stesso poiché pratica la libertas che in Seneca è la filosofia stessa. Testo

  69. Sen. Ep. 120, 12 (trad. it. G. Monti, p. 1025). Testo

  70. Cfr. Ivi, 6, 7 (trad. it. G. Monti, p. 79): «Cleante non avrebbe espresso compiutamente il pensiero di Zenone se si fosse limitato ad udirne le lezioni; egli entrò nella vita del maestro, ne esaminò tutti gli aspetti più segreti, osservò se viveva in conformità della sua dottrina. Platone e Aristotele e tutta la schiera dei filosofi che avrebbero poi seguito vie diverse, trassero più vantaggio dall'esempio di vita che dalle parole di Socrate. Non la scuola di Epicuro ma la convivenza con lui, rese grandi uomini Metrodoro, Ermarco e Polieno.». Testo

  71. Cfr. G. Scarpat, La lettera 65 di Seneca, Brescia 1970², p. 255; P. Donini, Le scuole, l'anima, l'impero: la filosofia antica da Antioco a Plotino, Torino 1997³, pp. 190-196, per il problema del dualismo platonico in Seneca. Cfr. Sen. De ira III 26, 5, a noi interessa tenere a mente che in Seneca non è il corpo ad essere responsabile del male in quanto la sensibilità ci costringe a tendenze negative, anzi solo l'animus è colpevole di aver male giudicato e male scelto, infatti, si parla di malattia dell'anima quando non si è capaci di permanere costantemente in un atteggiamento benevolo. Così si esprime Seneca: totum inspice mentis tuae habitum ciò che si deve ispezionare è l'atteggiamento mentale. Cfr, inoltre Ivi, III 36, 1: omnes sensus producendi sunt ad firmitatem; natura patientes sunt, si animus illos desît corrompere, cioè è l'animo che desidera e ha la facoltà di corrompere i sensi che invece di loro natura sono resistenti. Cfr. anche M. Bellincioni, Educazione cit., pp. 37-38. Bellincioni poi prende in esame alcune espressioni che richiamano il dualismo anima-corpo, le esamina e conclude: «Forse, in questo modo immaginoso di esprimersi, riusciva spontaneo a Seneca avvalersi di formule e concetti resi ormai familiari dai vari filoni di pensiero platonici, pitagorici e orfici, ma ciò non toglie che il pensiero senecano sia un altro, e sia sempre aderente alla dottrina stoica [...] Ma con l'immagine del corpo -- e del corpo che deve essere vinto - Seneca richiama anche all'insopprimibile vocazione dell'uomo alla divinità e all'immortalità.». Testo

  72. Cfr. Sen. Ep. 120, 15-19 (trad. it. G. Monti, p. 1025 - 1027): «La prova più sicura, caro Lucilio, dell'origine celeste dell'anima, sta nel fatto che essa sente di aggirarsi in un luogo basso e angusto e non ha timore di abbandonarlo.[...] Ora abbiamo dolori alla testa, ora allo stomaco, ora al petto e alla gola; talvolta abbiamo i nervi malati, talaltra i piedi; ora ci tormenta la dissenteria, ora il catarro; ora soffriamo di sovrabbondanza di sangue, ora di anemia. Come suole avvenire a chi non abita in casa propria, siamo sbattuti e cacciati ora da una parte ora dall'altra. Eppure noi che abbiamo avuto in sorte un corpo così fragile, vogliamo valicare, con i nostri progetti e le nostre speranze, i limiti estremi della vita umana [...] Perciò un'anima grande conscia della sua natura celeste, s'impegna, nel posto che le è stato assegnato, a una condotta onesta e operosa.». Testo

  73. Cfr. Ivi, 58, 27: Quomodo ideae platonicae meliorem me facere possunt? Testo

  74. Cfr. Ivi, 120, 17 (trad. it. G. Monti, p. 1025): «Eppure, noi che abbiamo avuto in sorte un corpo così fragile, vogliamo valicare, con i nostri progetti e le nostre speranze, i limiti della vita umana, né mai ci bastano ricchezze e potenza.». Testo

  75. Cfr. B. Inwood, Reading Seneca: stoic philosophy at Rome, Oxford 2005, p. 295: «his primary use [of idealized Socrates] in our moral epistemology [...] as a foil in the analitical process of concept formation». Dove per foil si intende una diapositiva, quale contrassegno, che ha lo scopo di mettere in rilievo, per contrasto, determinate caratteristiche. Testo

  76. Cfr. Sen. Ep. 124, 2-4 (trad. it. G. Monti, p. 1059). Quest'idea torna ad essere ribadita nella lettera 124 dove Seneca polemizza con gli Epicurei ed evidenzia come, se la nostra conoscenza del bene provenisse esclusivamente dai sensi ci fermeremmo tutti alle soglie del piacere: «Tutti coloro che pongono al vertice il piacere stimano il bene un oggetto sensibile. Noi invece che lo attribuiamo all'anima lo giudichiamo un oggetto intelligibile. Se i sensi fossero giudici del bene, noi non rifiuteremmo alcun piacere, poiché non ce n'è alcuno che non abbia le sue attrattive e che non provochi diletto [...] Ad essi, infatti, avete dato la facoltà di giudicare ciò che è da ricercare e ciò che è da evitare. Ma è evidente che a questa distinzione deve presiedere la ragione.». Testo

  77. Cfr. Ivi, 22, 11. Testo

  78. Cfr. Ivi, 97, 10. Cfr. G. Allegri, Progresso verso la virtus, Cesena 2004, p. 58. Catone al plurale indica un tipo o una categoria e non una persona determinata. Testo

  79. Sen. Ep. 25, 6 (trad. it. G. Monti, p. 199). Cfr. inoltre Ivi, 70, 22: Catones Scipionesque. Cfr. G. Scarpat, Anticipare la morte cit., p. 31: «Nella lettera 70 i tradizionali eroi romani sono ridotti a simbolo, appena citati con il plurale». Testo

  80. Si ricordino Attalo e Sozione che, seppur per ragioni diverse, si astenevano dalla carne, praticando quindi ciò che insegnavano; la retorica di Fabiano corrispondeva alla sua tranquillità interiore. L'esempio di Sestio, la sua morale e la sua parallela presa di posizione di fronte al principato; e, negli ultimi anni, l'ammirato Demetrio, che predicava la povertà e vestiva una tunica di tessuto grezzo e dormiva sulla semplice paglia. Testo

  81. Cfr. Sen. Ep. 90, 5. Testo

  82. Ivi, 90, 4 (trad. it. G. Monti, p. 687). Testo

  83. Cfr. P. Donini, Le scuole cit., pp. 194-195: «Quasi ogni libro delle QN vede a un certo punto rompersi il filo dell'esposizione scientifica per l'irruzione improvvisa dello spettacolo del disordine umano, quasi che la costanza della razionalità operante nella natura, il tema proprio del trattato, evochi per l'urgenza stessa del contrasto il ricordo di un'umanità presente da sempre nel mondo solo come agente perturbatore e violatore dell'ordine divino e naturale.». Testo

  84. Sen. Ep. 104, 23 (trad. it. G. Monti, p. 885). Testo

  85. Ivi, 110, 9 (trad. it. G. Monti, p. 935). Testo

  86. Cfr. Ivi, 90, 11 (trad. it. G. Monti, p. 691) e passim l'intera Lettera: «Non sono d'accordo con Posidonio neppure quando dice che gli strumenti di lavoro furono inventati dai saggi [...]Tutte queste furono invenzioni non di uomini saggi ma di uomini sagaci». Cfr. inoltre P. Donini, Le scuole cit., p.194. Anche secondo Donini non v'è spazio per il progresso tecnico tra gli interessi di Seneca, secondo il Filosofo le scoperte tecniche non possono influire in alcun modo sulle condizioni morali dell'umanità. Testo

  87. Sen. Ep. 97, 10 (trad. it. G. Monti, p. 819). Testo

  88. Cfr. Ivi, 97, 1: Erras, mi Lucilii, si existimas nostri saeculi esse vitium luxuriam et neglegentiam boni moris et alia quae obiecit suis quisque temporibus: hominum sunt ista, non temporum. Nulla aeta vacavit a culpa. Testo

  89. Cfr. Sen. De ben. I 10, 3: Idem semper de nobis pronuntiare debemus, malos esse nos, malos fuisse, invitus adiciam, et futuros esse. Testo

  90. Cfr. Sen. Ep. 94, 52: Nonne apparet opus esse nobis aliquo advocato qui contra populi praecepta praecipiat? Testo

  91. Cfr. Ivi, 94, 53-54. Una vita sbagliata comincia con i genitori che sin dall'infanzia insieme alle cure ci somministrano la falsa opinio, un sistema di valori che induce a falsi timori e desideri: nocent qui optant, nocent qui execrantur, Nam et horum imprecatio falsos nobis metus inserit et illorum amor male docet bene optando [...]non licet, inquam, ire recta via; trabunt in pravum parentes, trabunt servi. Cfr. inoltre, Ivi, 115, 11: admirationem nobis parentem auri argentique fecerunt. Cfr. Ivi, 60, 1, sempre tra le mura domestiche, responsabili del contagio sono anche il paedagogus e la nutrix. Testo

  92. Cfr. Sen. De ben. I 10, 1. At ista eodem stant loco stabuntque paulum dumtaxat ultra aut citra mota, ut fluctus, quos aestratus accedens longius extulit, recedens interiore litorum vestigio tenuit. Testo

  93. Cfr. Sen. Ep. 97, 10 (trad. it. G. Monti, p. 819): «Noi siamo facilmente inclini al male, perché non ci manca chi ci faccia da guida o da compagno; del resto, le cattive tendenze si manifestano anche senza compagnia. Non solo si tende con facilità, ma anche con precipitazione.». Testo

  94. Ivi, 50, 8 (trad. it. G. Monti, p. 311). Testo

  95. Cfr. n. 71. Testo

  96. Sen. Ep. 90, 27 (trad. it. G. Monti, p. 701). Testo

  97. Cfr. Ivi, 50, 6 (trad. it. G. Monti, p. 309): «Ma io non dispero neppure se uno è incallito nel vizio: niente è inespugnabile per chi agisce con costanza e con cura attenta e diligente.». Testo

  98. Cfr. Ivi, 50, 4 (trad. it. G. Monti, p. 309): «Perché vogliamo ingannarci? il nostro male non viene da fuori; è dentro di noi.». Testo

  99. Cfr. Sen. Nat. Quaest. VII 25. A ben guardare esiste un progresso delle conoscenze teoriche e Seneca vi dedica tutto il capitolo 25 del settimo libro delle Questioni Naturali, dove dopo aver parlato delle comete specifica come in futuro gli uomini potranno burlarsi di tutto ciò che ai suoi tempi era ignorato. E' questo l'unico caso in cui si da un avanzamento super-individuale: infatti, anche se tutti si dedicassero allo studio non sarebbe sufficiente questa una vita per acquisire la verità in tutta la sua intramontabile complessità. Cfr. inoltre Sen. De ben. VII 25, 4. Mostrandosi consapevole del fatto che la ricerca della verità è un'operazione che si estende lungo tutta la storia dell'umanità egli conferma l'idea che l'esistenza individuale si trova in una posizione tale per cui il suo compito precipuo è quello di restare bilanciata tra due opposte inclinazioni. Cfr. anche Sen. Ep. 90, 34. Infatti, sebbene esista la possibilità che la sapientia, intesa come primum verum naturamque, si protenda di generazione in generazione aumentando, tuttavia essa, quale realizzazione della virtus, è il frutto dell'impegno di ogni singolo individuo che deve volere prima e realizzare poi il bene in quel frangente storico in cui agisce. E mentre le formule matematiche si tramandano sempre uguali e si accumulano, la moralità è qualcosa che ogni generazione deve affrontare sempre da capo. Testo

  100. Cfr. Sen. Ep. 50, 5: At mehercules, ( si) turpe est magistrum huis rei quaerere, illud desperandum est, posse nobis casu tantum bonum influere. Testo

  101. Cfr. Ivi, 90, 28: Quae sint mala, quae videntur ostendit. Testo

  102. Cfr. Sen. De ira II 28, 2.Trad. it. di C. Ricci in Seneca, L'ira, a cura di C. Ricci, Milano 2009, p.131. Nel De ira Seneca spiega come non sia sufficiente per essere innocenti non aver infranto la legge, ci vuole ben maggiore operosità dell'animo: »Chi è colui che si dichiara innocente di fronte a tutte le leggi? E quand'anche lo fosse, è una ben gretta innocenza il non violare la legge. La norma dei doveri è molto più ampia di quella del codice! Quanti obblighi impone l'affetto, l'umanità, la generosità, la giustizia e la lealtà, obblighi tutti non contemplati dalle tavole della legge!». Cfr. anche Sen. Ep. 95, 51 (trad. it G. Monti, p. 801), dove l'angusta innocentia è ripresa: « Cosa insegniamo? Diremo che bisogna astenerci dal sangue umano? Quanto poca cosa è non fare il male a colui il quale si dovrebbe fare il bene! è un merito ben meschino per un uomo non infierire su un altro uomo!». Testo

  103. Cfr. Sen. Ep. 52, 4. Eorum qui cogi ad rectum conpellique possunt, quibus non duce tantum opus sit sed adiutore et, ut ita dicam, coactore. Testo

  104. Cfr. Ivi, 50, 5-6 (trad. it. G. Monti, p. 309): «Cominciamo ad emendare ed educare il nostro animo prima che il male metta radici, ma io non dispero neppure se uno è incallito nel vizio.». Testo

  105. Cfr. Ivi, 50, 9. Testo

  106. Cfr. Ivi, 94, 32: Inperitia invenendi quid quaeque res exigat. Testo

  107. Ivi, 94, 55 (trad. it. G. Monti, p. 769). Testo

  108. Cfr. Ivi, 94, 23 (trad. it. G. Monti, p. 755): «Anche quando sia stata fiaccata l'avarizia, sia stata repressa la lussuria, sia stato posto freno all'imprudenza, sia stata spronata l'ignavia, occorre ancora apprendere che cosa e come dobbiamo operare.». Testo

  109. Cfr. Ivi, 52, 3 (trad. it. G. Monti, p. 309): «I ciechi almeno chiedono una guida; noi, invece, erriamo senza guida, e diciamo: «Io non sono ambizioso, ma nessuno potrebbe vivere a Roma in modo diverso. Non son uno che spende troppo, è la città stessa che esige grandi spese».». Testo

  110. Ivi, 75, 9. Testo

  111. Ivi, 75, 9; cfr. ibidem (trad. it. G. Monti, p. 507): «Gli uomini che si sono spogliati di tutte le passioni e i vizi, e hanno appreso le conoscenze prescritte, ma la cui fede non ha trovato conferma nell'esperienza. Essi non hanno ancora la pratica del bene che è loro proprio.». Testo

  112. Vedi n. 101. Testo

  113. Cfr. Ivi, 94, 47: Pars virtutis disciplina constat, pars exercitatione; et discas oportet et quod didicisti agendo confrimes. Testo

  114. Cfr. Ivi, 20, 5: Nella costanza della volontà di bene consiste la sapientia: Quid est sapientia? Semper idem velle atque idem nolle. Testo

  115. Cfr. Ivi, 16, 1. Il robur è fondamentale: adsiduo studio robur addendum, donec bona mens sit quod bona voluntas est. Cfr. C. Marchesi, Seneca, Messina 1944, p. 381. «Nella dottrina di Seneca il problema morale è un problema di forza.». Testo

  116. Cfr. A. J. Voelke, L'idée de volonté dans le Stoïcisme, Paris 1973, p. 168.«Il ne saurait y avoir de vie philosophique, ou plus simplement de vie morale, sans un engagement initial de volonté fixant un but dernier à toutes nos actions [...] le souverain bien, que nous devons considérer lors de toutes nos actiones (Ep. 71, 2 : Quotiens, quid fugiendum sit aut quid petendum, voles scire, ad summum bonum, propositum totius vitae tuae, respice). En nous assignant cette fin, la volonté détermine d'emblée l'orientation de toute notre vie morale.». Testo

  117. Cfr. Sen. Ep. 38, 1 (trad. it. G. Monti, p. 253): «Ci sono dei casi in cui dobbiamo fare dei grandi discorsi, quando l'ascoltatore è esitante e ha bisogno di essere stimolato. Quando, invece, non si tratta di infondergli la volontà di istruirsi, ma solo di istruirlo.». Testo

  118. Cfr. Ivi, 94, 29. Anche la virtù si sviluppa sotto l'impulso di un incitamento. Testo

  119. Cfr. Ivi, 94, 29 (trad. it. G. Monti, p. 757): «Queste sentenze non hanno bisogno di chi ne fornisca la prova: toccano il sentimento e sono utili, perché in esse si manifesta la forza della natura. L'anima porta in sé i germi di tutte le virtù che, in seguito a un consiglio, si ridestano, come a un lieve soffio, da una scintilla si sviluppa il fuoco.». Testo

  120. Cfr. Ivi, 94, 47: Adeo etiam sine ratione ipsa veritas lucet. Sull'importanza pedagogica dei precetti in questo senso si veda anche M. Bellincioni, Educazione cit., pp. 90-92. Testo

  121. Sen. Ep. 94, 43. Testo

  122. Cfr. Ivi, 94, 42: Aequae praecepta bona, si saepe tecum sint, profutura quam bona exempla. Testo

  123. Cfr. Ivi, 6, 5. Testo

  124. Ivi, 52, 8 (trad. it. G. Monti, p. 321). Testo

  125. Cfr. Ibidem. Testo

  126. M. Bellincioni, Educazione cit., p. 95. Testo

  127. Cfr. Sen. Ep. 104, 2. Seneca invita Lucilio a tenere sempre dinanzi agli occhi buoni esempi: ad meliores transi: cum Catonibus vive, cum Laelio, cum Tuberone. Cfr. Ivi, 6, 5: breve [iter] et efficax per exempla. Cfr. inoltre G. Scarpat, Attendere la morte cit., pp. 30-38. A Nerone saranno suggeriti gli exemplum domesticum quando gli si ricorderà la condotta di Augusto; vi sono poi i sordida exempla che sono tanto più efficaci quanto sono offerti da eroi umili, più validi di quelli offerti da Catone, Scipione e Socrate che già sono portavoce di una forza morale considerevole. Che cosa, infatti, esemplificano essi? sono appunto modelli di costantibus exepmplis, cioè, esempi di fermezza che rimandano alla constantia sapientis. Testo

  128. Sen. Ep. 25, 6 (trad. it. G. Monti, p. 199). Testo

  129. Cfr. Ibidem. Testo

  130. Ivi, 66, 6 (trad. it. G. Monti, p. 407). Testo

  131. Ivi, 109, 15 (trad. it. G. Monti, p. 927). Testo

  132. Cfr. Sen De ira I 14, 3. Ciascuno di noi infatti, corre il pericolo di dichiararsi innocente dopo che si è guardato attorno e non ha trovato testimoni. Testo

  133. Cfr. Sen. Ep. 25, 6 : Podest sine dubio custodem sibi inposuisse et habere quem respicias, quem interesse cogitationibus tuis iudices. Testo

  134. Cfr. J. Campos, La educaciòn de la conciencia en Séneca, «Crisis», 46-48 (1965), pp. 243-252. Testo

  135. Sen. Ep. 25, 5 (trad. it. G. Monti, p. 199). Testo

  136. Cfr. Ivi, 34, 4 (trad. it. G. Monti, p. 241): «se ti comporterai in modo che tutte le tue azioni e le tue parole si trovino in reciproca armonia e siano dello stesso stampo. Non è retto l'animo dell'uomo i cui atti sono fra loro discordanti». Cfr. anche J. Campos, La educaciòn cit., p. 244. Testo

  137. Cfr. Sen. Ep. 73, 4 (trad. it. G. Monti, p. 481). Testo

  138. Cfr. Ivi, 90, 46 (trad. it. G. Monti, p. 709): «Possiede la virtù solo un animo educato e colto [...] e anche negli uomini migliori prima che vengano educati c'è materia per la virtù ma non la virtù.». Cfr. Ivi, 95, 4 (trad. it. G. Monti, p. 779): «E' inutile dare precetti se l'animo è imbevuto di false opinioni.». Cfr. Ivi, 90, 38 (trad. it. G. Monti, p. 797): »Bisogna render libero l'animo, perché possa seguire i nostri precetti.». Cfr. Ivi, 7, 6 (trad. it. G. Monti, p. 83): «Bisogna sottrarre alla folla le anime deboli e poco salde nel bene: è facile cedere ai gusti della maggioranza.». Cfr. Sen. De v. b. 5, 3. Trad. it. D. Agonigi in Seneca, Sulla felicità, a cura di A. Schiesaro e D. Agonigi, Milano 2010³, p. 45: «Dunque è beata la vita che si basa costantemente su un giudizio retto e fermo. E' allora, infatti, che la mente è pura, libera da ogni male, capace di sottrarsi alle ferite sia alle graffiature, decisa a restare dove si trova e a difendere la sua posizione anche contro le avversità e le persecuzioni della sorte.». Testo

  139. Cfr. Sen. De ira III 41, 1 (trad. it. C. Ricci, p. 243): «Dobbiamo soddisfare la nostra coscienza e non cercare di diventar famosi; ci accompagni pure una cattiva fama, purché ci siamo comportati bene». Cfr. Sen. De v. b. 20, 4: Nihil opinionis causa, omnia coscientiae faciam; populo spectante fieri credam quiquid me conscio faciam. Cfr. inoltre Sen De ben. IV 21, 5; VII 1, 7. Testo

  140. Cfr. Sen. De ira I 14, 3: Nemo, inquam, inuenietur qui se possit absoluere, et innocentem quisque se dicit respiciens testem, non coscientiam. Testo

  141. Sen. Ep. 43, 5. Testo

  142. Cfr. Ivi, 41, 1 (trad. it. G. Monti, p. 265): «Fai cosa ottima e per te salutare se, come scrivi, continui a procedere verso la saggezza che è stolto implorare con preghiere se puoi ottenerla da te. Non occorre sollevare le mani al cielo, né raccomandarsi al custode del tempio perché ci permetta di avvicinarci agli orecchi della statua, quasi che così sia possibile essere meglio ascoltati. Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. Sì, o Lucilio, in noi c'è uno spirito divino che osserva e controlla il male e il bene delle nostre azioni; e, come noi lo trattiamo, egli ci tratta. Non c'è nessuno che sia uomo retto senza l'assistenza di dio. Chi potrebbe sottrarsi al dominio della fortuna, senza il suo aiuto? E' lui che ci ispira le decisioni magnanime ed eroiche. ». Testo

  143. Cfr. Ivi, 28, 10: te ipse coargue, inquire in te; accusatoris primum partibus fungere, deinde iudicis, novissime deprecatoris; aliquando te offende. Testo

  144. Cfr. Ivi, 43, 4 (trad. it. G. Monti, p. 275): «Se quello che fai è onesto lo sappiano pure tutti; se disonesto, che importa che nessuno lo sappia, quando lo sai tu? Oh te infelice, se non ti curi della tua testimonianza.». Testo

  145. Cfr. Ivi, 88, 22 (trad. it. G. Monti, p. 571). Attalo gli insegnava che «una cattiva coscienza beve essa stessa la maggior parte del suo veleno». Cfr. anche Sen. De v. b. 18, 2 (trad. it. D. Agonigi, p. 75), dove Seneca ripete la lezione: «Il veleno che sputate addosso agli altri, e che però uccide voi». Testo

  146. Cfr. Sen. Ep. 28, 10: Quantum potes te ipse coargue, inquire in te. Cfr. Ivi, 97, 13-15 (trad. it. G. Monti, p. 821), Seneca accoglie di nuovo la lezione di Epicuro e ne riporta le parole «il malvagio può riuscire a nascondersi, ma non ha mai la certezza di restare nascosto» e questo perché «le azioni malvagie trovano la loro punizione in una coscienza oppressa e tormentata da continui rimorsi.». Cfr. Ivi, 122, 14: «La luce del giorno pesa a una cattiva coscienza.». Cfr. Sen. Nat. quaest. I 16, 3. Trad. it. di R. Mugellesi in Seneca, Questioni naturali, a cura di R. Mugellesi, Milano 2004, p. 139: infatti vi sono «azioni che, anche quando rimangono segrete, pesano sulla coscienza e che nessuno, neanche di fronte a se stesso, ammette di aver commesso.». Testo

  147. Cfr. Sen. De ira III 36, 1: Animus [...] cotidie ad rationem reddendum vocandus est. Faciebat hoc Sextius, ut consummato die, cum se ad nocturnam quietem recepisset, interrogaret animum suum : « Quod hodie malum tuum sanasti ? Cui vitio obstitisti ? Qua parte melior est?». Testo

  148. Cfr. Sen. Ep. 88, 9 (trad. it. G. Monti, p. 657). Nei passi che citerò di seguito Seneca usa la parola animus o mens, per descrivere come deve essere un animo educato maturo e avviato sulla strada della sapientia: «Fa in modo che il mio animo sia in armonia con se stesso e i miei propositi siano in perfetto accordo tra loro.». Cfr. Ivi, 89, 9 (trad. it. G. Monti, p. 679): «La filosofia forma l'animo[...] per evitare che l'errore si insinui al posto della verità.». Cfr. Sen. De v. b. 7, 4 (trad. it. D. Agonigi, p. 49): «La mente retta non cambia, non prova odio per se stessa, non modifica ciò che è già ottimo.». Cfr. anche Sen. De ben. V 25, 5; VI 30, 5. Testo

  149. Cfr. Sen. Ep. 6, 7 (trad. it. G. Monti, p. 79). Citando Ecatone ««Mi chiedi» egli scrive «quale è stato il mio progresso? Ho cominciato ad essere amico di me stesso.» Grande è stato il suo progresso: non rimarrà più solo. Sappi che tutti possono avere quest'amico.». Testo

  150. Cfr. Ivi, 52, 6 (trad. it. G. Monti, p. 319): «Alcuni spiriti sono facili e pronti; altri devono, per così dire, essere costruiti, e le loro fondamenta richiedono fatica. Perciò a mio avviso, è più fortunato chi non ha trovato ostacoli nella sua natura; ma è più meritevole chi ha superato le insufficienze della sua natura e si è fatto avanti, anzi si è sollevato a forza verso la saggezza.». Testo

  151. Cfr. Ivi, 6, 6 (trad. it. G. Monti, p. 79): «Ci daremo l'un l'altro un grandissimo aiuto.». Testo

  152. Cfr. Ivi, 34, 3 (trad. it. G. Monti, p. 241): «Cosa credi che possa provare chi ha educato una coscienza e, mentre ha cominciato a formarla ancora tenera, la vede a un tratto matura? Ti rivendico a me: sei opera mia [...] ormai ti esorto mentre tu sei in piena corsa e mi esorti a tua volta a correre.». Testo

  153. Ivi, 33, 8 (trad. it. G. Monti, p. 239). Testo

  154. Cfr. Sen. De v. b. 1, 2; Ep. 14, 8. Testo

  155. Cfr. s. v. peritus, in Vocabolario della lingua latina, a cura di L. Castiglioni-Scevola Mariotti, Milano 1994, pp. 825-826. Testo

  156. Sen. Ep. 14, 8. (trad. it. G. Monti p. 125). Testo

  157. Sen. De v. b. 1, 2. (trad. it. di D. Agonigi pp. 34-35). Testo

  158. Ivi, 1, 4 (trad. it. D. Agonigi, p. 35). Testo

  159. Cfr. Ivi, 2, 1. Cfr. inoltre Sen. Ep. 95, 23 (trad. it. G. Monti p. 789): «Nelle scuole dei retori e dei filosofi regna la solitudine.». Testo

  160. Cfr. Sen. Nat. quaest. IV A 1-14. I falsi maestri sono gli adulatori, sono coloro che nel consigliare non badano ad una norma e guardano invece al viso di chi li ascolta per indovinare il consiglio giusto mancando totalmente di sincerità. Testo

  161. Cfr. Sen. Ep. 108, 24. E' la nota denuncia di Seneca secondo cui la filosofia si è ai suoi tempi trasformata in filologia. Testo

  162. Cfr. Ivi, 108, 36 (trad. it. G. Monti, p. 921), si presti attenzione a questa associazione che vuole il maestro pari ad un pilota navigatore capace di affrontare la tempesta, evidentemente col suo bagaglio esperienziale di competenze: «Del resto non ci sono che io sappia peggiori nemici dell'umanità di coloro che vivono ben diversamente dalle regole di vita che prescrivono agli altri. La loro stessa persona si presenta come un esempio vivente dell'inutilità dei loro insegnamenti, poiché essi sono schiavi di tutti i vizi che dicono di condannare. No, un maestro di questo genere non potrebbe essermi più utile di un pilota che soffra di stomaco in piena tempesta.». Testo

  163. Cfr. Ivi, 95, 13. Testo

  164. Cfr. Ivi, 88, 7-14. Testo

  165. Ivi, 8, 4 (trad. it. G. Monti, p. 87). Testo

  166. Ivi, 73, 15 (trad. it. G. Monti, p. 485). Testo

  167. Sen. De otio 2, 2. Trad. it. di N. Lanzarone in Seneca, La vita ritirata, a cura di N. Lanzarone, Milano 2010, p. 133. Le Vestali sono sacerdotesse della dea Vesta, scelte dal pontefice massimo tra le fanciulle dell'aristocrazia dai sei ai dieci anni d'età. Il loro sacerdozio durava trent'anni: dieci come allieve, dieci come ministre, dieci come maestre. Come si vede, al momento dell'insegnamento esse, anche considerando che all'epoca l'età media della popolazione fosse sessant'anni, non erano anziane, ma avevano già concluso un preciso percorso formativo. Come è noto, il De otio si occupa della vita attiva e contemplativa, in questo passo in particolare Seneca afferma che possono dedicarsi alla contemplazione sia il giovane che l'adulto, parimenti sostiene necessaria, sulla scorta della dottrina stoica, anche l'azione; la tesi di fondo dell'opera è proprio quella secondo cui teoria e pratica, contemplazione e azione si complicano. La natura della sapienza e tale da essere al tempo stesso activa et contemplativa, chi si è volto a tali attività può trasmettere la sapienza; il peritus si è dedicato alla contemplazione prima di occuparsi della guida del prossimo. Testo

  168. Cfr. Sen. Ep. 8, 3-4 (trad. it. G. Monti, p. 87). Testo

  169. Ivi, 7, 8 (trad. it. G. Monti, p. 83). Cfr. inoltre Ivi, 6, 6; 34, 3. Testo

  170. Cfr. R. Frasca, Il profilo sociale e professionale del maestro di scuola e del maestro d'arte tra repubblica e alto impero, in Aa. Vv., Magister, Atti del Convegno di Chieti 13-14 novembre 1997, a cura di G. Firpo e G. Zecchini, Alessandria 1999, pp. 129-158, qui p. 132. Testo

  171. Cfr. Sen. Ep. 33, 10-11; 52, 7. Testo

  172. Ivi, 33, 1. Testo

  173. Ivi, 45, 4. Testo

  174. Cfr. Ivi, 45, 4: Non me cuiquam emancipavi, nullium nomen fero. Multum magnorum virorum iudicio credo, aliquid et meo vindico. Testo

  175. Sen. De v. b. 3, 2 (trad. it. D. Agonigi, p. 39). Testo

  176. Sen. Ep. 33, 7. Testo

  177. Sen. De otio 1, 5. Cfr. anche Sen. Ep. 37, 4; 33 passim. Testo

  178. Sen. De otio 1, 5 (trad. it. N. Lanzarone, p. 131). Testo

  179. Sen. Ep. 33, 10 (trad. it. G. Monti, p. 239). Testo

  180. Cfr. Ivi, 121, 24: Non poterant salva esse nisi vellent. Testo

  181. Ivi, 6, 6. Testo

  182. Cfr. Ivi, 95, 51 (trad. it. G. Monti p. 801): «Insegneremo a porgere la mano al naufrago.». Testo

  183. Cfr. Ivi, 95, 53 (trad. it. G. Monti p. 801): «Le mani debbono essere sempre pronte a beneficare.». Testo

  184. Come abbiamo affermato in precedenza, l'eliminazione dei vizi non esaurisce l'impegno educativo, tuttavia costituisce il tradizionale oggetto dell'educazione; morbi, affetti e passioni devono essere eliminati. Testo

  185. Cfr. Sen. De const. 13, 2. Trad. it. di N. Lanzarone in Seneca, La fermezza del saggio, a cura di N. Lanzarone, Milano 2010, p. 95: «Il saggio ha verso tutti gli uomini questa stessa disposizione del medico verso i suoi ammalati, di cui non sdegna né di testare le vergogne -- se hanno bisogno di cura -- né di esaminare gli escrementi solidi e liquidi, né di sopportare gli insulti dovuti alla loro furia di deliranti.». Testo

  186. Sen. Ep. 94, 50. Testo

  187. Ivi, 94, 51 (trad. it. G. Monti, p. 767). Testo

  188. Cfr. R. Frasca, Il profilo sociale e professionale del maestro di scuola cit., pp. 140-141. Testo

  189. Sen. Ep. 94, 51 Testo

  190. Ivi, 108, 3-4. Testo

  191. Cfr. R. Frasca, Il profilo sociale e professionale del maestro di scuola cit., p. 152. Testo

  192. Sen. Ep. 34, 3 (trad. it. G. Monti, p. 241). Testo

  193. Cfr. R. Frasca, Il profilo sociale e professionale del maestro di scuola cit., p. 152. Testo

  194. Cfr. Sen. Ep. 90 passim. Testo

  195. Cfr. Ivi, 58, 5. Testo

  196. M. Bellincioni, Educazione cit., p. 75. Testo

  197. Cfr. Sen. Ep. 25, 1 (trad. it. G. Monti p. 197): «Non se ci riuscirò , ma preferisco che manchi il successo, piuttosto che venga meno l'impegno verso l'amico.». Testo

  198. Sen. Ep. 95, 51-53. Testo

  199. Ibidem: Natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret; haec nobis amorem indidit mutuum et socaibiles fecit. Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocer quam laedi; ex illius imperio paratae sint iuvandis manus. Testo

  200. Cfr. Ivi, 45, 9. Qui hominem ea sola parte aestimat qua homo est, qui natura magistra utitur, ad illius leges componitur, sic vivit quomodo illa praescripsit. Testo

  201. Cfr. Ivi, 90, 34. Testo

  202. Cfr. Ivi, 70, 27: magistra rerum omnium ratio. Testo

  203. Cfr. Sen. De ben. IV 7, 1: quid enim aliud est natura quam deus et divina ratio toti mundo patribusque eius inserta? Testo

  204. Cfr. Sen. Ep. 90, 28: totius naturae notiam ac sui tradit. Testo

  205. Ibidem: quid sint di qualesque declarat, quid inferi, quid lares et genii, quid in secundam numinumformam animae perpetitae, ubi consistant, quid agant, quid possint, quid velint. Testo

  206. Cfr. Ivi, 90, 29: ad initia deinde rerum redit [...] tum de animo coepit inquirere [...] deinde a corporibus se ad incorporalia transtulit. Testo

  207. Cfr. Ivi, 16, 5: haec docebit ut deum sequaris, feras casum. Cfr. inoltre Ivi, 4; De v. b. 15, 5; De ben. IV 25, 1; VII 31, 2. Testo

  208. Cfr. Sen. Ep. 121 passim. Testo

  209. Sen. De otio V 1-3 (trad. it. mia). Testo

  210. Cfr. Sen. Nat. quaest. VI 4, 2. Testo

  211. Cfr. Sen. Ad H. 20, 1: sunt enim optimae, quoniam animus, omnis occupationes expers, operibus suis vacat et modo se levioribus studiis oblectat, modo ad considerandum suam universique naturam, veri avidus, insurgit. Cfr. Sen. Nat. quaest. VI 32, 1: Non enim alinde animo venit robur quam armonis artibus, quam a contemplatione naturae. Cfr. Sen. Ep. 117, 19: Omnia ista circa sapientiam non in ipsa sunt at nobis in ipsa commemorandum est [...] de deorum natura quaeramus, de siderum alimento [...] ista iam a formatione morum recesserunt, sed levant animum et ad ipsarum, quas tractant rerum magnitudine adtollunt. Testo

  212. Cfr. Ivi, 89, 4-6 : Sapientia perfectum bonum est et adfecto: haec eo tendit, quo illa pervenit. Philosophia unde dicta sit, apparet ; ipso enimnomine fatetur quid amet [...] sapientia est nosse divina et humana (et eorum causas). Cfr. Ivi, 88, 33: Magna et spatiosa res est sapientia : vacuo illi loco opus est : de divinis humanisque discendum est. Testo

  213. Ivi, 73, 16 (trad. it. G. Monti, p. 485-487). Testo

  214. Ivi, 90, 46 (trad. it. G. Monti, p. 709). Testo

  215. Cfr. M. Montinari, La metafisica nel pensiero di Seneca, Napoli 1937, p. 23. Testo

  216. Sen. Ep. 66, 12. Cfr. inoltre Ivi, 120, 14: ex quo pars et in hoc pectus mortale defluxit [...] ex mente dei. Cfr. Ivi, 31, 11: Quid aliud voces hunc (animum) quam deum in corpore humano hospitantem? Testo

  217. Cfr. Ivi, 57, 8-9: Nunc me putas de Stoicis dicere, qui existimat animam hominis magno pondere ertriti permanere non posse et statim spargi, quia non fuerit illi exitus liber? [...] quamadmodum flamma non potest opprimi [...] sic animus, qui ex tnuisssime constat, deprehendi non potest nec intra corpus affligi. Testo

  218. Cfr. Sen. Ad M. 23, 1-2: Leviores ad originem suam revolant [...] exire atque erumpere gestiunt. Testo

  219. Cfr. Sen. Ep. 102, 23: Cum venrit dies ille, qui mixstum hoc divini humanique secernat. Testo

  220. Cfr. Ivi, 65, 23-24. Testo

  221. Cfr. Sen. Ad H. VI 7: Non est ex terreno et gravi conreta corpore, ex ilo celesti spiritu descendit. Testo

  222. Cfr. Sen. De ben. IV 23, 2-3. In questo passo Seneca descrive la bellezza dei fenomeni naturali che sono tali indipendentemente dai vantaggi che l'uomo ne ricava; infatti tali vantaggi scompaiono dalla vista dell'uomo che si lascia rapire e affascinare dallo spettacolo che la natura gli offre, come la volta celeste il cui incanto misterioso è qui riportato. Testo

  223. Cfr. Sen. Ad H. VIII 6: Proinde dum oculoi mei ab illo spectaculo cuius insatiabiles sunt non abducantur dum liceat [...] spectatore tot per noctem stellas micantes et arias immobiles [...] dum cum his sim et caelestibus [...] immiscear dum animum ad cognatarum rerum consectum tendentem in sublimi semper habeam. Testo

  224. Cfr. Sen. Ep. 120, 14-16: Quod (pectus mortale) numquam magis divinum est, quam ubi mortalitaem suam cogitat at scit in hoc natyum hominem, ut vita defungeretur, nec domum esse hoc corpus, sed hospitum, et quidem breve hospitium, quod reliquendum est, ubi te gravam esse hospiti videas. Maximum [...] argumentum est animi ab altiore sede venientis, si haec, in quibus versatur, humilia judicat et angusta, si exire non metuit. Scit enim quo exiturus sit, qui unde venerit, meminit [...]. Hoc evenire solet in alieno habitantibus. Testo

  225. Cfr. Sen. De ben. IV 8, 3: Nunc natura voca, fatum, fortunam: omina eiusdem dei nomina sunt varie utentis sua potestate. Testo

  226. Cfr. Sen. De prov. 1, 5-6: Inter bonos viros ac deos amicitia est, conciliante virtute [...] bonus tempore tantus a deo differit, discipulus eius aemulatorque et vera progenies, quam parens ille magnificus virtutum nonlenis exactor, sicut severi patres durius educat[...]bonum virum in deliciis non habent; experitur, indurat, sibi illum parat. Testo

  227. Cfr. Sen. Ep. 95, 36: Dii immortales nullam didicere virtutem cum omni editi et pars naturae eorum est bonos esse. Cfr. Ivi, 95, 39: quae causa est diis bene faciendi? natura. Cfr. Ivi, 90, 44: Non enim dat natura virtutem: ars est bonum fieri. Cfr. inoltre Ivi, 92, 27. Testo

  228. Cfr. Sen. De prov. 4, 5-11: Ipsis, inquam deus consulit, quos esse quam honestissimos cupit, quotiens illis materiam praebet aliquid animose fortiterque faciendi, ad quam rem opus est aliqua rerum difficultate : gubernatorem in tempestate, in acie militem intelleges [...] Hos itaque deus quos probat, quos amat, indurat, recognoscit, exercet [...] quaere desu optimum quemque aut mala valetudine aut luctu aut aliis incommodis afficit? Quia in castris quoque periculosa fortissimis imperantur : dux lectissimos mittit, qui nocturnis hostes aggrediantur insidiis aut explorent iter aut praesidium loco deiciant [...] Hanc itaque rationem dii sequuntur in bonis viris, quam in discipulis suis praeceptores, qui plus laboris ab iiis exigunt in quibus certior spes est. Testo

  229. Cfr. Ivi, 4, 1-3: Opus est enim ad notitiam sui experimento: quid quisque posset nisi tentando non didicit. Cfr. Ivi, 4, 16: Non est arbor solida nec fortis nisi in quam frequens ventus incursat: ipsa enim vexatione costringitur et radices certius figit ; fragiles sunt quae in aprica valle creverunt. Testo

  230. Cfr. M. Armisen-Marchetti, Sapientiae facies. Études sur les images de Seneque, Paris 1989, pp. 108-109: «Le maître est à la fois celui que enseigne et celui que témoigne une autorité bienveilante. Ainsi le magister (ou la magistra) est l'image: des Dieux (Prov. 4, 11; Ben. IV 6,6); de la sagesse (Ep. 90, 26); de la rasion (Ep. 70, 27) de la nature (Ep. 45, 9); du philosophe et directeur de conscience (Ep. 33, 8; 50, 5).». Testo

  231. Cfr. Sen. De ben. II 29, 4: Cogita, quanta nobis tribuerit parens noster. Cfr. Ivi, VII 31, 2: Dii omnium rerum optimi auctores, qui beneficia ignoranti dare, ingratis perseverant. Cfr. Sen. De prov. 2 7: Deus ille bonorum amantissimus, qui illos quam optimos esse atque excelentissimos vult. Testo

  232. Cfr. Sen De ben. III 15, 4: Quid dat beneficia, deos imitatur, qui repetit, feneratores. Cfr. inoltre Ivi, iv 4, 1-6; IV 25, 1; IV 26, 1. Testo

  233. Cfr. Ivi, I 2, 3: Ego illud dedit ut darem. Testo

  234. Cfr. Ivi, IV 3, 1. Testo

  235. Cfr. Sen. Ep. 31, 9. Testo

  236. Ivi, 41, 2 (trad. it. G. Monti, p. 263). Testo

  237. Sen. De v .b. 3, 12. Testo

  238. Cfr. Sen. Ep. 120, 30: Is quoque, qui animum tamdiu iudicat manere quamdiu retinetur corporis vinculo, solutum statim spargi, id agit ut etiam post mortem utilis esse possit [...] cogita quantum nobis exempla bona prosint: scies magnorum virorum non minus praesentiam esse utile quam memoriam. Testo

  239. Cfr. Ivi, 41, 2. Quis deus incertus est. Testo