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Il problema degli universali in Florenskij. E alcune considerazioni sui numeri transfiniti di Cantor

di Mario Enrico Cerrigone (15 agosto 2014)

1.

Nel secondo capitolo de Il significato dell'Idealismo Florenskij scrive:

Con la presente esposizione vorrei farvi comprendere che qui non si tratta di contese verbali scolastiche e nemmeno d'erudite diatribe pedanti [...] dalla scelta di una risoluzione platonica o antiplatonica del problema degli universalia è poi dipesa la disposizione generale di tutta la visione del mondo, la tempra caratteristica dell'intera concezione della vita.1

Introducendo il tema degli universalia Florenskij coglie immediatamente che dal tipo di risoluzione adottata nei confronti del problema "dell'uno e dei molti" consegue una "visione del mondo" ed una "concezione della vita" che non è una semplice scelta pro o contra Platone, ma una decisione che determina la forma dell'esistenza di chi la realizza;

Che cosa c'è, che cosa esiste realmente? Che cosa è conoscibile? Che cosa ha valore? Il momento dato, vissuto qui ed ora, oppure un qualcosa che, seppur in relazione con esso, è eterno e universale? [...] Esiste veramente e soltanto una realtà inferiore, oppure ce n'è un'altra superiore, più reale di quella inferiore? .2

Non c'è misura che possa cogliere per intero l'esperienza che genera questo tipo di domande che davvero non hanno nulla di scolastico o di pedante, ed invece attraversano il pensiero da parte a parte, incendiandolo. Per questo occorre un certo rigore nell'affrontarle, ed anche una certa disposizione al rischio. Il problema degli universali, dell'hén kai pollá, dell'uno e dei molti, così come lo pone Florenskij, infatti, non è propriamente una domanda su come concepire la teoria delle idee, o la vita, è invece una questione che punta lo sguardo in uno spazio in cui vita e pensiero si realizzano e si generano reciprocamente: « [...] la vita è un incessante realizzazione dell'hén kai pollá. E se ci si chiedesse: "Da che cosa si è potuta originare la teoria delle idee? " sarebbe difficile trovare una risposta più adatta di questa: "Dall'essere vivente"».3 Ma affinché possa chiarirsi il legame strettissimo che unisce la vita al complesso tema degli universali « [...] la ragione deve rinunciare alla propria limitazione entro i confini del raziocinio, rigettare la chiusura delle costruzioni razionalistiche e rivolgersi alla norma nuova, diventare una ragione "nuova". Qui si chiede un libero atto eroico».4

Questi brevi passaggi riassumono in modo essenziale non tanto un aspetto del pensiero di Florenskij ma il suo movimento che si rivela proprio nel ritmo alternato dell'uno e dei molti. Il fatto stesso che la vita sia "un'incessante realizzazione dell'hén kai pollá", manifesta al massimo grado la tensione e, nello stesso tempo, l'armonia del rapporto fra vita e pensiero, così, se da un lato è vero che la teoria delle idee nasce dall'essere vivente, è altrettanto vero che sarebbe illusorio pensare che, per questo, il pensiero, possa essere in grado di comprendere la vita. Ed in effetti l'atto con cui la ragione può entrare in risonanza con la vita è un atto di rinuncia non di comprensione. Ciò che Florenskij indica come nuova norma e nuova ragione è il risultato di "libero atto eroico" che parte proprio da una rinuncia, e si tratta di una conquista tutt'altro che scontata. È per questo motivo che il problema degli universali è un questione dura da sciogliere, perché il pensiero è costretto ad inseguire una dimensione che supera puntualmente la sua capacità di far presa su di essa. Proprio perché la ragione si trova sempre un passo indietro rispetto a ciò che tenta di cogliere, l'atto con cui essa deve superare il raziocinio deve essere libero ed eroico, perché occorre avere il coraggio e la libertà di andare oltre il limite di ogni conquista che si è ottenuta, perché occorre resistere alla tentazione di chiudere la vita in uno schema conoscitivo definitivo e completo, ecco il senso complessivo della rinuncia. Nello stesso tempo, però, occorre resistere anche alla tentazione contraria di destrutturare o delegittimare continuamente quanto viene conosciuto, per questo è altrettanto importante che questo movimento incessante possa fissarsi in cristalli di conoscenza che non escludano nulla di quanto si è conquistato. È nel comporsi di questi due problemi (nell'intreccio far questo mondo e l'altro mondo) che Florenskij cerca una "norma nuova" capace di superare le secche del raziocinio e gli smottamenti del relativisimo per poter approdare ad una "nuova ragione", ed è essenzialmente è su questa sfida che si gioca la credibilità del suo pensiero, dimostrare che è possibile un modello di conoscenza capace di fare i conti con la lacerazione, che appartiene a tutti noi, che continuamente deve comporre il rinnovarsi della vita senza irrigidirsi e senza nemmeno disperdersi.

Un tutto si dice meccanico se i suoi singoli elementi sono uniti soltanto nello spazio e nel tempo da un legame esteriore e non sono compenetrati dall'interiore unità del senso. Le parti di questo tutto, anche se si trovano accanto e sono in contatto tra loro, in sé sono estranee l'una all'altra.

Le tre sfere della cultura umana -- scienza, arte e vita -- trovano unità soltanto nella persona che le rende partecipi della propria unità. Ma questo legame può diventare meccanico, esteriore. Purtroppo, il più delle volte avviene proprio cosi. L'artista e l'uomo sono uniti ingenuamente, per lo più meccanicamente, in una sola persona; nella creazione l'uomo entra temporaneamente, abbandonando gli «affanni quotidiani» per un altro mondo, quello «dell'ispirazione, dei dolci suoni e delle preghiere». Che risultato si ottiene? L'arte è troppo spavaldamente sicura di sé, troppo patetica, e infatti non deve essere per nulla responsabile della vita, la quale, naturalmente, non riesce a tenere il passo dell'arte. «Non è pane per i nostri denti, -- dice la vita -- una cosa è l'arte, un'altra la nostra prosa quotidiana».

Quando l'uomo è nell'arte, egli è fuori della vita, e viceversa. Tra esse non c'è unità e reciproca compenetrazione interiore nell'unità della persona.

Che cosa allora garantisce il legame interiore degli elementi della persona? Soltanto l'unità della responsabilità. Di quello che ho vissuto e compreso nell'arte devo rispondere con la mia vita affinché tutto il vissuto e il compreso non resti in essa inattivo.

(M. Bachtin, L'autore e l'eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino 2000, p. 3)

2.

Saremmo noi in grado di capire cosa possa significare il fatto che "di quello che ho vissuto e compreso nell'arte devo rispondere con la mia vita [...]" se sfuggissimo al problema che si pone con gli universali? Da dove potrebbe nascere questo rapporto di responsabilità fra i contenuti dell'arte e della (propria) vita, se si dovesse prescindere dal fatto che i molti devono essere composti fra loro in unità. Il passaggio è cruciale perché, ad esempio, o l'arte è in grado di costituire un'unità interiore di senso, e quindi è capace di costituire esperienze che includono la vita, oppure, se non è in grado di farlo, assume una funzione esclusiva, potremmo dire alienata. In questo caso o si è nella vita oppure nell'arte e, comunque, si è privi di un principio integrativo, unificante. Già a partire da se stessi. Il problema dell'unità di senso, quindi, non è una semplice questione di comprensione ma un'esperienza più complessa e profonda in cui è in gioco il proprio legame con se stessi ed il mondo. Così la domanda che viene a porsi sullo sfondo di queste considerazioni assume una portata più generale, perché riguarda il rapporto di responsabilità fra i contenuti del proprio pensare e la vita. Ma sarebbe affrettato ridurre l'ampiezza di questo interrogativo ad una semplice istanza etica, per cui "io" posso considerare la mia vita in effettivo rapporto con i contenuti del mio pensiero solo se le scelte che opero riflettono e portano con sé la responsabilità di quei contenuti. Ovviamente questa esigenza di coerenza nasce da ragioni profonde, ma la prospettiva sviluppata da Florenskij impone che la stessa istanza etica venga inserita all'interno della più ampia questione degli universali, in questo senso il problema etico non riguarda semplicemente la coerenza con cui i contenuti del pensiero traspaiono nell'esistenza (per quanto questi possano essere buoni), ma occorre che la vita, l'esistenza stessa, nel realizzarsi come tale e nel generare le esperienze che produce -- non importa quali esse siano (etiche, artistiche, ecc.) -- sia capace di andare oltre se stessa, cioè di rivelare il carattere trascendente di quanto sta esperendo, anche l'etica deve andare oltre se stessa. La posta in gioco è rilevantissima perché la vita, nel realizzare se stessa, deve essere in grado di mostrare la realtà invisibile con cui si trova in rapporto, ma non solo! Mostrare l'invisibile vuol anche dire rivelare la trama di rapporti che lega ciascuna cosa a ciascun'altra, ed è in questo dinamismo che è possibile scoprire pienamente l'altro da se. È per questo preciso motivo che il tema degli universali ha tanta importanza, perché, detto altrimenti, la vita nel realizzarsi come una deve anche realizzarsi anche come molti. Il legame di responsabilità nasce da questo compito essenziale, che richiede di non isolare mai alcun singolo contenuto dal suo rapporto con tutto il resto. Tuttavia questo è un compito che non è lasciato alla pura iniziativa del soggetto, alla sua semplice volontà: «ciò che noi vediamo non è una combinazione della nostra mente ma ha un suo fondamento nella natura delle cose».5 Il realismo si fonda su questa semplice idea:

[...] i movimenti realistici sono generati da un senso di affinità con l'esistenza, dalla percezione che le cose, i momenti e le condizioni non sono assolutamente isolati, ma sono intimamente uniti, non però in forza di una loro comunanza meccanica e nemmeno di una vaghezza e di una confusione delle loro determinazioni, bensì in forza di una relazione sostanziale, di un'affinità e di un'unità che scaturiscono da una profondità interiore.6

Quando questo non accade, quando l'opzione realista è rigettata, ci si ferma solo alla prima parte della questione, la vita è "una", certamente, ma proprio questo atteggiamento in cui solo l'identità viene presa in considerazione, produce il massimo della frammentazione:

La realtà è completamente isolata, completamente estranea a tutto ciò che è diverso da sé. La realtà è quella e solo quella. [...] Non ha radici con le quali penetrare negli altri mondi. Essa infine, nel tempo, non è legata a se stessa e, di per se stessa, non ci offre l'immagine di un essere integro e coerente.7

Quando la vita ed il pensiero camminano su piani paralleli il cui rapporto è regolato da un aut-aut reciproco, un rapporto in cui ciascuna cosa è solo uguale a se stessa, in quel caso la questione degli universali si svuota di senso e si sbriciola.

Mangiato che ho, ritorno nell'hosteria: quivi è l'hoste, per l'ordinario, un beccaio, un mugniaio, dua fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dì giuocando a criccha, a triche-tach et poi, dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose, et il più delle volte si combatte un quattrino et siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano. [...] Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottiscie la morte: tucto mi transferisco in loro.

(N. Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513)

3.

Florenskij ha individuato nel Rinascimento il punto d'origine da cui ha preso il via una concezione della vita priva di unità interna e dunque frammentata. L'idea che, un conto sia la vita, altro il mondo dello spirito, è ciò che per lui va confutato. Per questo motivo le sue parole di condanna verso l'uomo rinascimentale sono molto dure: la distruzione del concetto di forma, il conseguente sfaldarsi dell'intero in un aggregato confuso di elementi sono, per Florenskij, tratti fondanti dell'approccio rinascimentale e, fra le molteplici conseguenze che per lui ne derivavano, val la pena di tenere in considerazione almeno questa che riguarda, ancora una volta, l'arte:

[...] l'uomo è soltanto un osservatore, un occhio che osserva dalla fessura [...] addirittura solo un singolo punto dell'occhio, peraltro perfettamente immobile. Il declino della cultura è legato al declino dell'arte.8

Qui Florenskij sta criticando l'uso che il Rinascimento ha fatto della prospettiva lineare nell'arte, che imbriglia lo spazio figurativo all'interno di schemi rigidi e artificiosi e, soprattutto, che apre ad una novità inaudita, quella di trasformare l'uomo in un semplice osservatore. Questa metamorfosi, che oggi si è completamente compiuta, è una delle componenti principali che, a parere di Florenskij, ha dato il via ad un rovinoso declino dell'arte e della cultura. Le complesse implicazioni di questo problema sono affrontate in modo minuzioso da Florenskij ne La prospettiva rovesciata,9 ma il nucleo essenziale della critica è centrato sul fatto che con le novità introdotte dal Rinascimento viene ad essere spezzato il rapporto organico fra realtà e conoscenza, frattura che apre le porte all'affermazione del Diktat kantiano, il cui soggettivismo Florenskij critica ferocemente. Possono essere sufficienti queste considerazioni del pensatore russo sulla Scuola di Marburgo:

Al soggettivismo dell'uomo nuovo appartiene l'illusionismo: al contrario non c'è niente di tanto lontano dai pensieri e dalle intenzioni dell'uomo medioevale [...] Per quanto riguarda l'uomo nuovo, dalla bocca dei filosofi della Scuola di Marburgo prendiamo la sincera dichiarazione che la realtà esiste soltanto quando, e nella misura in cui, la scienza si degna di autorizzarne l'esistenza, dando questo permesso nella forma di uno schema fittizio [...] Il brevetto sulla realtà viene legittimato solo nella cancelleria di H. Cohen ed è nullo senza la sua firma ed il suo timbro. Ciò che a Marburgo viene affermato apertamente costituisce l'essenza del pensiero rinascimentale ma tutta la storia della cultura è fondamentalmente impegnata in una guerra con la vita, al fine di soffocarla completamente entro un sistema di schemi.10

La novità che si afferma attraverso questa palingenesi del pensiero, avviata da Kant, è che l'uomo non fa in alcun modo esperienza della realtà, la sola cosa che può sperimentare è il modo interno di organizzare i propri contenuti del conoscere; ciò che si può conoscere è il proprio modo di reagire e di organizzare gli stimoli che provengono da quell'inaccessibile che è la realtà. È in questo senso che l'arte diventa pura libertà espressiva sciolta da ogni vincolo di responsabilità perché l'artista non rende conto di alcuna dimensione esterna, il solo riferimento che gli resta è ai contenuti interni della coscienza che restano comunque inaccessibili all'esterno. In un certo modo diventa vero per ogni artista ciò che Florenskij affermava per la "cancelleria di H. Cohen": adesso ogni artista può fissare un proprio brevetto sulla realtà, il che finisce per escludere non solo che si possa parlare di una realtà, ma che si possa parlare di realtà. Come conseguenza di questa novità, si diceva, appare la figura dello spettatore, cioè di colui il quale fruisce dell'opera d'arte sempre dall'esterno come chi, volendo entrare, è perennemente escluso dal suo contenuto essenziale. La ragione è evidente, lo spettatore è escluso non per il fatto che l'opera d'arte non sia in grado di generare esperienze, anzi! È escluso per il fatto che non c'è più alcuna radice comune fra le esperienze dello "spettatore" e quelle dell'artista, prima di tutto perché non c'è alcuna realtà che essi possono condividere. In questo senso è assurdo ipotizzare che possa esserci uno spazio unitario in cui le esperienze possano convergere. Per questo, secondo Florenskij, occorre compiere un percorso a ritroso,

noi dobbiamo convincerci sin dall'inizio che non c'è solo pollá, ma c'è anche hén e c'è l'hén kai pollá e solo allora, dopo aver ragionevolmente determinato il problema fondamentale della filosofia, cominceremo a filosofare, cioè a cercare delle soluzioni [...] Per loro (i greci) la filosofia non era un ornamento della vita, ma la sua interiore bellezza, grazie alla quale potevano scoprire la loro struttura psico-fisica reale.11

Ma in che modo è possibile compiere questo percorso a ritroso? A chi si dovrà affidare il compito di generare di nuovo esperienze di questo tipo? È sufficiente pensare, o affermare, che questo sia il compito del filosofo? Questa domanda ci riporta ad una questione che si era già posta in apertura di questo lavoro.

Nei vecchi libri è dato spesso all'uomo giusto il celeste nome di mediatore. Mediatore fra l'uomo e il dio, fra l'uomo e l'altro uomo, fra l'uomo e le regole segrete della natura. Al giusto, e solo al giusto, si concedeva l'ufficio di mediatore perché nessun vincolo immaginario, passionale, poteva costringere o deformare in lui la facoltà di lettura. [...] Che cosa è dunque mediazione se non una facoltà del tutto libera di attenzione? Contro di essa agisce quella che noi, del tutto impropriamente, chiamiamo la passione; ossia l'immaginazione febbrile, l'illusione fantastica. Si potrebbe dire a questo punto che giustizia e immaginazione sono termini antitetici. L'immaginazione passionale, che è una delle forme più incontrollabili dell'opinione -- questo sogno in cui tutti ci muoviamo -- non può servire in realtà che a una giustizia immaginaria. [...] Al giusto, infatti, contrariamente a quanto di solito si richiede da lui, non occorre immaginazione ma attenzione. Noi chiediamo al giudice una cosa giusta chiamandola con un nome sbagliato quando sollecitiamo da lui «dell'immaginazione». Che cosa mai sarebbe in questo caso l'immaginazione del giudice se non arbitrio inevitabile, violenza alla realtà delle cose? Giustizia è un'attenzione fervente, del tutto non violenta, ugualmente distante dall'apparenza e dal mito.

(C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 2002, pp. 165-166)

4.

Occorre non dare davvero nulla per scontato. Quando noi nominiamo "filosofia" oppure "filosofo" cosa stiamo nominando? Una disciplina? Una professione? La domanda ci porta alla radice del problema che stiamo indagando, ma a partire da un altro versante. Quello che ci interessa non è quale sia il ruolo del filosofo e nemmeno di cosa debba occuparsi questa disciplina o, ancora, quale sia il significato di questa parola. Ci interessa sapere, invece, quale sia il valore stesso del nominare che, per Florenskij, è più ampio del semplice "comprendere" o "significare". Quando parliamo della "filosofia" o del "filosofo" facciamo riferimento prima di tutto ad un particolare ordine di esperienze e ad un particolare modo di esprimerle il cui fulcro centrale resta inevitabilmente ciò che Florenskij chiama "vita", e questo vale in modo identico anche per le parole, che nominano quel tipo di esperienza:

[...] il riconoscimento o il mancato riconoscimento della realtà della parola [...] ci porta a rasentare direttamente la questione se la parola sia un organismo, poiché, in caso contrario [...] saremmo costretti a riconoscerla come una combinazione esterna di energia, e per questo casuale e priva di qualsiasi stabilità.12

La parola è un organismo in cui si specchia la vita stessa di colui che la esprime, così «Se l'uomo stesso non è, in senso proprio, un tutto integro, allora tantomeno integra risulterà essere la sua parola».13 Ma in che modo questa concezione della parola ha a che vedere col tema degli universali? Ecco la risposta di Florenskij:

La parte equivale all'intero, ma l'intero non equivale alle sue parti: questa la definizione di simbolo. Simbolo è quanto può essere simbolizzato, incarnazione è quanto può essere incarnato, il nome è quanto può essere nominato, mentre non si può affermare il contrario: quanto può essere simbolizzato non è simbolo, quanto può essere incarnato non è incarnazione e quanto può essere nominato non è nome.14

Ci troviamo, ancora una volta di fronte al nodo da cui siamo partiti all'inizio del nostro lavoro, la vita è l'incessante realizzarsi dell'uno e dei molti, e la filosofia, ed il filosofo, ne esprimono una particolare eco. Possiamo porre la stessa questione in termini ancora più espliciti: la filosofia, nel suo inverarsi, è l'apertura ad un'esperienza originaria che supera qualsiasi capacità di esprimerla, e gli universali sono una cartina al tornasole che rende evidente questa tensione, al cui interno si rivela il lato perennemente inquieto della filosofia. L'esperienza filosofica rivela un'eccedenza che, ad esempio, rispetto alla capacità di nominare, rappresenta anche una mancanza. Non c'è parola che possa esaurire ciò che la vita è in quanto esperienza ma, nello stesso tempo, è anche vero che questa parola nemmeno è del tutto impotente. Nel dinamismo della parola si specchia il medesimo tratto di medietà che caratterizza l'uomo, per Florenskij la parola è anfibia e svolge un ruolo di mediazione fra interno ed esterno,15 e proprio questo suo carattere porta nuovamente a convergere con il realismo:

Siamo abituati a considerare la parola come manifestazione del significato e giustamente la identifichiamo con il significato. Così facendo, però, spesso ci dimentichiamo di considerare la parola appunto come manifestazione del significato, mentre in realtà, parallelamente all'identificazione di cui sopra, è possibile stabilire un'altra identificazione: [l'identificazione] della parola con la sua manifestazione. In effetti, la parola si trova tanto all'interno di noi quanto all'esterno e se abbiamo ragione a ritenere la parola un avvenimento della nostra vita recondita, non dobbiamo però dimenticare che essa è un qualcosa che ha già cessato di essere in nostro potere e si trova in natura separata dalla nostra volontà.16

In questo straordinario passaggio Florenskij mostra quanto la parola sia importante non solo per quello che significa ma anche per quello che manifesta, cioè per ciò che è in grado di portare alla luce; la parola rivela (e nel rivelare, occorre ricordarlo, rivela anche la propria impotenza). Essendo un organismo vivo, capace di rivelare quanto prima era nascosto, essendo uno spazio di mediazione fra interno ed esterno, la parola va trattata con grande responsabilità perché mostra una realtà che il soggetto non crea ma che lo precede, rendendo manifesti legami e significati che già esistevano, ma che non necessariamente erano visibili. Ma perché questo possa realizzarsi è necessario che il soggetto non si regoli in base al proprio capriccio e non perda mai di vista il fatto che la parola stessa è una realtà che ha anche un fondamento esterno al soggetto, e dunque non può essere manipolata e modellata come se si trattasse di un aggregato informe, la parola non è sotto il completo volere della nostra volontà. Per questo la sua cura richiede un enorme sforzo di attenzione.

Souffrir pour quelque chose c'est lui avoir accordé une attention extrême. [...] E avere accordato a qualcosa un'attenzione estrema, è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schermo tra essa e tutto quanto può minacciarla, in noi e al di fuori di noi. E avere assunto sopra se stessi il peso di quelle oscure, incessanti minacce, che sono la condizione stessa della gioia. Qui l'attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno che nutre in misura uguale la poesia, l'intesa fra gli esseri, l'opposizione al male.

Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione.

Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all'equivoco dell'immaginazione, alla pigrizia dell'abitudine, all'ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma.

(C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 2002, pp. 169-170)

5.

Ciò con cui noi ci stiamo confrontando è un problema dall'aspetto bifronte, perché mentre sembra possibile far presa su di esso, nello stesso tempo esso sfugge per prendere una forma nuova, che è come se azzerasse lo sforzo compiuto. In realtà quella che sembra una dinamica lacerante e paradossale rivela l'esperienza profonda e radicale di una realtà che ha come suo carattere essenziale l'eccedenza, una realtà che si fa presente ma che, al postutto, non può essere detta, né colta, in modo compiuto. Ecco l'enorme importanza attribuita da Florenskij ai simboli, intesi come quello spazio di mediazione in cui è possibile unire insieme ciò che non può essere detto in alcun modo e la possibilità di poter dire, in qualche modo, qualcosa. Eppure come si potrebbe considerare questa capacità del simbolo senza riferimento agli universali? Florenskij ribadisce continuamente questa idea nei suoi scritti:

se, per un verso, siamo nulla di fronte all'assoluto, per l'altro siamo comunque moralmente in parentela con Esso, possiamo comprenderlo; non direttamente, però, ma tramite simboli; dentro di noi portiamo il transfinito, il sovrafinito, noi -- il kosmos -- non siamo qualcosa di finito, di direttamente opposto alla Divinità: noi siamo transfiniti, siamo il mezzo tra tutto e il nulla.17

Qui Florenskij arriva a toccare uno dei punti più affascinanti del suo pensiero non solo per le conclusioni appena tratte, ma per quanto aggiunge immediatamente dopo l'ultimo brano citato quando, a proposito della possibilità di conoscere l'assoluto, scrive: «va però dimostrato come ciò sia possibile».18

Che qualcosa possa essere "dimostrato" riguardo la conoscenza dell'assoluto, seppure in modo indiretto, è un'idea che appare decisamente azzardata, per questo occorre contestualizzarla adeguatamente in modo da poter cogliere in cosa consista l'intuizione avuta da Florenskij, dato che è in questo complesso percorso che si può cogliere in modo chiaro cosa possa significare la possibilità che possa darsi una "norma nuova". Il brano appena citato è tratto dal paragrafo finale de I simboli dell'infinto, un lungo saggio che Florenskij dedica all'esposizione della teoria degl'insiemi transfiniti di George Cantor, un lavoro, quello di Florenskij, tanto più significativo in quanto si trattava del primo studio in lingua russa su questo tema.19 Nell'ultimo paragrafo di questo saggio Florenskij traccia un bilancio complessivo dell'opera di Cantor, intrecciando elementi biografici e considerazioni più specifiche riguardo il valore generale delle acquisizioni ottenute da questo grande matematico. Le parole con cui Florenskij descrive il trentennale lavoro di Cantor sono di grande ammirazione, addirittura i suoi commenti non sembrano descrivere tanto l'attività di un matematico quanto piuttosto quella di un artista: «Ogni parola è cesellata e così ben incastrata al proprio posto che nella compatta esposizione di Cantor non una sola lettera può essere tolta, per non incrinare l'integrità del tutto»,20 poco oltre troviamo questo:

Come separare, tuttavia, queste fiamme legate inscindibilmente all'intero? Strappate alla loro sorgente rosseggiante, esse baluginano e si spengono, lasciano un senso di tepore. Darne una dimostrazione è possibile solo in poesia, e non in questo mio compendio.21

E ancora: «si può pensare che questi pensieri trasparenti come il cristallo ed esposti in maniera chiara e infantilmente candida che tanto ricordano la musica di Mozart [...] derivino dalla levità del lavoro stesso».22 Il fatto che Florenskij si esprimesse nei confronti di Cantor e della sua opera in questi termini, quasi romanzati,23 nasceva dalla sua ferma convinzione che la teoria del matematico tedesco fosse molto più di un contributo di grande rilievo per le discipline logico-matematiche. Il fatto notevole è che il Florenskij che elaborava queste idee aveva solo ventidue anni e, mentre lui componeva questo saggio, Cantor era ancora in vita e la sua teoria era nel pieno di una bufera di critiche. Infatti l'anno in cui Florenskij pubblicava I simboli dell'infinito, il 1904, era il medesimo in cui Jules C. König, durante il Terzo congresso internazionale dei matematici di Heidelberg, comunicava che il numero cardinale del continuo non apparteneva ad alcun "aleph" cosa che, se dimostrata, avrebbe completamente smantellato l'impianto teorico di Cantor (la dimostrazione di König verrà smentita successivamente da Ernst Zermelo). Florenskij invece già vedeva nel lavoro di Cantor l'affacciarsi di una prospettiva completamente nuova, frutto del coraggio di uno studioso che

ha lasciato la casa dei suo padri: la scienza moderna [...] ha camminato per quasi trent'anni, e il suo non è solo un lavoro scientifico [...] sono in primo luogo le gesta eroiche di una grande fede, della fede nella possibilità di creare dei simboli per l'infinito.24

Non occorre qui entrare nel dettaglio delle riflessioni di Florenskij ma, per capire su quale sfondo si situino è sufficiente prendere in considerazione questo testo di von Humboldt citato da Florenskij stesso in Attualità della parola:

Oltre i limiti di ciò che è comprensibile, si apre incessantemente all'uomo lo sguardo sulla prospettiva senza fine della massa ancora oscura, ma capace di assumere contorni via via più netti. La lingua rappresenta in se stessa questa sconosciuta profondità da due lati, perché anche nella sua corrente precedente essa si propaga da quella ricchezza a noi sconosciuta, che è accessibile alla nostra conoscenza solo fino ad un certo grado di ampiezza, e poi a poco a poco scompare completamente alla vista, lasciando in noi solo il sentimento della sua inesorabilità.25

In Florenskij le idee di von Humboldt assumono un valore di orientamento generale. Qui il punto da tener presente è il fatto che Florenskij si misura continuamente con quello "smisurato" che von Humboldt chiama "massa ancora oscura ma capace di assumere contorni via via più netti". Il fermo convincimento di Florenskij è che ciò che von Humboldt affermava del linguaggio poteva essere affermato in modo identico degli insiemi transfiniti la cui forza sarebbe quella di riuscire a lanciare sprazzi di luce nell'impenetrabilità dell'Assoluto, grazie alla possibilità di creare dei numeri "intermedi" in cui finito ed infinito si combinano insieme.

Abbiamo noi mosso anche un sol passo al di là di quest'area impraticabile, dove "nessun punto si lascia distinguere dall'altro" e in cui troviamo, tuttavia, destino e missione? Abbiamo noi un'altra esperienza del principio, che non sia questa tensione verso un Impartecipabile, che ci destina e produce storicamente come parti e che incessantemente si partecipa compartendoci? Siamo noi veramente capaci di pensare l'essenza generica e universale dell'uomo e della sua comunità veramente senza presupposti? Di pensare la tradizione della verità e del linguaggio altrimenti che come un presupposto infondato e, però, destinante? [...] Noi siamo uniti soltanto dalla comune partecipazione a un'Impartecipabile; anticipati da un presupposto, ma senza un'origine; divisi, ma senza una dote!

(G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2010, p. 163)

6.

La grande scommessa di Florenskij è che si possano effettivamente dare dei simboli dell'infinito, capaci di mediare fra mondi e dimensioni diverse, ma questo punto è ben noto e non occorre attardarcisi sopra.

È invece interessante domandarsi quali sviluppi potranno esserci quando ci si dovrà confrontare in modo serrato con le cime più impervie della riflessione florenskijana, ad esempio con l'idea che la verità è contraddizione, che è uno degli esiti sottesi alla concezione degli universali e implicati dall'uso dell'infinito attuale di Cantor. Il problema della verità è uno degli snodi fondamentali della teoria del simbolo di Florenskij e, più in generale, dell'intera sua riflessione. Il fatto che sia improrogabile un confronto con queste zone aspre della riflessione di Florenskij è scritta nel destino stesso dell'opera, ed è espressa dallo stesso Florenskij nella lettera del 10-11 marzo 1936 alla moglie Anna, lettera di una durezza terribile, fra le più amare fra quelle inviate dalla sua prigionia:

L'opera della mia vita è distrutta, e io non potrò mai, né vorrò, ricominciare dall'inizio il lavoro di cinquant'anni. Non ne avrò la volontà, perché non ho lavorato per me stesso né per il mio tornaconto, e se l'umanità, per amore della quale non ho mai conosciuto una vita mia privata, ha ritenuto possibile distruggere semplicemente ciò che era stato fatto per il suo bene e che non necessitava che degli ultimi ritocchi, ebbene tanto peggio per l'umanità. [...] Naturalmente, ciò che io ho fatto verrà, parzialmente e a poco a poco, rifatto da altri, ma ci vorranno tempo, forze, denaro e l'occasione giusta. [...] un giorno si metteranno a raccogliere i cocci di ciò che hanno distrutto. Tuttavia, questo non mi rallegra affatto, anzi mi infastidisce questa odiosa stupidità umana, che perdura fin dagli inizi della storia e sembra intenzionata a durare fino alla fine.26

Che enorme rammarico e che tragica perdita il fatto che sia stato impedito a Florenskij di portare a compimento la sua opera! È impossibile riannodare un filo spezzato, eppure nemmeno si può trascurare quanto siano importanti le piste di ricerca da lui tracciate. Anche a questo proposito Florenskij era pienamente consapevole di quale sarebbe stato il destino futuro della sua opera:

Non sono neppure convinto che l'avvenire accetterà il mio pensiero, perché quando l'avvenire arriverà al mio stesso punto, avrà una sua lingua ed un suo approccio. Alla fine dei conti, è una consolazione ben magra pensare che quando l'avvenire, partendo dal lato opposto, arriverà alle mie stesse conclusioni, si dirà: "A quanto pare nel 1937 un certo NN aveva già formulato le stesse idee, ma in un linguaggio per noi superato. È sorprendente come a quell'epoca potessero arrivare alle nostre conclusioni". E magari istituiranno anche un anniversario o una commemorazione, che se non altro mi farà ridere.27

Il tono ironico mette ancora più in risalto l'urgenza della questione. Queste considerazioni di Florenskij hanno un evidente valore profetico, compresa la necessità di riconsiderare alcuni aspetti delle sue riflessioni alla luce delle acquisizioni più recenti conseguite nelle varie discipline, soprattutto scientifiche.28 Ma c'è anche un ulteriore aspetto di cui bisogna tener conto, un aspetto che già Florenskij aveva intuito e che oggi si sta dispiegando in modo pieno e completo: la specializzazione esasperata delle discipline e la conseguente perdita della tensione verso una sintesi delle molteplici scoperte e dei molteplici avanzamenti. Oggi non è più praticamente possibile avere uno sguardo unitario su nulla dato che specifici avanzamenti producono solo nuovi specifici avanzamenti, in modo cieco.

Ecco perché diventa tanto urgente approfondire il problema dei numeri transfiniti così come posto da Cantor e rielaborato da Florenskij, perché permette di recuperare quella tensione organica ed unitaria che è tanto decisiva per le sorti del pensare stesso.

Pazienza, voi ricercatori! Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce.

(K. Kraus, Detti e contraddetti, Adelphi, Milano 20024, p. 364)

[Questo breve saggio è la rielaborazione di alcuni materiali usati per un incontro seminariale tenuto a Modena, presso la sede dell'Istituto Filosofico di studi Tomistici, il 6 marzo 2013. Si trattava di un incontro in appendice all'Autunno florenskijano, un ciclo di seminari tenutosi fra Napoli e Modena nell'autunno 2012. Lo scopo dell'intervento era quello di gettare le prime basi di un percorso di ricerca volto ad esaminare il ruolo giocato dalla teoria dei numeri transfiniti di Cantor nella riflessione di Florenskij. L'intervento si proponeva di giungere fin sulla soglia della teoria di Cantor muovendo dal problema degli universali così come è posto da Florenskij ne Il significato dell'idealismo.]

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Note

  1. P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, Se, Milano 2012, p. 13. Testo

  2. Idem, p.17. Testo

  3. Idem, p. 43. Testo

  4. Id., La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p. 69. Testo

  5. Sto parafrasando una citazione di Victor Cousin che Florenskij utilizza in: P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, op. cit., p. 14. Testo

  6. Idem, p. 32. Testo

  7. Idem, p. 31. Testo

  8. P. A. Florenskij, La concezione cristiana del mondo, Pendragon, Bologna 2011, pp. 121-122. Testo

  9. Cfr.: Id., La prospettiva rovesciata ed altri scritti, Gangemi, Roma 1990, pp. 73-132. Testo

  10. Idem, pp. 90-91. Testo

  11. P. A. Florenskij, Il significato dell'idealismo, op. cit., p. 76. Testo

  12. Id., La natura magica della parola, in D. Ferrari-Bravo, Slovo. Geometrie della parola nel pensiero russo tra '800 e '900, ETS, Pisa 2000, p. 180. Testo

  13. Idem, p. 171. Testo

  14. P. A. Florenskij, Stupore e dialettica, Quodlibet, Macerata 2011, pp. 85-86. Testo

  15. Id., La natura magica della parola, in: D. Ferrari-Bravo,Slovo. Geometrie della parola nel pensiero russo tra '800 e '900,op. cit., p. 180. Testo

  16. Idem, p. 165. Testo

  17. Cfr. P. A. Florenskij, I simboli dell'infinito. Saggio sulle idee di G. Cantor, in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p.77. Testo

  18. Idem, p. 77. Testo

  19. Cfr.: Idem, p. 25. Testo

  20. Idem, p. 71. Testo

  21. Ivi. Testo

  22. Idem, p. 75. Testo

  23. Come esplicitamente dichiarato da Florenskij, le sue considerazioni riguardo il carattere di Cantor sono congetture dovute alla penuria di informazioni biografiche. Florenskij così si è affidato al suo intuito andando, in alcuni casi, anche fuori strada, ad esempio come nel caso del presunto disinteresse di Cantor per il successo, ipotesi smentita, poi, dagli studi successivi. Cfr.: Idem, p. 72, ed il documentatissimo: Joseph Warren Dauben, Georg Cantor. His Mathematics and Philosophy of the Infinite, Princeton University Press, Princeton 1990, p. 288. Testo

  24. P. A. Florenskij, Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, op. cit., p. 77. Testo

  25. Id., Attualità della parola. La lingua fra scienza e mito, Guerini e Associati, Milano 2013, p. 72. Testo

  26. Id., Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Mondadori, Milano 2000, p. 252. Testo

  27. Idem. Testo

  28. Ne è un esempio di grande interesse il recente lavoro portato a termine da Silvano Tagliagambe sul versante epistemologico, cfr.: Silvano Tagliagambe, Il cielo incarnato, Aracne, Roma 2013; cfr. anche: Id., Epistemologia del confine, Saggiatore, Milano 1997. Testo