di Chiara Bertoglio (15 luglio 2008)
I Quadri da un'esposizione di Mussorgskij delineano un possibile percorso nel «discorso su Dio». Essi si pongono come molteplice dialogo, secondo quanto scrisse egli stesso: «L'arte è un mezzo per dialogare con le persone». Il dialogo avviene su diversi piani: con Dio; con il ricordo dell'amico Hartmann; con se stesso; con gli ascoltatori. Il percorso di visita della mostra diviene un percorso interiore, un cammino spirituale: i primi quadri sembrano essere soprattutto l'oggetto di una contemplazione artistica, seppur eccezionalmente partecipe; al massimo di una reinterpretazione creativa. Dalla seconda parte in poi, la contemplazione estetica fa spazio alla meditazione spirituale, alla riflessione filosofica e teologica, ad un itinerario interiore logico, stringente, e -- nel contempo -- profondamente, dolorosamente e ineludibilmente vissuto.
Il sito della Piano Society ospita in formato MP3 i brani musicali nell'esecuzione dell'autrice Chiara Bertoglio.
In questo testo tenterò una lettura «teologica» dei Quadri da un'esposizione di Modest P. Mussorgskij, più noti nella (geniale) versione orchestrale di Maurice Ravel, ma qui considerati nel loro testo pianistico originale. Prima di addentrarmi nella discussione, desidero tuttavia evidenziare qualche importante elemento metodologico, che spero possa scusare le lacune di quanto seguirà.
Innanzi tutto, è necessario che si espliciti la veste nella quale mi sono cimentata con questo lavoro: non in quanto musicologa, i cui articoli devono basarsi su fatti oggettivi, dimostrabili, documentati, ma in quanto musicista, abituata ad entrare in dialogo con un testo musicale a partire dalla sua concretezza quasi «personale», dalla sua fisionomia quasi palpabile.
La lettura che proporrò, per quanto non mi sembri eccessivamente forzata, e possa trovare degli elementi di supporto oggettivi tanto nel testo stesso dei Quadri, quanto nel loro contesto, non può e non deve tuttavia essere spacciata per «la» lettura di questo ciclo pianistico. Essa è né più né meno che un'interpretazione di quest'opera meravigliosa, analoga a quella che da diversi anni realizzo sul mio strumento, con passione e con entusiasmo. Entrambe partono dal testo mussorgskijano, e sperano di non tradirlo; ma entrambe sono solo una delle possibili chiavi di lettura, una delle sue possibili soluzioni, uno dei punti di vista da cui lo si può osservare.
Benché, quindi, vi possano essere degli elementi di oggettività tanto nella mia interpretazione performativa quanto in quella «scritta» che seguirà, entrambe sono ben consce del proprio status di soggettività. A differenza di un testo musicologico, nell'elaborazione del quale mi sforzo sempre di evitare l'inserimento di opinioni personali e di attenermi, per quanto possibile, a dei criteri di scientificità, in questo caso propongo al lettore ciò che questo ciclo «mi dice», il modo in cui esso mi si rivela, ben sapendo che la sua ricchezza risiede proprio nella molteplicità delle sue possibili letture.
Inoltre, devo porre in evidenza la sproporzione tra l'aggettivo «teologica» che ho accostato alla mia lettura dei Quadri e ciò che si potrà reperire nelle righe che seguono. Si può discutere, infatti, di una «teologia» dei Quadri di Mussorgskij solo laddove si intenda «teologia» in senso puramente etimologico, ossia come «discorso su Dio». Nell'interpretazione che propongo, i Quadri si mostreranno al lettore ed all'ascoltatore come un'espressione (sentimentale e logica) di un ben preciso «discorso su Dio»; esso, tuttavia, non ha nulla di rivoluzionario, né si può definire particolarmente profondo od originale. Tuttavia, nel contempo, è un discorso profondamente serio, che per certi aspetti trascende persino i propri limiti, ed attinge quell'ineffabile che talora sconcerta la teologia stessa: la sua ricchezza risiede infatti nella concretezza umana, nella personalità dell'esperienza che racconta, e che si configura come dialogo forte, vissuto, sincero ed appassionato con Dio, con l'altro e con se stesso.
Ben lungi dal porsi unicamente come ciclo di pezzi «caratteristici», come curiosità musicali, i brani che compongono i Quadri di Mussorgskij hanno infatti una straordinaria potenza emotiva ed una grande sapienza compositiva ed architettonica; tutto ciò viene tuttavia trasceso, a sua volta, dalla profondità con cui Mussorgskij, secondo la lettura che ne proponiamo, riesce ad «argomentare», per così dire, ad articolare in un discorso composito e logico la propria fede, rendendo quindi la musica un mezzo di indagine, di rivelazione e di riflessione sul reale, non meno preciso e tanto più emozionante della verbalità.
Com'è noto, i Quadri da un'esposizione furono composti da un Mussorgskij trentacinquenne nel 1874, sull'onda delle impressioni suscitate nell'animo del compositore dalla visita ad una mostra personale, allestita in memoriam di Viktor Alexandrović Hartmann. Questi era un caro amico di Mussorgskij: entrambi erano a loro volta legati dal comune mentore, Vladimir Vassil'ević Stasov, che sarà il dedicatario del brano mussorgskijano.
Nel periodo precedente, Mussorgskij aveva allentato i legami con gli amici compositori che avevano costituito il celebre «Gruppo dei Cinque», il cui ideale musicale, pur senza configurarsi come un corrispettivo musicale della slavofilia letteraria, tendeva comunque a differenziarsi quanto più possibile dall'occidentalismo degli altri grandi autori russi. Contemporaneamente, il compositore prese a frequentare circoli di tipo diverso, formati prevalentemente da artisti figurativi, storici, etnografi e sociologi. Qui ebbe modo di conoscere e frequentare Hartmann: entrambi gli artisti erano piuttosto «realisti» che «populisti». Essi erano attratti dalla Russia e dal suo popolo, ma non giungevano, come Dosto'evskij, ad identificare la salvezza del mondo in un Cristo che si incarna nel popolo, e specificamente nel popolo russo e nella sua fede.1 Mussorgskij ed Hartmann osservavano la realtà del popolo russo con profondo affetto, partecipazione, comprensione e sincerità; tuttavia, essi mantenevano anche una certa distanza, forse inconsapevole, dovuta alla loro natura ed educazione aristocratica. Laddove le tragiche vicende esistenziali e personali di Dosto'evskij, in primis la deportazione, gli permisero di diventare davvero parte di quel popolo immenso, immensamente sofferente, che diventa facilmente un'icona del mistico e dolente Corpo di Cristo, il musicista ed il pittore, privi di questa esperienza, non riuscirono a «fondersi» completamente con questa realtà così grande e misteriosa.
Hartmann era scomparso nel 1873, non ancora quarantenne: l'idea della mostra commemorativa coinvolse l'intera cerchia dei suoi amici, ognuno dei quali contribuì all'esposizione con i quadri, gli acquerelli, gli schizzi ed i disegni che si trovavano in sua proprietà. Vennero esposti tutti i lavori che fu possibile reperire, compresi quelli posseduti da Mussorgskij: la sua partecipazione alla mostra investì quindi anche l'aspetto organizzativo, e non si configurò certamente come una semplice visita culturale.
L'esperienza fu quindi particolarmente forte per il compositore: non soltanto la sua straordinaria sensibilità artistica lo portava ad apprezzare con viva intensità le opere esposte, ma la specifica occasione della mostra e lo struggente ricordo dell'amico scomparso contribuirono a fare della visita un momento indimenticabile.
Caryl Emerson, autrice di una bella biografia mussorgskijana,2 sostiene con puntuali e convincenti motivazioni che l'intera produzione artistica (se non l'esistenza stessa) di Mussorgskij si possono interpretare sotto il segno di Thanatos, la morte. Scrive la Emerson:
Come eludere e placare, commemorare e onorare la morte? Per il compositore questi temi sarebbero diventati molto fecondi, sia drammaturgicamente sia musicalmente, ed avrebbero occupato il posto che altri musicisti del suo tempo avevano riservato all'amore romantico.3
E altrove prosegue la sua analisi:
Durante tutta la sua vita Mussorgskij fu molto angosciato dalla morte. La perdita di persone care, quali la madre, Viktor Hartmann, [...] era un evento semplicemente inaccettabile. I memoriali concordano nel raccontare che Mussorgskij, davanti alle loro tombe, singhiozzava come un bambino, che cominciò a bere biasimando se stesso per la disattenzione o la mancanza d'amore, e che infine compose alcuni brani musicali per ricordare ed evocare ciascuno di loro. Tattiche elusive che ressero per un po' di tempo. Poi il musicista cominciò a pensare, come fece in occasione della morte di Hartmann, che l'esistenza di una creazione artistica fosse sì preziosa, ma che la perdita del suo «creatore» (ovvero il processo della creatività troncato dalla morte) era una tragedia di fronte alla quale non c'era e non ci sarebbe dovuta essere nessuna consolazione.4
La studiosa allude ad una nota lettera di Mussorgskij, che si riferiva proprio alla recente scomparsa dell'amico Hartmann, mettendo a nudo i suoi sentimenti e la sua ribellione con una sincerità disarmante:
Lui [dicono] non esiste più, ma tutte le cose che ha avuto il tempo di portare a termine esistono e continueranno a esistere, e ci sono molte persone che traggono da esse una felicità tale da non dimenticare? [...] Se «lui» non ha vissuto invano, ma ha creato, che canaglia dovrebbe essere uno per riconciliarsi con la deliziosa «consolazione» che «ora ha smesso di creare». Non c'è e non ci dovrebbe essere nessuna pace in questo, non c'è e non ci dovrebbe essere nessuna consolazione, che per noi sarebbe flaccida. Se la natura sta solo facendo la civetta con un essere umano... [...] allora avrò la minor fiducia possibile in lei e la fisserò con sguardo severo... Ma ecco di nuovo il folle, non ha senso arrabbiarsi, quando si è impotenti.5
Parole come queste ci lasciano intravedere un uomo appassionato, per il quale l'amicizia raggiunge vette di empatia non comuni; un uomo che si interroga con violenza sul senso della sofferenza e della morte, e non riesce ad arrendersi all'idea di una «distruzione» dell'essere vivente, della sua personalità, della sua creatività.
E forse è proprio la morte dell'artista a «scandalizzare» Mussorgskij più di ogni altra cosa. Se l'uomo, in quanto animale vivente, è sottoposto alla caducità della morte, la creatività, che accomuna la persona umana a quella divina, sembra particolarmente refrattaria a farsi soffocare in un materialismo che vede nella tomba la definitiva dissoluzione dell'uomo.
Mussorgskij se la prende con la «natura»: la metafora della seduzione (proseguita nella lettera in modo piuttosto esplicito) rivela il suo amore per la natura, per la vita, per il «principio» dell'esistenza (che assuma o no la forma di un Dio personale); lo scandalo del dolore, tuttavia, lo fa sentire come un innamorato tradito.
Ma «non ha senso arrabbiarsi, quando si è impotenti»: davanti a questo mistero, Mussorgskij sembra arrendersi, seppur senza la tranquilla rassegnazione che molti adottano in queste situazioni. Ed è proprio a questa mancanza di rassegnazione che la nostra lettura può tentare di appigliarsi: se Mussorgskij non lottasse, non si ribellasse, il suo orizzonte sarebbe davvero quello del materialismo, di un ateismo cupo ma convinto. Il rifiuto della morte è invece, a mio giudizio, una sorta di embrionale atto di fede, proprio perché si basa sul «non omnis moriar», sul desiderio quasi inespresso che la parte più nobile, più alta, quella artistica e creativa della personalità umana, non possano aver fine con la morte. La ribellione di Mussorgskij mi sembra postulare l'esistenza dell'anima; il riconoscimento della somiglianza che la creatività stabilisce tra la persona umana e quella divina sembra formulare il desiderio, se non la fede, che il «luogo» in cui questa creatività si manifesta sia immortale nell'uomo, così come è eterno in Dio.
Se, tuttavia, questa interpretazione della lettera di Mussorgskij può essere discussa e dibattuta, mi sembra che proprio la sua reazione «musicale» alla morte di Hartmann ed alla mostra che lo ricordò possano esserne una sorta di conferma ben più convinta ed esplicita.
Dopo la scomparsa dell'amico, Mussorgskij attraversò un vero e proprio tracollo psicologico, che ebbe ripercussioni a livello fisico e morale. Se non si tiene conto del ruolo giocato dalla presenza della Morte nella vita di Mussorgskij, questo tracollo appare quasi inesplicabile: nello stesso periodo, infatti, la sua grande opera Boris Godunov viene rappresentata con grande successo, nonostante le polemiche (la Emerson parla di «trionfo e furore del debutto», p. 106).
E tuttavia Mussorgskij si distrugge, preso dal dolore e dal senso di colpa per la morte dell'amico (egli aveva infatti assistito all'infarto da cui Hartmann non si riprese): affogando la sua sofferenza e cercando l'oblio nella bottiglia, si riduce in uno stato così penoso da rendere impossibile un viaggio nell'Europa occidentale, durante il quale avrebbe dovuto incontrarsi con Liszt, grande musicista, pianista e compositore e personaggio di spicco della cultura e della società europea.
La catarsi, l'uscita da questa impasse fu forse dovuta anche alla composizione dei Quadri. Attraverso la creazione artistica, quella stessa creatività su cui forse si appoggiava ciò che in Mussorgskij si può chiamare fede, egli riesce ad elaborare il lutto per la perdita dell'amico; attraverso la musica perviene ad esprimere i suoi sentimenti, le sue domande senza risposta, ma anche le risposte che, forse inconsapevolmente, stava dando a se stesso.
I Quadri hanno una struttura piuttosto complessa, e si articolano su una serie di piani, alcuni paralleli, altri intersecantisi. La prima differenziazione è quella, piuttosto ovvia, tra i «quadri» propriamente detti, dieci in tutto, e le Promenades, «Passeggiate», definite da Mussorgskij stesso degli «intermezzi». A loro volta, le Promenades si possono distinguere in lunghe e brevi, in esplicite ed implicite. Le due Promenades lunghe si collocano all'inizio del ciclo e fra i quadri n. 6 e n. 7; quelle brevi seguono il n. 1, il n. 2, e il n. 4. Accanto a queste Promenades «esplicite», il tema compare anche all'interno di numerosi altri quadri: in particolare, e con una funzione ben precisa che analizzeremo successivamente, in Cum mortuis in lingua mortua e nella Grande Porta di Kiev.
Le due grandi Promenades hanno a loro volta la funzione di suddividere il ciclo in due macrostrutture: nella seconda sono assenti le piccole Promenades esplicite, i Quadri sono praticamente tutti interconnessi, e, come vedremo, è possibile identificarvi un'organizzazione ben precisa. Nella prima parte, invece, i brani sono tra loro tutti separati, e spesso intercalati dalle piccole Promenades; inoltre, la loro successione sembra obbedire più che altro a regole di alternanza ed opposizione, mentre non sembra identificabile una struttura narrativa vera e propria.
Tutte le Promenades si fondano sullo stesso tema, una melodia molto caratteristica ed originale; l'indicazione di tempo e carattere presente in quella iniziale merita di essere riportata: «Allegro giusto, nel modo russico [sic], senza allegrezza, ma poco sostenuto».6 La melodia molto «immediata» della Promenade, facilmente riconoscibile ed identificabile nell'intero ciclo, è solo apparentemente semplice: essa si basa su un ritmo estremamente irregolare, in cui battute di 5 e 6/4 si alternano senza ragioni esteriori.
Una spiegazione plausibile (oltre a quella, ovvia ed importante, della «necessità» artistica e musicale) ci viene data dallo stesso compositore, che scrisse: «Negli intermezzi si può vedere la mia stessa fisionomia».7 Se, infatti, la maggioranza dei brani che evocano in musica il passo dell'uomo è in 2/4 (o suoi multipli), la scelta di un tempo sghembo, sbilenco come il 5/4 può richiamare con grande efficacia ed immediatezza l'andatura goffa di un uomo molto corpulento: sempreché non vi si voglia leggere, in modo drammatico anziché autoironico, l'autoritratto impietoso di un uomo che barcolla sotto l'influsso dell'alcool.8
Se il tema si mantiene melodicamente uguale o molto simile, ma comunque riconoscibilissimo, durante l'intero ciclo, ad essere modificati profondamente sono la sua tonalità, la tessitura, l'armonizzazione, l'articolazione, il carattere, la dinamica. Ciascuno di questi elementi, insieme con l'occasionale anticipazione o citazione di frammenti dei quadri adiacenti, concorre a dare all'ascoltatore una sensazione ben precisa. Come, infatti, l'uguaglianza del tema con se stesso implica l'identità di Mussorgskij con se stesso, ed identifica il personaggio che si muove da una stanza all'altra della mostra, da un quadro all'altro dell'esposizione, così le modifiche a cui il tema è sottoposto riflettono il mutare dello stato d'animo del compositore, in conseguenza delle sensazioni suscitate in lui dalla visione dei diversi quadri. In diversi casi, curiosamente, si ha invece l'impressione di un'anticipazione del quadro successivo: se ciò può avere una grande motivazione artistica (creare aspettativa ed interesse, anziché limitarsi a ribadire l'emozione già vissuta e provocata), nell'interpretazione allegorica potrebbe significare la «simbiosi», l'empatia fra Mussorgskij ed Hartmann.
La struttura musicale delle due grandi Promenades, che informano ed ispirano ovviamente anche quelle «minori» (quasi dei «dettagli» delle maggiori) è costituita dall'alternarsi quasi responsoriale del tema monodico con la sua ripresa in accordi (omofonia): vi si può scorgere, con ogni probabilità, un'alternanza dialettica di individuo e folla, solista e coro, uomo e popolo. Il solista è visto quindi sia come corifeo, come primus inter pares, sia come individualità contrapposta alla massa. Una possibile interpretazione di questo fenomeno può consistere nel fatto che le Promenades, espressioni e ritratti del Mussorgskij visitatore della mostra, ci rappresentano le sue sensazioni, parzialmente comuni con quelle degli altri convenuti, parzialmente proprie e peculiari a lui stesso.
È interessante notare, inoltre, che il tema monodico è ripreso in ottave, quindi «raddoppiato», nella seconda delle due grandi Promenades: ciò potrebbe simboleggiare tanto l'unione spirituale di Mussorgskij ed Hartmann, quanto -- più probabilmente -- un «rafforzarsi» della personalità di Mussorgskij in seguito alle esperienze vissute nella prima parte del ciclo ed in vista di quelle che lo attendono nella seconda parte, una piccola Divina Commedia musicale alla russa.
Dei quadri che ispirarono Mussorgskij, molti sono purtroppo andati completamente perduti, e di altri ci sono pervenute solo delle riproduzioni o descrizioni. Può essere interessante, inoltre, ricordare che alcuni dei quadri esposti erano vere e proprie tele, mentre molti erano acquerelli, schizzi o disegni; accanto all'attività di pittore, infatti, Hartmann esercitava a livello professionale quella di architetto (soprattutto per quanto riguardava padiglioni ed altre costruzioni «effimere») e talora disegnava bozzetti per costumi e scenografie teatrali.
Il primo quadro messo in musica da Mussorgskij fu ispirato proprio da uno schizzo di Hartmann, destinato alla realizzazione di uno «schiaccianoci». Proprio come il protagonista dell'omonimo balletto di Čajkovskij, anche in questo caso l'oggetto domestico è configurato come statuetta di legno con fattezze umane; ma, a differenza, del principe hoffmanniano, qui lo schiaccianoci ha un aspetto spaventoso, quasi ripugnante, tale da incutere terrore. Mussorgskij alterna continuamente soggettivo ed oggettivo: le movenze brusche, sgraziate e terrificanti del laido gnomo sono giustapposte alle reazioni di sgomento, paura, angoscia dell'osservatore. La musica, praticamente priva di melodia, è una successione di «effetti» sonori estremamente potenti e ben calibrati (intervalli «dolorosi» e penosi, discorso frammentato, andamento melodico faticoso, che stenta a trovare una qualsivoglia via d'uscita, trilli nella tessitura grave che inducono una sensazione di tensione e disagio), fino alla spettacolare e repentina uscita di scena dello gnomo.
Si tratta dell'unico brano con titolo originale in italiano all'interno dell'opera mussorgskijana. Il quadro di Hartmann era uno schizzo, realizzato durante i suoi viaggi in Europa occidentale, che raffigurava un castello italiano. Basandoci su quanto ci è noto, sappiamo che Hartmann aveva l'abitudine (comune a molti suoi contemporanei) di tenere un album che fungesse da «diario visuale» dei luoghi visitati; in questi fogli, il pittore schizzava velocemente le situazioni ed i paesaggi più interessanti e caratteristici, con l'obiettivo di trasporre su tela, una volta rientrato dal viaggio, i bozzetti ritenuti più promettenti. Per ricordare precisamente le proporzioni delle architetture riprodotte, Hartmann aggiungeva spesso, accanto alle costruzioni che disegnava, una o più figure umane, che vestiva con i costumi tipici della regione. In questo caso, il personaggio che Hartmann accostò al «vecchio castello» è una sorta di menestrello medievale, intento a cantare una serenata accompagnandosi con uno strumento a corde pizzicate.
Come spesso accadrà, nel corso del ciclo musicale in esame, l'interesse e la creatività di Mussorgskij sono attratti più dall'elemento umano che da quello «turistico»: se l'idea di antichità è evocata dallo stile modale che egli adotta, è tuttavia il menestrello a suscitare tutta la sua attenzione.
La mano sinistra, infatti, esegue un accompagnamento «ostinato», ripetendo per centinaia (!) di volte la stessa nota, un sol diesis grave; su questo basso reiterato, la mano destra si produce nell'evocazione del canto del menestrello.
Ben lungi dal realizzare un quadro «didascalico», una sorta di «polpettone» musicale in salsa mediterranea e medievale, il genio di Mussorgskij inserisce viceversa due elementi notevolissimi nel suo brano, che, pur tradendo in parte la dichiarazione programmatica, rendono tuttavia il brano genuino e sincero, elevandolo allo status di vero capolavoro.
Il primo di questi elementi è la russicità; il secondo l'idiozia. Il nostro menestrello, infatti, ha sicuramente qualcosa di medievale: ma appartiene sicuramente al medioevo russo, non a quello italiano. Trasportato nella terra di Mussorgskij stesso, il menestrello diventa, per così dire, un suo antenato, e si inserisce nella sua esperienza personale, nelle sue radici; il canto del menestrello perde così il color locale italianeggiante, per incarnarsi e diventare nenia atavica, che la lontananza temporale contribuisce solo a rendere più fortemente intima e sentita.
La trasfigurazione temporale, dissociata rispetto allo straniamento geografico, fa sì che il menestrello diventi voce della Russia, antenato comune che non smette di essere meno «proprio» al compositore per il fatto che è avo di molti altri uomini; la presenza di questa origine comune rende Mussorgskij affratellato al popolo russo, e nel menestrello che canta (così come nel canto stesso del menestrello) Mussorgskij riscopre la propria fratellanza con la Russia intera, che si associa a lui nell'espressione dolente della musica.
Musicalmente, questo concetto è espresso con estrema chiarezza, e similmente a quanto già visto nella prima Promenade, dall'alternarsi responsoriale di solo e coro, monodia ed omofonia, melodia ed accordi: al canto solitario del menestrello risponde il mormorio corale, il lamento sussurrato e cullante della moltitudine delle generazioni.
L'altro elemento di grande interesse nella lettura mussorgskijana è rappresentato dal particolare timbro che egli associa alla voce del menestrello. Non si tratta, infatti, di una vera voce maschile, la cui tessitura sarebbe meglio collocata un'ottava sotto; né vi troviamo la voce di una donna, che canterebbe probabilmente almeno una quinta sopra; bensì di una voce specialissima, densa di riferimenti, allusioni e significati già solo nella scelta del suo timbro. È la stessa voce che ritroviamo alla fine del Boris Godunov: la voce dello jurodivij, l'innocente, l'idiota.
Com'è noto, questa figura è di capitale importanza nella cultura e nella letteratura russa; in Dosto'evskij, essa viene sovrapposta addirittura al Cristo, ed il protagonista del romanzo omonimo, il Principe Myškin, è l'icona più simile ad un ritratto di Cristo fra i personaggi creati dallo scrittore russo.
L'idiota non è intelligente, non è colto; ma, appoggiandosi sul celebre passaggio del Vangelo di Matteo, egli è colui al quale il Padre rivela ciò che tiene nascosto ai sapienti ed agli intelligenti.
La presenza dell'idiota nel Vecchio castello, oltre ad essere suffragata da questa scelta timbrica tanto speciale da renderla immediatamente riconoscibile e significante, è resa plausibile anche dal confronto con un altro brano di Mussorgskij, Svetik Savišna, un Lied risalente a qualche anno prima. Ci affidiamo alle parole di Stasov, il mentore di Mussorgskij, per rievocarne la genesi:
Una volta, [nel 1865, Mussorgskij] era in piedi accanto alla finestra, e fu colpito da un clamore che saliva dal basso. Uno sfortunato idiota del villaggio stava dichiarando il suo amore a una giovane contadina che lo aveva attratto; la stava implorando, benché al tempo stesso si vergognasse della sua sgradevolezza e della sua infelice condizione; capiva che nulla al mondo esisteva per lui, meno di tutto la felicità dell'amore. Mussorgskij ne fu profondamente colpito; quel tipo e quella scena si fissarono nella sua mente. All'improvviso gli apparvero forme e suoni originali per personificare le immagini che lo avevano così scosso.9
Ecco, quindi, il trait d'union fra il tema della serenata e quello dell'idiota: un'esperienza umana che aveva segnato così fortemente la sensibilità emotiva ed empatica di Mussorgskij diviene paradigma dell'esistenza umana, dell'amore infelice, impossibile e non corrisposto. Dopo aver osservato con tanta partecipata intensità la scena della serenata dell'idiota, forse divenne per Mussorgskij quasi inattuabile la scissione dei due temi: quasi automaticamente, quindi, il menestrello innamorato schizzato da Hartmann assunse le fattezze dello jurodivij, con tutte le sue implicazioni storiche, filosofiche ed emotive.
Come precedentemente osservato, i Quadri che compongono la prima parte del ciclo sono accostati principalmente secondo criteri di opposizione e differenziazione. Alla struggente nostalgia, al dolore atavico del Vecchio castello si contrappone la pura felicità dell'infanzia: i bambini al «vecchio», l'allegria al dolore, la canzonatura al lamento.
Il quadro di Hartmann raffigurava, ancora una volta, degli esseri umani, dei bimbi, per l'appunto, davanti ad un elemento del paesaggio, in questo caso i giardini parigini delle Tuileries. E, ancora una volta, ad interessare Mussorgskij sono le persone, per quanto piccole, ben più che lo sfarzo o la simmetria del giardino.
L'attenzione di Mussorgskij verso il mondo infantile è peraltro una costante del suo percorso creativo e della sua stessa esistenza: egli era l'idolo dei bimbi, quando si recava in visita dagli amici che ne avevano, e sapeva instaurare con loro un dialogo sincero, serio e privo di bamboleggiamenti. Il risultato più straordinario di questa finissima e rispettosissima osservazione psicologica è il ciclo di liriche La stanza dei bambini, in cui il linguaggio infantile è posto sotto la lente di ingrandimento e diviene il vero modello dell'articolazione musicale del testo verbale.
Della particolarità di quest'attenzione al mondo dei bambini era ben conscio lo stesso musicista, che scrisse:
Capire i bambini e osservarli nel loro piccolo mondo, e non come bambolotti, suggerisce l'idea di un compositore che non guarda alle cose stupidamente.10
In questo caso, i bimbi sono colti nell'atto di «litigare» dopo il gioco. In realtà, più che di un vero litigio, si tratta del canzonarsi, del prendersi in giro: e ritroviamo con tenerezza e divertimento la stessa cellula melodica (una terza minore discendente) con cui pure i nostri bambini, anche oggi, si canzonano a vicenda.
A questa cellula, su cui si basa l'intero brano, Mussorgskij associa dei movimenti di semicrome staccate e veloci che evocano, di volta in volta, la vivacità ed allegria dei bambini, e le loro risate cristalline.
Alla levità fisica e psicologica del brano e dell'immagine di Tuileries fanno da contrappeso la grevità fisica e psicologica del pezzo seguente. Il titolo, in polacco, significa «bestiame», «carro di buoi», ed il modello pittorico del brano rappresentava il faticoso incedere di un tiro di buoi nella melma. Hartmann aveva ritratto la scena proprio in Polonia, ma l'uso della lingua polacca aveva probabilmente anche un significato allegorico, per Mussorgskij. Il lento e penoso avanzare del carro di buoi diventava forse un simbolo dell'altrettanto estenuante percorso della nazione polacca, sempre schiacciata dai suoi ingombranti vicini, verso la propria libertà ed indipendenza. La fisionomia «umana» che Mussorgskij attribuisce al carro di buoi è evidenziata dalle sue scelte musicali: se la mano sinistra evoca il passo pesante e regolare degli animali, la destra ci presenta un canto doloroso e corale, che ha molti punti di contatto con quello di coloro che trascinavano le chiatte sui grandi fiumi russi.
Brano delizioso, fortemente onomatopeico, una sorta di puro divertissement, in cui Mussorgskij ritrae con arguzia, vivacità, fantasia musicale superba e straordinaria sensibilità sonora un balletto di pulcini. L'ispirazione gli venne da un bozzetto di Hartmann per i costumi destinati alle ballerine di Trillby, uno spettacolo oggi dimenticato.
La goffaggine del costume immaginato da Hartmann, unita alla sua scarsissima praticità e ad una singolare mancanza tanto di eleganza quanto di simpatia, contrastano fortemente con la grazia, la freschezza e la simpatia della realizzazione musicale mussorgskijana.
È il brano più grottesco e caricaturale del ciclo, oltreché uno dei più complessi ed interessanti dal punto di vista compositivo. Il quadro che l'ha ispirato era in possesso dello stesso Mussorgskij, e raffigurava «due ebrei polacchi, uno ricco e l'altro povero». Il nome del primo è infatti tutto un programma («Montagna d'oro»), mentre il secondo, un mendicante, è citato solo con un nomignolo, un diminutivo, senza cognome.
La musica di Mussorgskij adotta una specie di «montaggio cinematografico», estremamente riuscito ed originale. Dapprima, infatti, essa ci presenta Goldenberg: la fisionomia orientaleggiante della melodia, che evoca l'origine mediorientale del personaggio, è resa con soluzioni timbriche che ne enfatizzano l'alterigia, la grettezza e l'avarizia. Il ricco è infatti ritratto nel suo aggirarsi per il ghetto di Sandomir (la città dove è ambientata una parte del Boris Godunov), ed i repentini scatti della melodia (i brevi «levari») mi sembrano suggerire il suo voltarsi di scatto per controllare che nessuno lo stia seguendo per rapinarlo.
La macchina da presa mussorgskijana si sposta poi, ed inquadra l'altro protagonista, il povero Schmuyle. Questi sta chiedendo l'elemosina con tono piagnucolante e fastidioso: in questo quadro è assente la compassione, la solidarietà manifestata da Mussorgskij nei confronti della sofferenza dei suoi simili che avevamo trovato in Bydło, e troviamo invece quella passione tipicamente russa per il grottesco che caratterizza tanti dei personaggi di Gogol'.
L'inquadratura si allarga, quindi, e ci presenta i due personaggi accostati. Ciò è reso musicalmente in modo assolutamente non convenzionale e geniale, sovrapponendo non solo le loro rispettive caratterizzazioni musicali (il tema di Goldenberg e le note ripetute del balbettio di Schmuyle), ma anche le loro tonalità: essi non entrano in dialogo, non parlano la stessa «lingua» (la medesima tonalità), ma restano reciprocamente estranei, Goldenberg infastidito da Schmuyle e questi che lo supplica come supplica chiunque altro -- forse solo un po' più forte perché ha adocchiato una saccoccia più pingue.
Nelle ultime battute del brano, Schmuyle diventa mieloso, il suo lamento diventa ancora più obliquo e lagnoso; Goldenberg scuote la testa, negandogli l'elemosina, fino al reciso rifiuto finale.
Come abbiamo avuto occasione di anticipare, la seconda parte dei Quadri ha una stringente struttura compositiva, che assume la fisionomia di una vera teologia escatologica. Negli ultimi quattro quadri, infatti, Mussorgskij mette in musica i grandi misteri della religione cristiana, quasi coincidenti con quelli che la tradizione cattolica ha posto sotto il nome di novissimi. Gli ultimi brani del ciclo, infatti, sono altrettante, vigorosissime rappresentazioni di Vita, Morte, Inferno e Paradiso: eseguiti uno di seguito all'altro, quasi senza interruzione (l'attacca è indicato esplicitamente fra Limoges e Catacombae, oltreché fra Baba Jaga e la Grande Porta di Kiev, ma è praticamente implicito fra Cum mortuis e Baba Jaga, ove l'ultima nota del brano che precede è la stessa che inizia il seguente), questi quattro pezzi pongono all'ascoltatore quelle medesime domande che la morte di Hartmann aveva suscitato con tanta violenza nell'animo del compositore.
A chi è abituato alle gelide luci al neon ed all'atmosfera asettica ed impersonale degli odierni ipermercati può forse risultare difficile immaginare cosa doveva essere un mercato (russo) dell'epoca di Mussorgskij. Benché infatti il quadro hartmanniano rappresentasse il mercato di Limoges, bisogna ricordare costantemente che Mussorgskij fu sempre refrattario all'esotismo; così, il suo trovatore italiano diventa uno jurodivij, i suoi bambini francesi parlano russo ed il carro di buoi polacco canta le nenie degli uomini di fatica del Don o del Volga.
Per questo brano, Mussorgskij aveva previsto anche un racconto, poi cassato: il sottotitolo doveva infatti essere La grande nouvelle, ed il testo doveva parlare di una mucca persa e poi ritrovata.11
Se, tutto sommato, possiamo dirci fortunati che Mussorgskij abbia cambiato idea (se non altro perché i programmi di sala da concerto avrebbero distrutto la foresta amazzonica), tuttavia questa sorta di umorismo un po' grossolano, un po' da osteria, è davvero tipico dell'autore, e ci aiuta comunque ad immaginare la scena che aveva sotto gli occhi nel comporre questo brano.
La fantasia ci può infatti condurre a vedere tutti i colori di un mercato dell'Ottocento: le tinte sgargianti della frutta e della verdura, l'abbigliamento colorato e pittoresco dei contadini, le tende, le stoffe, le spezie profumate, e gli odori grevi del bestiame; possiamo immaginare le grida dei venditori e quelle dei ciarlatani, un'occasionale rissa in qualche angolo della piazza, i versi degli animali (dalle galline alle oche, dalle mucche ai cavalli...), le risate delle comari.
Tutto questo è evocato da Mussorgskij, nel brano più vivace (nel verso senso della parola) e tecnicamente più impegnativo della serie. Il mercato diventa quindi simbolo della vita: dei suoi colori, dei suoi odori, dei suoi sapori e dei suoi suoni; dei rapporti umani, che si intersecano nel commercio e che si manifestano negli incontri e negli scontri della piazza, dell'agorà, del mercato; simbolo, infine, del turbinio degli affari, delle azioni, dei progetti, della creatività produttiva dell'essere umano.
Ad un brano già particolarmente vitale e veloce segue una coda ancor più travolgente e rapinosa, che sfocia direttamente nella prima nota del brano seguente.
Non vi potrebbe essere contrasto più forte fra due brani. Al rutilante vorticare dei suoni e dei colori del mercato segue -- improvvisa, subitanea, crudelmente immediata ed inesorabile -- la stasi della morte.
Genialmente, Mussorgskij individua proprio nella staticità, nell'assenza di movimento, la cifra distintiva della morte. Come il buio è assenza di luce, e -- agostinianamente -- il male è assenza di bene, così la morte è assenza di vita; e, se la vita era stata simboleggiata dal movimento, la sua assenza sarà la più perfetta icona della morte.
Il modo in cui la musica può rendere l'idea del movimento consiste ovviamente nella sua «scrittura del tempo»: così come movimenti intensi e veloci producono un'innalzata pulsazione cardiaca, e come il letargo provoca bradicardia, così una fitta trama sonora come quella di Limoges suggerirà l'impressione di una vita straripante e lussureggiante, mentre le lontanissime note di Catacombae saranno quanto di più vicino al silenzio si possa rendere in musica.
Le note e gli accordi di Catacombae sono così distanti l'uno dall'altro da rendere praticamente impossibile collegarli in un «discorso» musicale. Essi sono quindi percepiti come eventi isolati, singoli; come «colonne» indipendenti, non come elementi la cui successione produce movimento. La scansione ritmica è tanto lenta da risultare impossibile da individuare all'ascolto: la disunione degli eventi sonori annulla il ritmo e, conseguentemente, il movimento.
Sul legame tra stasi e morte in Mussorgskij, può essere utile confrontare un frammento del suo epistolario, apparentemente poco pertinente al contesto di cui ci occupiamo, con il commento che ne propone Caryl Emerson. Commentando una lettera di Mussorgskij a Stasov («Ho dovuto passare tutti questi giorni in compagnia degli adoratori della bellezza musicale assoluta. E ho sperimentato una strana sensazione di vuoto conversando con loro. Questa strana sensazione fu rimpiazzata da un'altra, persino più strana, ma non era una sensazione di cui ci si potesse sbarazzare. E non posso darle un nome: è la sensazione che si prova dopo aver perso una persona vicina e cara...»),12 scrive infatti la studiosa: «Bellezza assoluta come prevedibilità, prevedibilità come stasi, e stasi come perdita e morte: il compositore stette in guardia per tutta la vita contro questa sequenza».13
Il quadro di Hartmann era il ritratto di un architetto parigino, studioso di catacombe; ed anche in questo caso, come nel quadro precedente, Mussorgskij aveva apposto una nota testuale esplicativa:
NB: Un testo latino! Con i morti in una lingua morta. Un testo latino sarebbe una buona idea: lo spirito creatore di Hartmann mi guida ai crani, mi richiama presso di loro, ed essi brillano dolcemente.
L'ottavo Quadro del ciclo è diviso in due parti: la prima è Catacombae, la seconda, Cum mortuis, è un'«appendice» basata sul tema della Promenade.
Della struttura musicale di Catacombae si è già detto; in Cum mortuis la mano destra propone un agghiacciante e continuo tremolo agli acuti, talora statico, talora penosamente discendente. La mano sinistra inserisce invece un'eco in accordi della Promenade, con una funzione semantica chiarissima. Se, infatti, i titoli di questi due brani sono un riferimento già sufficientemente esplicito all'idea della morte, qui il tema stesso della Promenade viene trasfigurato dalla morte,14 «muore» anch'esso. E, poiché sappiamo che le Promenades sono autoritratti di Mussorgskij, ecco che qui l'autore mette in scena la sua stessa morte.
Dopo la vitalità sfrenata di Limoges e la «sospensione della vita» ritratta in Catacombae, qui la morte diventa soggettiva, personale, irrompe con il suo mistero (Cum mortuis) e con la sua ineluttabilità (Catacombae) nell'esistenza dell'individuo.
Scrive a questo proposito la Emerson: «Non è la necrofilia ad attrarre Mussorgskij verso la morte; al contrario, è la sua forza trasfigurativa». Il tema della morte, infatti, come si è visto fu sempre presente nell'attenzione personale, umana e creativa di Mussorgskij, oltre ad essere l'occasione scatenante per la composizione dei Quadri. Mettere in musica la morte era forse l'unica catarsi possibile al compositore; e cercare di «visualizzarla», concretizzarla, era forse un modo per esorcizzarla. Sempre la Emerson scrive infatti:
Per tutta la vita Mussorgskij fu un meraviglioso illustratore. Spesso l'esperienza di una perdita incommensurabile stimolò la sua percezione visiva, e quindi la sua immaginazione drammatica e musicale.15
Quella che a me sembra una chiara intenzionalità metafisica nell'organizzazione musicale degli ultimi brani del ciclo appare in modo particolarmente evidente, a mio giudizio, in questo pezzo straordinario. Qui, infatti, la volontà creativa di Mussorgskij travalica e quasi stravolge il senso del quadro hartmanniano che avrebbe dovuto ispirarlo, piegandone il significato fino a trasformare un oggetto decorativo in un paradigma del Male.
Il bozzetto del pittore raffigurava infatti il progetto per un orologio, ispirato alla strana abitazione di una figura tradizionale delle favole russe, la strega Baba Jaga. La pendola, modellata sullo stile delle tipiche izbà, poggia infatti su delle zampe di gallina, proprio come la capanna della fiaba. Non vi è tuttavia nulla di inquietante in questo oggetto (tranne forse lo stile decisamente kitsch...), mentre il brano di Mussorgskij è di una violenza e di un «terrorismo» musicali davvero inauditi. Lo stile musicale anticipa Bartók e Stravinskij, nell'uso percussivo del pianoforte e nella ricerca di effetti sonori sconvolgenti, repentini ed emotivamente conturbanti.
Ancora una volta, non è tanto la capanna ad ispirare Mussorgskij, anche se l'orologio di Hartmann non alludeva che indirettamente alla sua abitante: il compositore si concentra proprio su Baba-Jaga, che diventa un simbolo musicale di vividissima potenza.
Secondo le favole, Baba-Jaga era una strega di particolare ferocia (e Mussorgskij stesso utilizza la parola italiana «Feroce» come indicazione espressiva per il suo brano): mentre le streghe delle fiabe occidentali si limitano a distribuire rosse mele al sonnifero, questa si cibava delle ossa delle sue vittime, dopo averle schiacciate in un mortaio con un pestello.
Baba-Jaga diventa quindi un chiaro simbolo dell'inferno, per numerose ragioni. Innanzi tutto, ovviamente, per la sua malvagità gratuita: l'orribile fine che riserva agli sventurati che cadono in suo potere è Male allo stato puro, Male per se stesso, senz'altra motivazione che l'amore per la crudeltà. Baba-Jaga è quindi un'immagine di Satana, del demoniaco, del principio stesso del Male.
In quanto figura delle leggende di tradizione orale, Baba-Jaga è anche mitologia, e, in senso lato, paganesimo; è la cultura precristiana, sub-cristiana, la magia ed i riti ancestrali, i sacrifici umani, i baccanali orgiastici; non solo, ma forse la sua abitudine cannibalesca può essere vista addirittura come una parodia demoniaca e blasfema della ritualità cristiana collegata all'Eucaristia.
Infine, Baba-Jaga è collegata alla paura, al terrore: come tutte le esperienze di angoscia vissute da bambini, è impressa profondamente nella nostra psiche, e fa parte delle paure ancestrali ed inespresse che ci portiamo dentro. Essa fa parte dell'irrazionale, della paura del buio e dell'ignoto: simboleggia tutto ciò che ci terrorizza nell'idea della morte. Temiamo la morte perché non la conosciamo, perché abbiamo tutti (credenti o non credenti, razionalisti o superstiziosi) l'inconscio terrore che essa sia la porta per qualcosa di orribile. E questo qualcosa di orribile, costellato da pene eterne ed inimmaginabili, è l'inferno; o, meglio, è un Ade pagano con torture eterne. Ade pagano, si diceva, perché il terrore che incute sta nella sua mancanza di motivazione: laddove l'inferno cristiano, pur nella sua orribile realtà di abisso di dolore, di «sofferenza di non amare più», come lo definì Dosto'evskij, è tuttavia la precisa scelta dell'essere umano, e non una condanna comminata da un tiranno onnipotente, questo nostro terrore inespresso teme un inferno immotivato, contro cui non possiamo ribellarci. Se ciò che scandalizza più fortemente e frequentemente gli esseri umani è la sofferenza innocente, l'idea di una sofferenza eterna ed immotivata, di un senso di colpa cosmico da scontare per sempre è probabilmente la nostra paura collettiva più grande.
E questo terrore è reso perfettamente dalla musica di Mussorgskij, il cui violento espressionismo è forse uno dei più efficaci corrispettivi musicali dell'Urlo di Munch. Ascoltando questo brano, con le sue stridenti ottave iniziali e conclusive, e con l'evocazione del «battere i denti per la paura» nella parte centrale, l'immagine visuale dell'orologio di Hartmann impallidisce, mentre il confronto con il capolavoro del pittore norvegese appare ben più efficace.
Mussorgskij non era peraltro nuovo al collegamento tra streghe e demoniaco, tra sabba ed inferno: Streghe era uno dei suoi primi brani, e la rielaborazione di questo brano darà vita alla grandiosa Notte [di S. Giovanni] sul Monte Calvo, altra potentissima raffigurazione di un male orgiasticamente trionfante.
Come nel caso di Limoges, l'atmosfera già così carica viene ulteriormente forzata e portata al parossismo: un passo di ottave alternate, veloci e di altezza crescente crea una straordinaria tensione ed aspettativa nei confronti del brano seguente.
Senza soluzione di continuità, le terribili ottave di Baba-Jaga sfociano nel grandioso e solare mi bemolle maggiore dell'ultimo brano, La grande porta (o L'arco trionfale) di Kiev. In questo caso, l'occasione visuale del brano è un progetto, un bozzetto preparato da Hartmann per un arco di trionfo. Benché fosse stato organizzato un regolare concorso, l'arco non venne mai realizzato; tuttavia, fu forse un bene, perché le colonne troppo tozze previste da Hartmann avrebbero probabilmente pregiudicato la stabilità della costruzione. Si trattava, comunque, di una porta tripartita: sopra l'arco centrale, il più grande, avrebbe dovuto trovar luogo una scritta in slavo antico, «Benedetto Colui che viene nel nome del Signore», sormontata da un'immagine sacra e dall'aquila bicipite. A lato dell'arco, un campanile con la guglia a cipolla tipica delle chiese russe.
Nel bozzetto di Hartmann, diversi personaggi a piedi sono fermi accanto agli archi, mentre una carrozza con due cavalli è lanciata al galoppo ed in procinto di entrare dall'arco centrale.
Mussorgskij sostituisce a questa immagine di vita quotidiana una scena completamente diversa, festiva e solenne. Attraverso l'arco di trionfo, egli vede passare una grande processione religiosa, identificata e caratterizzata da una serie di elementi musicali fortemente simbolici. I grandiosi accordi che disseminano il brano, spesso preceduti da acciaccature nelle zone più gravi della tastiera, evocano senza equivoci il suono dell'organo; si odono i corali ortodossi cantati dai fedeli, dapprima in lontananza (con uno splendido effetto di sospensione, all'ingresso del corale in pianissimo dopo la grandiosità dell'inizio) e poi più da vicino. Vi è inoltre un grande concerto di campane (quelle stesse campane raffigurate da Hartmann nel suo disegno): Mussorgskij crea uno straordinario effetto sonoro, poiché realizza sul pianoforte, in un primo momento, quel confuso sovrapporsi di suoni che si odono nell'ascoltare le campane da molto vicino. I suoni si fanno via via più definiti, e nella parte centrale del brano assistiamo alla «resurrezione» del tema della Promenade, che avevamo udito «morire» in Cum mortuis.
La trionfale conclusione del pezzo va quindi ben oltre il puro «effetto speciale», il tourbillon strappa-applausi; certo, né il pianista né gli ascoltatori hanno motivo di lamentarsi di questa conclusione spettacolare e magnifica, ma essa ha un valore ben più grande e trascendente la sua pura funzione «scenica». A mio giudizio, infatti, questo grande trionfo conclusivo è, per Mussorgskij, non solo il trionfo della fede, ma, direi, il trionfo della vita, la vita eterna espressa attraverso la fede.
La grandiosa festosità che sperimentiamo nella Grande Porta di Kiev non è semplicemente il trionfo della Chiesa-istituzione, benché il compositore ne utilizzi tutti i principali simboli; essa è il trionfo della Chiesa in senso più profondo, dell'umanità sposata dal Cristo e che, tramite Lui, accede alla vita eterna.
La sofferenza della morte (della propria morte e di quella degli amici) viene così ad assumere una grande speranza, una grande fede; dopo lo sconcerto provocato dal suo apparire imprevisto, inopportuno e subitaneo nella rete dei nostri affetti e delle nostre amicizie (Catacombae), dopo l'angoscia ed il terrore che la nostra carnale umanità esperisce nei confronti della morte stessa (Baba-Jaga), nella Grande Porta di Kiev la risurrezione diventa concreta, presente, reale.
La vita eterna non è qui posposta a dopo la morte stessa: il regno di Cristo è già presente, e la lontananza dei cari scomparsi diviene solo apparente. Nello scampanio pasquale, Mussorgskij rende presenti vivi e morti in quella Chiesa che tutti accomuna, e che Cristo ha redento nella sua globalità.
Questo è, almeno, ciò che questi brani mi dicono: non si tratta, tuttavia, di una semplice sensazione emotiva, o di suggestioni come quelle che spesso gli esecutori esplicitano per aiutarsi ad interpretare un brano, o a fissarne l'interpretazione stessa. Anche se, come ho specificato all'inizio, questa interpretazione non pretende di essere l'unica, o quella «giusta», ed anche se mantiene tutta la sua discutibilità ed opinabilità, mi sembra tuttavia che essa si appoggi, almeno in parte, su degli elementi oggettivi, riscontrabili, presenti e voluti nella musica.
Sarò comunque lieta di confrontarmi su questo argomento con altri musicisti, appassionati o studiosi, sia che condividano sia che trovino questa interpretazione forzata od arbitraria. Dal confronto possono sempre nascere nuovi, affascinanti punti di vista, e spero che, come queste pagine forse potranno suscitare in qualche lettore delle nuove domande o delle nuove idee, allo stesso modo dal dialogo con i lettori possano scaturire nuovi spunti di discussione e di lettura sia per me sia per altri.
Nelle pagine precedenti, ho cercato di delineare un possibile percorso nel «discorso su Dio» di Mussorgskij, come ci è rivelato dai suoi Quadri da un'esposizione. Essi si pongono come molteplice dialogo, secondo quanto scrisse egli stesso: «L'arte è un mezzo per dialogare con le persone».16 Il dialogo avviene su diversi piani: con Dio; con il ricordo dell'amico Hartmann; con se stesso; con gli ascoltatori. Il percorso di visita della mostra diviene un percorso interiore, un cammino spirituale: i primi quadri sembrano essere soprattutto l'oggetto di una contemplazione artistica, seppur eccezionalmente partecipe; al massimo di una reinterpretazione creativa. Dalla seconda parte in poi, la contemplazione estetica fa spazio alla meditazione spirituale, alla riflessione filosofica e teologica, ad un itinerario interiore logico, stringente, e -- nel contempo -- profondamente, dolorosamente e ineludibilmente vissuto.
Laddove i primi sei Quadri sono effettivamente dei «quadri», gli ultimi quattro somigliano più a delle icone: ne hanno la valenza spirituale di «preghiera-in-arte», e ne possiedono anche il valore simbolico, la funzione di rimando, divenendo concretizzazioni artistiche della trascendenza.
Vi è poi un profondo dialogo fra il mondo delle Promenades e quello dei Quadri. Se i quadri, dapprima, sono delle sollecitazioni visive per la creatività sonora di Mussorgskij, essi divengono via via più «suoi», e si riduce sempre di più la distanza tra l'oggetto ed il soggetto. Le Promenades, simboli del Mussorgskij che ammira e si lascia coinvolgere dai quadri della mostra, si intersecano sempre più fittamente con i quadri stessi, tant'è vero che, nella seconda parte del ciclo (quella più densa di significati spirituali), esse non sono più indicate con titoli e brani separati, ma si infiltrano all'interno dei quadri stessi (Cum mortuis e La grande porta di Kiev).
I Quadri smettono così di essere «pretesti» artistici: Mussorgskij si lascia coinvolgere, come artista ma soprattutto come uomo, dagli stimoli di riflessione e meditazione che essi gli porgono, si lascia porre le domande più grandi dalle loro suggestioni visuali, permette alla loro essenza spirituale di coinvolgere la propria, di farla divenire tutt'uno con se stessa.
Se nella prima parte Mussorgskij mantiene comunque una certa distanza, rispetto ai quadri, ed i suoi «commenti», le Promenades, si distinguono nettamente da essi, pur lasciandosene fortemente influenzare, nella seconda parte l'arte di Hartmann si fa tramite di comunione. Attraverso la contemplazione dei quadri, la differenziazione tra gli individui scompare, e l'osservatore si riunisce al pittore tramite la contemplazione del quadro. Ciò avviene, tuttavia, solo in quei quadri che sono stati «sistemati» in una collocazione atta a risvegliare la meditazione, l'analisi di senso sul significato dell'esistenza. Mussorgskij sembra suggerire che la comunione al di là della morte si realizza anche tramite l'arte, ma solo qualora essa sia inserita in un ambito di trascendenza.
È tramite la meditazione su Dio che si raggiunge la comunione piena, a prescindere dalla presenza fisica, dallo spazio e dal tempo; i tentativi puramente umani sono destinati ad una cronica e costitutiva incompiutezza.
Attraverso la contemplazione artistica, congiunta all'ascesi spirituale, è invece possibile inserirsi in una comunione tanto forte e completa da rendere paradossalmente attuale anche la propria stessa morte e la propria stessa risurrezione, simboleggiate dal destino della Promenade. Lo spirito di Mussorgskij «entra» nei quadri di Hartmann, e tramite essi attinge l'ineffabile; così, il tema che ne simboleggia la personalità, passa a sua volta attraverso le esperienze già vissute dall'amico scomparso, e diviene partecipe della sua morte, ma anche della vita oltre la morte che renderà totale la loro comunione.
Ecco, quindi, che, come il suo contemporaneo Dosto'evskij, Mussorgskij sembra esprimere, con i suoi Quadri, la fede nella Bellezza: essa può davvero «salvare», quando sia vissuta secondo la sua essenza più vera e trascendente.
Saremo felici di ricevere commenti a questo articolo. Nel caso abbiate dato l'assenso, il vostro commento potrà essere eventualmente pubblicato (integralmente o in sintesi). Grazie!
Cfr. Romano Guardini, Dostojevskij. Il mondo religioso, Morcelliana, Brescia, 1951 (20005) Testo
Caryl Emerson, The Life of Musorgsky, Cambridge University Press, Cambridge, 1999; trad. it. di Alessandro Cogolo, Vita di Musorgskij, EDT, Torino, 2006. Testo
Emerson, op. cit., p. 2. Testo
Emerson, op. cit., p. 133. Testo
J. Leyda e S. Bertensson, a cura di, The Musorgsky Reader: a Life of Modeste Petrovich Musorgsky in Letters and documents, New York, Da Capo Press 1970 (prima ediz. 1947), p. 231. Testo
In italiano nell'originale. Testo
The Musorgsky Reader, cit., p. 271. Testo
Cfr. Robert Schumann, Musikalische Haus- und Lebensregeln / Regole di vita per il musicista, Udine, Pizzicato, 1991, p. 5: «Suona a tempo! Il modo di suonare di parecchi virtuosi è come il procedere di un ubriaco. Non prenderli come modello». Per una discussione del legame fra ebbrezza e tempo musicale rimando, seppur marginalmente, al mio articolo Verità e Poesia: Dialettica dell'Io nella musica di Schumann e Nietzsche, di prossima pubblicazione sulla rivista Divus Thomas (Studio Filosofico Domenicano, Bologna 2008). Testo
Vladimir Vasil'ević Stasov, Modest Petrović Musorgskij: biografičeskij očerk (prima pubblicazione in «Vestnik Evropy», Moskva 1881, nn. 5-6), in V. V. Stasov, Izbrannye stat'i o M. P. Musorgskom, Moskva, GosMuzIzdat 1952, p. 73. Testo
The Musorgsky Reader, cit., p. 227. Testo
Mussorgskij aveva preparato due versioni di questo testo. La prima recita: «La grande nouvelle: Mr Pimpant de Panta-Pantaléon vient de retrouver sa vache "La Fugitive". "Oui, Maàme, c'était hier". -- "Non, Maàme, c'était avant-hier". "Eh bien, oui, Madame, la bête rôdait dans le voisinage". "Eh bien, non, Maàme, la bête ne rôdait pas du tout". -- etc...». La seconda versione propone invece: «La grande nouvelle: Mr de Puissangeout vient de retrouver sa vache "La Fugitive". Mais les bonnes dames de Limoges ne sont pas tout à fait d'accord sur ce sujet, parce que Mme Remboursac s'est appropriée une belle denture en porcelaine, tandis que Mr de Panta-Pantaléon garde toujours son nez gênant -- couleur pivouane». [Fonte: Modest P. Mussorgskij, Bilder einer Ausstellung, G. Henle Verlag, Monaco, 1992]. Traduzione mia: (versione del n. 1) «La grande notizia: Il signor Pimpant di Panta-Pantaléon ha ritrovato la sua mucca La Fuggitiva. "Sissignora, era ieri". "Nossignora, era l'altro ieri". "Ebbene sì, signora, l'animale si aggirava nei dintorni". "Nossignora, non si aggirava per nulla nei paraggi" ecc.». (Versione del n. 2): «La grande notizia: Il signor Puissangeout ha ritrovato la sua mucca La Fuggitiva. Ma le brave signore di Limoges non sono del tutto d'accordo su questo argomento, perché la signora de Remboursac ha acquistato una bella dentiera di porcellana, mentre il signor Panta-Pantaléon ha sempre il suo orribile naso rosso peonia». Testo
The Musorgsky Reader, cit., p. 200. Testo
Emerson, op. cit., pp. 59-60. Testo
Emerson, op. cit., p. 98. Testo
Emerson, op. cit., p. 33. Testo
The Musorgsky Reader, cit., p. 419. Testo