di Andrea Grillo (28 febbraio 2013)
La riforma liturgica riletta nel giudizio di due grandi teologi: Joseph Ratzinger e Hans Urs von Balthasar. Alla fine degli anni '70 entrambi giudicano la riforma litrugica secondo logiche molto diverse, con accenti ora più tragici, ora più profetici. Ne deriva una interessante prospettiva per rileggere questioni antiche e nuove.
«Bisogna rendersi conto che una nuova pedagogia spirituale è nata col Concilio: è la sua grande novità; e noi non dobbiamo esitare a farci dapprima discepoli e poi sostenitori della scuola di preghiera che sta per cominciare. Può darsi che le riforme tocchino abitudini care, e fors'anche rispettabili; può darsi che le riforme esigano qualche sforzo sulle prime non gradito; ma dobbiamo essere docili e avere fiducia: il piano religioso e spirituale, che ci è aperto davanti dalla nuova Costituzione liturgica, è stupendo, per profondità e autenticità di dottrina, per razionalità di logica cristiana, per purezza e per ricchezza di elementi cultuali ed artistici, per rispondenza all'indole e ai bisogni dell'uomo moderno».
--Paolo VI 1
La istituzione di una «giornata della memoria liturgica» oggi sarebbe cosa provocatoria, ma paradossalmente necessaria, per recuperare il senso della profondità storica e della vocazione ecclesiale, nella grande confusione che viene continuamente proposta e alimentata «in re liturgica» da settori limitati ma influenti della compagin ecclesiale. Un tale auspicio può certo scaturire dal disagio di chi opera oggi in campo pastorale, ma deve anche essere nutrito da una adeguata documentazione storica, che spesso, a causa della propria deficienza, approda ad analisi e a ricostruzioni del tutto campate per aria, che facilmente confondono la causa con l'effetto e spesso approdano -- non solo nelle improvvisazioni dei giornalisti, ma anche nelle affermazioni inavvertite di prelati e di presunti teologi -- alla colpevolizzazione del Concilio Vaticano II e della Riforma stessa per la crisi in cui versa la liturgia Proprio in nome di questa esigenza di recupero storico delle autentiche questioni ecclesiali e rituali sottese alla Riforma Liturgica e che toccano il corpo ecclesiale da almeno 150 anni, vorrei qui tentare una rilettura degli ultimi 50 anni mediante una ricomprensione della eredità storica di alcune comprensioni del processo di Riforma che fin dagli anni '70 si sono presentate nel corpo ecclesiale, con ricostruzioni più o meno congetturali, pertinenti o impertinenti, dei passaggi storici che tale Riforma ha comportato. Per il nostro tempo una tale ricostruzione è assolutamente urgente, onde evitare di leggere in modo troppo miope sia i recenti preoccupanti sviluppi sia le antiche insuperate ambizioni.
Può forse sorprendere che già alla fine degli anni '70 possiamo trovare negli scritti di J. Ratzinger e di H.-U. von Balthasar alcune delle idee che ritroviamo, 30 anni dopo, al centro del testo del Motu Proprio «Summorum Pontificum», con cui si pretenderebbe di «liberalizzare» la forma del rito romano precedente alla Riforma Liturgica voluta dal Concilio Vaticano II. Forse alcune delle «intenzioni segrete» di questo ultimo documento possono essere adeguatamente comprese considerando un «dialogo a distanza» tra due testi di Ratzinger e di Von Balthasar, che in qualche modo esplicitano meglio ragioni a favore e ragioni contrarie rispetto al testo della riforma. Proviamo ad esaminarli, per trarne utili indicazioni sul senso della Riforma liturgica, ieri e oggi. Procederemo in questo modo: dapprima esamineremo un testo «autobiografico» di J. Ratzinger (2), da cui desumeremo alcune conseguenze circa il modo con cui oggi è necessario «datare» il Movimento Liturgico (3); quindi considereremo la prospettiva di Von Balthasar (4) dalla quale trarremo indicazioni complessive sulle «sfide» che oggi stimolano e minacciano la coscienza ecclesiale circa la Riforma Liturgica (5), cui faremo seguire cinque tesi conclusive (5). che riassumono la visione complessiva -- e complessa -- verso cui il Concilio Vaticano II ha voluto condurci e che oggi occorre profondamente e strategicamente recuperare.
Il primo testo che voglio considerare è tratto dalla Autobiografia che l'attuale papa Benedetto XVI ha scritto nel 1977, a 15 anni dal Concilio Vaticano II. Si tratta, come è evidente, di un testo «non magisteriale», che quindi può essere commentato dal teologo con una certa libertà. Anzitutto leggiamo da esso questa lunga citazione, che manifesta nell'allora Arcivescovo di Monaco -- poi Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e infine Papa Benedetto XVI -- una comprensione «tragica» dell'impatto che la Riforma Liturgica ha avuto per la vita e la identità della Chiesa. Per chiarire il senso e la portata di questo testo, vi si parla di ciò che accade immediatamente dopo il Concilio (negli anni 65 e seguenti), ma la stesura è di più di 10 anni dopo. Ecco il testo2
«Il secondo grande evento all'inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un'altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, però, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C'è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il concilio di Trento, fu di altra natura: l'irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di «riforme» liturgiche.
Non c'erano semplicemente una Chiesa cattolica e una (114) Chiesa protestante poste l'una accanto all'altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire. In questa situazione di confusione, resa possibile dalla mancanza di una normativa liturgica unitaria e dal pluralismo liturgico ereditato dal medioevo, il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima. Dove questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro. Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati.
Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti.
Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse (115) in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia «fatta», che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di «donato», ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna «comunità» voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita. Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita «etsi Deus non daretur»: come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta. Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l'unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov'è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena. E, dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza, ma, in quanto unità, ha origine per la fede dal Signore stesso, diventa inevitabile in queste condizioni che si arrivi alla dissoluzione in partiti di ogni genere, alla contrapposizione partitica in una Chiesa che lacera se stessa. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano II».
Questo testo, con la sua sorprendente durezza, comporta alcuni «giudizi» talmente carichi di «pregiudizi» da risultare del tutto disorientanti per una valutazione pacata e serena dei fatti in gioco. Anche se oggi J. Ratzinger è Vescovo di Roma e Papa, siamo evidentemente liberi di giudicare con grande libertà e parresia un suo «scritto autobriografico», che non rappresenta un documento magisteriale, ma può utilmente farci comprendere alcune delle logiche del magistero liturgico dal 2007 ad oggi.
Anzitutto è singolare un primo aspetto: lo scandalo è suscitato in Ratzinger non dalla Riforma Liturgica, ma dalla «promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli». Curiosa espressione, legata a una ricostruzione storica del tutto ipotetica, congetturale e sorprendentemente ideologica. Mentre Pio V avrebbe semplicemente «rielaborato il messale in uso», il divieto di «quel messale» ha comportato «una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche». Ciò che qui viene affermato dipende da una ricostruzione assolutamente manichea della possibile continuità. Può esservi continuità soltanto se si continua a usare il messale tridentino. Mentre non si riesce a comprendere come dovrebbe essere concepita una «riforma» che non ricada in questa «tragica rottura». In realtà, la storia, se osservata con una sguardo meno pregiudicato dalla paura e dalla insicurezza, dice proprio un'altra cosa. Ossia che, come Pio V ha fatto nel 1570, e dopo di lui altri papi in modo meno sistematico, Paolo VI, sia pure con altri mezzi e con altre competenze a disposizione, ha fatto nel 1969. Il rito romano trova continuità mediante la riforma, non accanto e nonostante essa. L'immagine utilizzata («si fece a pezzi l'antico edificio e se ne costruì un altro») dice bene questo modo pregiudiziale e ingiusto di considerare la storia concreta della Riforma.
Si deve aggiungere, di conseguenza, che questa ricostruzione congetturale della storia degli ultimi 50 anni approda ad un giudizio che capovolge la causa e l'effetto: a causa della Riforma postconciliare si è entrati nella crisi della liturgia. Non si dice una sola parola sul fatto che la crisi della liturgia preesisteva da almeno un secolo rispetto al Concilio. Anzi si pretende -- qualche pagina prima -- di dimostrare che anche nel rito preconciliare la «partecipazione attiva» era una realtà pienamente in atto.
Di qui, da questo animo turbato per una rappresentazione drammatica e tragica della identità compromessa dalla Riforma Liturgica, scaturisce l'intento di una «riconciliazione liturgica» e di un «nuovo movimento liturgico» per ritrovare la continuità perduta. È evidente che, all'interno di una tale ipotetica ricostruzione, sarebbe possibile una riconciliazione e una continuità soltanto «ripristinando la vigenza del rito preconciliare». Ciò costitisce una chiara premessa a ciò che, 30 anni dopo, si è tentato di fare attraverso il Motu Proprio Summorum Pontificum. Ma il «sistema» che ne è sorto -- astrattamente -- genera soltanto confusione e incertezza, insicurezza e dubbio. Non riconcilia, ma esaspera le differenze e i conflitti, mette in luce i risentimenti e i pregiudizi. Crea, di fatto, identità parallele irreconciliate e tuttavia perciolosamente ufficializzate.
Dietro a tutto ciò, tuttavia, si profila un'ombra. Il testo non lascia intendere che cosa l'autore pensi della «necessità» della Riforma liturgica. Ed è anche evidente che il testo autobiografico, pur arrivando indirettamente alla medesima conseguenza del «Motu Proprio», è molto più esplicito e pesante nel giudizio negativo circa la Riforma Liturgica. La persuasione di un possibile «regime parallelo» tra rito vecchio e rito nuovo può essere sostenuta -- al di là delle questioni pratiche che ne derivano irrimediabilmente -- solo se si è convinti che la Riforma non sia stato un «atto necessario» successivo al Concilio Vaticano II. Nonostante le rassicurazione che il Motu Propri (e la lettera che lo accompagna) si affrettano a precisare, rimane molto chiaro la presa di distanza obiettiva che tale documento rappresenta circa la «necessità» della Riforma Liturgica. Su questo, io credo, dovrebbe essere puntata oggi l'attenzione. Se quando riformo un rito, lascio che il rito precedente continui tranquillamente la sua corsa, posso affermare di essere veramente convinto della necessità della Riforma? La «pedagogia rituale» può considerarsi riconosciuta? La questione, 35 anni dopo, resta aperta. E non è per nulla una questione semplicemente autobiografica.
L'auspicio verso un «nuovo Movimento Liturgico», con cui si chiude il brano che abbiamo considerato, manifesta una profonda difficoltà nella comprensione equilibrata della storia con cui il ML si è mosso nell'ultimo secolo. Soprattutto dimostra una coscienza molto limitata della «questione liturgica», come orizzonte problematico che ha dato vita al ML fin dal XIX secolo. E, come abbiamo visto, tende a far credere che la questione liturgica non sia la causa della Riforma Liturgica, ma un suo effetto! Per evitare queste conseguenze improvvide, occorre oggi proporre una riflessione più adeguata dello sviluppo storico del ML, che qui voglio brevemente abbozzare
Poiché negli ultimi tempi si sono moltiplicate le prese di posizione intorno al tema della Riforma Liturgica e del ruolo del la Tradizione rituale per la fede cristiana, è bene cercare di precisare, con tutta la serenità necessaria, e fuori da ogni spirito polemico, alcune grandi questioni di fondo, sulle quali è facile fare affermazioni che, a causa dello loro unilateralità, costituiscono poi la premessa di molte conseguenze inopportune o dannose addirittura.
La Riforma liturgica non è e non vuole essere una «rottura» della liturgia cristiana, ma vuole garantire la continuità con la grande tradizione originaria del pregare e del celebrare cristiano i fronte a una crisi che in Europa ha toccato la liturgia dalla fine del 1700. Non è il 1968 l'inizio della crisi, ma il 1790 o il 1833. Tuttavia, per sostenere questa tesi, occorre maturare uno sguardo molto equilibrato. Perché non bisogna cadere nella tentazione di contrapporre, drasticamente, continuità e discontinuità. La Riforma è la coscienza maturata nella Chiesa -- e che non si può improvvisare -- circa la necessità di favorire la continuità mediante una certa discontinuità. Poiché se è vero che la Riforma vuole realizzare una continuità più autentica e più efficace della Tradizione, è altrettanto vero che può realizzare questo obiettivo solo a costo di alcune decisive discontinuità. Bisogna infatti ricordare che una Riforma, se vuole essere tale, deve cambiare alcune cose importanti, dalle quali dipende il senso stesso della Tradizione. Una Riforma che non toccasse minimamente la prassi rituale della Chiesa, che non incidesse sui suoi riti, sulle sue priorità, sulla lingua o sulla relazione ecclesiale, sarebbe una Riforma falsa o la negazione stessa della Riforma. Se si decide di fare una Riforma, ma può anche non cambiare nulla, allora è evidente che si entra in una regione della incertezza che non si può più chiamare Riforma.
D'altra parte è giusto ricordare che la giusta ermeneutica del Concilio, richiamata anche da Benedetto XVI in un noto discorso alla Curia Romana nel 2005, non contrappone discontinuità a continuità, ma discontinuità a Riforma. Il che si potrebbe tradurre in questo modo: quando si tratta di fare i conti con la Tradizione in un passaggio critico, la discontinuità necessaria è quella della Riforma, non quella della rottura. Anche in questo caso la continuità, se la tradizione è in crisi, può mantennersi solo a costo di una certa discontinuità.
Su questa base è sorprendente notare come nella argomentazione spesso si voglia equiparare la «non rottura» necessaria a ogni vera Riforma con la considerazione secondo cui non c'è antitesi tra le due forme del rito romano, del 1962 e del 1970. In realtà dalla premessa che abbiamo pacificamente acquisito non discende affatto questa pretesa conseguenza. Se si fa una Riforma, ciò che viene cambiato non è più come prima. Ma questa discontinuità, che non si può negare senza negare l'idea stessa di Riforma, non può essere compatibile con la sopravvivenza di quella prassi che appunto si è voluto modificare. Qui siamo di fronte ad un problema che non è tanto liturgico o ecclesiale, ma logico. Provo ad affrontarlo partendo da più lontano. Nella lettera inviata ai vescovi nel 2007 in occasione del motu proprio, il Papa ha detto: «Non c'è nessuna contraddizione tra l'una e l'altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c'è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande».
Il papa ha ragione se ci chiede di restare ben piantati nella dinamica di una storia che si articola nello spazio e nel tempo: nella successione storica delle due forme non c'é nessuna contraddizione tra rito vecchio e rito nuovo. Ma appunto, solo nella successione temporale di due forme diverse! Se invece si pretende di far convivere nella stessa unità di spazio e tempo queste due forme, senza subordinarne una all'altra in modo netto e definito, si perde immediatamente l'orientamento e così anche il senso della tradizione. La Riforma liturgica è stata un atto necessario, un passaggio che la Chiesa ha avvertito e giudicato, al suo più alto livello, conciliarmente, come evento decisivo della propria identità, mentre la cosa grave è che oggi Universae Ecclesiae, e già prima Summorum Pontificum, la riducono a una opzione semplicemente possibile. Qui sta una differenza delicatissima, sottile come un capello, ma assolutamente decisiva. Se si riconosce la necessità storica della Riforma non si può affiancarle di nuovo quel rito che essa ha voluto e dovuto intenzionalmente superare. Questa non è «rottura», è vita, è sviluppo organico, è logica giuridica e vitale delle istituzioni. Quando si facesse questa concentrazione contemporanea di una successione storica, si altererebbe irrimediabilmente tutto il senso e l'impatto dell'atto di riforma. D'altra parte, bisogna dire che se oggi ci si preoccupa di evitare che la tradizione subisca «rotture», bisogna evitare anche di procurarne di peggiori: se la polemica sulle «ermeneutiche del concilio» è ricondotta alla sua vera intenzione, è facile vedere come non si tratta di contrapporre continuità e discontinuità, ma di contrapporre due diverse accezioni di discontinuità (ossia la Riforma e la discontinuità tout court!). Ogni Riforma introduce un certo grado di discontinuità per poter garantire un più profonda e autentica continuità.
Mi si permetta di fare un esempio, non liturgico, ma disciplinare, per rendere più chiaro il mio discorso. Pensiamo a che cosa fu la Riforma tridentina dell'episcopato, segnata dalla introduzione dell'obbligo di «residenza». È certo una grande discontinuità rispetto alle prassi dei secoli precedenti. Proprio questa discontinuità, difesa e promossa per decenni e per secoli, ha prodotto lentamente una diversa visione dell'episcopato, meno amministrativa e più pastorale, meno imperiale e più paterna, meno prefettizia e più liturgica. Che cosa sarebbe accaduto se con un Motu Proprio, un Papa della seconda metà del 600 avesse affermato che la «non residenzialità» non era mai stata abrogata e che quindi, a loro scelta, i vescovi avrebbero potuto risiedere o non risiedere nella loro Diocesi, a seconda dei loro affetti, attaccamenti o appartenenze? E'ovvio, si tratta solo di un esempio per mostrare la contraddittorietà -- anzitutto logica e strutturale -- di una contemporanea assunzione di prospettive tra loro compatibili nel divenire della storia, ma che risultano del tutto incompatibili se assunte contemporaneamente.
È vero, la storia non è un insieme di spaccature, ma non è neppure un accumulo di forme diverse: se nel divenire garantiscono la continuità, quando invece vengono assunte come contemporanee creano solo una crescente confusione e un grande pasticcio. La continuità della identità del rito romano oggi viene garantita dai riti della riforma liturgica, non dalla giustapposizione di questi con quelli che, a causa dei loro limiti, sono stati sostituiti dai nuovi. C'è una chiara visione dello sviluppo organico del rito romano solo se si procede secondo questo sviluppo storico, rispettandone la diacronia che è vita, non invece se lo si considera astrattamente sul piano di una astorica contemporaneità di forme tutte ugualmente disponibili. Se il modello è quello della crescita organica, nell'adulto c'è il bambino, ma la continuità è garantita non dalla compresenza di membra bambine e adulte, di linguaggio bambino e adulto, ma nell'assumere, da parte dell'adulto, la ricchezza della propria infanzia, lasciandone cadere i limiti, le fragilità e le inconseguenze.
Altro è il discorso a proposito di ciò che viene definito, anche ufficialmente, il disegno di «Riforma della Riforma» che questi ultimi documenti (Motu Proprio «Summorum Pontificum» e Istruzione «Universae Ecclesiae») vorrebbero cominciare a determinare. Mi pare che siano emerse, dalle recenti parole del Card. Koch, alcune affermazioni che meritano una attenzione critica. La condizione di parallelismo tra due forme dello stesso rito è riconosciuta del tutto innaturale per la Chiesa. Essa crea disagio, soprattutto perché i due riti non sono un parallelismo di lunga data e di ampia esperienza, ma sono il risultato di una Riforma molto recente, in cui il rito nuovo ha voluto, intenzionalmente, sostituire il precedente. È però soprprendente che il progetto di giungere ad un «nuovo rito comune», che superi il dualismo, dovrebbe scaturire da questa fase -- lunga e defatigante -- di grande e innegabile disorientamento, che anche il card. Koch riconosce ma che preferisce descrivere in modo idealizzato come «mutuo arricchimento». Vi è dunque, anche qui, una sorta di contraddizione: il dualismo di forme rituali crea imbarazzo, ma da questo imbarazzo progressivo dovrebbe scaturire quel chiarimento che permetterebbe, non si sa quando, una nuova unità. Strano ecumenismo intra-ecclesiale, che per chiarirsi le idee, sembra volerle conondere del tutto, sottraendo alla pastorale quelle evidenze e quelle direttrici sicure, che la grande stagione conciliare non cessa di suggerire.
Infine, una parola sulla Riforma liturgica come inizio o come fine. Mi sembra di dover concordare del tutto sul fatto che la Riforma Liturgica non è una fine, ma un inizio. Si può dire anche così: la riforma liturgica è necessaria -- non opzionale -- ma non è sufficiente, bensì deve compiersi in una formazione/iniziazione che i nuovi riti devono operare sul corpo della Chiesa. Riforma Liturgica non è più tanto la riforma che la chiesa fa dei propri riti, ma la riforma che i riti sanno fare della Chiesa. Per questo, però, non è necessario un «Nuovo movimento liturgico». È necessario continuare il Movimento liturgico che per molti decenni ha preparato il Concilio e la Riforma, che poi si è espresso nel preparare i testi della Riforma Liturgica con tutte le competenze necessarie, e che infine oggi, con un compito ancora più complesso e prezioso, deve ridare parola e azione ai riti stessi. Anche in questo trovo che ci debba essere un bella continuità, tra coloro che hanno preparato e coloro che oggi attuano la Riforma. Non è vero che ci sia in questo una rottura necessaria. Non è vero che molti di coloro che hanno fatto la Riforma oggi si siano pentiti. Io non ne conosco uno. Chi sono? Dove sono? Non è vero che si debba ricominciare daccapo a Riformare. È vero invece che la Riforma ha bisogno di una terza fase dell'unico Movimento Liturgico, che nello sviluppo organico di questo ultimo secolo, non senza difficoltà, ieri come oggi, cerchi di mantenere in comunicazione il passato con un presente aperto al futuro di Dio. In tutto questo restiamo convinti che occorra onorare la memoria di ciò che è avvenuto nella Chiesa cattolica in questi ultimi 50 anni. Ma possiamo farlo solo in quello Spirito che grazie al Concilio Vaticano II «abbiamo visto chiaramente passare tra noi (e chi ora lo nega, e c'era, purtroppo sa bene che cosa fa: la sua parlata lo tradisce)» (Pierangelo Sequeri).
D'altra parte, quando la profezia conciliare auspica che «Tutti i riti siano riveduti integralmente con prudenza nello spirito della sana tradizione e venga loro dato nuovo vigore» (SC 4), essa parla secondo logiche differenziate, umanamente e teologicamente illuminate. Invita a onorare la tradizione, anzitutto. Onore alla tradizione significa «revisione integrale e prudente», ossia rilettura completa e rispettosa delle logiche del rito. Prudenza non significa paura, né omissione, né paralisi. Non significa neppure rivedere ma fare come se non si fosse riveduto. Il Concilio non ci insegna la indifferenza, ma la cura per la tradizione, e lo fa mediante alcuni passaggi delicati, da rispettare nella loro logica intrinseca. Anzitutto si tratta di accettare un dato: non tutto il «traditum» è sano, e non tutto ciò che è sano è «traditum». In altri termini, vi sono aspetti della tradizione che non è salutare continuare a osservare, mentre ci sono esigenze di «buona salute» che la chiesa non trova, immediatamente, in ciò che ha ricevuto dalle generazioni precedenti. Ogni tradizionalismo dimentica questo limite interno al tradere, che ha sempre anche il senso del «tradire». Nella misura in cui la «tradizione» tradisce il depositum ha bisogno della lucidità con cui una generazione -- con prudenza -- predispone accuratamente una riforma. La Riforma è, da questo punto di vista, un prezioso atto di servizio alla tradizione, affinché essa sia capace ancora di «vigore», di vita, di comunicazione, di passione, di identificazione. Ma tale revisione e riforma non è altro che uno strumento al fine di rendere possibile un nuovo paradigma di partecipazione ai riti cristiani: l'azione rituale è linguaggio comune a tutta la Chiesa, non è specifico di una sua parte. Esso pretende una forma di partecipazione che comporti la competenza di tutti i battezzati al linguaggio rituale. Realizzare questa forma di partecipazione è promuovere comunione ecclesiale visibile.
Veniamo al testo successivo. Ben altri accenti ascoltiamo da un autore che pure non è stato tenero con il ML e che tuttavia non segue per nulla la logica di J. Ratzinger nel giudicare le questioni in gioco. Anzi, con grande nostra sorpresa, lo utilizza sostanzialmente per avvalorare la logica della Riforma Liturgica. Ascoltiamone il testo, che è di soli tre anni successivo al precedente (1980) 3:
«Da non molto... la protesta si leva da quei gruppi che si sono appartati a destra, e si leva parte in franca opposizione all'ultimo concilio in nome della tradizione antecedente, parte restando ai margini della Chiesa e appoggiandosi dove può: sugli evidenti errori dei progressisti, sul mantenimento delle vecchie forme di liturgia e di pietà, e, non da ultimo su numerose rivelazioni private, siano esse riconosciute dalla Chiesa ufficiale o non lo siano (come il più delle volte). [...]
L'altalenare fra questi due estremi -- attacca- (112) mento ostinato a vecchie forme e umile implorazione al volere del cielo -- rivela una mancanza di centralità e di equilibrio. Si sottolinea l'ecclesia apostolica e sancta, ma il gruppuscolo protestatario vuol essere al testo stesso l'una, ed è impossibile, e la catholica, che per natura sua non può consistere in un'opposizione. Ciò che più inquieta, nella situazione della Chiesa odierna, è questo: all'ala sinistra, alquanto caotica ma forte in fatto di media, si contrappone a destra una quantità di formazioni certo zelanti ma più o meno introverse, quasi settarie, che naturalmente avanzano tutte la pretesa di essere loro il centro, mentre di fatto impediscono che ne prenda corpo uno che stia al di sopra di esse e rappresenti vivamente la viva tradizione.
Prende o dà scandalo, come ebbe a sentenziare Guardini, chi pretende di aver ragione adducendo argomenti «penultimi», cioè non perentori. Simili ragioni penultime sono in questo caso il clamoroso abuso del nuovo Ordo litrugico da parte di un gran numero di ecclesiastici, mentre la ragione ultima parla, nonostante tutto, per la Chiesa del Concilio e contro i tradizionalisti. La S. Messa aveva urgente bisogno del rinnovamento, soprattutto di quell'attuosa partecipazione di tutti i fedeli all'azione sacra che nei primi secoli era qualcosa di assolutamente pacifico. Tutt'al più- come hanno ribadito P. Louis Bouyer e anche il cardinale Ratrzinger -- si sarebbe po- (113) tuto tollerare ancora per un determinato tempo la vecchia messa preconciliare (nella quale, dai tempi di Pio V, sono state apportate a più riprese numerose e sostanziali modificazioni); a poco a poco questa messa avrebbe finito per estinguersi organicamente. Quel che, inoltre, i tradizionalisti non considerano, è hce quasi tutto il «nuovo» inserito nel messale di Paolo VI deriva dalle più antiche tradizioni litrugiche, che il suo pezzo forte, il Canone Romano, è rimasto immutato, che il ricevere l'ostia nelle mani e in piedi è stato abituale fino al IX secolo e dei padri della Chiesa ci testimoniano che i fedeli si toccavano devotamente occhi e orecchie coll'ostia prima di consumarla. Non dovremmo dimenticare, dice Ratzinger, , «che impure sono non le sole nostre mani, ma anche le nostre lingue» -- Giacomo dice che la lingua è il nostro membro più peccaminoso (Gc 3, 2-12) -- «e anche il nostro cuore... Il massimo rischio e nel contempo la massima espressione della misericorde bontà di Dio è che sia lecito toccare Dio non solo con le mani e la lingua, ma anche con il cuore» (J. Ratzinger, Eucharistie -- Mitte del Kirche. Vier Predigten, Muenchen, Erich Wewel, 1978, 45) .
Il tradizionalismo si appoggia a forme non basate su di una teologia e una filosofia vive e che già per questo non possono rivendicare una validità oggi persuasiva. Ovviamente la situazione varia a seconda delle regioni; altro è che in un certo (114) paese interi ambienti si appartino rabbiosamente e pubblichino i loro fogli, altro è che in un cert'altro manipoli di laici generosi ingaggino una battaglia col clero progressista, costituendo gruppi di preghiera intensiva, sostenendo case di esercizi spirituali con un ampio raggio di influenza, pubblicando volantini realmente edificanti. Qui lo spirito genuino ha una chance di vincere il Golia di una lettera possentemente organizzata in entità burocratica. Qui la cosiddetta «destra» si avvicina a quel centro che è l'unico da cui possa promanare l'auspicato rinnovamento conciliare e sul quale possa edificarsi una teologia aperta sia a una rivelazione non sminuita sia alle necessità dell'ora: il centro che solo -- al di sopra di destre e sinistre, divenute incapaci di dialogo -- è in grado di conferire nuova forza anche fra gli uomini alla Parola di Dio»
La diversità dell'approccio di Von Balthasar, che pure, come è del tutto evidente, non può essere considerato «ideologico», non esita a formulare con grande chiarezza la necessità dell'atto riformatore, anzitutto per la S. Messa. Ora è chiaro che, nel momento in cui si ammette a chiare lettere la necessità della Riforma, il rito precedente, quando anche continui a sussistere, può esserlo solo per carità, per prudenza pastorale, per contingente opportunità, ma in vista della sua «sparizione» e per nulla secondo un parallelismo strutturale, che in tal caso si opporrebbe non solo alla tradizione, ma anzitutto al più elementare buon senso. Questo a me sembra il punto discriminante le due posizioni che abbiamo considerato. Da un lato la autobografia ratzingeriana sembra lasciar pensare che la Riforma dovesse assumere carattere accessorio, considerando «intoccabile» il rito tridentino nella versione del 1962. Dall'altro la lettura balthasariana sente il bisogno di sottolineare con chiarezza la necessità della Riforma, anche se può ammettere un regime limitato e provvisorio di tutela della forma destinata ad estinguersi del rito romano. Se riascoltate attentamente a distanza di più di 30 anni le due voci sono singolarmente istruttive di atteggiamenti e di attaccamenti che tuttora attraversano in modo più o meno autorevole il corpo ecclesiale. E che lo sfidano a una adeguata memoria della propria storia.
La stategia miope con cui oggi si cerca di reagire istericamente al manifestarsi -- in pochi ambienti molto clericali -- di una nuova forma di «paura» verso la Riforma Liturgica consiste nel «disinnescarla», nel renderla semplicemente «opzionale». Le sfide che oggi stanno aperte davanti a noi consistono anzitutto in questa forma di «ridimensionamento» del percorso con cui la Chiesa, a partire dalla fine degli anni 40 del 900, sotto il pontificato di Pio XII, ha compreso che poteva rispondere alla «questione liturgica» soltanto con un grande e strutturale intervento di riformulazione e di aggiornamento dei propri riti.
Qui bisogna ammettere che la «riforma liturgica» è sì largamente «post-conciliare», ma è già «pre-conciliare»! Su questo punto oggi è assolutamente necessario avere idee chiare e non lasciarsi condizionare da parole troppo unilaterali. La liturgia cristiana conosce una crisi profonda fin dagli inizi del 1800 e consapevolezza di tutto ciò hanno già sia Antonio Rosmini sia Prosper Guéranger, rispettivamente in Italia e in Francia, a partire dagli anni '30 del XIX secolo. Il Movimento Liturgico, che trova in loro la sua preistoria, si sviluppa ufficialmente a partire dai primi anni del XX secolo, mentre negli stessi anni papa Pio X -- antimodernista in filosofia e in teologia, ma modernista in diritto e in liturgia -- progetta una serie di interventi di riforma liturgica (sul breviario, sulla comunione ecc.) e successivamente Pio XII, a partire dal 1950, realizza prima la Riforma della Veglia Pasquale, poi dell'intera Settimana Santa. Nel 1960 Giovanni XXIII imposta una prima riforma del Messale Romano, che vedrà la luce nel 1962, e che tuttavia egli considera inevitabilmente provvisoria in vista di quella Riforma che il Concilio Vaticano II -- allora agli inizi -- avrebbe realizzato stabilendo gli altiora principia in base ai quali sarebbe stata realizzata. Il resto della storia è -- appunto -- post-conciliare. Ma tutto questo «pre-«impedisce di pensare che il «post-«possa essere letto adeguatamente con le categorie di «colpo di mano», di «rivoluzione», di «nuovo inizio» ecc.
Ci si chiederà, comunque: che utilità abbiamo, oggi, a rievocare tutti questi eventi del «pre-concilio»? Il guadagno maggiore possiamo individuarlo su due livelli:
a) anzitutto possiamo sfatare storicamente, con tanto di dati alla mano, il pregiudizio, ripetuto fino alla nausea, secondo il quale «la liturgia è entrata in crisi dopo il Concilio Vaticano II». Il ritornello che autori come De Mattei, Messori, Bux, etc. continuamente ripetono non ha alcun fondamento né storico, né pastorale. La liturgia, che era in crisi da più di 150 anni, ha cominciato dopo il Concilio a trovare una forma di nuovo slancio e di nuova rilevanza proprio grazie alla Riforma Liturgica. La Riforma è una delle risposte alla crisi già esistente, non la causa della crisi successiva.
b) In secondo luogo, conoscere questi eventi del «pre-concilio» ci consente di capire meglio le strategie con cui da qualche anno, alcuni ambienti isolati della curia romana, pretenderebbero di rileggere tutta la vicenda pre- e postconciliare come una «opzione possibile», non come un evento «necessario».
Vorrei provare a indicare tre tappe di questo cammino, che normalmente non vengono collegate, ma che qui potranno apparire come la «sfida minore» alla Riforma Liturgica. Ad essa è possibile rispondere solo ritrovando le ragioni della «necessità» della Riforma, ma riconoscendo anche i motivi della sua «non sufficienza», che riconosceremo come «sfida maggiore» lanciata oggi alla Riforma -- in questo caso non dall'esterno, ma dal suo stesso interno.
Siamo rimasti tutti molto sorpresi quando, nel luglio del 2007, con il Motu Proprio «Summorum Pontificum», Benedetto XVI osava affermare che l'intero quadro della liturgia «pre-conciliare», non solo il Messale, ma anche il Rituale e molti aspetti del Pontificale, non essendo mai stati abrogati, potevano essere legittimamente usati, sia pure a certe condizioni, nella Chiesa post-conciliare. Al di là dell'effetto concreto che il documento avrebbe potuto avere, balzava immediatamente agli occhi una cosa: con quel documento la Riforma Liturgica sembrava perdere, d'un colpo, la propria necessità, poiché si ritrovava all'improvviso accanto proprio quei riti che si era ritenuto di dover cambiare, a causa dei loro difetti.
Qui non voglio discutere la particolare fragilità canonica, pastorale, liturgica, ecclesiale e teologica del provvedimento. Certo, resta molto sorprendente che proprio il «papa teologo» abbia prodotto un documento così pieno di difetti e di contraddizioni. Qui mi interessa piuttosto scovarne i precedenti. Poiché ciò che Benedetto XVI ha detto nel 2007 era stato già detto prima di lui, in altre circostanze, al fine di ridimensionare pesantemente il valore e la portata della Riforma Liturgica.
Il primo caso, assai significativo, di utilizzo di questa logica, che potremmo dire dela «non necessità» della Riforma, è quello di Mons. Marcel Lefebvre, il quale recepì sempre la Riforma Liturgica come «un'altra possibilità (più o meno) legittima di celebrare la liturgia», che nulla toglieva agli «ordines» precedenti la Riforma stessa. In tal modo la Riforma Liturgica non veniva combattuta direttamente e frontalmente, ma aggirata, rendendola sostanzialmente superflua.
Ma è curioso leggere qualcosa di molto simile nelle reazioni che il Cardinale Siri manifestò ufficialmente all'indomani della approvazione, nel 1950, del nuovo rito per la Veglia Pasquale, riportata alla notte del sabato e con restaurata ampiezza e solennità rituale. Di fronte alla Riforma voluta da Pio XII Giuseppe Siri manifestò le proprie difficoltà in modo molto significativo (sottolineando soprattutto problemi di carattere disciplinare, con la «sottrazione» che la Vegli avrebbe causato di preti al duro lavoro delle confessioni per il «precetto pasquale»). Ma sottolineò più volte, in modo insistito, che la Riforma doveva restare una «possibilità», che non impedisse a nessun prete di poter fare come se nulla fosse. Di fatto il parallelismo -- preteso da Siri -- tra veglia «in mane» (al mattino) e veglia «in nocte» (di notte) costituiva il precedente irrealistico e pericoloso dell'attuale parallelismo tra rito ordinario e straordinario. D'altra parte il card. Siri si rendeva conto che una «veglia» celebrata quando il sole è al suo zenit non è una gran prova di fedeltà alla tradizione...
Il cardinale Siri nel 1950, Marcel Lefebvre alla fine degli anni 60 e oggi il Motu Proprio «Summorum Pontificum» prospettano una lettura strutturalmente riduttiva della Riforma Liturgica. Questa, a mio avviso, è la prima sfida che dobbiamo considerare. Ossia quella di sottrarre alla Riforma la sua «necessità». Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II non hanno pensato in questi termini e le loro azioni e parole sono chiarissime al proposito e non possiamo né dimenticarle, né escluderle dalla argomentazione. La «sfida minore» alla Riforma Liturgica è questa tentazione di renderla semplicemente accessoria e superflua.
Ma non basta. Accanto alla negazione della necessità della Riforma, proposta dai molti volti con cui si esprime la resistenza (affettiva e istituzionale) dell'ancien régime, la sfida parallela e non meno insidiosa è quella della presunzione della sufficienza della Riforma. Questa sfida non viene da «destra» -- per così dire -- ma da sinistra. E riguarda il fatto che si voglia difendere la Riforma limitandosi ad affermarne il valore «necessario». Questo non basta oggi e non basterà mai. La Riforma si può «difendere» solo facendo diventare la liturgia principio di identità, lasciando la parola ai riti, lasciando che le celebrazioni strutturino rapporti, diano a pensare, istituiscano legami, ristrutturino testimonianze ecclesiali. Oggi occorre affermare, oggi molto più di 50 anni fa, la «insufficienza» della Riforma per rispondere alla «questione liturgica». Da un certo punto di vista, questa è la sfida più insidiosa. E d'altra parte la risposta efficace a questa sfida permette, indirettamente, di rispondere anche alla sfida minore. Solo se la liturgia riformata sa generare vita, pensiero, azione, spiritualità, generosità, può avvalorarsi anche verso i tentativi di ridimensionamento che la sfida minore non cessa di opporle.
Alla fine, tuttavia, risulta centrale una ulteriore considerazione, che è realmente decisiva, e che permette di comporre in un solo punto entrambe le sfide: ossia la centralità della partecipazione attiva come «nuovo paradigma» di rapporto tra il battezzato e il rito cristiano.
La Riforma Liturgica, per rispondere alla sfida minore e alla sfida maggiore, deve ripensare se stessa come strumento per rendere possibile una «nuova forma» di partecipazione. Qui sta, a mio avviso, il vero nodo della questione. La fine del pontificato di Pio XII e poi Giovanni XXIII e Paolo VI hanno condiviso la profezia secondo la quale i riti cristiani possono diventare il linguaggio comune di tutta la Chiesa. Per questo al centro di Sacrosanctum Concilium brilla l'idea che tutti i battezzati possano accedere al senso del mistero pasquale «per ritus et preces» (SC 48). Dopo secoli di un regime di partecipazione strutturato sulla separazione clericale -- che Rosmini già denunciava nel 1833, ma che Pio XII ha difeso fino al 1947 e che alcuni pretenderebbero ancor oggi di sostenere come via principe dell'accesso al rito cristiano -- l'idea di far accedere tutti alla logica rituale aveva bisogno di un grande intervento di riforma dei riti. Ma, appunto, questa riforma, che ha prodotto i nuovi libri e le nuovi prassi, ha il solo scopo di generare «partecipazione attiva». Con questo termine non si intende che tutti nella liturgia debbano fare qualcosa di diverso, ma che tutti compiono la stessa azione. Questo «agire comune» genera chiesa, spiritualità, fede e carità. Nell'assumere questa prospettiva, la Chiesa affida ai riti la propria riforma più delicata. Solo in questo modo, riaffidando la propria identità al Signore Gesù, presente non solo nella Eucaristia, ma anche nella Parola, nella Assemblea radunata, nella preghiera, nei ministri, la Chiesa ritrova se stessa all'interno del mistero di Dio.
Così, riacquisendo una funzione «fontale» dei riti, assicurata appunto dalla «actuosa participatio», è possibile scoprire che il termine Riforma Liturgica può significare due cose diverse: la riforma che la Chiesa fa (strumentalmente) della liturgia, perché la liturgia possa riformare, convertire e riconciliare la Chiesa. Soggetto della Riforma non è tanto la Chiesa quanto piuttosto i riti, i misteri, che donano alla Chiesa la sua identità.
In ultima analisi la Riforma Liturgica, prima di subire sfide, rappresenta come tale una grande sfida per la tradizione. In quanto servizio profondo alla tradizione, essa ha la pretesa, piena di speranza, di permetterne la continuità solo al prezzo di una grande conversione, di cui i riti sono piuttosto il fine che non il mezzo. Questo punto sfida ancora profondamente la tradizione ecclesiale, mettendone a nudo virtù e vizi. Ma nella speranza è possibile affrontare tali sfide coraggiosamente: se invece pensiamo di reagire con disperazione o con presunzione, allora compromettiamo il rapporto con la tradizione, diventando o tradizionalisti per presunzione o progressisti per disperazione.
Vorrei concludere questa mia breve ipotesi commemorativa con l'abbozzo in cinque tesi del percorso teorico e pratico con cui possiamo consapevolmente restituire la parola alla esperienza simbolico-rituale della fede in Cristo.
Se vogliamo rispettare i sacramenti come atti rituali, la cui grammatica è una grammatica di atti simbolico-rituali, la prima competenza è quella tattile, nel percepire con il tatto lo spazio e il tempo, per come tocchiamo e siamo toccati, per come ci muoviamo e percepiamo il movimento. Questo cambia molto le cose. Non vuole essere un atto contro l'intelligenza, ma il rispetto di un'intelligenza più profonda, più articolata, più umana. Questa istanza è stata recepita dal CCC, che spiega il battesimo spiegando il RICA, percorso che dura tre anni. Noi ci siamo legati ad un'immediatezza battesimale pensata per il neonato. Il nostro modello del battesimo è quello dei bambini, battesimo puntuale che si può celebrare in pochi minuti. Ben diverso è pensarlo dentro un percorso tra piedi, mani, corpi che dura tre anni, fatto di gradualità, approfondimento, intuizioni che vengono messe alla prova, scrutini, apprendimento di preghiere consegnate e restituite; è un percorso esistenziale complesso. Partendo dal tatto siamo costretti a rinunciare immediatamente alla mentalità essenzialistica. Il che non vuol dire negare valore al concetto, basti pensare a cosa vuol dire fare il bilancio della propria vita. Ma la possibilità di astrazione è legata a delle cose che sono maturate nel tempo, dal livello tattile in su. Diciamo metaforicamente che per celebrare ci vuole tatto. In realtà dovremmo dirlo come primo significato. Curare il tatto è un'arte complessa, perché non è soltanto disporre i fiori in modo bello sull'altare; tatto è come si entra, come si è accolti, come si sa accogliere, come si introduce un canto, come si ascolta una parola decisiva, come si risponde con la salmodia, come si prega per tutti, come si presentano i doni...
Nella chiesa ha prevalso l'idea che nelle questioni liturgiche la cosa più importante sia il pensiero, poi vi sarebbe anche il corpo al quale dare qualche contentino. Ma questa non è liturgia. Liturgia è la consapevolezza che il più intimo rapporto con Cristo e con la chiesa anzitutto si gioca su registri apparentemente superficiali, come radunarsi, cantare insieme, ascoltare, mettersi in processione verso un punto. Queste azioni strutturano un'esperienza comunicativa di fondo, su cui poi teorie ed approfondimenti teologici, pastorali e morali prendono pieno senso; se si sottrae questa base «agita», ognuna di tali istanze è come se girasse a vuoto.
Uno dei punti di verifica di quanto detto è la moralizzazione della chiesa tardo-moderna. Pensiamo al caso del matrimonio. Sembra che parliamo del matrimonio solo per ricordare diritti e doveri. Ai fidanzati che stanno per sposarsi bisogna sempre ricordare un fatto importantissimo: noi viviamo in un mondo in cui anche ecclesialmente si può pensare così: ti vuoi impegnare poco? Convivi. Ti vuoi impegnare un po'di più? Ti sposi in comune. Ti vuoi impegnare al 100%? Sposati in chiesa. Invece la tradizione ecclesiale dice esattamente il contrario: Ti vuoi impegnare al 100%? Convivi. Vuoi accettare che le leggi dello stato portino un poco del tuo peso? Sposati in comune. Se accetti che non solo le leggi dello stato ma la legge di Dio, il rapporto con Dio porti su di sé la tua fecondità, la tua fedeltà, la tua indissolubilità, allora ti sposi in chiesa. La logica del sacramento annuncia della logica naturale del matrimonio una lettura in termini di dono; la cosa fondamentale è annunciare che nel matrimonio è in gioco un dono, che poi comporta diritti e doveri. Se noi schiacciamo il sacramento sui diritti e doveri abbiamo perso l'oggetto, entriamo nelle diatribe se vale di più la famiglia di fatto o la famiglia di diritto. Dovremmo avere maturato la coscienza che i fatti da soli e i diritti da soli non salvano nessuno. A volte il linguaggio della chiesa istituzionale, del singolo pastore o del teologo dà la sensazione che salviamo soltanto con i diritti, mentre i fatti ci portano alla rovina; ma non è così; ci sono casi in cui i fatti ti salvano e i diritti ti condannano. La chiesa l'ha sempre saputo: riconosceva la fuga d'amore sul diritto dei genitori di decidere con chi ci si doveva sposare. È sapienza ecclesiale di scoprire che la logica del dono aggira sia i fatti che i diritti. Non dobbiamo confidare nella logica binaria dell'alternativa fatti-diritti. La logica che annuncia la chiesa è quella del donare, che ha bisogno di linguaggi più complessi. Per questo ascoltiamo letture, facciamo gesti, onoriamo i consensi ma li lasciamo benedire dall'alto, perché il consenso da solo non basta per il matrimonio sacramentale. Ha bisogno di essere letto nella storia di un battesimo, che nella tradizione già post-tridentina e sempre più in quella più recente è la logica della benedizione e del consenso.
Nei riti dunque c'è un sovrappiù di senso, che, certamente, poi abbiamo bisogno di capire anche moralmente, canonicamente, dogmaticamente. Il senso comune ritiene al contrario che siano la morale e la dogmatica a dare significato alla liturgia. La presunta superiorità del linguaggio riflessivo è una distorsione mentale di cui siamo tutti vittime. Il linguaggio riflessivo è importante, ma interviene solo dopo un'esperienza ampia che il rito ti assicura, purché si sia disposti ad attraversarlo secondo le «sue» regole.
Tendiamo ad affrontare la pratica con la teoria: si ha in testa una certa idea e si fanno le cose secondo quell'idea. Così, le teorie sul ministero hanno introdotto l'idea che il ministro è solo uno, colui che presiede. Ad esempio, siamo abituati a pensare che ministro della cresima è il vescovo; ma anche chi proclama la Parola è ministro. Abbiamo bisogno di una teoria del ministero che sia molto articolata, che non metta in dubbio che c'è uno solo che presiede, ma che dica che la celebrazione comporta una ministerialità articolata e che l'atto rituale è un atto comune di tutta l'assemblea, che lo vive come un atto proprio affidando diversi ruoli, dalla presidenza in giù, a singoli soggetti.
Il lettore permette all'assemblea, presidente compreso, di fare l'atto dell'ascolto. Nell'eucaristia la liturgia della Parola è un atto di ascolto e di comunione: si fa esperienza di comunione ascoltando un'unica voce. Il foglietto che ciascuno legge con i suoi occhi dispensa dall'ascolto, l'unico atto che conta in quel momento, atto che non si fa con gli occhi ma con le orecchie. L'ascolto cambia il rapporto dentro l'assemblea. Con il foglietto cerchiamo di controllare il testo, vogliamo vedere se quella persona legge bene... in questo modo impediamo l'ascolto di comunione. Atto che poi magari facciamo davanti alla televisione, pendendo dalle labbra di certi affabulatori dei quali non dovremmo fidarci... Perché quando parla la televisione ci fidiamo? Perché quando la nonna raccontava le favole non avevamo bisogno del foglietto?
La proclamazione ha la logica dell'annuncio che fa comunione nell'ascolto, perché l'ascolto chiarisce che quella Parola parla di te, non parla d'altro; e dunque non hai bisogno del foglietto. L'hai capito tu, lo farà tuo nipote. Siamo abituati alla velocità dalla tecnologia, ma la tecnologia non cambia i tempi formativi umani. Verrà il giorno in cui le future generazioni capiranno; avranno bisogno di lettori professionali, di ministri che ascolteranno perché si fidano. Il fatto che sia un atto comune, molto impegnativo in termini di risposta individuale, ci fa capire che ciascuno deve fare la propria parte, ma senza illudersi di risolvere per sé o per altri la cosa in breve tempo. Lucidamente si cammina verso un obiettivo, che è rendersi conto della ministerialità complessa dell'atto rituale e delle trasformazioni che questo comporta nel lavoro di molte generazioni.
Il problema spirituale della liturgia è l'emergenza di una spiritualità comunitaria. Generazioni di cristiani hanno identificato la spiritualità con un'esperienza individuale. Ancora oggi l'obiezione rivolte ai liturgisti è che fanno cose comunitarie che non educano veramente i soggetti. Dietro la liturgia i soggetti possono nascondersi. Negli anni '50 Maritain diceva di difendere i diritti dell'anima dai liturgisti, ritenendo che questi pensassero che la massa potesse risolvere i problemi degli individui. Ma nessun liturgista serio l'ha mai pensato. Il fatto è che incombe su di noi una lunga educazione seconda la quale la vera contemplazione, l'incontro con Cristo può essere solo individuale, mentre il comunitario distrae. Quello che conta è una «via attraverso l'anima a Cristo», il corpo dev'essere sempre emarginato. La riscoperta liturgica dei sacramenti confida al contrario nella contemplazione dell'azione: l'azione è la contemplazione più profonda.
Su questo il lavoro delle generazioni è molto lento, perché abbiamo nelle orecchie e sulla pelle quel tipo di educazione ripetuta fino agli anni '50, incapace di comprendere ciò che non è individuale. È significativa in tal senso l'affermazione dell'Imitazione di Cristo: «ogni volta che vado in mezzo agli uomini ritorno meno uomo».
Il Movimento Liturgico nasce proprio come riscoperta che c'è una spiritualità più profonda di quella individuale: quella comunitaria, che si alimenta di linguaggio simbolico-rituale.
L'iniziazione rituale è capace di mantenere il rapporto tra vita e fede in modo non ideologico, cioè non trascrivendolo subito sul piano dei concetti, ma giocando ampiamente sul versante corporeo; in questo modo lascia aperti i giochi e permette alla fede di essere sempre in contatto con la vita. Noi pensiamo che si è garantiti quando si ha una chiave morale, dogmatica o canonistica di lettura. In realtà, in questo modo si è sempre un po'ideologici. La liturgia invece, proprio perché non s'impegna fino al punto di darti una definizione, ti mantiene continuamente in rapporto col senso originario e finale. È in qualche modo molto più protologica ed escatologica. Non rende possibili delle sintesi finali veritative o giuridiche, ma le relativizza, sa che non ci si può del tutto fidare di esse, perché sono sintesi troppo umane. Ci fa restare aperti. Alcune evidenze dei nostri nonni per noi non sono più tali, ma nella fede celebrata lo sopportiamo bene. Se paragoniamo i loro manuali ai nostri ci sono differenze a volte al limite della contraddizione, ma questo non deve scandalizzarci se pensiamo la continuità anzitutto come affidata all'azione simbolico-rituale e alla sua logica nello stesso tempo più elementare e più complessa.
Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!
Paolo VI, Udienza generale del 13 gennaio 1965, il cui testo può essere letto all'indirizzo http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1965/documents/hf_p-vi_aud_19650113_it.html. Testo
Tratto da J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, Cinisello B., San Paolo, 1977, 113-115, corsivi miei. Testo
Tratto da H.-U. Von Balthasar, Piccola guida per i cristiani, Milano, Jaca Book, 1986 (ed. orig. 1980), 111-114. Testo