L’intelligenza delle emozioni: dalla filosofia antica alla teoria di Martha Nussbaum

Nella storia della filosofia le emozioni sono state spesso considerate meri moti irrazionali, forze contrapposte alla ragione che, per questo, andavano controllate o addirittura represse, affinché non disturbassero o compromettessero la vita morale. Il binomio passione-ragione è sempre stato sinonimo di conflitto, un conflitto che vedeva la vittoria della razionalità e il conseguente allontanamento delle emozioni dall’ambito etico, in cui le teorie formaliste, universali e imparziali hanno fatto per molto tempo da padrone.

Nella filosofia contemporanea cade lo stereotipo delle emozioni come elementi completamente inaffidabili, e ne viene piuttosto rivalutata la portata cognitiva. Protagonista di questa visione è indubbiamente Martha Nussbaum, che in numerose opere descrive le emozioni come costitutive del ragionamento etico e quindi parte fondamentale della filosofia morale. La sua tesi principale, ovvero che le emozioni sono elementi essenziali dell’intelligenza umana, ha conseguenze in diversi ambiti, specialmente nel pensiero sociale e politico. In particolare, l’autrice si concentra sul ruolo che l’amore, emozione quantomai controversa, può assumere nella costruzione di una società liberaldemocratica. In questo saggio si cercherà dunque di capire in che modo tale sentimento possa contribuire allo sviluppo sociale, riscattando la stessa funzione della filosofia, disciplina troppo spesso considerata mero appannaggio di una riflessione fine a se stessa. Per fare questo, ci si avvarrà anche del pensiero fenomenologico di Max Scheler: infatti, entrambi gli autori, seppure utilizzino argomentazioni diverse, rivalutano la portata cognitiva della vita emozionale e attribuiscono all’amore un ruolo sociale importante.

1. Le emozioni come credenze: Nussbaum e gli Stoici

Nussbaum mutua la maggior parte delle sue tesi dalla filosofia antica, che essa cerca di elaborare al fine di ottenere un’accezione di filosofia politicamente e socialmente vantaggiosa. Punto di riferimento principale del suo intero filosofare è Aristotele, dal quale l’autrice ricava i concetti cardine della sua teoria, primo fra tutti quello di eudaimonia, «vita riuscita». Le emozioni, infatti, informano l’individuo sul mondo proprio in base a valutazioni etiche che riguardano i suoi progetti personali, al fine di realizzare la «vita buona». Esiste dunque un’intelligenza emotiva, senza la quale la mera razionalità risulterebbe incompleta. Tuttavia, la posizione dell’autrice,1 il cui asserto principale è che le emozioni sono basate su stati cognitivi costruiti su proposizioni assiologiche, rende il suo pensiero molto simile anche allo Stoicismo. Normalmente, le tendenze che si rifanno a tale approccio asseriscono che le emozioni implicano credenze riguardo al loro oggetto (se, ad esempio, vedo x come y, automaticamente avrò la credenza che x è y). Le credenze sono necessarie per l’identità delle emozioni: per questo motivo, Nussbaum considera le emozioni una funzione delle facoltà cognitive e, spesso, parla di pensieri-emozioni come se fossero una cosa sola, come se l’emozione fosse un particolare tipo di giudizio.

Considerando i giudizi come necessari e sufficienti alle emozioni esse vengono collocate direttamente nel pensiero. La concezione di giudizio di Nussbaum è comunque una concezione dinamica, che non esclude nettamente gli aspetti affettivi, come le sensazioni di agitazione o di dolore che spesso accompagnano le nostre emozioni. Nel momento in cui provo dolore, ad esempio per la perdita di una persona che ritenevo cara per la mia prosperità e importante per la mia vita, e accetto questa mia situazione di bisogno, automaticamente l’emozione, che implica giudizi relativi a questo mio stato, diventa parte della mia struttura cognitiva.

Inoltre, il giudizio non precede l’emozione, causandola, bensì ne costituisce l’essenza: quando soffro per il distacco da un mio caro, è il riconoscimento di questo triste evento a costituire la mia emozione. Nel momento in cui credo che x, è automatico che provi anche x, indipendentemente dalla verità o falsità delle mie credenze. Anche nel caso in cui le mie credenze fossero false, le emozioni da me provate non saranno meno autentiche. Certo, in quanto credenze le emozioni possono essere vere o false, giustificate o non giustificate, appropriate o inappropriate. Così se io credo che sia iniziata una guerra, provo paura e dispiacere; se la guerra non è realmente scoppiata, la mia emozione in tal senso è falsa, anche se rimane sincera sotto un punto di vista non proposizionale. Per giungere a un contenuto proposizionale appropriato le emozioni si sforzano (così come i pensieri) di adattarsi al mondo, senza tuttavia cercare di adattare il mondo ad esse. Inoltre, esse possono essere considerate giustificate o ingiustificate a seconda se le giudichiamo reazioni corrette, appropriate o meno, al mondo esterno. Nussbaum, analizzando il rapporto fra emozioni e credenze, non rileva dunque molte asimmetrie fra di esse, piuttosto ne sottolinea la consonanza.

Nella sua visione, per ogni emozione sono all’opera un certo numero di giudizi, relativi all’oggetto dello stato emotivo e alla situazione che lo lega al soggetto che prova l’emozione in questione. Questi giudizi si possono suddividere in generali, concreti, di fondo e situazionali. I giudizi generali riguardano, appunto, il significato generale che l’oggetto dell’emozione riveste per noi; quelli concreti si focalizzano, invece, sull’oggetto particolare, e sulla storia che questo oggetto condivide con noi. Se provo dolore per la morte di mia madre, ad esempio, soffro sia a causa dei vissuti che ho trascorso con lei e che mi legano ad essa nella sua peculiarità e unicità, sia per l’idea più generale di aver perso un genitore.

Un’altra distinzione possibile tra i giudizi che compongono le emozioni è quella tra giudizi di fondo e giudizi situazionali: avremo a che fare con giudizi di fondo quando essi persistono con il passare del tempo e nonostante il cambiamento del contesto in cui si trova il soggetto; mentre si avranno giudizi situazionali solo occasionalmente, se il contesto particolare avrà il potere di suscitarli.

La conseguenza a livello emozionale è che, una volta formatisi legami con elementi del modo esterno importanti per il nostro benessere e per la nostra vita, proveremo emozioni di fondo nei loro confronti, cioè sentimenti perenni e stabili, seppur latenti. Un’emozione di fondo può, tuttavia, diventare situazionale, ovvero trovare un contesto adatto per affiorare: è il caso, ad esempio, di un soggetto con della rabbia repressa, che, se provocato, fa emergere il proprio sentimento. La differenza principale fra emozioni di fondo e emozioni situazionali è che, mentre le prime consistono nel mero riconoscimento dell’esistenza di qualcosa per noi importante e dal quale siamo in un certo senso dipendenti, dato che non possiamo governarlo a nostro piacimento, le seconde consistono invece in una reazione attiva a tale constatazione.

Come giustificare allora il fenomeno dell’affievolirsi delle emozioni? Se esse, infatti, sono basate su giudizi, dovremo forse pensare che c’è un lento indebolimento delle credenze? Di certo la differenza tra il mio dolore avendo appena scoperta la morte di un mio caro parente e il mio stesso sentimento qualche anno dopo è, per Nussbaum, una differenza di tipo cognitivo. Non vi è dubbio che il mio dolore persiste come emozione di fondo: l’affievolirsi del sentimento è però causato dal fatto che la scomparsa del mio caro è divenuta una credenza stabile nella mia struttura cognitiva: «… si tratta di una differenza di per sé a carattere cognitivo, una differenza del modo in cui questa proposizione diviene attiva nell’io e viene ricevuta da esso; e tale differenza riguarda in special modo la relazione fra questa e le altre proposizioni».2

Anche per ciò che riguarda il mio insieme di scopi e progetti, la persona scomparsa avrà assunto una posizione diversa (modificando anche la mia stessa identità). Infine, poiché non mi è più possibile avere esperienze sensibili dell’oggetto del mio stato emotivo, l’emozione, che dalle esperienze è vivificata, inevitabilmente tende a scemare. Anche descrivendo la distinzione tra emozioni di fondo e emozioni situazionali Nussbaum si basa dunque su giudizi, su elementi cognitivi. La sua posizione è quindi molto forte: sostenendo che le emozioni sono credenze, essa le definisce come moti interni alla razionalità . Il livello proposizionale delle credenze e quello emotivo vengono fatti coincidere, e l’ambito emotivo, che una lunga tradizione filosofica aveva considerato come qualcosa di completamente diverso, se non addirittura opposto, alla razionalità, è valutato invece come una vera e propria forma di intelligenza, che non solo ha la stessa dignità della ragione, ma fa parte di essa.

Un simile approccio cognitivo alle emozioni può essere fatto risalire agli Stoici, ai quali Nussbaum, seppur giungendo a conclusioni diverse, esplicitamente si ispira. Nello Stoicismo cade, in effetti, la barriera tra parte razionale e parte irrazionale dell’anima.3 Tuttavia, mentre la ragione è, secondo loro, costituita da giudizi esatti, la passione è formata da giudizi erronei, e quindi è da considerarsi come diastrophè: perversione, sviamento della ragione stessa.4 Viene introdotta così l’idea di un conflitto interno alla razionalità (quello che, nel linguaggio di Seneca, si può individuare nell’opposizione tra bona mens e furor, follia). Le emozioni sono dunque valutazioni, giudizi di valore che attribuiscono a cose e persone al di fuori del nostro controllo una grande importanza per il nostro benessere personale, ma proprio per questo motivo, gli Stoici le considerano dannose per il raggiungimento dello stato di imperturbabilità del saggio, e le condannano. Scopo principale della filosofia Stoica è dunque l’estirpazione dell’elemento emotivo, allo scopo di raggiungere la vita buona. Per gli Stoici la razionalità e necessaria al raggiungimento di una vita attiva, vigilante, critica, dedita alla verità, poiché «… la ragione ha un posto tutto per sé, e resiste contro qualsiasi dominio, essendo il nucleo autentico e libero della nostra vita sia come individui che come esseri sociali. L’argomentazione forgia l’io e in fondo lo costituisce, in quanto è il modo in cui l’io compie il suo ruolo di cittadino dell’universo.».^[5]

Il saggio stoico è colui che non si lascia dominare dalle passioni, e non sente il bisogno di beni esterni, ma è autosufficiente e si lascia guidare solo dalla ragione.5

Secondo Nussbaum, le emozioni sono, in effetti, basate su giudizi, ma sono elementi cooperanti con la ragione e non opposti ad essa, sono forme di razionalità. Partendo dalle stesse premesse degli Stoici, cioè che le emozioni sono costituite da credenze, la pensatrice giunge dunque a conclusioni completamente diverse da essi, al punto che attribuisce alla sua teoria l’appellativo di «neo stoica». In Terapia delle emozioni l’autrice, che analizza minuziosamente la teoria Stoica, si chiede infatti se è possibile una teoria in cui l’accento sulla dignità razionale dell’uomo non implichi necessariamente l’eliminazione del suo lato emotivo. Essa si domanda esplicitamente: «Si può vivere nel regno della ragione, così come lo intendono gli Stoici, e continuare ad essere una creatura che prova meraviglia, ama, soffre?»6 e si immagina una razionalità pratica che permetta a sentimenti come l’amore e la sofferenza di svolgere una funzione di guida.7

Dai filosofi antichi, essa riprende anche l’idea secondo la quale i sentimenti sono forme di consapevolezza intenzionale, ovvero sono sempre diretti verso un oggetto, che viene vissuto dal particolare punto di vista di chi lo percepisce.

Le emozioni, essendo giudizi di valore, sono un elemento ineliminabile della nostra vita cognitiva e pratica. Grazie ad esse ci rendiamo infatti conto della nostra condizione di bisogno, condizione in cui l’uomo si trova fin dalla nascita. Le emozioni ci rendono consapevoli della nostra finitudine, della nostra impotenza riguardo a certi eventi, ma allo stesso tempo costituiscono il fulcro della vita umana, tutt’altro che eliminabile o condannabile. Dagli Stoici, inoltre, Nussbaum riprende la tesi secondo la quale i giudizi su cui si basano le emozioni sono soprattutto di tipo valutativo, ovvero riguardano ciò che è bene, ciò che è male, ciò che è utile o è nocivo e così via. Si sviluppa così una teoria della conoscenza, in cui le emozioni, essendo giudizi di valore, implicano un’operazione di stima e valutazione relativa all’oggetto nei confronti del quale ci riconosciamo bisognosi. Nussbaum, considerando le emozioni «forme di interpretazione valutativa intelligenti»,8 respinge completamente la dicotomia ragione/passioni, piuttosto, rende l’emotività una funzione della ragione, nello stesso modo in cui lo fecero gli Stoici, in particolare Crisippo, che a proposito della passione sosteneva che «quel tipo di movimento tumultuoso che essa è, è un giudizio, e che la sua sede è l’anima razionale».9 È necessario sottolineare che, per gli Stoici, un giudizio è l’assenso dato a un’apparenza. Affinché si abbia una passione, l’apparenza in questione deve essere di tipo proposizionale (ovvero avere un contenuto che descriva che le cose stanno in un certo modo) e valutativa. Nussbaum individua tre caratteristiche che contraddistinguono le passioni nella concezione stoica:

  1. Il riferimento a ciò che è buono e ciò che non lo è, dalla prospettiva dell’agente: «le proposizioni non esprimono semplicemente i desideri e le preferenze dell’agente, ma i suoi valori: lo schema dei fini ritenuti degni di scelta, per mezzo dei quali egli o ella sceglie di vivere»;10
  2. La valutazione fatta dall’agente è errata: egli attribuisce un valore troppo alto agli oggetti in questione, e proprio da questo errore ha luogo il degenerare della ragione in passione;
  3. Il giudizio ha un determinato contenuto, si riferisce a qualche bene esterno che non è sotto il controllo dell’agente.11

Nussbaum fa suoi sia il punto 1 che il punto 3: essa considera le emozioni come valutazioni, in grado di rendere il soggetto abile a cogliere la realtà assiologica, e le rende espressione della nostra fragilità rispetto alla realtà esterna. Tuttavia, non ritiene che le passioni siano giudizi errati: piuttosto sono modi di comprensione del reale. Finché si considerano le emozioni come atti cognitivi e selettivi, è comprensibile figurarci la loro collocazione all’interno della razionalità. Quello che è necessario giustificare, sia per il pensiero stoico che per la teoria di Nussabum, è il lato affettivo delle emozioni: la loro capacità di sconvolgerci, la lacerazione che esse possono provocare all’interno della nostra anima. Sembra che nella concezione stoica di emozione questo non costituisca un problema: la ragione degli Stoici è di tipo dinamico ed è presente in ogni momento. Crisippo stesso non nega il lato affettivo delle emozioni, sostenendo che il giudizio identico alla passione in ogni suo aspetto sarebbe una un’inclinazione eccessiva.

Poiché inoltre le credenze sono considerate come assensi alle apparenze, si può dedurre che il riconoscimento stesso dell’evento che ci rende gioiosi o addolorati sia un’operazione della ragione, presente anche nel momento dello sconvolgimento. Conoscere, infatti, non sempre è un atto statico, ma può anche essere violento, in quanto è considerato parte del mio essere e non una fredda azione dell’intelletto. Nussbaum adotta questa visione di ragione, in cui passione e giudizio non sono elementi separati, ma coincidono sempre. Essa stessa dichiara infatti: «Riguardo a tale concezione, che mi sembra enormemente efficace, c’è da sottolineare con insistenza il fatto che la passione e il giudizio non sono eventi distinti: piuttosto, la passione consiste di per sé in un riconoscimento di genere particolare: un riconoscimento della terribile importanza di qualcosa che sta oltre il mio controllo».12

2. Nussbaum e la filosofia aristotelica

Oltre al pensiero Stoico, la teoria di Martha Nussbaum riprende molti aspetti della filosofia aristotelica. Il tipo di argomentazione etica difesa dal pensiero dello Stagirita possiede, infatti, una serie di caratteristiche che possono essere considerate la base della dottrina elaborata dall’autrice. Innanzitutto, Aristotele considera lo studio filosofico dell’etica qualcosa di pratico, che offre vantaggi effettivi e concreti. In questo modo egli si contrappone nettamente al pensiero platonico, secondo il quale la deliberazione morale deve essere di tipo scientifico e deve essere condotta da un punto di vista impersonale e imparziale, per giungere a cogliere la purezza delle cose. Soprattutto nel Fedro, Platone ribadisce come le norme etiche debbano essere indipendenti dagli uomini, dal loro modo di vivere e dai loro bisogni. Aristotele, come Nussbaum, si rende conto che la realizzazione di un tale tipo di filosofia non è affatto facile, ma soprattutto sottolinea il fatto che un punto di vista ultraterreno non può interessare l’agente morale, che è un uomo che vive, soffre e agisce all’interno del mondo, non al di fuori di esso. Una deliberazione di tipo scientifico non sarebbe, dunque, di nessun aiuto per il soggetto morale. L’etica deve basarsi sulle apparenze, sull’umana esperienza, e non pervenire semplicemente a principi generali, ma, «in conseguenza del suo fine pratico, deve impegnarsi al raggiungimento di una percezione pienamente adeguata del caso concreto che le sta dinnanzi, considerando ogni guida di carattere generale come un ausilio a percepire la concretezza».13 Aristotele, contrapponendosi a Platone, attribuisce maggiore importanza al caso concreto piuttosto che alle regole generali: solo cogliendo la concretezza e la particolarità, infatti, si sarà in grado di pervenire alla verità e di interpretare al meglio la complessità del reale. Necessaria al raggiungimento di tale scopo è la sensibilità dell’agente morale, la sua prontezza e immaginazione, elementi che anche nel pensiero di Nussbaum assumono una fondamentale importanza: come Aristotele, infatti, l’autrice è convinta che solo colui che è dotato di flessibilità e saggezza pratica è in grado di affrontare il mondo. Secondo questa visione, il giudizio è fortemente condizionato dall’emotività, dalle sensazioni, ed è una capacità legata all’apprendimento di casi particolari e concreti, non di regole universali. Celeberrimo è l’esempio dell’architetto, che, secondo Aristotele, dovrebbe utilizzare una riga flessibile, così come, allo stesso modo, il giudizio di colui che delibera dovrebbe adattarsi ai vari casi, e dovrebbe essere sensibile alla complessità delle diverse situazioni, in quanto la vita umana è caratterizzata da mutabilità, indeterminatezza e particolarità. L’esperienza e la prassi prendono il posto delle scienze matematiche, dei teoremi e delle regole alle quali faceva appello la filosofia platonica, e rendono l’agente morale in grado di percepire la sua vera natura, caratterizzata dal cambiamento e dalla pluralità.14 Il giudizio etico viene fatto dipendere dalla sensazione, «una capacità di discriminare che è legata all’apprendimento di particolari concreti e non di universali».15 Solo in questo modo si può comprendere la complessità del reale, la sua mutabilità e mancanza di fissità. Le regole possono essere mantenute, ma solo come guida, come sommario, esso stesso flessibile di fronte alle varie situazioni.

Nussbaum riprende, inoltre, il punto di vista antropocentrico che caratterizza la ricerca aristotelica,16 e sottolinea il fatto che l’elemento centrale della vita dell’uomo è la sua vulnerabilità, non la ricerca della perfezione. Secondo questa visione, la vita umana è caratterizzata dall’attaccamento a cose e persone esterne a sé, che ci fanno provare sentimenti impossibili da ignorare, ma soprattutto, da eliminare o controllare. Anche Aristotele sottolinea più volte quanto la vita umana sia condizionata dalla fortuna, da elementi per lo più incontrollabili, che rendono l’uomo limitato e imperfetto. La concezione di natura umana sulla quale entrambi i pensatori si focalizzano considera essenza dell’uomo proprio la sua fragilità: l’uomo è un «essere che tenta di controllare la natura, ma che è anche da essa influenzato e determinato.».17 L’uomo si pone, così, tra gli animali e gli dèi, poiché possiede caratteristiche peculiari: è razionale, ma è privo di autosufficienza individuale.

Ancora una volta si percepisce la distanza che separa questa rappresentazione dell’agente morale da quella elaborata da Platone, che, al contrario, si concentra su tutto ciò che non è terreno, né fallibile. La fragilità e la vulnerabilità umane sono le caratteristiche che rendono l’uomo capace di provare sentimenti e di legarsi agli altri. La natura umana riflette dunque la finitudine. Nussbaum condivide e apprezza questa tesi aristotelica,18 e la considera «uno dei contributi essenziali dell’etica ellenistica … consistito nello spingerci a pensare in modo umano, proprio a degli esseri finiti quali siamo».19 Lei stessa sostiene di aver ritratto «la vita umana migliore come quella capace di assumersi il rischio della perdita e della sofferenza».20

Le conseguenze etiche di questa affermazione sono l’impossibilità di commensurare i valori e l’importanza che viene ad assumere il contesto. Non esiste, infatti, un Bene assoluto, poiché ogni valore è valido in sé e assume per ogni soggetto un valore differente. La regola dovrebbe, dunque, dare spazio alla pluralità, per salvaguardare la ricchezza della vita e preservare la vulnerabilità e la sorpresa, elementi ineliminabili dell’esistenza (proprio quegli elementi che la deliberazione scientifica di Platone avrebbe voluto lasciar fuori). «Secondo Aristotele- scrive Nussbaum- i valori costitutivi della vita umana sono molteplici ed incommensurabili; e la percezione del caso particolare, nel giudizio etico, ha la precedenza sulle regole e sulle teorie generali».21

È necessario riconoscere e accettare la condizione di bisogno dell’uomo, la fragilità della sua vita e anche della stessa deliberazione. Inoltre, è necessario rivalutare gli elementi non intellettuali, che, come già Aristotele affermava, sono dotati di valore intrinseco e cognitivo, poiché ci possono guidare nelle scelte. Per Aristotele, infatti, «i sentimenti non sono cieche forze animali, ma elementi costitutivi della personalità dotati di intelligenza e discernimento, strettamente correlati a convinzioni di un certo tipo e quindi sensibili a modificazioni cognitive».22

Come quella di Nussbaum, anche la concezione delle emozioni aristotelica asserisce che esse possono essere vere o false, razionali o irrazionali. Sebbene non le identifichi con le credenze,23 il filosofo pensa che le emozioni siano formate da un sentimento di piacere o dolore e da una convinzione sul mondo, cha causa tale sentimento. Tra credenze e emozioni sussiste quindi sia un rapporto causale, che una relazione intenzionale, in quanto «sono forme di consapevolezza dirette verso un oggetto o riguardanti un oggetto, nelle quali questo oggetto figura nel modo in cui viene visto dal punto di vista della creatura che lo percepisce».24 Essendo dotati di un qualche visione dell’oggetto, anche gli appetiti possiedono, per Aristotele, consapevolezza intenzionale e valore cognitivo, poiché sono il prodotto di credenze, fornite dal ragionamento e dall’istruzione, oltre che della sensibilità del soggetto, sono «elementi intenzionali e reattivi, capaci di uno sviluppo etico flessibile».25 Elementi intellettuali ed emotivi cooperano, e i sentimenti assumono così valore cognitivo: «È chiaro che essi non sono insorgenze affettive prive di raziocinio, ma modalità selettive di visione di un oggetto, che hanno come condizione necessaria delle credenze di vario tipo».26 Le credenze sono perciò da considerarsi costitutive del sentimento, in quanto «La razionalità riconosce la verità; è impossibile riconoscere una qualsiasi verità etica senza provare un sentimento; addirittura, alcuni sentimenti implicano al loro nucleo proprio un tale riconoscimento.»27 Esaminare la realtà senza ricorrere alle emozioni comporterebbe dunque la mancanza di una parte di verità: sentimenti, esperienze emotive fungono infatti da guida verso la realtà etica. Come nel pensiero di Nussbaum, avviene in Aristotele una rivalutazione del ruolo delle emozioni, considerate elementi costitutivi e determinanti la vita morale.

Nussbaum riprende il pensiero aristotelico anche su un altro punto: quando afferma che le emozioni, essendo costituite da credenze, come queste possono essere modificate ed educate tramite deliberazione e giudizio, e, di conseguenza, possa esistere un’educazione morale. Il ruolo attribuito da Aristotele alla tragedia viene assunto, nella teoria nussbiama, dalla letteratura e dall’esercizio dell’immaginazione. I drammi tragici, di cui anche Nussbaum parla ne La fragilità del bene, possono aiutare a migliorare la percezione della vita umana, e offrire a chi ne fruisce una chiarificazione sia emotiva che intellettuale, agevolando la sua deliberazione pratica. Inoltre, Nussbaum riprende da Aristotele l’idea che, oltre al buon carattere, l’agente morale necessiti di un’educazione all’etica fin dall’infanzia, attribuendo grande importanza al ruolo che l’ambiente familiare in cui cresce il soggetto esercita su di esso.28 Inoltre, Nussbaum condivide con il pensiero aristotelico un forte interesse per la sfera sociale e per la sfera politica. Facendo propria la nota affermazione secondo la quale l’uomo è un «animale politico», l’autrice si concentra, infatti, sul ruolo della società, che condiziona e forgia l’individuo e la sua vita morale fin dall’età infantile. Anche Aristotele pensava che la polis avesse una forte influenza sugli individui, fornendo ideali civici e condizioni politiche in grado di sviluppare e conservare il buon carattere.

L’autrice condivide quest’idea anche con altri filosofi antichi (Scettici, Stoici, Epicurei) secondo i quali la vita emotiva è il frutto di convinzioni formate dalla società, per cui assume molta importanza il contesto culturale e storico in cui gli uomini vivono. Secondo Nussbaum, non solo le società influiscono sulla vita emotiva dei loro cittadini, ma questa vita emotiva può variare da una società all’altra, a seconda delle caratteristiche delle diverse culture. Le società hanno quindi il potere di trasmettere diverse concezioni di appropriati oggetti emozionali, e queste concezioni contribuiscono a forgiare il comportamento dei cittadini. In questo modo, la filosofa dà anche una spiegazione al fatto che esistono differenti sistemi assiologici e differenti opinioni riguardo alle medesime emozioni.

3. La proposta di Nussbaum

Il difficile compito che Nussbaum si propone, rifacendosi ai filosofi antichi, è dunque non solo la riabilitazione della vita emotiva all’interno dell’etica, ma anche la giustificazione di una nuova visione di emotività, un’emotività che, superando il conflitto con la ragione, si ritrova piuttosto a far parte di essa, ad essere identificabile con il pensiero razionale. Fondamento e limite della «vita buona» è la realtà, nella quale il soggetto si trova completamente immerso. In tal senso, l’ideale di una ragione formale e distante dal mondo risulta fuorviante ed erronea, poiché sorge dal tentativo di trascendere l’umanità. Nussbaum, al contrario, si focalizza sul soggetto agente, imperfetto e mutevole, vulnerabile e molto spesso in balìa del fato. La sua ricerca adotta quindi un metodo empirico e pratico, una deliberazione non scientifica, come quella aristotelica, che enfatizza il particolare, piuttosto che l’universale.

Dagli Stoici, invece, come è stato precedentemente argometnato, l’autrice riprende la tesi secondo la quale le emozioni sono credenze; tuttavia, al contrario di essi, Nussbaum si propone il compito di mostrare come le emozioni possano essere utili e non vadano affatto debellate: il suo lavoro è volto, nello specifico, a «trovare una teoria dell’amore secondo la quale sia ragionevole attendersi che la vita emotiva dei cittadini sosterrà le istituzioni liberaldemocratiche pluraliste».^[30]

Lo scopo che si propone la filosofa americana è quindi di carattere epistemologico, in quanto le interessa capire se e come i sentimenti intersoggettivi possano contribuire allo sviluppo di una società liberal — democratica. Ciononostante, per quanto concerne l’amore, sembra difficile che un simile sentimento possa essere di aiuto da un punto di vista sociale: l’eccessiva condizione di bisogno, l’attenzione circoscritta e parziale che lo caratterizzano nelle sue molteplici definizioni, sembrano essere degli impedimenti, piuttosto che elementi che possano giovare alle società umane.

Rifacendosi al Simposio di Platone essa ricorda, tuttavia, la visione di Alcibiade, secondo la quale l’amore è qualcosa che va a valorizzare l’altro nella sua unicità, mentre la conoscenza dell’alterità si configura come una sorta di percezione intuitiva, che coinvolge intelletto, sensibilità e immaginazione.

Tale tipologia di amore risulta completa, in quanto possiede tre elementi, tre desiderata, che secondo Nussbaum devono caratterizzare questo sentimento:

  • Compassione: Gli Stoici, Platone, e anche Spinoza hanno considerato la pietà sintomo di debolezza, quindi elemento da debellare, a favore dell’autosufficienza. Secondo Nussbaum, invece, la compassione è fondamentale per la vita intersoggettiva. Grazie ad essa, infatti, siamo in grado di vederci come gli altri, ugualmente vulnerabili e con le medesime possibilità di sventura.;
  • Reciprocità: L’autrice sottolinea l’importanza del rispetto per la personalità dell’altro e della reciprocità del sentimento d’amore. La reciprocità implica l’accettazione e il superamento della propria vulnerabilità e contingenza, e la rinuncia a quella volontà di controllo e di onnipotenza che aveva caratterizzato il pensiero platonico e stoico, tesi a voler superare a tutti i costi le debolezze umane;
  • Individualità: Nussbaum vede nella separatezza un elemento da valorizzare, così come l’unicità e la diversità altrui. Secondo l’autrice l’amore ci fa percepire l’unicità qualitativa delle altre persone, favorendo così la comprensione verso chi è diverso da noi. L’amato appare «un individuo unico e irripetibile, qualitativamente distinto dagli altri, anzi da qualsiasi altro al mondo.».29 Tale caratteristica è mutuata da Aristotele, secondo il quale l’amore migliore è quello in cui «ciascun individuo ama l’altro per quello che l’altro profondamente è in se stesso o in se stessa (kath’hauto), per quelle disposizioni e quelle configurazioni del pensiero e del sentimento che sono tanto intrinseche al suo essere se stesso da porre in dubbio l’identità e la continuità qualora subiscano un cambiamento.».30

L’amore dovrebbe quindi riformarsi, in modo da essere un sostegno per la compassione sociale, la reciprocità e il rispetto dell’individualità.

4. Scheler e Nussbaum: l’Amore come via d’accesso all’Essere

L’accento sul ruolo cognitivo delle emozioni e sulla loro intenzionalità rende il pensiero di Nussbaum molto vicino a quello di Max Scheler, fenomenologo il cui lavoro contribuì alla rivalutazione della vita emotiva in etica e che, come la filosofa americana, definì gli stati emozionali alla stregua di giudizi assiologici.

Sebbene le sue premesse teoriche siano completamente diverse, Scheler, parlando di amore, condivide moltissime tesi con Nussbaum, e la sua definizione di tale sentimento sembra soddisfare i requisiti individuati dall’autrice. L’amore, così come l’odio, viene considerato un atto privilegiato, poiché grazie ad esso si viene a conoscere la vera essenza dell’altro: da un punto di vista individuale tali emozioni sono originarie e connotano la persona in profondità, offrendole accesso al mondo dei valori; da una prospettiva intersoggettiva esse rendono il soggetto in grado di cogliere l’essenza altrui, intesa come nucleo assiologico.

L’amore è considerato un moto intenzionale, che parte da un valore e realizza il valore ad esso superiore, anticipando un’immagine ideale del valore dell’oggetto amato, immagine che però non è frutto di invenzioni o desideri, ma che rispecchia in modo autentico l’essenza altrui. In questo modo, tale sentimento assume una valenza creativa, oltre che conoscitiva: si può affermare che, grazie al sentimento d’amore, l’altro cominci veramente ad esistere, davanti ai nostri occhi. Per questo, tale sentimento può essere considerato un incondizionato consentire: «non si ama qualcuno perché è una persona di valore, ma lo si ama perché è quella persona e misteriosamente si vede più degli altri quanto al valore che in lei può vivere».31 Avviene così un riconoscimento d’identità, che coincide con la presa di coscienza dell’esistenza e dell’unicità dell’altro.

Altra peculiarità dell’emozione in questione è il fatto che essa non implica atteggiamenti di benevolenza, ma piuttosto di accettazione dell’alterità. L’amore ha un imperativo del tipo «lascia essere», e non «devi essere»: non è un sentimento pedagogico, che impone all’oggetto amato la realizzazione di determinati valori ritenuti positivi dall’amante. L’altro è valorizzato nella sua alterità, nella sua diversità, rispettando così anche i suoi potenziali limiti. La posizione di tale atto, perciò, non è né prettamente passiva ed empirica, né imperativo-pedagogica: la formula «lascia essere» va intesa piuttosto come diventa ciò che sei, in quanto si coglie l’essenza più caratteristica e intima della persona amata. Il requisito dell’individualità è dunque rispettato pienamente: come Nussbaum, anche Scheler è convinto che l’amore sia lo strumento grazie al quale valorizziamo l’altro nella sua diversità, permettendo all’essenza individuale altrui (o nostra, nel caso dell’amor proprio) di venire alla luce nella sua pienezza.

Come la filosofa americana, anche Scheler rompe con la tradizione platonica e si avvicina alla concezione cristiana di amore. Il paradigma cristiano attira l’attenzione del pensatore per due motivi: innanzitutto il cristianesimo considera l’amore superiore alla ragione, mentre fino a quel momento l’elemento razionale aveva goduto di uno statuto privilegiato, e le emozioni erano state relegate alla sfera sensibile degli istinti e dei bisogni. Inoltre, la concezione cristiana di amore rompe con il concetto di eros, di amore inteso in senso carnale, a favore di un’accezione più spirituale, o agape. La seconda importante novità della filosofia cristiana è il rovesciamento della direzione del movimento dell’amore, da movimento dell’inferiore verso il superiore, a movimento verso l’inferiore da parte del superiore, che si dona all’altro, aiutandolo e servendolo. Il paradigma cristiano introduce, infine, una diversa relazione gerarchica tra amore e conoscenza. La filosofia greca aveva sempre subordinato tale sentimento alla razionalità, ritenendo che non fosse possibile amare qualcosa che non si era già conosciuto in precedenza: in tal senso un’emozione come l’amore era considerata un mero strumento della conoscenza, che grazie ad esso avrebbe raggiunto la contemplazione. Per Scheler, fautore di una riabilitazione gnoseologica della vita emotiva, è vero l’esatto contrario, cioè il fatto che non si può conoscere che quel che si ama.

Scheler abolisce dunque l’idea di «amore del bene», riconoscendo nell’amore il Bene stesso, vedendo in tale atto il portatore più originale dei valori morali: in quest’ottica, ogni amore suscita un sentimento di risposta (Gegenliebe) , fino ad arrivare al principio della solidarietà di tutti gli esseri morali, il quale afferma la corresponsabilità che tutti hanno su ciò che è moralmente valido. Anche il requisito della reciprocità viene dunque soddisfatto.

Per quanto riguarda il terzo e ultimo requisito, ovvero la compassione, basti dire che per Scheler l’amore è un atto fondante il sentimento di simpatia, poiché coglie la centralità dell’oggetto che sarà lo stesso del sentimento simpatetico. Inoltre, proprio grazie a tale sentimento cogliamo l’altro e lo percepiamo come un individuo finito e vulnerabile analogamente a noi: tale giudizio dà luogo alla pietà.

Risulta perciò esplicito l’intento di liberarsi da una concezione dell’emozionale come un insieme di forze cieche a favore di una riscoperta dell’essere dell’esperienza in una logique du cœur.

Scheler e Nussbaum hanno tuttavia due diversi modi di intendere il rapporto emozioni- ragione: mentre, infatti, per l’autrice americana le emozioni sono razionali, per il fenomenologo esse sono dotate di una logica a sé, distinta dalla ragione. Scheler, inoltre, anche quando si interessa di politica o società, non giunge a conclusioni epistemologiche come quelle dell’autrice americana: il metodo fenomenologico porta l’autore a voler individuare l’essenza dell’amore, trascendendo le sue coniugazioni nelle varie società.

Malgrado le divergenze strutturali dei due filosofi, dettate anche dai diversi metodi adottati e dai diversi interessi (l’uno si muove su un piano ontologico, l’altra ha interessi epistemologici) le tesi di Scheler sembrano tuttavia compatibili con quelle di Nussbaum: entrambi fanno dell’amore una guida morale e conoscitiva, entrambi valorizzano l’individualità altrui e, sulla scia di Aristotele, rivalutano la fragilità e la labilità della vita umana, rivendicando i diritti di una ragione essenzialmente pratica.

5. L’utilità socio-politica dell’amore: la Teoria delle Capabilities

Ma in che modo sentimenti come l’amore e la compassione possono essere applicabili in ambito pratico?

Nei paragrafi precedenti è stato descritto come Nussbaum si chieda se sia possibile, per le persone, costruire una società liberaldemocratica in cui tutti possano esprimere i propri valori e possano realizzarsi.32 Anche per quanto riguarda la sua visione politica, l’autrice attinge dalla filosofia antica e riprende l’idea aristotelica secondo la quale «non c’è una forte distinzione tra il pubblico e il privato nella sua concezione etica: la buona vita umana è quella vissuta con e per gli altri.».33 La filosofa auspica dunque che si possa essere in grado di tutelare i bisogni di ogni individuo e di permettere a tutti di vivere una vita buona. Data la diversità che caratterizza le varie culture e società, essa propone comunque un’ottica flessibile, capace di adattarsi alle differenze. Per fare questo devono essere rispettate determinate funzioni umane, individuate dall’autrice, necessarie per un corretto sviluppo della persona. Compito dello Stato dovrebbe dunque essere, secondo Nussbaum, quello di favorire lo sviluppo di tali capacità, affinché tutti i cittadini siano in grado di realizzare se stessi. È così che l’autrice elabora un vero e proprio elenco di capacità fondamentali,34 senza tuttavia pretendere di dare una definizione assoluta di ciò che è bene, ma semplicemente con l’intento di fornire un aiuto allo sviluppo umano.

La Teoria delle Capacità nasce dalla collaborazione tra Martha Nussbaum e l’economista Amartya Sen, Premio Nobel per l’Economia nel 1998. Entrambi hanno lavorato presso il World Institute for Development Economic Reserch (Wider), occupandosi di un progetto di valutazione sulla qualità della vita nei paesi in via di sviluppo. Questa esperienza ha sicuramente influito sulla riflessione morale della pensatrice, che ha iniziato a domandarsi se e in che modo la filosofia possa contribuire al benesser dell’economia, o possa giocare qualche ruolo nelle decisioni politiche.

Lo sviluppo è infatti possibile solo se esiste una società democratica che lo sostenga, una società i cui cittadini possano esprimersi liberamente e coltivare i propri valori. Le capabilities costituiscono la base per questo genere di governi e rappresentano dunque categorie normative trascendenti differenze sociali, religiose, economiche e culturali. Tuttavia, gli Stati dovrebbero comunque porre attenzione alle specificità culturali, e operare in modo flessibile e giusto nei confronti delle diversità, delle peculiarità di una nazione. Con questo Nussbaum non ha intenzione di sfociare nel relativismo: al contrario, l’autrice è fortemente convinta che, nonostante le evidenti differenze culturali, che vanno rispettate, ogni cultura non vada comunque considerata come qualcosa di omogeneo ed immutabile. Soprattutto oggi, i media contribuiscono alla diffusione di idee, in modo che ogni cultura sembra aprirsi alle altre.

Quella elaborata dall’autrice è dunque un’idea di universalità sui generis: nonostante essa individui una lista di tratti comuni a tutti gli individui e necessarie per il benessere collettivo, viene lasciato infatti spazio alla libertà dei modi in cui tale sviluppo può essere raggiunto, e alle diverse forme che tali caratteristiche possono assumere in individui e società differenti. La visione di Nussbaum è infatti pluralista, ma non relativistica: lascia spazio alle diversità ma, grazie al decalogo, riesce comunque a mantenere una struttura universale, dalla quale non si può prescindere. Essa sostiene che tutti gli uomini hanno diritto allo sviluppo delle loro capabilities, tuttavia è convinta che il compito della politica sia quello di incoraggiare tale sviluppo in modo flessibile e rispettoso delle diversità. Essa difende, dunque, un essenzialismo aristotelico, secondo il quale la vita umana possiede caratteristiche centrali che la definiscono. Nussbaum stila quindi un vero e proprio elenco di capabilities, suscettibile, ovviamente, di cambiamenti e modifiche, qualora se ne presenti la necessità.35 Essa vorrebbe che ogni individuo fosse nella condizione di realizzare la «vita buona». Le condizioni che Nussbaum individua a tale scopo sono dieci, e vengono considerate dall’autrice universali, al di là delle razze e delle culture.36 La lista, inoltre, si muove sia su un livello empirico e storico, sia su un livello normativo, poiché comprende ciò che rende buona la vita umana. Le capacità che determinano «l’aspetto complessivo e il contenuto della forma di vita umana»37 sono:

  1. Vita: possibilità di vivere in modo dignitoso, con una vita dalla durata normale, e una morte serena;
  2. Salute fisica: godere di buona salute, essere nutriti adeguatamente, essere in grado di avere figli e poter vivere in un’abitazione decorosa;
  3. Integrità del corpo: potersi sentire protetti e liberi di muoversi, senza dover temere per la propria incolumità fisica; avere possibilità di scelta in fatto di procreazione;
  4. Sensi, immaginazione, pensiero: pensare e agire liberamente, e potersi esprimere in opere artistiche. Per farlo, si dovrebbe godere fin dalla giovane età di un’educazione capace di aprire le menti e di stimolare le facoltà intellettuali;
  5. Emozioni: poter provare emozioni e manifestarle liberamente, senza oltraggi o coercizioni;
  6. Ragion pratica: essere dotati di una razionalità pratica, che ci permetta di riflettere criticamente, di essere in grado di deliberare e decidere a proposito della propria vita, e di avere una concezione di ciò che è bene e male, giusto e sbagliato;38
  7. Appartenenza: saper vivere con gli altri, in un contesto che riconosca la nostra identità e che ci renda in grado di onorare quella altrui;
  8. Altre specie: essere in grado di convivere con gli animali, rispettandoli e rispettando la natura che ci circonda;
  9. Gioco: Esseri liberi di giocare, divertirsi, ridere;
  10. Controllo del proprio ambiente: capacità di gestire sia il proprio ambiente politico, partecipando attivamente alle decisioni politiche; sia l’ambiente materiale, ovvero possedere immobili e godere di diritti di proprietà.

L’applicazione pratica dell’elenco spetta alle Nazioni, ma anche i cittadini dovrebbero impegnarsi, nel rispettare gli altri e se stessi e nella costruzione di una società liberaldemocratica. Per questo è necessario lo sviluppo dell’immaginazione simpatetica, che ci rende capaci di comprendere che ogni agente è dotato di dignità, di capacità di azione, ma è allo stesso tempo bisognoso e vulnerabile: in questo modo sapremo valutare al meglio le situazioni e le persone che ci circondano.39 Una modalità di conoscenza meramente asettica e slegata dall’umanità non è infatti sufficiente a una totale comprensione degli altri. Ed è qui che entra in gioco l’amore: il buon cittadino deve essere educato a provare compassione. Ciò avviene tramite un’adeguata formazione, che trasmette ideali civici e morali; e tramite il rafforzamento di meccanismi psicologici come l’empatia e il giudizio delle analoghe possibilità.40 Lo sviluppo di un Paese non si misura, infatti, con il prodotto interno lordo, o con la produzione industriale, bensì con il benessere delle persone, le quali non solo devono essere libere da coercizioni, ma anche in condizioni tali da garantire lo sviluppo delle loro capacità.

A questo scopo sono necessarie le emozioni, soprattutto emozioni quali l’amore e la compassione: mai come oggi sentiamo infatti il bisogno di riaffermare la necessità delle filosofia, e con essa, la dignità della vita emotiva, che troppo spesso sembra essere perduta. La filosofia rivendica perciò la sua funzione essenzialmente sociale, volta ad affermare l’intelligenza emotiva.


  1. Oltre a Nussbaum, anche Solomon sostiene un’interpretazione delle emozioni in termini assiologici. ↩︎

  2. M. Nussbaum, Terapia del desiderio, Vita e Pensiero Editore, Milano 1998, pag. 400. ↩︎

  3. La filosofia antica era solita considerare il rapporto tra ragione e passioni in maniera dicotomica: Platone e Aristotele, ad esempio, malgrado le differenze che li dividevano, contemplavano entrambi una parte razionale dell’anima, opposta a quella irrazionale, in cui erano situate le passioni. Il conflitto tra parte razionale e parte irrazionale era presente soprattutto nella filosofia platonica; anche Aristotele comunque riteneva che la ragione dovesse esercitare sulle passioni l’arte della persuasione, indirizzandole verso il bene. L’analogia che egli utilizzava per descrivere questo rapporto era l’analogia padre-figlio: la ragione doveva guidare le passioni come fa un padre con i propri figli, utilizzando l’autorità e la forza solo in casi estremi. ↩︎

  4. La rappresentazione dello sviarsi della ragione in passioni si trova, ad esempio, in alcune tragedie di Seneca come l’ Ercules furens, Medea e Fedra. ↩︎

  5. La visione stoica del rapporto fra passione e ragioni non escludeva dalle sue argomentazioni quelle politiche: gli Stoici, infatti, consideravano l’estirpazione delle passioni e dei mali da queste prodotti come una base per la virtù politica e sociale, come un requisito necessario alla formazione di una società giusta e fiorente. L’eliminazione delle passioni e l’assunzione della ragione come guida non aveva solo conseguenze politiche, ma anche religiose: gli Stoici rifiutavano preghiere e atteggiamenti religiosi convenzionali, a favore di un culto “razionalista”, che ripudiava divinità antropomorfiche a favore della ragione stessa. Le preghiere non avevano importanza perché ciò che è importante, per la filosofia stoica, è già dentro di noi, è già in nostro potere, è un pezzo di perfezione divina che alberga nella nostra anima. ↩︎

  6. Ivi, pag. 378. ↩︎

  7. Rendere le passioni uguale a una credenza o a un giudizio, seppur “deviati” presenta non pochi problemi, che l’autrice rileva: primo fra tutti, si ignora quell’elemento di passività che da sempre ha connotato la vita emozionale. I giudizi si formulano, infatti, attivamente. Anche per questo motivo Nussbaum cerca una definizione di emozione che sia meno rigida rispetto a quella Stoica, ma soprattutto che non consideri l’elemento passionale come qualcosa di negativo e di non produttivo per la vita morale, attribuendo molta importanza alla sensibilità e al suo ruolo in etica. D’altro lato, il pensiero Stoico le pare comunque accettabile perché lascia ampio spazio all’idea di una terapia filosofica, che elimina i mali causati dalle passioni semplicemente rimuovendo le false credenze che costituiscono le passioni stesse. ↩︎

  8. M. Nussbaum, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna 2004, pag.19. ↩︎

  9. M. Nussbaum, Terapia del desiderio, Vita e Pensiero editore, Milano 1998, pagg. 392-393. ↩︎

  10. Ivi, pag. 395. ↩︎

  11. Secondo gli Stoici le realtà esterne non hanno alcun valore etico. Anche per questo le passioni, che riguardano appunto beni esterni al soggetto, sono essenzialmente errate. Nussbaum condivide la tesi secondo la quale le passioni riguardano cose non dipendenti dal soggetto, ma non giunge alla medesima conclusione degli Stoici: infatti non considera le emozioni giudizi errati, bensì giudizi capaci di farci conoscere il reale. ↩︎

  12. Ivi, pag. 399. ↩︎

  13. Ivi, pag. 71. ↩︎

  14. Si potrebbe pensare che la posizione di Nussbaum, rifiutando la deliberazione scientifica e il ricorso a regole e principi generali, sia anti teorica. L’autrice, nell’Introduzione a La fragilità del bene sottolinea e puntualizza che non è affatto così. Essa intende sostenere una teorizzazione etica, tuttavia cerca di difendere una teoria di tipo aristotelico, che si concentra su una deliberazione pratica e sulla pluralità dei beni. ↩︎

  15. Ivi, pag. 554. ↩︎

  16. L’antropocentrismo aristotelico ricorda quello di Protagora. La verità è dentro l’uomo, in ciò che dice, in ciò che fa, non al di fuori di esso. ↩︎

  17. M. Nussbaum, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna 2004, pag. 453. ↩︎

  18. Pur avvallando la concezione di natura umana aristotelica, Nussbaum prende esplicitamente le distanze dall’opinione che il filosofo ha a proposito delle donne. Nell’introduzione a La fragilità del bene l’autrice rileva, infatti, l’assenza, in Aristotele, dell’idea di uguale valore e dignità in tutti gli esseri umani, e, al contrario, una visione gerarchica degli individui, che pone le donne all’ultimo posto. La scuola di Aristotele non ammetteva le donne allo studio della filosofia: secondo il filosofo, infatti, le donne sono incapaci di saggezza pratica. Inoltre, sia da un punto di vista sociale che politico, la scelta di ammettere donne nella sua scuola sarebbe stata, forse, troppo anticonformista. Le ragioni, quindi, non sono solo filosofiche. Nussbaum critica comunque severamente questo aspetto della filosofia aristotelica: è noto, infatti, il suo impegno per i diritti femminili, e le numerose pubblicazioni a proposito (ad esempio, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Il Mulino, 2001). ↩︎

  19. Ivi, pag.522. ↩︎

  20. Ivi, pag. 531. ↩︎

  21. M. Nussbaum, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna 2004, pag. 545. ↩︎

  22. M. Nussbaum, Terapia del desiderio, Vita e Pensiero editore, Milano 1998, pag.87. ↩︎

  23. Gli Stoici, invece, come abbiamo viso, sostengono che i sentimenti altro non siano che un determinato genere di credenze: tra credenza e sentimento esiste, per loro, una relazione di identità. ↩︎

  24. Ivi, pag. 88. ↩︎

  25. M. Nussbaum, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna 2004, pag. 564. ↩︎

  26. M. Nussbaum, Terapia del desiderio, Vita e Pensiero editore, Milano 1998, pag.95. ↩︎

  27. Ivi, pag. 103. ↩︎

  28. Nussbaum, in Terapia del desiderio, critica questo aspetto dell’argomentazione aristotelica. Pur condividendo l’asserto secondo il quale l’educazione del fanciullo è basilare al suo sviluppo etico, l’autrice pensa che Aristotele non argomenti bene questa tesi, e non spieghi in modo esauriente come i sentimenti traggano la loro origine nel’infanzia. ↩︎

  29. M. Nussbaum, 1998, pag. 402. ↩︎

  30. M. Nussbaum, 2004 B, pag. 642. ↩︎

  31. R. De Monticelli, 2003, pag. 175. ↩︎

  32. Nella disputa tra liberals e communitarians il capability approach di Martha Nussbaum e Amartya Sen costituisce una corrente a sé, grazie al riferimento ad Aristotele, fino a quel momento associato alla prospettiva comunitaria. Per riassumere, secondo i liberali lo Stato deve privilegiare l’autonomia e la realizzazione individuale dei cittadini, mentre per i comunitari l’autorealizzazione personale coincide con quella comune, quindi lo Stato non è una fonte di autorità esterna, ma è la comunità di cui tutti facciamo parte. ↩︎

  33. M. Nussbaum, 1990, pagg. 98-99. ↩︎

  34. La Teoria delle Capacità di Nussbaum rispetta comunque il pluralismo, poiché garantisce ai cittadini le capacità individuate, ma lascia loro lo spazio per decidere e scegliere come agire, come operare in base a tali possibilità. ↩︎

  35. La posizione di Nussbaum è suscettibile di critiche: si potrebbe infatti pensare che ridurre i diritti individuali a un decalogo penalizzi l’individuo “in carne e ossa”, la sua concretezza e unicità. L’autrice comunque ripete più volte che la lista di capabilities può essere soggetta a cambiamenti, ed elude la critica di trascurare le particolarità sostenendo che ogni soggetto è libero di realizzare le sue capacità come meglio crede. ↩︎

  36. Nussbaum intende tale lista come una rielaborazione critica dell’elenco di beni fondamentali di Rawls, il cui limite, secondo la studiosa, è quello di usare un criterio basato sulle risorse, criterio non adeguato nel momento in cui esistono troppe variazioni negli individui, sia per ciò che riguarda le risorse stesse, sia nei modi in cui ogni soggetto può trasformarle in funzionamenti. E’ interessante notare come la critica che essa rivolge a Rawls è la stessa che alcuni studiosi, Sen compreso, rivolgono a lei: Nussbaum viene infatti accusata di non valorizzare a sufficienza le peculiarità individuali, e il suo decalogo è considerato da alcuni troppo riduttivo e generico. ↩︎

  37. M. Nussbaum, 1992, pag. 215. ↩︎

  38. Questa è indubbiamente la capacità più importante dell’elenco, la caratteristica che distingue gli uomini dagli animali, e che permette all’individuo di muoversi coscientemente nel mondo, di elaborare idee, di organizzare e affrontare la propria vita. ↩︎

  39. Questa immagine ambivalente dell’uomo, che lo considera allo stesso tempo passivo e agente, si pone in antitesi con lo stereotipo di agente morale che avevano gli Stoici: per loro, infatti, la persona saggia era imperturbabile e immune ai mutamenti della sorte. ↩︎

  40. Il giudizio delle analoghe possibilità consiste nella consapevolezza della propria vulnerabilità, per cui le disgrazie osservate ci appaiono come eventi che potrebbero capitare anche a noi stessi. ↩︎