Salta il menù

Invia | Commenta

Provvidenza divina, origine del male e responsabilità morale dell'uomo in Filone di Alessandria

di Chiara Della Putta (5 settembre 2011)

Il saggio si propone di analizzare la dottrina della provvidenza divina in Filone Alessandrino. L'indagine ha lo scopo di evidenziare le ricadute etiche della dottrina filoniana della provvidenza, facendo emergere lo stretto legame che intercorre tra la nozione di pronoia, quella di responsabilità morale dell'uomo e il problema dell'origine del male. L'indagine si articola in due parti. Dapprima è considerata la dottrina della provvidenza divina nelle opere cosiddette filosofiche, con particolare riferimento al De aeternitate mundi e al De Providentia; in essi Filone non sembra esprimere la propria posizione personale, ma riportare una serie di dottrine di scuola apprese ad Alessandria. Nella seconda parte è approfondita la nozione di pronoia elaborata nelle opere del Commentario allegorico alla Bibbia, allo scopo di far emergere la posizione precipua dell'Alessandrino. L'indagine vuole esplicitare -- attraverso il medium della provvidenza -- la forte tensione presente nella riflessione filoniana tra trascendenza e immanenza, tra agire divino e agire umano.

1. Introduzione

Nel presente saggio mi propongo di esaminare la dottrina filoniana della provvidenza divina. Va innanzi tutto specificato che nell'ambito della riflessione greca il concetto di provvidenza può avere due significati: uno legato al lessico comune/quotidiano (prendersi cura) e un senso più tecnico e più rilevante dal punto di vista filosofico nel momento in cui viene applicato alla sfera del divino. La mia analisi si concentrerà in particolare su questa seconda valenza poiché essa implica la convergenza dei diversi significati del termine e delle questioni a cui possono dare adito, ossia quelle relative all'agire divino nel cosmo, alla prescienza divina, alla predeterminazione, al problema del male e infine alla responsabilità morale dell'uomo. Saranno da me considerati soprattutto questi ultimi due aspetti, in quanto il mio obiettivo non è solo quello di ricostruire a livello fisico o metafisico determinate dottrine della provvidenza, ma di valutare le ricadute etico-antropologiche di tali dottrine.

Per questo motivo ho organizzato l'indagine tentando di far emergere le strette connessioni esistenti tra le questioni della provvidenza divina, dell'origine del male e della responsabilità morale dell'uomo; considererò dapprima le opere cosiddette filosofiche dell'Alessandrino per poi concentrare la mia attenzione su alcuni trattati del Commentario allegorico alla Bibbia.

2. Le opere filosofiche di Filone Alessandrino: De aeternitate mundi e De providentia

Alessandria, tra I secolo a. C. e I secolo d. C., costituisce un centro culturale molto vivace dove si intrecciano influssi filosofici provenienti da diverse scuole. La ricostruzione delle dottrine relative al tema della provvidenza che circolavano ad Alessandria è difficile a causa della lacunosità delle fonti. Tuttavia, è indubbio che in questo periodo la questione fosse studiata e riscuotesse l'attenzione di coloro che si occupavano di filosofia. Lo confermano le opere di Cicerone e di Seneca, la circolazione di un trattato come il De mundo (forse addirittura di ambiente alessandrino), oltre che i frammenti e le testimonianze che autori successivi hanno riportato sugli interessi filosofici di pensatori come Panezio, Posidonio, Boeto di Sidone e Pseudo-Ocello. Tale tipo di ascendenze filosofiche è riscontrabile anche in alcune opere di Filone, soprattutto quelle di carattere filosofico, come il De aeternitate mundi e i due libri del De Providentia.1 Questi testi sono importanti per due motivi:

Per quest'ultimo motivo in passato la loro autenticità è stata messa in discussione, sebbene appaia ormai incontestabile. Bousset sembra aver trovato una buona spiegazione a questo problema, indicando che si tratta di documenti scolastici dove Filone riassume gli insegnamenti ricevuti e non l'esposizione delle proprie idee (per altri studiosi invece si tratterebbe di opere giovanili).2 Nel De aeternitate mundi vengono addirittura sostenute delle tesi che contraddicono la restante produzione filoniana, ad esempio: il mondo è presentato come increato; gli astri sono chiamati «dei visibili»; il mondo è da solo causa della propria esistenza; Dio non è esistito prima del mondo.3 Risulta evidente che qui Filone sta semplicemente riproponendo delle tesi aristoteliche nella forma in cui esse circolavano nell'Alessandria a lui coeva (e di cui il De Mundo potrebbe essere un testimone) e non fornisce l'esposizione delle sue idee.

Il De providentia,4 invece, si fa portavoce delle dottrine stoiche e sviluppa complessivamente le seguenti argomentazioni:

a) Confutazione della dottrina dell'eternità del cosmo. Filone intende la creazione come transizione da una materia disordinata a un ordine cosmico grazie all'intervento di un creatore provvidente;5 l'esistenza della provvidenza divina è dimostrata da Filone tramite numerosi argomenti che possono essere così riassunti:

Anche nell'uomo stesso è presente un intelletto che ne dirige le azioni e si prende cura di tutte le cose che lo riguardano: come è possibile allora non applicare il medesimo principio all'universo intero?7 Talvolta, dice l'Alessandrino, le cose sensibili sono prova di quelle intelligibili, per cui non è ammissibile pensare che le parti dell'universo siano sagge e previdenti, mentre la guida del mondo intero sia priva di provvidenza verso la sua creazione.8

b) Questione della teodicea e dell'origine del male nel mondo. Dio non è causa del male; è infatti necessario distinguere tra il male fisico e quello morale:

c) Il fatalismo astrale.17 L'argomentazione dell'Alessandrino contro il fatalismo astrale ha come obiettivo polemico dichiarato l'astrologia genetliaca -- la quale predice l'intero destino di un uomo in base allo stato del cielo al momento della nascita -- e la credenza nell'influsso astrale sulla vita e sulle azioni dell'uomo. Questo tipo di credenza, infatti, inficia fortemente la sfera della libertà umana con delle conseguenze affatto trascurabili: se è vero che il destino umano è determinato dagli influssi astrali, allora non è più possibile attribuire alcuna forma di responsabilità morale all'uomo e quindi le azioni malvagie trovano una forma di giustificazione indipendente dalle sue scelte. In questo modo, però, non è più pensabile nessuna forma di ordine sociale poiché la giustizia e la legge vengono privati di ogni fondamento.18 Filone inoltre -- continuando nella sua critica all'astrologia genetliaca -- osserva che, anche se ci sono delle differenze di nascita tra i Giudei, essi vivono tutti seguendo le medesime norme, quale ad esempio la circoncisione. Ne consegue che usanze e cultura d'appartenenza condizionano maggiormente l'individuo rispetto al giorno della nascita. Sulla scia di questo argomento l'Alessandrino fa notare come intere collettività, formate di individui differenti, subiscano il medesimo destino (per esempio nel caso delle morti collettive a causa di una battaglia o di un'epidemia).19 Infine Filone ricorda come sia impossibile determinare con esattezza il momento del concepimento, di fondamentale importanza per l'astrologia genetliaca, poiché è difficile stabilire quando avviene la fecondazione.20

Il discorso filoniano, dunque, si conclude con il rifiuto dell'astrologia poiché essa implicherebbe che le azioni umane siano determinate dagli astri. Da questo punto di vista, l'interesse dell'Alessandrino è tutto volto a salvaguardare la responsabilità morale dell'uomo. Gli astri, tuttavia, possono avere una qualche funzione nella vita umana nel momento in cui fungono da intermediari tra Dio e gli uomini (Filone riporta l'esempio del terrore e della paura che gli astri incutono sull'uomo): essi, in questo caso, diventano strumenti attraverso i quali si esplica la provvidenza divina a cui sono sottomessi come tutte le cose create.21

Dovrebbe risultare evidente che le opere dell'Alessandrino sopra citate rappresentano un importante documento relativo alla filosofia del suo tempo, da cui egli ha sicuramente tratto numerose suggestioni. In particolare, il De providentia chiarisce ulteriormente la posizione di Filone; a mio avviso, la prospettiva complessiva che emerge dal trattato è compatibile con gli altri scritti della produzione filoniana. Tuttavia, la difficoltà nel comprendere la precisa natura di quest'opera e la complessa vicenda legata alla sua trasmissione manoscritta, mi porta a ritenere necessario l'esame di alcuni trattati del Commentario allegorico alla Bibbia. Credo, infatti, che questi testi siano il luogo privilegiato per comprendere le posizioni teologiche più precipue di Filone, il quale fa coincidere la sua allegoresi al testo biblico con il metodo dell'indagine filosofica. Già dall'analisi del De providentia, sono comunque emersi i nuclei concettuali che più interessano all'Alessandrino: si tratta, per Filone, di conciliare provvidenza divina, origine del male e responsabilità morale dell'uomo.

3. La provvidenza divina e le sue ricadute etico-antropologiche nell'opera esegetica di Filone di Alessandria

In età ellenistica le questioni relative a provvidenza, fato, origine del male e responsabilità morale dell'uomo sono oggetto di un ampio dibattito che coinvolge sia gli ambienti filosofici pagani che il mondo teologico giudaico. Filone è un protagonista estremamente significativo di questo dibattito poiché rappresenta uno dei primi tentativi di sintesi coerente e consapevole tra elementi provenienti dalle filosofie greche ed elementi propri della sua cultura d'appartenenza, il giudaismo.

In Filone, dunque, la riflessione intorno alla nozione di pronoia non ha un'unica fonte, ma sorge dalla tensione tra principi biblici e idee filosofiche. Più nello specifico, riprendendo le parole di P. Frick, è possibile dire che per l'Alessandrino

intrinseco al messaggio biblico è il governo finalistico del mondo da parte di Yahweh. La questione è per lui come questa prospettiva biblica possa essere portata a una sintesi con le istanze filosofiche contenute nell'idea stoica di provvidenza e con la ricezione di questa stessa idea nei circoli platonici e medioplatonici.22

Data la natura dell'opera filoniana, che si presenta nella forma di allegoresi al testo biblico, è impossibile aspettarsi di trovare una trattazione sistematica della dottrina della pronoia: è quindi necessario percorrere un lungo itinerario attraverso le opere del Commentario allegorico alla Bibbia, gli scritti dedicati all'esposizione della legge mosaica e i testi di catechesi per selezionare alcuni dei momenti più significativi della riflessione di Filone in merito al tema della provvidenza divina. Iniziamo il nostro percorso cercando di delineare la dottrina filoniana della pronoia in ambito fisico e metafisico, per poi passare a quello etico-antropologico.

3.1. Da Dio al cosmo: il logos divino e le potenze

Prima di entrare nel merito della dottrina filoniana della provvidenza è necessario fare alcune premesse sulla concezione filoniana di Dio: essa, infatti, rappresenta la sintesi di molteplici istanze filosofiche. David Runia propone un quadro molto preciso di tali ascendenze:23

Le influenze derivanti dalla tradizione platonica e neopitagorica sono quelle che caratterizzano in modo più significativo la nozione filoniana di Dio, perché permettono all'Alessandrino di sottolineare uno degli aspetti della divinità che a lui più interessa salvaguardare, ossia la trascendenza.24 La nozione platonica-neopitagorica di un principio primo sopranoetico al di sotto del quale vi è una coppia di opposti -- ossia la Monade e la Diade -- diventa, nella prospettiva filoniana, il Dio trascendente al di sotto del quale si trovano in scala gerarchica il Logos (Monade) e le due principali potenze (dynameis) che da esso dipendono (Diade). Dal punto di vista scritturistico, invece, il passo che più volte Filone cita a sostegno della trascendenza divina è Esodo 3, 14, («Io sono Colui che è»): nella sua esegesi l'Alessandrino spiega che il senso di tale risposta data da Dio a Mosè è: «la mia natura è di essere, non di essere nominato».25 Dio, quindi, è il migliore di tutti gli esseri, l'incomparabile causa di tutte le cose: è il genere supremo e non esiste nulla che possa essere a lui comparato.26 Per questo motivo agli uomini non è dato conoscere la sua essenza ma soltanto la sua esistenza: «Dio non è come un uomo, ma neppure come il cielo, né come il mondo: queste, infatti, sono forme fatte in un certo modo, e vengono a presentarsi alla nostra sensibilità, mentre Dio non è certo afferrabile neppure dall'intelletto, se non per quanto riguarda il suo effettivo esistere. È la sua esistenza, infatti che noi comprendiamo, ma, al di fuori dell'esistenza, nient'altro».27 L'essenza divina, nella sua assoluta trascendenza, rimane inconoscibile e ineffabile per l'uomo a causa dell'incommensurabilità tra oggetto della conoscenza e soggetto conoscente.28 Data per certa, negli scritti filoniani, l'impossibilità di conoscere l'essenza divina, all'uomo resta comunque la possibilità di scorgere l'esistenza di Dio attraverso la mediazione delle sue potenze. La stessa nozione di 'provvidenza' divina, dunque, dovrà essere dedotta dall'attività delle potenze divine nel cosmo. In particolare Filone si serve di tre argomenti volti a collegare la nozione di provvidenza divina con la trascendenza di Dio:

  1. Secondo Filone, Dio è, aristotelicamente, la causa prima del cosmo. Dato che il creato si rivela essere una struttura ordinata e perfetta ne segue che la sua causa deve averne continuamente cura. Dio, quindi, porta l'universo all'esistenza e ne mantiene la struttura ordinata attraverso la sua attività provvidenziale.29 In questo argomento cosmologico c'è un richiamo esplicito all'idea di un universo teleologicamente ordinato su cui si basa la seconda prova che Filone adduce per ascrivere a Dio la nozione di provvidenza.
  2. Filone propone la classica prova teleologica secondo la quale, poiché viviamo in un universo perfetto e ordinato, è impossibile pensare che esso sia frutto del caso, ma deve presupporre l'esistenza di un artefice divino: «se qualcuno facesse ingresso in questo cosmo, che è come una grandissima casa o città, e guardasse il cielo che avvolge tutt'intorno e che contiene al suo interno ogni essere -- i pianeti e le stelle fisse coi loro movimenti identici e costanti, ritmici ed armonici e utili a tutte le realtà; la terra in posizione centrale, con le masse di aria e di acqua disposte ai suoi limiti; e, ancora, i viventi mortali e immortali e le piante e i frutti nelle loro varietà -- allora certamente ne concluderebbe che tutte queste cose sono state istituite non senza un arte perfetta, e pure che esisteva ed esiste un artefice di questo universo: cioè Dio».30
  3. L'ultimo argomento elaborato da Filone procede analogicamente. Dato che l'essenza divina è ineffabile e inconoscibile, se ne può discutere solo tramite immagini. Tali immagini ne chiariscono la natura, senza avere la pretesa di definirne positivamente gli attributi. Il Dio provvidente di Filone è dunque descritto dall'Alessandrino come un padre. Al centro dell'immagine impiegata da Filone vi è questa analogia: così come la paternità richiede per natura la cura dei figli, allo stesso modo il Creatore deve prendersi cura del creato, ossia del cosmo. Riporto di seguito il testo filoniano tratto dal De opificio mundi: «i sostenitori della teoria che questo mondo è ingenerato non si accorgono di eliminare alla radice l'elemento più utile e indispensabile ad alimentare la pietà, ossia la provvidenza. La ragione infatti ci induce a credere che il Padre e Creatore si prenda cura di ciò che ha portato a nascimento. [...] Ora, è certamente una tesi insostenibile e nociva quella che -- come si trattasse di una città -- postula per questo mondo una condizione di anarchia, per cui esso non avrebbe né un protettore né un arbitro, né un giudica al quale fosse affidato il compito di governare e dirigere tutto. »31

Nei tre casi sopra menzionati la nozione di provvidenza è dedotta a partire non tanto dall'essenza divina, quanto dagli effetti dell'agire divino. L'essenza divina viene salvaguardata nella sua trascendenza. Tale trascendenza non implica, tuttavia, che Dio sia assolutamente staccato dalla sua creazione. Essendo l'essere supremo trascendente, Dio non può relazionarsi direttamente al mondo, ma è presente in esso in modo immanente attraverso il suo Logos e le dynameis: «si dice che Egli, pur essendo sempre il medesimo, è vicinissimo e insieme lontano, da una parte toccandoci con quelle Potenze creatrici e punitrici che si trovano vicino a ciascuno di noi, dall'altra tenendo la creatura a grande distanza dalla Sua natura e dalla sua essenza, cosicché non è possibile attingerLo neppure con le pure e incorporee applicazioni del ragionamento».32 C'è però da chiedersi come mai Dio -- trascendente, completamente auto-sufficiente e senza alcun bisogno -- abbia voluto creare il mondo e mantenerlo in vita tramite la sua azione provvidenziale. Filone non ha dubbi e indica il motivo nella bontà divina. Ora, l'idea che Dio sia buono e che agisca in modo immanente nel mondo è un dato che Filone ritrova anche nelle Scritture. Quello che invece non si trova nelle Scritture è il motivo dell'immanenza divina, che, come abbiamo visto, l'Alessandrino ritiene essere la bontà di Dio. Questo tipo di idea deriva a Filone direttamente dal Timeo di Platone, in cui il demiurgo è descritto come 'buono' e 'padre e creatore dell'universo'. È Filone stesso a rivelarci la sua fonte: «se si volesse scrutare a fondo la causa per la quale tutto questo universo è stato creato, mi pare che coglierebbe nel segno chi dicesse quel che ha detto un filosofo antico: che il Padre e Creatore del mondo è buono».33 Filone, però, supera la lezione del Timeo, in cui l'idea della bontà divina è intesa come una perfezione metafisica; a essa aggiunge la nozione di 'grazia biblica' intesa come il modo in cui Dio manifesta concretamente -- perché lo vuole -- 34 la sua amorevole cura per il mondo.35 Entrambe le caratteristiche divine coabitano, secondo Filone, presso Dio: la bontà platonica è simbolo della perfezione metafisica del divino, mentre la grazia è l'immagine del modo in cui Dio manifesta la propria bontà in azioni concrete.36

Dopo aver spiegato perché Dio ha creato il mondo, è ora necessario delineare in che modo Dio si è avvalso della mediazione del Logos e delle sue potenze. Nel trattato Quis rerum divinarum heres sit37 si comprende come il ruolo del Logos sia quello di mediare lo iato tra Creatore e creatura.38 La sua funzione di mediatore si esplica tramite le potenze divine. I più importanti studiosi del pensiero filoniano sono concordi nel distinguere due aspetti del Logos: a un livello più alto il Logos coincide con la mente noetica di Dio, mentre a un livello più basso esso costituisce l'aspetto immanente di tale mente noetica, che si manifesta nell'attività delle potenze divine tramite le quali il Logos crea il cosmo e ne mantiene l'ordine.39 Il Logos, dunque, esegue l'attività divina attraverso le sue due potenze dette 'Bontà' -- tramite la quale ha creato tutte le cose -- e 'Sovranità' -- tramite la quale governa il creato.40 Queste due potenze sono indicative della natura divina in quanto rivelano gli effetti della bontà di Dio: e come la trascendente bontà divina può essere percepita in modo immanente in termini di effetti di tale bontà attraverso le potenze, così similmente deve essere percepita la natura provvidenziale di Dio. In un passo tratto dal De fuga et inventione, Filone ci offre un altro quadro della sua dottrina del Logos e delle potenze:

Forse la più antica, la più sicura, la più bella, quella che non è solo città, ma metropoli, è la parola di Dio, nella quale è di supremo giovamento trovare rifugio, prima che altrove. Le altre cinque, in un certo senso, sono le «Potenze» di Colui che formula la Parola. La prima è la Potenza creativa, in virtù della quale il Creatore ha creato il mondo con la sua Parola; la seconda è la Potenza regale, in virtù della quale il Creatore governa il creato; la terza è la Potenza benefica, per il cui tramite il Creatore esplica compassione e misericordia per la propria opera; la quarta è la Potenza legislativa, attraverso la quale Egli ordina quel che va fatto; la quinta è quella parte della potenza legislativa attraverso la quale vieta quel che non va fatto.41

In questo passo,42 Filone interpreta allegoricamente le sei città di Num. 35, 6 -- città dove l'anima può trovare rifugio -- come il Logos e le potenze. Tra queste sei città sembra delinearsi una gerarchia vera e propria. La metropoli più importante appare essere il Logos, mentre le altre cinque città (ossia le Potenze) hanno una connotazione periferica rispetto al Logos (tanto da essere definite apoikiai). Questo tipo di schema potrebbe essere interpretato come 1+5, ma un'attenta lettura consente di individuare anche un'altra soluzione, sintetizzabile nella formula 1+2+3. Questo tipo di schema è avallato dall'utilizzo di preposizioni differenti per le prime due potenze (kath' hen) e per le ultime tre (di'hes): inoltre alle ultime tre potenze è riservato uno spazio minore. La situazione si complica ulteriormente se si prosegue nella lettura del De fuga, con riferimento ai paragrafi 96-99. Se infatti a parte Dei le varie scansioni gerarchiche presenti nell'opera dell'Alessandrino -- diversificate anche in base alle necessità esegetiche -- vanno poste su un piano orizzontale e interpretate come espressione della «ricchezza virtualmente infinita del potere divino»,43 a parte hominis le scansioni gerarchie ammettono una lettura graduata che rispecchia le diverse potenzialità dell'uomo che in esse cerca rifugio.

Per completezza di discorso va sottolineato come in altri passi della sua produzione Filone proponga una lettura del rapporto Dio-potenze non mediata dalla presenza del Logos: è questo il caso di Her. 166 in cui si dice che «Dio, stando in mezzo, e al di sopra, tiene separate le due prime Potenze dell'Essere, quella benefattrice, che è chiamata Dio e in virtù della quale produce il mondo, e quella Punitrice che è detta Signore, ad opera della quale comanda e dispone il creato».44

Emerge con una certa chiarezza come la «geografia» filoniana muti in base al conteso esegetico di riferimento e soprattutto risulta evidente come ogni schema e ogni gerarchia trovino senso solo a partire da una prospettiva umana, mentre a livello teologico prevalga «una disposizione orizzontale che salvaguarda la trascendenza divina, riflettendo la dialettica tra Deus absconditus e revelatus».45

La domanda che ci dobbiamo porre è: dove si colloca, all'interno di questa mappa concettuale la nozione di pronoia? Secondo quanto emerge dagli scritti filoniani la provvidenza deve essere intesa come una potenza assimilabile a quella benefica: entrambe le potenze, infatti, sono descritte nei termini di compassione e misericordia divine.46 Per essere più chiari possiamo dire che per Filone l'idea di un Dio compassionevole equivale all'idea di un Dio che esercita la sua provvidenza -- ossia una delle sue virtù -- tramite la Potenza benefica. Quindi la provvidenza ha origine nella natura benefica di Dio (aspetto trascendente) e si manifesta nell'universo tramite il potere benefico (aspetto immanente). Da quanto detto finora risulta evidente come la nozione di provvidenza, soprattutto nel suo aspetto immanente, sia profondamente legata alla dottrina del Logos e delle sue potenze: in quanto tale, essa esplica una funzione importantissima in termini cosmologici poiché rappresenta lo strumento tramite il quale Dio si prende cura dell'universo dopo averlo creato.47

Prima di concludere questo paragrafo, vorrei richiamare in termini più generali la dottrina filoniana della creazione perché essa costituisce la premessa necessaria per comprendere lo stretto rapporto che l'Alessandrino istituisce tra cosmologia e antropologia. Finora ci siamo concentrati sulla nozione di Logos quale intermediario tra due sfere, quella di Dio e quella del creato. L'esistenza di queste due sfere sottende una visione dualistica del cosmo il quale da una parte sussiste sotto forma di una serie di archetipi (kosmos noetos), dall'altra sussiste come universo visibile (kosmos aisthetos). Filone nel De opificio mundi spiega che Dio -- volendo creare il mondo sensibile in modo adeguato -- produce dapprima il mondo intelligibile, modello incorporeo del mondo corporeo, così come un architetto che -- volendo edificare una grande città -- ne costruisce dapprima il progetto con l'intelligenza e lo fissa nell'anima, e poi lo traduce nella realtà .48 Il problema principale che qui si pone è dove situare questo mondo delle idee. In De Opificio 20 Filone sostiene che il mondo costituito dalle idee non poteva avere altro luogo se non nel Logos divino. E poco più oltre si legge: «si potrebbe dire che il cosmo intelligibile altro non è se non il Logos divino nell'atto di formare il mondo».49 Semplificando quella che risulta essere una delle dottrine più oscure presenti nell'opera dell'Alessandrino, possiamo dire che è tramite il suo Logos che Dio ha creato il mondo:50 è il Logos che concepisce le idee archetipe. In questo senso esso rappresenta il pensiero di Dio, un pensiero volto verso il mondo. Ricapitolando possiamo asserire che il 'modello assoluto' è Dio; il Logos è già la 'prima immagine', un'immagine perfetta, che a sua volta funge da modello agli esseri che seguono. Dunque mentre il Logos è l'immagine perfetta di Dio e di tutte le altre cose, le idee sono immagini particolari e quindi, modelli particolari, delle singole cose.

Quanto alla genesi del cosmo, essa, per Filone, è avvenuta simultaneamente poiché Dio non aveva bisogno di tempo per esplicare la sua opera. Egli ha dato ordine in un istante a tutto ciò che era immerso nel disordine.51 Con la creazione è stata, cioè, stabilita una gerarchia che permane poi senza che siano necessari modifiche o interventi a mutare un ordine perfetto.52 Tale ordine impresso da Dio al mondo è stato stabilito fin dall'inizio ed è espressione della sua decisione: Egli dunque -- pur potendo rovesciare le leggi da Lui stesso stabilite -- si attiene a esse poiché mirano al bene e alla conservazione provvidenziale dell'universo.

3.2. Dal cosmo all'uomo: le nozioni di «provvidenza», «male», «responsabilità morale»

Il parallelismo tra cosmo e uomo è un tema costante nel pensiero dell'Alessandrino. Come si è avuto modo di vedere, l'universo nella sua totalità costituisce il cosmo di cui il Logos è il gran sacerdote. Dal suo canto l'uomo forma il microcosmo, la cui struttura è parallela a quella dell'universo e di cui il nous è il capo. Sia il cosmo che l'uomo sono immagini del Logos e costituiscono due parti della creazione che -- seppur distinte -- presentano una struttura analoga e sono in rapporto di reciproca dipendenza; per entrambi, cosmo e uomo, Filone fa agire il modello strutturale «che si fonda sulla chiara distinzione ontologica fra realtà intelligibile e realtà sensibile, legate l'una all'altra da un rapporto di tipo paradigmatico-mimetico».53 L'Alessandrino vede nel doppio racconto creazionistico di Genesi il fondamento e la giustificazione della propria antropologia dualistica: più precisamente in Gen. 1, 26 si ritroverebbe il racconto della formazione del modello umano ideale, mentre in Gen. 2, 7 sarebbe narrata la generazione dell'individuo sensibile. Tale individuo sensibile è l'uomo terrestre, plasmato non da Dio ma dall'artigiano divino, ossia una delle potenze di cui il Creatore si serve quando non può intervenire direttamente poiché si opera sulla materia (la quale è ontologicamente e moralmente negativa). Dio interviene solo nella creazione della parte virtuosa dell'uomo -- ossia il nous, la parte egemonica dell'anima -- mentre demanda alle potenze inferiori il compito di forgiare la parte irrazionale dell'anima unita al corpo corruttibile: «il Padre dell'universo parla con le proprie Potenze, cui demanda il compito di plasmare la parte mortale della nostra anima prendendo a modello l'arte Sua [...] . Dio ricorse alle potenze a lui connesse [...] perché soltanto l'anima dell'uomo era destinata a prendere coscienza del male e del bene e a servirsi dell'uno e dell'altro, presupponendo esclusa la possibilità dell'uso simultaneo di entrambi. Ritenne dunque necessario assegnare ad altri artefici la creazione del male e riservare esclusivamente a se stesso quella del bene».54 Questo tipo di impostazione permette a Filone di raggiungere tre obiettivi molto importanti:

È evidente che le tre tematiche appena elencate ci portano a riprendere il fil rouge sotteso alla nostra argomentazione, ossia la questione dell'origine del male e della libertà di scelta del'uomo. Vorrei cominciare da quest'ultimo argomento commentando un brano tratto da Quod deus sit immutabilis:

Infatti, quando si è uomo, è impossibile prevedere il verificarsi degli avvenimenti futuri o le intenzioni degli altri, ma a Dio tutto è chiaramente manifesto in piena luce. Infatti, penetrando a fondo nei recessi dell'anima, Egli può naturalmente vedere quello che è invisibile agli altri, e con previdenza (prometheia) e provvidenza (pronoia), sue virtù specifiche, non permette che qualcosa Gli sfugga e si sottragga alla Sua comprensione, poiché neppure degli eventi futuri è possibile che Egli sia all'oscuro: niente, infatti, è oscuro e niente è futuro per Dio. È chiaro, dunque, il genitore deve avere esatta conoscenza dei suoi figli, l'artigiano deve averla dei suoi prodotti, e l'amministratore di ciò che è da lui amministrato. E Dio è, in verità, Padre, Artigiano, Amministratore di tutto ciò che esiste nel cielo e nel mondo.55

Credo si possa asserire con un certo grado di sicurezza -- sulla base del testo sopra riportato -- che nella dimensione dell'eternità divina non c'è né passato né futuro, ma solo stabile presente.56 In questo stabile presente Dio conosce e vede ogni cosa del cielo e della terra; se quindi venisse posta la domanda: «la dottrina filoniana contempla la prescienza divina? », la risposta sarebbe sicuramente affermativa. Il Dio di Filone, inoltre, crea un mondo regolato perfettamente e armonicamente da leggi di natura da Lui stesso stabilite: l'andamento generale del cosmo risulta così determinato sempre da Dio.57 Questo determinismo legato alle leggi di natura non va a ledere, nell'ottica dell'Alessandrino l'onnipotenza divina perché, se Dio lo volesse, potrebbe intervenire e modificare tali leggi. Fin qui, però, abbiamo parlato dell'agire divino nel cosmo in generale e non abbiamo ancora introdotto né la questione riguardante l'agire divino nella storia, né nella vita del singolo individuo. Per quanto riguarda il primo aspetto dobbiamo ricordare che il Dio dell'Antico Testamento si manifesta al suo popolo attraverso eventi cronotopicamente situati: la salvezza passa attraverso la storia. In alcuni apocrifi mediogiudaici dell'Antico Testamento il corso della storia è rigidamente segnato dal susseguirsi di fasi ben precise che portano necessariamente all'eschaton. In Filone abbiamo una visione completamente vanificata della storia. Si passa da una salvezza intesa in termini storico-collettvi a una salvezza interiore-individuale: gli episodi biblici vengono letti alla luce del cammino etico individuale dell'uomo. Non stupisce quindi che l'escatologia non sia argomento di particolare interesse per Filone, dato che la sua prospettiva è metastorica. L'uomo, invece, nella sua individualità, assume un ruolo molto importante perché Filone gli conferisce una collocazione speciale all'interno del cosmo, in virtù del suo intelletto. L'uomo è al confine tra la natura mortale e quella immortale in quanto partecipa necessariamente dell'una e dell'altra; con la sua parte intellettuale-pneumatica, che reca in sé l'impronta divina, aspira a raggiungere la purezza del modello ideale, mentre a causa del suo legame con il corpo sensibile rimane vincolato alla materialità. La sua 'medietà' si spiega sia a livello ontologico -- in quanto appartiene al mondo del divenire essendo un entità corporea -- sia a livello etico -- è infatti l'unico essere capace di scegliere tra il bene e il male. Quest'ultimo aspetto, però, diviene particolarmente importante nella riflessione dell'Alessandrino perché ci fa comprendere come uno degli interessi principali di Filone sia quello di salvaguardare la responsabilità morale dell'uomo. L'uomo, grazie al suo intelletto, ha la capacità di distinguere il bene dal male e di scegliere ciò che è meglio, in vista del suo cammino etico verso Dio. Tra tutti gli esseri viventi, egli è l'unico dotato di libertà di scelta: gli esseri irrazionali, infatti, come gli animali o le piante, non sono partecipi né di vizio né di virtù, mentre le anime prive di corpo, come gli astri, sono necessariamente ordinate al bene. L'uomo, in quanto accoglie in sé tutti i contrari, può esercitare liberamente, grazie all'intelletto, la sua libera volontà.58 L'intelletto, dunque, si presenta come il nucleo centrale attorno al quale ruotano le infinite potenzialità dell'uomo: esso è definito da Filone «la vista dell'anima» in quanto è stato plasmato con la sostanza pura e nobile della quale sono fatte le nature divine. Essendo la parte incorruttibile dell'uomo, Dio l'ha giudicato degno di donargli la libera volontà. Ne discende che l'uomo, data questa sua capacità, riceverà biasimo per le colpe commesse con premeditazione e, viceversa, sarà lodato per le buone azioni basate su una scelta volontaria. Compito dell'uomo è quindi quello di valutare con attenzione ciò che è moralmente buono e ciò che invece è fonte di vizio e di scegliere la migliore delle due cose, in quanto possiede in se stesso il raziocinio «che è come un giudice incorruttibile, disposto a dar retta ai suggerimenti della retta ragione, e a respingere quelli del suo contrario».59 Qualora l'uomo riesca a mantenere puro il suo intelletto, seguendo la via del bene e della sapienza, allora sarà in grado di sorpassare anche «il tempo in cui sembra trovarsi; sfiorando, con potenze invisibili, fuori del tempo, il tutto, le sue parti e le loro cause. E quando è giunto fino agli estremi confini non solo della terra e del mare, ma anche dell'aria e del cielo, non se ne rimane lì fermo, perché ritiene che il mondo sia solo una breve tappa della sua corsa continua ed incessante, e desidera procedere ancora oltre, fino a comprendere, se possibile, l'inafferrabile natura di Dio, un comprendere che non va oltre il fatto che Dio esiste. In che modo, dunque, potrebbe essere verosimile che l'intelletto umano, che è così piccolo ed è contenuto nel cervello e nel cuore, che sono piccole masse, abbia in sé tanto spazio per comprendere la grandezza del cielo e del cosmo, se non fosse una inseparabile particella di quell'anima divina e felice? Infatti, niente di ciò che è divino può subire un taglio o una separazione, ma soltanto si estende».60 Queste doti proprie dell'intelletto, tuttavia, non sono solo capaci di grandi beni ma sono passibili anche di grandi cadute;61 e questo ci porta alla parte finale della nostra argomentazione.

Per completare il quadro, infatti, manca solo un ultimo passaggio, che trova le sue premesse in quanto detto finora. Si tratta dell'origine del male che -- poiché non può dipendere né da Dio, né dagli esseri irrazionali, né dalle anime prive di corpo -- avrà la sua fonte unica e privilegiata nell'uomo. Sebbene talora Filone associ il male alla materia,62 la sua prospettiva principale è quella che lo identifica con l'inclinazione malvagia dell'intelletto o con le passioni che offuscano l'anima e la trascinano verso tutto ciò che è terreno:

Ma bisogna assolutamente assegnare dimore diverse a cose diverse: il cielo ai buoni le regioni terrestri ai malvagi. Il bene, quindi, tende verso l'alto, anche se talvolta giunge tra noi, perché il Padre suo è munifico, ma è giusto che si affretti a ritornare sulla propria strada. Il male invece rimane quaggiù, in una sede lontanissima dal coro divino, per aggirarsi in mezzo alla vita mortale senza possibilità di morte che lo sradichi dal genere umano. Questo concetto è stato formulato da un uomo famoso tra quanti hanno destato ammirazione per la loro saggezza, il quale così lo esprime con nobili parole, nel Teeteto: «I mali non possono sparire perché deve esistere di necessità un contrario del bene -- e non è possibile nemmeno che essi risiedano tra le cose divine, ma è inevitabile che si aggirino in mezzo alla natura mortale e in questa nostra dimora. Perciò bisogna cercare di fuggire al più presto da quaggiù verso lassù. Fuggire equivale a rendersi simili a Dio nei limiti del possibile; e rendersi simili a Lui equivale a divenire giusto e pio». Naturalmente, non morirà dunque mai Caino, simbolo della malvagità, che deve vivere per sempre tra gli uomini, nell'ambito della specie mortale.63

Chiudiamo così il nostro percorso con la figura di Caino, simbolo -- nel corpus delle opere filoniane -- del principio del male. Tale personaggio è molto caro alla riflessione dell'Alessandrino tanto da renderlo protagonista di ben quattro dei suoi trattati: De cherubim, De sacrificis Abelis et Caini, Quod deterius potiori insidiari soleat, De posteritate Caini.

Nel De cherubim, Filone riprende il tema del rapporto tra intelletto e sensazione, che sono allegoricamente rappresentati da Adamo ed Eva; più precisamente viene interpretata l'espressione biblica «E Adamo conobbe la sua donna» come indicante l'unione dell'intelletto con la sensazione e il corpo.64 Si tratta del peccato d'orgoglio commesso da Adamo, ossia l'intelletto, che, unendosi alla sensazione, diviene in grado di conoscere e sembra risvegliarsi da un lungo sonno. Improvvisamente viene a contatto con tutte le cose soggette a generazione: «avendo legato a sé la capacità di provare sensazioni ed avendo catturato, per mezzo di essa, ogni forma corporea, si riempì d'orgoglio irrazionale, e si gonfiò al punto da credere che tutte le cose fossero sue proprietà e che a nessun altro appartenesse alcunché».65 Il frutto dell'unione di intelletto e sensazione è la nascita di Caino, simbolo -- nella lettura allegorica di Filone -- dell'arroganza di chi presume di poter governare la realtà in quanto la conosce con i sensi, e non ammette che Dio è causa di ogni cosa e di ogni conoscenza.66

La nascita di Abele è letta dall'Alessandrino come l'origine di una nuova concezione, contraria a quella incarnata da Caino. A differenza di quest'ultimo -- che è chiamato «possesso» poiché crede che tutte le cose siano sua proprietà -- Abele segue Dio in quanto si riconosce sua creatura. Il suo nome, infatti, significa «uno che riporta a Dio»: egli è il pastore che governa le greggi (ossia le passioni) e il suo lavoro paziente è tappa necessaria per la pratica della virtù.67 La strada che porta alla sapienza è anche molto faticosa, tanto che Filone spiega come la fatica stia nel mezzo fra la mente e il bene a cui la mente aspira.68 Soltanto Dio è esente da ogni fatica: «il Reggitore Supremo di tutto il cielo e di tutto l'universo possiede i beni e li offre a chiunque Egli voglia, con tutta facilità, poiché una volta, senza alcuna fatica, ha creato questo mondo così grande, e non cessa mai, ora e sempre, di sostenerlo. »69 E il sostegno divino va soprattutto agli uomini come Abele. Date queste premesse sorge dunque spontanea una domanda: come è possibile che il malvagio tenda a sopraffare il buono? La risposta si trova nell'allegoresi filoniana dell'omicidio di Abele. L'omicidio di Abele da parte di Caino è letto da Filone come lo scontro tra la dottrina dell'amore di Dio e la dottrina dell'amore di sé. Abele soccombe e Caino vince, ma solo in apparenza.70 La morte di Abele, infatti, non è una morte vera, ma solo simbolica, poiché in realtà Caino non uccide altri che se stesso -- o meglio, la parte buona di sé, l'unica che avrebbe potuto aspirare alla vita vera, cioè quella dello spirito.71 Il racconto di Quod deterius prosegue riportando la domanda che Dio rivolge a Caino subito dopo l'omicidio: «Dov'è Abele, tuo fratello? <Gen 4, 9>». Caino risponde di non saperlo: non è il suo guardiano. Filone approfondisce l'episodio chiedendosi quale sia il senso dell'interrogativo divino dal momento che Dio conosce tutto, ossia passato, presente, futuro. Dio non può essere alla ricerca di una risposta che non conosce e non porrebbe nemmeno porre una domanda retorica per il gusto di farla: qual è allora il senso del suo domandare? Lo scopo è quello di far sì che «l'anima che sta per formulare le risposte si metta alla prova da se stessa riguardo a ciò che dice bene o dice male, senza avvalersi di un altro che la accusi ovvero la difenda. »72 Caino ha dunque la presunzione di poter ingannare il suo interlocutore, senza rendersi conto che «chiunque pensi che qualcosa possa sfuggire all'occhio di Dio, è un uomo fuori di ogni legge e di ogni istruzione sociale».73 Filone prosegue poi la sua allegoresi commentando Genesi 4, 10, dove Dio dice a Caino: «Che cosa hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida verso di me dalla terra». Secondo l'Alessandrino tale espressone lascia trasparire l'indignazione e lo scherno divino nei confronti di Caino.

Più precisamente l'indignazione di Dio riguarda l'intenzione (malvagia) di Caino che ha compiuto l'omicidio del fratello allo scopo di eliminare il bene, mentre lo scherno deriva dal fatto che Caino pensava di avere teso l'insidia a colui che era migliore di lui, ma in realtà l'ha tesa solo a se stesso.74 La morte vera, infatti, non è quella di Abele poiché Caino uccide solo l'immagine di Abele che aveva in sé stesso, mentre l'idea immortale dell'amore di Dio non viene nemmeno sfiorata dall'omicida.75 Possiamo quindi dire che la vera fine dell'uomo è il peccato, poiché rappresenta la morte dell'anima (unico legame tra Creatore e creato, unica possibilità di piena realizzazione dell'uomo). Parimenti, però, bisogna considerare che Caino è destinato a vivere; nelle Scritture, infatti, non c'è traccia della sua morte.76 La morte di Caino è la morte dell'anima tramite il peccato; tale morte comporta la punizione peggiore, ossia l'abbandono di Dio. Caino però continua a vivere poiché «la stoltezza è un male immortale»: si tratta comunque di una vita non autentica perché destinata all'allontanamento da Dio, che rappresenta la punizione peggiore per l'uomo. È molto meglio essere oggetto della punizione divina piuttosto che soffrire del suo abbandono: infatti, se l'uomo viene trascurato da Dio -- che è buono -- cadrà sotto la schiavitù della creazione, la quale è spietata. Viceversa, se l'uomo viene punito da Dio, con benevolenza e mitezza, può sperare in una mediazione salvifica del Logos divino che lo rimprovera, corregge i suoi errori e lo guarisce.77 Va poi aggiunto che, nell'interpretazione filoniana 'essere abbandonati da Dio' significa non trovare alcun ostacolo sulla via del male e dell'errore,78 mentre l'anima buona è posta di fronte ai disagi al fine di migliorarsi.79

Il percorso fin qui delineato ha fatto emergere come il problema del male sia centrale all'interno della produzione dell'Alessandrino: esso viene coniugato in termini etici e la sua origine è fatta risalire alle cattive inclinazioni dell'uomo che -- essendo l'unico essere capace di scegliere tra il bene e il male -- può fare anche un uso sbagliato della propria libertà. Anche quest'ultimo aspetto è oggetto privilegiato della riflessione filoniana: numerosi passi analizzati hanno descritto un intelletto che -- recando in se stesso un'impronta divina -- è capace di comprendere la grandezza del cielo e del cosmo. Se l'indagine si fermasse a questo punto mancherebbe però della chiave di lettura principale per comprendere la prospettiva teologica e antropologica proprie dell'Alessandrino. Va infatti ricordato che nell'economia del percorso etico dell'uomo la parola ultima spetta sempre e comunque a Dio. L'uomo dunque è libero di scegliere tra il bene e il male, tra Caino e Abele, ma il suo destino, alla resa dei conti, è tutto nelle mani di Dio: l'uomo ha in uso ogni realtà e facoltà, ma non è padrone di nulla.80 Egli, per quanto si sforzi di progredire nel suo percorso etico verso il bene e la sapienza, deve accettare che la realizzazione ultima del suo itinerario è dono imperscrutabile della grazia divina (o, meglio ancora, della provvidenza divina). Ben si comprende, a questo punto, come l'itinerario etico delineato in trattati quali il De migrazione Abrahmi e il Quis rerum divinarum heres sit non sia garanzia, per l'uomo, di poter realizzare la sua natura più propria: la possibilità di ereditare le cose divine è una grazia cui tutti possono aspirare, senza tuttavia essere certi di ottenerla.81

4. Conclusione

Riassumendo il percorso fin qui svolto, si può dire che Filone propone una cosmologia volta a salvare l'assoluta trascendenza divina e un'antropologia che tenta di valorizzare la responsabilità morale dell'uomo in ordine al cammino etico che dovrebbe portare alla salvezza. L'universo per l'Alessandrino, sotto l'influsso della tradizione platonica, è diviso in mondo intelligibile -- creato da Dio e corrispondente al suo Logos -- e mondo sensibile -- creato dall'artefice divino, ossia il Logos, attraverso le sue dynameis. La creazione è intesa come passaggio da uno stato di materia caotica a uno di ordine e armonia a causa della volontà divina che è buona. Si tratta quindi di un mondo cha ha un inizio ma non una fine poiché provvidenzialmente preservato da Dio attraverso il suo Logos, il quale rappresenta lo strumento della creazione, il custode dell'ordine stabilito e l'intermediario tra Creatore e creature. L'uomo ha un ruolo privilegiato all'interno della creazione poiché reca nella parte egemonica della sua anima (nous) l'impronta del pneuma divino. Egli è l'unico essere dotato della facoltà di discernere il bene dal male e quindi capace di scegliere se agire rettamente o contro i decreti divini. Il male si configura come un principio interiore di ordine morale ed è incompatibile con l'assoluta perfezione e bontà divine. Il principio del male è dunque l'uomo, che, in quanto responsabile delle proprie azioni, può lasciarsi negativamente condizionare dal corpo, dalle sensazioni e dalle passioni. Il suo scopo dovrebbe essere, tuttavia, quello di seguire la strada della virtù intesa come cammino etico verso l'assoluta trascendenza. La vita felice consiste nel trascendimento dell'umano nel divino, ovvero nel vivere con tutte le proprie forze per Dio piuttosto che per se stessi: l'erede delle cose divine, infatti, è colui che annulla la propria umanità in Dio.82

Gli influssi che Filone riceve nell'elaborazione del legame Dio-uomo, attraverso il medium della pronoia, sono molteplici: sotto la probabile influenza delle filosofie ellenistiche, il discorso antropologico esprime, a mio avviso, la volontà di dare all'uomo maggiore dignità morale (cosa evidente se si pensa al ruolo privilegiato dell'intelletto nell'antropogonia, nel momento in cui diventa potenziale ricevitore di vita vera essendo dotato della conoscenza del bene e del male). L'intelletto umano in alcuni passi del corpus filoniano gode di una fiducia che appare quasi illimitata. Il percorso etico individuale dell'uomo verso Dio, inoltre, si inserisce a pieno nella cornice della sensibilità tardo-antica che affianca un bisogno simultaneo di trascendenza e immanenza divina. Questa fiducia nell'intelletto dell'uomo va però ridimensionata se consideriamo la prospettiva complessiva che emerge dagli scritti del Commentario allegorico al testo biblico: tale fiducia si trasforma, in ultima analisi, in fede riposta in Dio, o meglio in quella parte dell'uomo che reca un'impronta divina e che Dio, a sua discrezione, può scegliere di salvare o meno. La fatica e l'impegno dell'uomo sono dunque condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungere la salvezza: in un quadro etico-antropologico teologicamente fondato, la parola di Dio finisce per annullare ogni discorso umano e questo aspetto rivela l'identità giudaica di Filone.

Alla nota questione riguardante le matrici del pensiero filoniano -- ossia matrici greche o giudaiche -- la nostra indagine attraverso la chiave di lettura della provvidenza risponderebbe: Filone è uomo tardo-antico. Ciò che caratterizza, infatti, la riflessione dell'Alessandrino in merito al tema della pronoia è quella particolare tensione tra agire umano e agire divino che potrebbe assurgere a simbolo distintivo dell'antichità tarda in quanto tale, sia essa giudaica, cristiana o pagana.

I vostri commenti

Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!

Note

  1. Cfr. Philon d'Alexandrie, De aeternitate mundi, introduction et notes par R. Arnaldez, traduction par J. Pouilloux,  Paris 1969; Philon d'Alexandrie,, De providentia: 1 et 2, introduction, traduction et notes par M. Hadas-Lebel, Paris 1973.  Testo

  2. Cfr. W. Bousset, Jüdisch-christliche Schulbetrieb in Alexandria und Rom, Göttingen 1915, pp. 134-152. Testo

  3. Cfr. J. Daniélou, Filone d'Alessandria, trad. it., Roma 1991, pp. 70-71. Testo

  4. L'opera presenta alcuni problemi testuali legati alla sua trasmissione: l'originale greco è andato perduto (ci sono rimasti solo alcuni frammenti riportati da Eusebio di Cesarea nella sua Praeparatio evangelica) e il testo si è conservato interamente in una versione armena del VI sec. d.C., tradotta poi in latino da Aucher all'inizio del XIX secolo. Testo

  5. Cfr. Phil. Alex. Prov. I 8. Viene recuperata la critica alla dottrina dell'ekpyrosis così come era stata formulata da Boeto di Sidone e da Panezio (espressamente citati da Filone). Testo

  6. Cfr. Phil. Alex. Prov. I 24-25. Testo

  7. Cfr. ivi I 27-30. Testo

  8. Cfr. ivi I 31. Testo

  9. Cfr. ivi I 32. Testo

  10. Cfr. ivi I 33. Testo

  11. Cfr. ivi I 34-36. Testo

  12. Cfr. ivi II 100-102. Testo

  13. Cfr. P. Frick, Divine Providence in Philo of Alexandria, Tübingen 1999, p. 148. Testo

  14. Cfr. Hadas-Lebel, Introduction in Philon d'Alexandire, De providentia cit., pp. 17-117, qui pp. 109-112. Testo

  15. M. Hengel, Giudaismo ed ellenismo. Studi sul loro incontro, con particolare riguardo per la Palestina fino alla metà del II secolo a.C., a cura di S. Monaco, Brescia 2001, pp. 120-121. Testo

  16. Cfr. Phil. Alex. Prov. I 59-66 e II 3-44. Testo

  17. Cfr. D. Amand, Fatalime et liberté dans l'antiquité grecque: recherches sur la survivance de l'argumentation morale antifataliste de Carnéade chez les Philosophes grecs et les théologiens chrétiens des quatre premiers siècle, Amsterdam 1973, pp. 84-85; B. Motta, Il Contra fatum di Gregorio di Nissa nel dibattito tardo-antico sul fatalismo e sul determinismo, Pisa-Roma 2008, pp. 25-26. Testo

  18. Cfr. Phil. Alex. Prov. I 77-83. Testo

  19. Cfr. ivi I 84-86. Testo

  20. Cfr. ivi I 87. Testo

  21. Cfr. Phil. Alex. Prov. I 88. Non solo gli astri sono soggetti alla provvidenza divina, ma anche i fenomeni della profezia e della divinazione -- essendo modalità e segni della rivelazione di Dio -- sono espressione del volere divino (cfr. G. Sfameni Gasparro, Modalità e segni di rivelazione nel De vita Mosis in La rivelazione in Filone di Alessandria: natura, legge, storia, Atti del VII Convegno di Studi del Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina (Bologna 29-30 settembre 2003), a cura di A.M. Mazzanti e F. Calabi, Rimini 2004, pp. 33-74). Testo

  22. Frick, Divine providence cit., p. 15 (trad. it. mia). Testo

  23. Cfr. D. Runia, Philo of Alexandria and the Timaeus of Plato, Leiden 1986, pp. 434-435. Testo

  24. Le possibili fonti della riflessione filoniana intorno alla nozione di trascendenza divina sono generalmente individuate nelle idee teologiche dello Pseudo-Archita e soprattutto di Eudoro di Alessandria. Cfr. J. Dillon, The Golden Chain, Hampshire 1990; D. Winston, Philo's Conception of the Divine Nature, in A.a.V.v., Neoplatonism and Jewish Thought, edited by L. E. Goodman, New York 1992, pp. 21-42; J. Mansfeld, Compatible Alternatives: Middle Platonist Theology and the Xenophanes Reception, in A.a V.v., Knowledge of God in the Greco-Roman World, edited by R. van der Broek et al., Leiden 1988, pp. 92-117; J. Whittaker, Neopythagoreanism and the Trascendent Absolute, «Symbolae Osloenses», 48 (1973), pp. 77-86. Testo

  25. Phil. Alex. Mutat. 11 (trad . it. di. C. Kraus Reggiani, p. 1549). Tutte le traduzioni delle opere del commentario allegorico al testo biblico sono tratte da Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di R. Radice, Milano 2005. Testo

  26. Cfr. Phil. Alex. Fug. 14; LA II 1-3 e II 86; Sacrif. 92. Testo

  27. Cfr. Phil. Alex. Deus 62 (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 699); cfr. anche Phil. Alex. Somn. I 230-231. Testo

  28. Cfr. Phil. Alex. Poster. 166-169. Testo

  29. Cfr. Phil. Alex. Virt. 216. Testo

  30. Cfr. Phil. Alex. LA III 99 (trad. it. di R. Radice, pp. 229-231). Testo

  31. Phil. Alex. Opif. 9-11 (trad. it. di C. Kraus Reggiani, p. 15). Cfr. anche Phil. Alex. Opif. 171-172. Testo

  32. Phil. Alex. Poster. 20 (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 565). Testo

  33. Phil. Alex. Opif. 21 (trad. it. di C. Kraus Reggiani, p. 19); cfr. Plat. Tim. 29d-30c. Va ricordato che la fonte di Filone in merito al tema della creazione come atto di bontà divina non è solo platonica: «se uno domandasse qual è il motive della creazione del mondo, io, che l'ho appreso da Mosè, risponderò che è la bontà dell'Essere» (Phil. Alex. Deus, trad. it. di C. Mazzarelli, p. 711); cfr. anche Phil. Alex. Mutat. 46. Testo

  34. Cfr. Phil. Alex. Plant. 87. Testo

  35. Cfr. Phil. Alex. Migr. 183. Cfr. Runia, Philo and the Timaeus cit., p. 441. Testo

  36. Cfr. Frick, Divine providence cit., pp. 79-87. Testo

  37. Cfr. Phil. Alex. Her. 205-206; Cfr. anche Fug. 97 e QE II 68. Testo

  38. Più precisamente, come emerge dall'approfondita ricerca di C. Termini, «Nel De Cherubim il logos interviene come principio di sincronia delle potenze e di misura nella loro applicazione e manifestazione» (cfr. C. Termini, Le potenze di Dio. Studio su dynamis in Filone di Alessandria, Roma 2000, p. 116). Testo

  39. Cfr. Phil. Alex. Mutat. 27-28. Testo

  40. Cfr. Phil. Alex. Cher. 27. Testo

  41. Phil. Alex. Fug. 94-95 (trad. it di C. Kraus Reggiani, p. 1467). Il Logos filoniano si presenta come prima tra le potenze in quanto è figlio primogenito di Dio, più universale di tutti gli esseri creati, immagine invisibile di Dio e sua manifestazione. Egli è mediatore tra Dio e il cosmo in quanto è elemento di coesione e di unificazione del tutto: si estende dal centro alla periferia e tiene unite tutte le parti per cui gli opposti sono regolati nella concordia. Parallelamente il Logos è anche divisore poiché separa tutte le cose dell'universo, distinguendo tra creato e Creatore. Non è semplice nel discorso filoniano distinguere la specificità del Logos rispetto a Dio o rispetto alle potenze e quindi è difficile darne una definizione precisa e coerente: per certi aspetti rimanda alla funzione del secondo dio di cui parla la tradizione medioplatonica; per altri richiama la distinzione stoica tra Logos interno Logos proferito; per il suo ruolo di presenza che precede ogni altra cosa e strumento della creazione ricorda la sapienza di Proverbi 8, 22ss. Per quanto riguarda invece le potenze, esse, a mio avviso, non sono delle vere e proprie ipostasi separate e autonome, ma appaiono soprattutto come modalità dell'agire di Dio e del conoscere umano. Testo

  42. Per una sintesi delle varie interpretazioni cui ha dato adito questo passo del De fuga et inventione cfr. C. Termini, Le potenze cit., p. 120. Testo

  43. Termini, Le potenze cit., p. 235. Testo

  44. Phil. Alex. Her. 166 (trad. it. di R. Radice p. 1275). Per un approfondimento su Theos e Kyrios cfr.: A.M. Mazzanti, Theos e Kyrios. I "nomi" di Dio in Filone d'Alessandria. Questioni storico-comparative, «Studi Storico Religiosi», 5 (1981), pp. 15-30. Testo

  45. Termini, Le potenze cit., p. 136. Testo

  46. Cfr. Phil. Alex. Spec. I 308. Testo

  47. La teoria filoniana della creazione va intesa come transizione da una materia disordinata ad un ordine cosmico: essa, benché abbia un inizio, è indistruttibile proprio grazie all'attività provvidenziale del suo Creatore. Testo

  48. Cfr. Phil. Alex. Opif. 15-20. Testo

  49. Ivi 24 (trad. it. di C. K. Reggiani, p. 19). Testo

  50. Cfr. Phil. Alex. Migr. 6. Testo

  51. Cfr. Phil. Alex. Opif. 67. All'interno del De Opficio mundi, commentando i sei giorni della creazione così come vengono raccontati in Genesi, Filone tenta di far emergere come l'agire di Dio non sia kata chronon : il mondo fu creato in sei giorni non perché Dio avesse bisogno di una certa estensione di tempo (in quanto è logico pensare che Dio compia tutto simultaneamente), ma perché sono le cose stesse che vengono create a richiedere una successione ordinata (non si tratta di un inizio in senso temporale, ma di un ordine ontologico interno alla realtà). In particolare Filone specifica che il giorno uno deve essere considerato al di fuori della serie dei giorni: in esso infatti viene creata la luce, la quale è condizione di possibilità affinché ci siano gli altri giorni, e inoltre in esso Dio crea il mondo intelligibile. Il passaggio dal giorno uno ai giorni successivi corrisponde quindi al passaggio dalla creazione del mondo ideale a quella del mondo sensibile. Testo

  52. Cfr. Phil. Alex. Opif. 60. Testo

  53. M. G. Crepaldi, La concezione del tempo tra pensiero biblico e filosofia greca: saggio su Filone di Alessandria, Padova 1985, p. 53; sull'antropologia di Filone cfr. anche F. Alesse, Il luogo del nous: alcuni aspetti dell'antropologia in Aa. Vv., La rivelazione in Filone di Alessandria cit., pp.105-122; A. M. Mazzanti, Antropologia e radici del male in Filone di Alessandria: due possibili opzioni in Aa. Vv., Cristianesimo e giudaismo: eredità e confronti, XVI Incontro di Studiosi dell'Antichità cristiana, Roma 1988, pp. 187-201; Id., L'uomo nella cultura religiosa del tardo-antico tra etica e ontologia, Bologna 1990; Id., Creazione dell'uomo e rivelazione in Filone di Alessandria in Aa. Vv., La rivelazione in Filone di Alessandria cit., pp. 75-103. Testo

  54. Phil. Alex. Fug. 69-70 (trad. it. di C. Kraus Reggiani, p. 1459). Rispetto al passo citato vorrei sottolineare come in realtà non si parli propriamente di potenze (dynameis) bensì di synergoi. La questione dei collaboratori divini nella creazione della parte mortale dell'uomo è piuttosto complessa poiché talvolta Filone parla di dynameis (Fug. 65-74), talaltra di synergoi (Opif 69-75) e nei luoghi antropogonici precedentemente riportati (LA I 31-32) la collaborazione demiurgica è del tutto assente. Ovviamente queste diversità sono legate ai diversi contesti esegetici in cui compaiono; è però interessante notare come il problema centrale cui ruota attorno l'antropogonia filoniana non sia tanto la preoccupazione di separare Dio dall'aspetto sensitivo e corporeo dell'uomo, quanto piuttosto quella di coniugare la libertà umana con l'estraneità di Dio al male. La questione antropogonica, dunque, è strettamente legata al problema della teodicea che, a sua volta, chiama in causa la libertà morale dell'uomo. In LA I 35 è infatti spiegato che Dio soffia nell'intelletto una potenza di vita vera al fine di introdurvi i fondamenti della giustizia positiva: solo in questo modo l'uomo è abilitato a conoscere il bene e quindi diventa anche responsabile di un suo eventuale cedimento verso il male; soltanto a queste condizioni Dio lo può giudicare (Cfr. Termini, Le potenze cit., p. 167; cfr. anche F. Calabi, Ruoli e figure di mediazione in Filone di Alessandria, «Adamantius», 10 (2004), pp. 89-99). Anche in altri luoghi della sua produzione Filone spiega come non bisogni fare confusione al fine di mostrare come Dio sia causa di tutte le cose indistintamente, ma sia necessario fare alcune distinzioni per mostrare come Dio sia causa dei soli beni (cfr. Phil. Alex. Agric. 129). Rispetto all'uomo, inoltre, non solo Dio non è creatore della parte mortale dell'uomo, ma non è nemmeno responsabile diretto delle punizioni sancite contro i malvagi, poiché tali punizioni sono opera e compito specifico sempre delle Potenze divine (cfr. Phil. Alex. Confus. 180). Testo

  55. Phil. Alex . Deus 29-30 (trad. it. C. Mazzarelli, pp. 689-691). Testo

  56. Cfr. Phil. Alex. Opif. 67. Testo

  57. Cfr. Phil. Alex . Migr. 186. Testo

  58. Cfr. Phil. Alex . Deus 48; Opif. 72-73; Confus. 176-178. Testo

  59. Phil. Alex . Deus 50 (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 695). Testo

  60. Phil. Alex . Deter. 89-90 (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 501). Testo

  61. Cfr. Phil. Alex . Fug. 79. Testo

  62. Cfr. Phil. Alex . Her. 160; Fug. 198. Testo

  63. Phil. Alex. Fug. 62-64 (trad. it di C. Kraus Reggiani, pp. 1457-1459). Sul tema dell'assimilazione a Dio in Filone nel pensiero tardo-antico cfr. M. G. Crepaldi, Farsi Dio, farsi uomo. La salvezza tra filosofia e rivelazione nel pensiero tardo-antico, in E. Prinzivalli, Questioni di storia nel cristianesimo antico I-IV sec., Roma 2009, pp. 113-151. Testo

  64. Cfr. Phil. Alex. Cher. 40 e 53-54. Testo

  65. Ivi 64 (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 343). Testo

  66. Cfr. ivi 65: «Questo è il comportamento che Mosè ha descritto e ha chiamato Caino, interpretato nel senso di «possesso», pieno di dabbenaggine, o piuttosto di empietà. Invece di pensare che tutte le cose sono proprietà di Dio, l'intelletto suppose che fossero sue, mentre non è capace non solo di tenere saldamente se stesso, ma neanche di sapere qual è la sua propria essenza» (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 343). Testo

  67. Cfr. Phil. Alex. Sacrif. 2. Testo

  68. Cfr. ivi 36. Testo

  69. Ivi 40 (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 403) Testo

  70. Cfr. Phil. Alex . Deter. 47-51. Testo

  71. Cfr. Phil. Alex . Deter. 47-48: «Perciò anche quello che segue, «Caino sollevò la mano contro Abele, suo fratello, e l'uccise» <Gen. 4,8>, suggerisce, stando all'apparenza superficiale, che sia Abele ad essere stato eliminato, ma ad un esame più accurato si capisce che è lo stesso Caino che si è eliminato da sé. Per conseguenza bisogna leggere «Caino sollevò la mano e uccise se stesso», e non un altro. Ed è naturale che gli sia capitato questo, giacché l'anima che ha eliminato da sé la dottrina dell'amore di Dio è morta alla vita della virtù. Per conseguenza, Abele, il massimo del paradosso!, è eliminato eppure vive: è eliminato dall'animo dell'uomo stolto, ma vive la vita beata che è in Dio» (trad .it. di C. Mazzarelli, p. 485). Testo

  72. Phil. Alex. Deter. 58 (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 489). Testo

  73. Ivi 61 (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 491). Cfr. anche Phil. Alex. Deter. 153: «Ma un uomo, o qualsiasi altra creatura, potrebbe nascondersi agli occhi di Dio? E dove? Nascondersi da Colui che arriva prima dappertutto, che tutto vede fino ai limiti di ogni cosa, che riempie l'universo? Colui del quale nemmeno la più piccola cosa esistente è priva?» (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 523). Sull'onniscienza e onnipresenza divine cfr. anche Phil. Alex. Cher. 16-17 e Sacrif. 67. Testo

  74. Cfr. Phil. Alex. Deter. 69-70. Testo

  75. Ivi 78 (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 497). Testo

  76. Cfr. ivi 177-178: «In seguito dice che «il Signore Iddio pose un segno sopra Caino, affinché chiunque lo incontrasse non lo uccidesse» <Gen. 4,15>, ma non ha rivelato quale sia questo segno, benché sia solito mostrare per mezzo di un segno la natura di ciascuna cosa [...]. In tutto il libro della Legge, infatti, Mosè non dà notizia della morte di Caino, alludendo allegoricamente al fatto che, come la Scilla del mito, la stoltezza è un male immortale, che non sperimenta quella fine completa che consiste nell'esseri morti, ma che subisce per tutta l'eternità la fine nel senso di continuare a morire» (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 531); Cfr. anche Fug. 60-61. Testo

  77. Cfr. Phil. Alex. Deter. 146. Testo

  78. Cfr. Phil. Alex. Confus. 167: «se vedrai uno stolto attuare senza difficoltà quanto ha in animo, non ammirarlo per il suo successo; piuttosto compiangilo, come se avesse subito uno scacco, dal momento che egli conduce una vita povera di virtù e ricca di vizio» (trad. it. di R. Radice, p. 1091). Testo

  79. Cfr. Phil. Alex. Congr. 163-167. Testo

  80. Cfr. Phil. Alex. Cher. 113: «Avendo così messo insieme tutte queste cose, attribuì a Se stesso il dominio di tutte loro, e ai Suoi soggetti assegnò l'uso e il godimento di se stessi e degli altri, reciprocamente. E, infatti, noi abbiamo in uso noi stessi e quanto ci circonda. Io, che sono composto di anima e corpo, io che sembro possedere intelligenza, parola e sensibilità, trovo che nulla di tutto questo è proprio mio» (trad. it. di C. Mazzarelli, p. 357). Testo

  81. Cfr. Phil. Alex. Her. 57-58. Testo

  82. Cfr. Phil. Alex. Her. 30: « Abramo disse: ora mi sono accinto a parlare con il mio Signore, io che sono terra e polvere» <Gen. 18, 23 e 27>, giacché il momento giusto per la creatura per incontrare il suo Creatore viene quando essa ha riconosciuto la propria nullità» (trad. it di R. Radice, p. 1241). Testo