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Florenskij e l'icona come simbolo: tra regressione e attualità

di Chiara Cantelli (15 agosto 2014)

Mi suscita una strana sensazione parlare dell'attualità di Florenskij.1 Se non altro perché da poco è uscito un mio saggio2 dove cerco di mostrare il carattere "regressivo" della sua teoria dell'icona come simbolo e della concezione dell'arte che ne deriva. Si tratta di un'interpretazione che -- credo -- a Florenskij sarebbe suonata non come un'offesa nei propri confronti ma, anzi, come un complimento. Mi stupirei del contrario visto che è stato proprio lui non solo ad aver presentato la propria concezione del mondo come conforme ai dettami del Medioevo russo e ad aver auspicato, vedendone il presagio, un più profondo ritorno al Medioevo in generale,3 ma anche ad aver affermato di essere rimasto un bambino per tutta la vita4 e, proprio per questo, di sentire come a sé familiare il pensiero degli uomini primitivi.5

È un aspetto, quest'ultimo, che non è sfuggito ad alcuni critici: come sottolinea Viktor Byckov, il nucleo più profondo e autentico che si trova alla base della complessiva Weltanschauung di Florenskij è proprio «la presenza di quella trepidazione sacra con la quale la primitiva coscienza mitologica dell'uomo antico osservava il circostante mondo della natura».6 Si tratta di una tesi che ho sposato e che ho cercato di argomentare nel mio recente saggio: è proprio questa primitiva coscienza mitologica dell'uomo a tralucere dall'icona così come viene concepita da Florenskij, il cui simbolismo -- sempre secondo un altro studioso, Sergej Choružij -- deve essere inteso nella sua

versione profondamente arcaica [...], vicina allo spirito del pensiero preistorico. L'affinità con i modelli più arcaici, preistorici della coscienza è uno dei motivi stabili e trasversali della concezione del mondo di Florenskij.7

Ma in che cosa consiste l'arcaismo di Florenskij? È un aspetto che si fa avanti in modo prepotente dai saggi che egli ha dedicato all'icona e che può essere toccato con mano in un celebre passo de Le porte regali8 (o Iconostasi, secondo la più recente e letterale traduzione che ne è stata fatta del titolo).9 Il passo in questione riguarda un'icona bizantina della prima metà del XII secolo, probabilmente la Vergine di Vladimir, visto che è l'unica icona, insieme alla Trinità di Rublev, a essere ricordata in quel testo:

Ecco, osservo l'icona e dico dentro di me: -- È Lei stessa -- non la sua raffigurazione, ma Lei stessa, [...] . Come attraverso una finestra vedo la Madre di Dio, la Madre di Dio in persona, e Lei prego, faccia a faccia, non la sua raffigurazione; è una tavola con dei colori ed è la stessa Madre del Signore.10

Davvero Florenskij credeva, al cospetto di un'icona della Madonna, di trovarsi di fronte non a una immagine della Vergine Maria ma alla Vergine Maria in carne e ossa? Se così fosse, egli si sarebbe macchiato di uno dei peccati più gravi che si potrebbe mai immaginare per un cristiano: l'idolatria. Neanche la chiesa slavo -- ortodossa -- che ha sempre rivendicato all'icona un ruolo che andava al di là della semplice funzione catechetico -- didattica, attribuendole un potere rivelativo in grado di renderla un tramite diretto tra uomo e Dio -- ha mai negato che essa restava comunque un tramite, per quanto privilegiato, di accesso a Dio e non Dio stesso, un transitus necessario che doveva essere attraversato, ma su cui non ci si poteva arenare. Le icone portano a Dio ma non sono Dio, ed è proprio questo ruolo di intermediarie a permettere loro di distanziarsi dall'idolo, cioè di essere immagini che non vogliono sostituirsi a Dio ma che, nel condurre a Dio, portano al di là di sé e fuori di sé, rimarcando con ciò la loro distanza dal prototipo che, nel raffigurare, si propongono di evocare. Tanto per parafrasare le parole di Teodoro Studita, che nel IX secolo dà la sistemazione più matura delle tesi iconofile uscite nel 787 dal secondo Concilio di Nicea, il rapporto tra immagine e prototipo è pari a quello tra ombra e corpo reale: se è vero che l'ombra è inscindibile dal corpo che la proietta per accompagnarlo sempre e così annunciarne la presenza, tuttavia nessuno sarebbe così folle da confondere l'ombra con il corpo di cui essa è pur angelos. Per quanto inscindibile dal prototipo, dunque, l'icona non è identica a esso: solo Cristo è e resta autentica carne del Verbo, e non le sue icone artificiali.

Ma -- si domanda Florenskij -- come fa l'icona a esplicare la propria funzione intermediaria ed evocatoria senza che si supponga la presenza di Dio nell'immagine sensibile che essa ne offre? La risposta di Florenskij è che questa presenza deve essere supposta. Egli non si limita ad affermare l'inscindibilità dell'immagine dall'archetipo11: alla sua inseparabilità dal prototipo -- che non significa necessariamente sua identità con esso come ha mostrato Teodoro Studita attraverso la similitudine ombra/corpo -- egli affianca la presenza reale, e non "per così dire", del prototipo nell'immagine, conferendo a quest'ultima pieno carattere incarnazionale e radicalizzando nel senso dell'identità quel rapporto tra iicona e prototipo che l'iconofilia bizantina, poi passata alla fede greco -- e slavo -- ortodossa, ha sempre mantenuto in termini di semplice somiglianza, seppur non estrinseca. Ciò è ben evidente in un altro passo de Le porte regali, dove Florenskij fa subire al termine "somiglianza" uno slittamento semantico verso l'identità:

Allorché vicino a noi c'è una somiglianza a Dio, ci è dato dire: ecco l'immagine di Dio, ma immagine di Dio significa che c'è il Raffigurato da quell'immagine, il suo Archetipo.12

La Vergine di Vladimir non è dunque una semplice rappresentazione della Madonna, ma la Madonna stessa che, ben lungi dall'essere qualcosa cui semplicemente l'immagine rimanda, è a tal punto presente in quest'ultima da trasfigurarla in un'immagine di "altra natura", facendola diventare altro da sé: non una semplice immagine, ma il divino stesso che essa rappresenta, tanto da essere esplicitamente definita da Florenskij come «un fatto di natura divina».13 Le parole di Florenskij, a tale proposito, sono inequivocabili:

E noi [...] diciamo ai pittori d'icone: [...] «non siete voi che avete creato queste immagini, non siete voi ad aver rivelato queste vive idee ai nostri occhi festanti, ma sono esse stesse che si sono rivelate alla nostra contemplazione; voi vi siete limitati a rimuovere ciò che ce ne velava la luce [...] . E ora noi [...] non già la vostra maestria vediamo ma l'essere pienamente reale degli sguardi stessi. [...] .

L'icona [...] non deve incagliarsi nelle interpretazioni psicologistiche, associative che la riducono a rappresentazione. [...] essendo inscindibile dal suo archetipo, diventa non una "rappresentazione", bensì un'onda propagatrice o una delle onde propagatrice della realtà che l'ha suscitata. [...] l'icona, essendo manifestazione [...] di un'essenza spirituale, è più grande di come la vuole considerare il pensiero che si attribuisce l'attestato di sobrio [...] .14

Se dunque l'icona è "immagine di", lo è nel senso di un genitivo soggettivo: essa non è rappresentazione dell'uomo su Dio, ma Dio che si rappresenta nell'uomo; se in essa appare il divino, il senso di questo apparire è quello di presentare la cosa reale e non un suo surrogato o un suo semplice riflesso sbiadito.

A tale proposito risulta significativa la similitudine dell'icona come "finestra" entro cui si affaccia e si fa presente il divino:

Come attraverso una finestra vedo la Madre di Dio, la Madre di Dio in persona, e Lei prego, faccia a faccia, non la sua raffigurazione; è una tavola con dei colori ed è la stessa Madre del Signore.15

Introdotta da Florenskij a proposito Vergine di Vladimir, tale similitudine ha infatti il valore di conferire all'immagine il paradossale valore di un medium che, nel mentre rappresenta la Madonna, diventa esso stesso la Madonna, perdendo di fatto il valore di semplice medium di una realtà che la trascende. Ciò è possibile perché la stessa finestra si configura per Florenskij non come un canale di luce, ma come la luce stessa. e infatti il suo rapporto con la luce viene definito come un'"identità ontologica", cioè di sostanza:

[...] una finestra è una finestra in quanto attraverso di essa si diffonde il dominio della luce, e allora la stessa finestra che ci dà luce è luce, e non semplicemente "somigliante" alla luce, non è collegata per associazione soggettiva a una nozione di luce soggettivamente escogitata, ma è la luce stessa nella sua identità ontologica, quella stessa luce indivisibile in sé e non divisibile dal sole che splende nel nostro spazio.16

Anche per la finestra, dunque, vale quanto viene detto dell'icona: se i due manufatti sono assimilabili è perché anche la finestra, in quanto veicolo di luce, è questa stessa luce. Anzi, dato che la luce è indivisibile dal sole che splende nel nostro spazio, la finestra è non solo luce ma il sole stesso, la fonte di luce per l'ambiente o la casa che essa di propone di illuminare. Come Florenskij dirà in un altro saggio dedicato non al Volto di Dio che è l'icona, ma al Nome di Dio:

La finestra è qualcosa che appartiene alla casa, e un'apertura che dà la possibilità alla luce di entrare. Si può dire di fronte a una finestra: "Ecco il sole" [...] .17

Ma come conciliare questo rapporto identitario con quanto Florenskij afferma subito dopo?

Ma in se stessa, cioè fuori del rapporto con la luce, fuori dalla sua funzione, la finestra è come non esistente, morta e non è una finestra: astratta dalla luce, non è che legno e vetro.18

Per il ruolo di similitudine che riveste la finestra rispetto all'icona, tale precisazione sembrerebbe ridimensionare il carattere epifanico di quest'ultima: al pari di una finestra, che in se stessa è solo legno e vetro e non la luce o il sole che veicola, l'icona non è il divino, perché in se stessa è solo una tavola con dei colori, quasi che Florenskij volesse reintrodurre il valore di consapevole "come se" dell'immagine sacra per evitare che essa precipiti nella dimensione dell'idolo.

In realtà è tutt'altro l'intento che muove Florenskij a precisare che la finestra, "astratta dal suo rapporto con la luce, fuori della sua funzione [...], non è che legno e vetro". Il fine di questa precisazione non è riportare la finestra a ciò che essa è veramente (legno e vetro), bensì il contrario: mostrare quanto vedere nella finestra solo legno e vetro ne snaturi l'identità facendola perire come finestra, che infatti "è come non esistente, morta e non è una finestra". Lo stesso vale per l'icona: ridurla a essere una semplice tavola di legno con dei colori significa snaturarla nella sua identità di icona, perché essa non è inerte materia priva di vita, ma materia animata dall'azione divina, non morta immagine di Dio ma vivo corpo di Dio.

È pertanto in questo senso che devono essere comprese le parole di Florenskij secondo cui l'icona, come ogni pittura che voglia dirsi autentica opera d'arte, «ha lo scopo di spingere lo spettatore oltre il limite dei colori e della tela percepibili coi sensi»,19 cioè materialmente intesi. Se l'icona riesce in questo è per configurare il legno e i colori di cui è fatta come materia transustanziata dall'azione divina. Assunta cristianamente come testimonianza dell'Incarnazione, l'icona per Florenskij non può testimoniare la verità del corpo di Cristo in quanto Dio incarnato se non allontanando da sé ogni forma di "come se" metaforico, così da convertire quella che è una semplice effige della Madonna nella Madonna in carne e ossa. Se essa è segno che vuole significare l'incarnazione, essa lo è nel senso di realizzarla concretamente, al pari del pane e del vino eucaristici. Se così non fosse, l'icona sarebbe allegoria e non simbolo florenskianamente inteso, ovvero compiuta quanto inscindibile unità di sensibile e spirituale, fenomeno e noumeno, divino e ed extradivino così come richiede la verità del cristianesimo in quanto religione del Dio incarnato, ovvero del simbolo per eccellenza. Pertanto, cercare Dio al di là delle immagini che lo rivelano e non in esse, sarebbe come voler cercare Dio al di là del Corpo di Cristo che lo ha rivelato: come non ha senso considerare il Volto e il Corpo di Cristo un "come se fosse Dio", cioè come un qualcosa di improprio che deve essere trasceso, così non ha senso considerare le immagini come una semplice metafora di Dio.

Le immagini, dunque, si rivelano non per essere trascese e abbandonate, perché esse non sono corpi morti ma vivi nel senso prettamente letterale del termine: esse sono materia che perde la propria inerte pesantezza per farsi corpo palpitante di Dio, non rappresentazione figurata di una astratta teologia ma teurgia, azione di Dio resa manifesta nella materia. Come sempre afferma Florenskij ne Le porte regali, «Esiste la Trinità di Rublev, perciò Dio c'è»20: Dio è lì, la sua presenza è palese ed è così palese da esaurire tutto ciò che c'è da vedere. Ben lungi dal rimandare oltre se stessa, la Trinità di Rublev invita lo sguardo a soffermarsi su di essa, a non uscire dalla tavola, perché quella tavola non è in realtà una tavola, ma Dio in persona.

L'icona non deve quindi essere intesa come la vorrebbe un platonismo di scuola, cioè come un semplice supporto per una anamnesi contemplativa volta a cogliere una idealità disincarnata, svincolata da ogni dimensione fisico -- materiale. Florenskij è, sì, un platonico ma un platonico sui generis21: se l'icona innesca un'ascesa verso «la contemplazione della pura, amabile ed eterna gloria di Dio»,22 tale ascesa non si realizza come una progressiva astrazione dalle determinazioni sensibili, dai fenomeni in cui tale gloria si manifesta, bensì come un movimento che, ben lungi dall'escludere tali determinazioni fenomeniche, le include in sé. Se così non fosse, la contemplazione realizzata dall'icona verrebbe a perdere quel carattere di "metafisica concreta" che secondo Florenskij contraddistingue il simbolo, cioè una metafisica per la quale come non esistono fenomeni privi di significato, svuotati di un contenuto spirituale o noumenico, così non esistono significati (idee, spiriti, anime, noumeni) al di là e al di fuori delle loro incarnazioni e manifestazioni sensibili. È questa compiuta unità di sensibile e spirituale, di fenomeno e noumeno a configurare l'icona come simbolo. Simbolicità che non appartiene solo all'icona, ma anche al mondo in quanto creato da Dio e redento attraverso la carne del Verbo. Conoscere il mondo come simbolo significa cogliere quell'inscindibilità di materia e spirito, anima e corpo che, realizzata dall'icona, fa del fenomeno la manifestazione e non l'occultamento dell'idea platonicamente intesa, il suo inveramento e non la sua falsificazione, l'idea nella sua esistenza reale e oggettiva. Come afferma Florenskij nelle sue memorie indirizzate ai figli:

il fenomeno bi-unitario, spiritual-materiale, il simbolo, mi è sempre stato caro nella sua immediatezza, nella sua concretezza, con la sua carne e la sua anima [...] e tanto è stata salda la mia convinzione che la carne non era solo carne, solo materia inerte, solo esteriorità, quanto lo è stata la certezza dell'impossibilità, dell'inutilità, della presunzione di vedere quest'anima senza carne, denudata del suo velo simbolico. Sì, [...] volevo vedere l'anima, ma volevo vederla incarnata. Qualcuno vorrà chiamarlo materialismo. Non si tratta però di materialismo, ma della necessità del concreto, o simbolismo. Sono sempre stato un simbolista. Nella mia mente le cose non erano coperte da veli, anzi svelavano le loro essenze spirituali che, in assenza di quei veli, sarebbero state invisibili non per debolezza della vista umana, ma perché non ci sarebbe stato nulla da vedere.23

Alla luce di tali parole ritengo fuorviante definire la teoria dell'icona di Florenkij nei termini in cui la critica corrente ha voluto e vuole ancora presentarla, cioè come una "teologia dell'Invisibile". Più che "teologia dell'Invisibile", risulta molto più calzante definirla una "teologia del Visibile", un rovesciamento che è sorretto proprio dalla curvatura prettamente sensibile -- corporea che Florenskij fa assumere al cristianesimo in quanto religione del Dio incarnato e, come egli dice, «non [...] dottrina sull'immortalità dell'anima, ma sulla resurrezione dei morti».24 Un aspetto, quest'ultimo, che conferma la verità prìncipe del Logos -- Dio cristiano: quella di essere «non principio astratto ma persona viva, il figlio Unigenito di Dio che le nostre mani hanno potuto toccare».25 Per Florenskij un Dio che non si fa carne, cioè che si cela alla nostra vista, al nostro tatto, al nostro olfatto, al nostro udito come al nostro gusto, non è un Dio, o almeno è un Dio talmente astratto da dileguarsi come un fantasma alla luce della realtà. A ulteriore certificazione di ciò, basti l'esaltazione che egli, in Dialettica e Stupore, fa della figura di San Tommaso, valorizzata proprio per l'esigenza di concretezza che si fa avanti dalla richiesta dell'Apostolo di toccare le piaghe di Cristo al fine di convincersi che ciò che egli vede non sia solo la parvenza illusoria di un dio risorto in carne e ossa, ma una realtà effettiva e, perciò, esistente:

Se Tommaso chiede non è per fiaccare o negare, bensì per rafforzare. [...] . Tommaso [...] è pronto a morire pur di toccare con mano la realtà della forza dello Spirito che fa risorgere. E questa non è certo uno scetticismo svigorito, bensì un grande eros nei confronti di una realtà superiore, una sua messa alla prova. [...] egli mette alla prova il Signore stesso, cercando di convincersi della corporeità della sua resurrezione. Egli non dubita della resurrezione di Cristo, ma vuole la conferma della sua della propria fede. A lui si deve l'attestazione da parte della chiesa della verità della resurrezione di Cristo, della sua resurrezione corporale.26

L'icona deve essere dunque intesa come una teologia dell'Assoluto Visibile, e ciò nel segno di un cristianesimo talmente compromesso con la sensibilità da precipitare agli occhi di noi moderni nel più totale paganesimo. Anzi, in un paganesimo talmente arcaico e primitivo da superare addirittura quello del tardo neoplatonismo di Giamblico e Proclo. Si tratta di un neoplatonismo molto presente a Florenskij: un neoplatonismo al quale egli non solo attinge a piene mani traendone gran parte del repertorio concettuale con cui articolare la sua filosofia/teologia dell'icona, ma a cui esplicitamente si richiama per stabilire una linea di continuità tra icona e agalmata, cioè le statue delle divinità che costituivano, per Giamblico e Proclo, gli intermediari efficaci tra mondo umano e divino perché da loro ritenute «divine e piene della presenza della divinità».27 Riferendosi a quella che egli definisce "la restaurazione pagana del platonismo" operata da Proclo, Florenskij la qualifica come "vitale" e "profonda" perché in essa

i principi che definiscono la realtà si sono presentati sottoforma di dèi con i quali si può entrare in contatto, cioè sottoforma di esseri di natura assolutamente concreta e, per così dire, con sembianti da icone.28

Vi è dunque per Florenskij una linea diretta tra l'icona cristiana e le statue degli dèi del tardo neoplatonismo pagano, anche se non a tal punto diretta da stabilire un'identità tra le due forme di immagine sacra. Per quanto gli agalmata dei tardo neoplatonici presentino "sembianti da icone", tuttavia si mostrano tali solo "per così dire", e questo per non riuscire ancora a liberarsi completamente dall'essere dei semplici "come se" del divino. Pur teurgicamente intesi, gli agalmata dei tardo -- neoplatonici non sono infatti a tal punto teurgici da permettere al divino che vi si contempla e vi si rispecchia di salvarli, nella loro qualità di immagini riflesse, dal rimanere comunque semplici ombre, simulacri immersi nella corrente del divenire. La statua della divinità, per quanto intesa come epifania del divino, non è comunque concepita, né da Giamblico né da Proclo, come identica al dio: essa è, piuttosto, un semplice ricettacolo della potenza e presenza del dio e non questo stesso dio, costituendo un tramite, che, per quanto necessario, deve essere trasceso. Emblematiche in proposito le parole di Giuliano l'Apostata, allievo di Giamblico:

le statue, [...] e in una parola tutti i simboli di questo genere, i nostri padri li hanno stabiliti come segni della presenza degli dèi, non perché noi li riteniamo delle divinità ma per farci adorare gli dèi come intermediari. Poiché viviamo nel corpo, bisogna che anche il culto degli dèi sia corporeo, mentre essi sono incorporei. [...] . Quando contempliamo le statue degli dèi, guardiamoci dal ritenerle pietra o legno, ma non prendiamole nemmeno per gli stessi dèi.29

Insomma, per Florenskij il divino dei neoplatonici è ancora troppo debole, troppo esangue, troppo astratto per potersi incarnare veramente nella materia e realizzare la concretezza corporea del logos cristiano espressa dalle icone, che infatti sono qualcosa di più di semplici ricettacoli del divino per essere simboli in senso proprio, cioè segni sensibili la cui «caratteristica ontologica fondamentale -- dice Florenskij -- è quella di essere ciò che essi simboleggiano».30

Inscritta all'interno di una filosofia interamente giocata sul paradosso di una manifestazione percepibile di Dio, l'icona viene così a rivelare, nella sua qualità di simbolo florenkianamente inteso, la sua consonanza con i modelli più arcaici di immagine religiosa, modelli che fanno tutt'uno con un modo talmente corporeo di concepire il divino da configurare l'intera realtà fenomenica che si dispiega di fronte ai nostri occhi come una manifestazione divina. Una modalità che Florenskij definisce "magica", appartenente alla coscienza primitiva e arcaica dell'umanità, ma che è possibile ancora ritrovare nella coscienza del popolo semplice.31 Ignara della scissione, aperta dalla filosofia moderna, tra res cogitans e res extensa, tra intelletto e sensibilità, la coscienza popolare, come mostra la cultura del folklore russo, non conosce separazione tra idea e fenomeno, spirito e materia, anima e corpo, ultraterreno e terreno, cosicché la natura, per lei, è piena di rivelazioni divine che fanno tutt'uno con il corpo che le manifesta. Il suo mondo è quello dell'antica mitologia, dell'antico ilopsichismo, dell'antico ilozoismo, dell'antica magia primitiva, arcaiche visioni del mondo nei confronti delle quali Florenskij non esita a manifestare tutta la sua simpatia per ravvedervi quella compiuta unità di sensibile e spirituale che definisce la sua metafisica concreta. Un mondo, oltre che primitivo, totalmente pagano ma che, nella sua percezione corporea del divino, nel suo modo di percepire la realtà non come semplice res extensa ma come corpo, cioè come materia dotata di vita e animata, egli vede molto prossimo al cristianesimo in quanto religione del Dio incarnato. Per Florenskij è sicuramente molto più vicino allo spirito di tale religione un uomo dell'età paleolitica che si inchina di fronte a una rozza "venere di pietra" per percepirla come intimamente legata al corpo vivo e animato della sacra madre -- terra che tutto genera e in cui tutto ritorna per sempre rinascere a nuova vita, di quanto lo possa essere un evoluto cristiano che, andando in chiesa e guardando un'icona di Cristo benedicente, non riesce più a vedervi Cristo in carne e ossa che lo benedice ma solo un cristo dipinto, un semplice modo umano di rappresentare Cristo e non il reale Corpo di Cristo, ritenendo ormai un'ingenua quanto sorpassata superstizione pensare che vi sia un nesso ontologico tra quell'effige e il sacro corpo cui essa rimanda. Come afferma Florenskij

[...] nel momento in cui anche il più sottile interstizio staccasse ontologicamente l'icona dal santo, questo si celerebbe alla nostra vista in una sfera irraggiungibile e l'icona diventerebbe un oggetto qualunque. In quel momento il vivo legame tra cielo e terra, cioè la religione, andrebbe distrutto in quel punto, una macchia di lebbra farebbe morire il corrispondente pezzo di vita e allora dovrebbe sorgere il timore che questa frattura si spinga ben oltre.32

Assunta, in quanto simbolo, come Dio stesso nella sua presenza visibile e, al tempo stesso, come paradigma dell'arte per annullare i confini tra sé e la realtà che si propone di rappresentare («ogni opera pittorica condivide con tutti i simboli la loro caratteristica fondamentale -- di essere ciò che simboleggiano»),33 l'icona così come intesa da Florenskij viene a configurare un'idea di arte che sembra riemergere dal profondo passato dell'umanità. Un passato talmente profondo che definirlo semplicemente pre -- moderno sembra risultare sviante, o comunque troppo generico. A quale pre -- modernità si attaglia l'icona in quanto simbolo florenkianamente inteso? Florenskij direbbe che essa si attaglia a quella medievale, ma è anche vero che la sua rivalutazione del Medioevo lo porta, nella sua volontà oppositoria e censoria nei confronti della moderna civiltà inaugurata dal Rinascimento, a formulare un'interpretazione dell'immagine che risulta problematica per questo stesso Medioevo, o almeno per il Medioevo che l'Occidente ha vissuto. Difficilmente un qualsiasi filosofo/teologo latino -- medievale avrebbe accettato pacificamente le parole pronunciate da Florenskij a proposito della Vergine di Vladimir, cioè "Ecco, osservo l'icona e dico dentro di me: -- È proprio Lei -- non la sua rappresentazione, ma lei in persona"; le avrebbe sicuramente stigmatizzate come idolatriche e pagane, e non credo sia un caso che Florenskij, quando contrappone Medioevo a Rinascimento, spesso specifichi che il medioevo cui si riferisce è quello russo e non latino -- occidentale.

Ma provando ad andare più a ritroso nel tempo, la concezione florenskijana dell'icona non solo non la ritroviamo nelle tesi iconofile così come furono stabilite nel VIII secolo dal Secondo Concilio di Nicea e poi ribadite nel IX secolo da Teodoro Studita ma, stando alle parole di Giuliano l'apostata (e siamo nel IV secolo), non la rinveniamo neanche nel tardo neoplatonismo pagano. E sembra improbabile trovarla anche nella Grecia classica del V sec. a. C., se è vero -- come ci racconta il contemporaneo filosofo analitico Arthur Danto -- che è stato proprio nella Grecia del V secolo che

statue, incisioni, riti e simili, hanno subito una trasformazione: dall'essere semplicemente parte della realtà all'essere cose che si contrapponevano alla realtà, che si situavano fuori e contro di essa, per così dire; così come la stessa realtà subiva una trasformazione corrispondente in cui perdeva agli occhi umani, la sua magia.34

Per giungere alla concezione dell'immagine così come la concepisce Florenskij bisogna dunque risalire molto lontano nel tempo, a un'epoca profondamente arcaica, se non addirittura preistorica. Quella di Florenskij è dunque una concezione "regressiva", cioè che si svincola, come sempre direbbe il filosofo analitico appena ricordato, da quell'idea di immagine come messa a distanza del reale nella quale consiste ed è nato il concetto di arte così come lo conosciamo a partire dal mondo greco -- classico. Se è vero, come Danto afferma prendendo spunto dalla Poetica di Aristotele, che il piacere delle imitazioni artistiche deriva dal sapere che ci troviamo di fronte non alla realtà ma a una sua imitazione fittizia,35 allora l'arte non può che svilupparsi all'interno di una consapevole finzione, che fa tutt'uno con un distanziamento dal reale. Perdere tale distanza significa far precipitare quello che Danto chiama l'"è" dell'identificazione artistica nell'"è" dell'identificazione magica o mitica, due forme di identificazione con cui l'«è» dell'identificazione artistica è certamente imparentato, ma da cui è separato da una distanza abissale. Una cosa è infatti erigere statue di re e di dèi con lo spirito di rendere effettivamente presenti quei re e quegli dèi (identificazione magica), oppure dire "il sole è il carro di Febo" credendo che il sole sia veramente il carro di Febo (identificazione mitica); un'altra, invece, è erigere statue di re e dèi nella piena consapevolezza che tali statue stanno per tali re e dèi ma non lo sono effettivamente, oppure affermare che "il sole è il carro di Febo" ben sapendo che si tratta di una identificazione metaforica e non reale. Operare questo passaggio -- continua Danto -- significa, appunto, passare dal mondo magico e mitico (che non conosce la distinzione tra realtà e rappresentazione) a quello dell'arte (che invece è consapevole di tale distinzione) o, comunque, porre la necessaria premessa per operare tale passaggio.36

La concezione dell'arte di Florenskij, secondo la prospettiva di Danto, sarebbe quindi non solo regressiva, ma a tal punto regressiva da non poter neanche essere definita arte in senso proprio. Se Florenskij non batterebbe ciglio sulla propria regressività, tuttavia respingerebbe recisamente la seconda affermazione, visto che per lui, in opposizione simmetricamente speculare a Danto, la specificità dell'arte risiede proprio in quelle radici magiche che ne hanno costituito l'atto di nascita e che hanno connotato il suo rapporto con la realtà nel segno di un'identità reale e non metaforico -- finzionale. Emanciparsi da quel contesto magico, secondo Florenskij, non ha pertanto significato per l'arte compiere il primo passo verso la conquista della propria identità e la consapevolezza di sé ma, semmai, misconoscere e tradire la propria identità.

Regressione, tuttavia, non significa necessariamente inattualità. E questo ce lo mostra proprio Danto che, con curioso stupore, non può fare a meno di notare come, in epoca attuale, proprio dall'interno di quel mondo dell'arte ormai consapevole della natura rappresentativa delle proprie produzioni, si manifestino sempre con maggiore frequenza fenomeni che tendono a sovvertire la funzione fondamentale per cui, secondo lui, fu inventata l'arte, cioè porre la realtà a una certa distanza. Come esempio egli porta Deadman (1972) di Chris Burden, una performance in cui l'artista, chiusosi in un sacco poi collocato in una superstrada della California, «avrebbe potuto essere ucciso, sapeva che sarebbe potuto succedere, e voleva che questo fatto facesse parte dell'opera e che fosse ciò a cui si rispondeva quando si rispondeva emotivamente all'opera».37 Ciò non accadde ma, prosegue Danto, «sarebbe potuto accadere -- senza violare i confini dell'opera -- perché l'opera incorporava quei confini come parte della propria sostanza».38 Si tratta di manifestazioni artistiche che egli, oltre a qualificare come "disturbanti", definisce anche come regressive per voler

recuperare una fase dell'arte in cui essa, evocando gli spiriti dell'immenso profondo, era abbastanza simile alla magia -- simile alla magia profonda che rende reali le possibilità più oscure, piuttosto che alla magia superficiale e illusoria che non fa succedere nulla [...] e in cui abbiamo un repertorio di trucchi anziché l'invocazione di forze estranee appartenenti a uno spazio diverso da quello in cui siamo [...] .39

Il suo, in breve, è un tentativo di riportare nell'arte un poco della magia che si è persa nel processo di trasformazione in arte.40

Pur confessando di non amare queste manifestazioni artistiche per andare contro al naturale corso della storia, tuttavia Danto confessa di non riuscire a rimanere indifferente nei loro confronti, se non altro perché esse ci fanno ricordare ciò da cui è nata l'arte. Ma -- aggiungiamo noi -- forse c'è qualcosa di più. E questo ce lo mostra proprio l'icona di Florenskij: nella propria regressività, essa è a tal punto contro il contro della storia da uscirvi, e questo proprio per collocarsi al di la della distinzione tra arte e vita, tra arte non arte. Ma proprio perché al di fuori dalla storia o, comunque, molto prossima all'esserne fuori per situarsi in quei suoi primordi che si perdono nella notte dei tempi, al momento in cui l'uomo emerse dal regno animale per diventare uomo, l'icona ci dice qualcosa di universale che è parte costitutiva del nostro essere umano. Non è un caso se noi tutti giudichiamo di vivere un'autentica esperienza estetica proprio di fronte a quelle opere che, anche seppur per il breve spazio di un momento -- un momento che però dura tutta la vita -- riescono a rompere il loro statuto rappresentazionale: quando, ad esempio, l'interpretazione di Amleto cessa di essere un'interpretazione per diventare Amleto in carne e ossa, o una rappresentazione pittorica della caduta di Icaro cessa di diventare una semplice tela dipinta per diventare l'autentica caduta di Icaro. E lo stesso potremmo dire non solo nei confronti delle opere d'arte, ma anche nei confronti della realtà, quando questa -- sia essa un albero, un tramonto, una conchiglia, un sasso, un cappello, una stella (o anche l'intero cielo stellato) -- esce, seppur per un attimo, dalla propria insignificanza di semplice cosa, o di fenomeno kantianamente inteso, per diventare fenomeno florenskianamente inteso, cioè presenza dotata di un volto che ci guarda, richiamando così la nostra attenzione stupefatta. Florenskij non è poi così lontano...

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Note

  1. Per quanto riguarda le opere di Florenskij, esse, qualora siano state tradotte in italiano verranno sempre citate in traduzione. Al titolo in italiano seguirà, tra parentesi tonde, la data della prima edizione in lingua originale; in caso di pubblicazione postuma, essa sarà preceduta, tra parentesi quadre, da quella in cui il testo è stato scritto. Si segnala inoltre che alcuni passi citati dalle traduzioni edite sono stati modificati in base a un ricontro con il testo in lingua originale. Testo

  2. C. Cantelli, L'icona come metafisica concreta. Neoplatonismo e magia nella concezione dell'arte di Pavel Florenskij, "Aesthetica Preprint", 92/2011, pp. 1-77, consultabile e gratuitamente scaricabile al sito http://www.unipa.it/~estetica/download/Cantelli.pdf. Si avverte che la relazione in questione è una sintetica riproposizione delle tesi del saggio. Testo

  3. «Florenskij considera la propria concezione del mondo conforme ai dettati stilistici del XIV--XV secolo del Medioevo russo, ma prevede e auspica altre strutture che meglio si confacciano a un più profondo ritorno al Medioevo». (Pavel A Florenskij, Autoreferat ([1925-26]; Moskva 1927, con lacune; Moskva 1994), in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Boringhieri Boringhieri, Torino 2007, p. 6. Testo

  4. «[...] le mie successive convinzioni filosofico--religiose uscirono non dai libri di filosofia [...], ma dalle mie osservazioni di bambino»; «[...] sin dalla più tenera età nella mia mente si formarono le categorie del sapere e i principali concetti filosofici. La successiva riflessione [...] li scosse e li eclissò senza offrire nulla in cambio, se non un senso di amarezza. A poco a poco, però, approfondendo i concetti basilari della concezione generale del mondo e rielaborandoli in senso logico e storico, mi ritrovai su un terreno saldo, e quando mi guardai intorno risultò che era lo stesso terreno su cui mi ero trovato sin da piccolissimo: dopo lunghe peregrinazioni mentali, il cerchio si era chiuso e mi ritrovavo al punto di partenza. In realtà non avevo scoperto nulla di nuovo, ma mi ero solo "rammentato" [...] i fondamenti della mia personalità formatisi sin dall'infanzia». (Id., Ai miei figli. Memorie di giorni passati ([1916-25]; 1992), Mondadori, Milano 1999, pp. 140 e 200-201). «Il segreto della creatività sta nel preservare la giovinezza. Il segreto della genialità sta nel preservare in sé l'infanzia, cioè la costitituzione infantile per tutta la vita. Questa costituzione dà al genio una percezione oggettiva del mondo la quale, non essendo centripeta, è una specie di prospettiva rovesciata del mondo e perciò è integra e reale. L'illusorio, sebbene più brillante e smagliante, ma mai potrà essere chiamato geniale. Perché il cuore della visione geniale del mondo è la penetrazione nel profondo delle cose, mentre l'essenza di ogni illusorio sta nel chiudersi davanti alla realtà. I più tipici, in quanto alla genialità, sono Mozart, Faraday e Puškin, i quali, per quanto riguarda la loro struttura interiore, [...] sono come bambini» (Id., Non dimenticatemi (([1933-1937]; Moskva 1992), Mondadori, Milano 2000, p. 400); «Ciò che possediamo di più caro e recondito è la nostra infanzia, viva in noi, ma sottratta al nostro sguardo come da una cortina. Abbiamo finito col dimenticare questa vicinanza originaria con tutto ciò che esiste, questa passata comunione con la vita della natura. Ce ne siamo scordati, ma l'infanzia continua a vivere in noi e, in momenti ben precisi, rinvilisce inaspettatamente. Così gli psicologi americani hanno dimostrato che il processo psicologico della conversione altro no è che un ritorno all'infanzia, un riaffiorare degli strati più profondi della personalità, formatisi nei primissimi anni di vita: "Se non vi ravvederete (ossia se non rivolgerete all'indietro al vostra personalità) e non sarete come fanciulli (ovvero non fanciulli in generale, bensì proprio quei fanciulli che siete stati una volta), non potrete entrare nel regno dei cieli"» (Id., Sul teatro dei burattini degli Efimov (Introduzione, in forma di lettera, al libro di Nina Jakovlena Simonovic--Efimova "Appunti di un burattinaio" ([1924]; Moskva 1977), in Id., Stratificazioni. Scritti sull'arte e la tecnica, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 192). Sull'importanza in Florenskij delle percezione infantile del mondo quale base intuitiva della sua opera filosofico--religiosa cfr. Lubomír Žák, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998 pp. 67-131. Testo

  5. «Fin dall'infanzia ho percepito come a me familiare [...] il pensiero degli uomini primitivi». Pavel A. Florenskij, Ai miei figli. Memorie dei giorni passati, cit., p. 103. Testo

  6. V. V. Byckov, Esteticeskij lik bytija (Umozrenija Pavla Florenkogo) [Il volto estetico dell'essere (Le contemplazioni di Pavel Florenskij)], Znanie, Moskva 1990, pp. 7-8. Testo

  7. S. S. Choružij, Filosofskij simvolizm P. A. Florenskogo i ego žiznennye istoki [Il simbolismo filosofico di P. A. Florenskij e le sue fonti vitali], in K. G. Isupov (a cura di), Pavel Florenskij: pro et contra. Licnost' i tvorcestvo Pavla Florenskogo v ocenke russkich myslitelej i issledovatelej. Antologija [Pavel Florenskij: pro et contra. La personalità e l'opera di Pavel Florenskij nel giudizio delle ricerche e dei pensatori russi. Antologia], Izd-vo Russkogo Christianskogo gumanitarnogo instituta, S. Peterburg 1996, p. 538. Testo

  8. P. A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull'icona ([1922]; 1972 con lacune; Paris 1985), Adelphi, Milano 1981. Testo

  9. Id., Iconostasi. Saggio sull'icona, Medusa, Milano 2008. Testo

  10. Id., Le porte regali. Saggio sull'icona, cit., p. 65. Testo

  11. Cfr. Ivi, p. 66. Testo

  12. Ivi, p. 44. Testo

  13. Ivi, p. 71. Testo

  14. Ivi, pp. 65, 66-67. Testo

  15. Ivi, p. 65. Testo

  16. Ivi, p. 60. Testo

  17. Id., Sul nome di Dio ([1921]); 1988), in Id., Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003, p. 90. Testo

  18. Id., Le porte regali. Saggio sull'icona, cit., p. 60. Testo

  19. Ivi, p. 61. Testo

  20. Ivi, p. 64. Testo

  21. Sul platonismo di Florenskij mi permetto di rimandare al mio saggio: L'icona come metafisica concreta. Neoplatonismo e magia nella concezione dell'arte di Pavel Florenskij, cit., in particolare il capitolo II, Vedere Dio: la magia dell'icona tra neoplatonismo cristiano e paganesimo, pp. 21-50. Testo

  22. Ivi, p. 58. Testo

  23. Id., Ai miei figli. Memorie di giorni passati, cit., p. 202. Testo

  24. Id., Il giorno e la notte della storia. 11/24 agosto 1921, in Id., La concezione cristiana del mondo. Lezioni all'Accademia teologica di Mosca (1921), Pendragon, Bologna 2011, p. 37. Testo

  25. Id., L'unità della cultura. 20 ottobre 1921, in Id., La concezione cristiana del mondo. Lezioni all'Accademia teologica di Mosca (1921), cit., p. 135. Testo

  26. Id., Stupore e dialettica ([1918]; 1987), Quodlibet, Macerata 2011, pp. 67-68. Testo

  27. L'espressione è di Fozio (827ca.-886ca.), patriarca di Costantinopoli, che nella sua Bibliotheca o Myriobiblon riassume, riportando la confutazione fattane da Giovanni Filopono, l'opera perduta di Giamblico Sulle statue degli dèi: «Lo scopo di Giamblico è quello di mostrare che gli idoli -- questo infatti egli intende con il nome di statue -- sono divini e pieni della presenza della divinità: e non soltanto quelli che le mani degli uomini hanno fabbricato di nascosto chiamandoli, per il segreto in cui era rimasto l'artista, statue cadute dal cielo -- sarebbero infatti essi di natura celeste e caduti dal cielo sulla terra e a questo fenomeno dovrebbero il loro nome --, ma anche quello che l'arte dei fonditori, degli scultori della pietra e del legno hanno foggiato con un lavoro fatto in pieno giorno e dietro pagamento. Le opere di tutti questi artisti hanno un carattere sovrannaturale e superiore all'intelligenza degli uomini, scrive Giamblico, il quale racconta una quantità di favole inverosimili e riporta molti fenomeni a cause nascoste, senza arrossire, nella maggior parte dei casi, di scrivere cose contrarie a quel ch'è evidente». (Fozio, Myriobiblon, cod. 215, 173b 4-32, pp. 130-131, qui citato nella traduzione presente in A. R. Sodano, Introduzione a Giamblico, I misteri egiziani. Abbamone. Lettera a Porfirio, Rusconi, Milano 1984, pp. 27-28). Testo

  28. Pavel A. Florenskij, L'unità della cultura. 20 ottobre 1921, in Id., La concezione cristiana del mondo. Lezioni all'Accademia teologica di Mosca (1921), cit., p. 134. Testo

  29. Giuliano l'Apostata, Lettera a Teodoro, citata in J. Pépin, Mythe e allégorie. Les origines grecques et les contestations judéo-chrétiennes (1958), Études Augustiniennes, Paris 1976, p. 355. Testo

  30. Pavel A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull'icona, cit., p. 61. Testo

  31. Cfr. in proposito Id., Obšceceloveceskie korni idealizma [Le radici universalmente umane dell'idealismo (1909) ], in Id., Socinenija v cetyrech tomach [Opere in quattro volumi], tomo 3(2), Mysl', Moskva 1999, pp. 145-168. Testo

  32. Id., Le porte regali. Saggio sull'icona, cit., pp. 191-192. Testo

  33. Ivi, p. 61. Testo

  34. A. C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell'arte (1981), Laterza, Roma--Bari 2008, p. 94. Testo

  35. Ivi, pp. 19-21. Testo

  36. Cfr. Ivi, in particolare il cap. 3. Filosofia ed arte, pp. 66-108 e il cap. 5. Interpretazione e identificazione, pp. 139-154. Testo

  37. Id., La destituzione filosofica dell'arte (1986), a cura di T. Andina, tr. it. di C. Barbero, Aesthetica, Palermo 2008, p. 141. Testo

  38. Ibidem. Testo

  39. Ivi, p. 144. Testo

  40. Ivi, p. 148. Testo