Comunicazione, emancipazione e verità: 1984 da una prospettiva habermasiana

1. La realtà di 1984: la paura habermasiana

Il nucleo da cui vuole partire questo contributo è una comparazione tra il concetto di verità implicato in una società totalitaria come quella immaginata da Orwell in 1984 e quello presupposto invece in una società democratica come quella tipicamente Occidentale, delle cui derive anti-democratiche si preoccupa Jürgen Habermas. Tale accostamento è motivato dalla possibilità di interpretare la realtà immaginata da Orwell nel suo romanzo come l’incarnazione della paura habermasiana per il futuro della nostra società: se nel suo romanzo lo scrittore inglese illustra gli effetti della manipolazione della comunicazione che stanno alla base del dominio totalitario realizzato dal Grande Fratello, Habermas teorizza la necessità (e la possibilità) di una comunicazione libera come mezzo per arginare il rischio che nella nostra società si realizzi un totalitarismo sul modello orwelliano. Habermas parte dallo sviluppo di una teoria critica che si focalizza sempre più sul linguaggio, arrivando a sostenere che «solo quando la filosofia scopre le tracce della violenza che deforma il dialogo spingendolo fuori dai binari di una comunicazione senza coazione, può portare avanti un vero progresso del genere umano verso l’emancipazione».1 Questo è l’obbiettivo posto dal Francofortese per la sua teoria critica della società, il cui fine emancipativo viene raggiunto attraverso il linguaggio perché è questo, secondo Habermas, il mezzo con cui l’uomo si distanzia dall’immediatezza, accedendo a quella libertà da condizionamenti irriflessi (contingenti e necessari al tempo stesso) che è la condizione della riflessione: è qui che risiede a sua volta la possibilità di cambiare lo status quo e quindi di emanciparsi dalle quelle condizioni limitanti (naturali o sociali) che, diversamente da quelle costantemente e inevitabilmente presenti (connaturate alla condizione umana), limitano il pieno dispiegamento delle possibilità emancipative, comunicative e cognitive dell’uomo garantite da un certo stadio di sviluppo socio-culturale.2 Infatti, come vedremo, questa possibilità emancipativa è alla base a sua volta di un’autentica possibilità cognitiva dal momento che conoscere veridicamente vuol dire conoscere i limiti che si frappongono tra il soggetto e l’oggetto da conoscere per superarli o quanto meno tenerne conto nel tentativo di cogliere il fenomeno nella sua realtà. È chiaro dunque che solo con una comunicazione autentica (ovvero libera e potenzialmente illimitata) è possibile un distanziamento critico quanto più possibile ampio e lucido che solo permette di de-ideologizzare ciò che tacitamente si fa passare per verità attraverso una comunicazione libera ed inclusiva, capace «di trovare la rima decisionista ad ogni verso dogmatico».3 Il concetto di ideologia come obiettivo critico del francofortese è inteso come quel fenomeno per cui con finalità di dominio, un’elite pretende un accesso privilegiato ed assoluto (nel senso di svincolato dal carattere prospettico di ogni attività umana) ad un’interpretazione «vera» della realtà ponendosi così in una posizione di superiorità e a-storicità da cui pretendere un potere ugualmente assoluto.4 In breve, possiamo definire un’ideologia come concezione totalizzante di un ordine che impone un’interpretazione della realtà come immune dalla critica (assoluta).5 Il carattere anti-democratico di un’ideologia consiste proprio in questo suo porre un nucleo sacro e dogmatico al di là delle possibilità della critica e quindi al di là delle possibilità di modificarlo.

Un potere totalitario come quello di 1984 mira proprio ad eliminare questa possibilità interventiva e lo fa manipolando e limitando la comunicazione, in modo da perseguire quella massificazione che allontana il diverso (reale o immaginario) che può innescare quel processo di riflessione e quel distanziamento dall’ideologia che è alla base del progresso socio-culturale e quindi della possibilità di una critica del totalitarismo dall’interno.6 Il fatto che il totalitarismo immaginato da Orwell operi essenzialmente attraverso un controllo della comunicazione prepara alla possibilità di una cura habermasiana, dal momento che la preoccupazione del Francofortese è di preservare teoricamente l’umanità dell’uomo ovvero la sua possibilità comunicativa che sola consente la sua libertà e quindi una possibilità emancipativa.7 L’ottimismo habermasiano sulla possibilità di evitare il rischio totalitario intravisto da Orwell si deve al presupposto antropologico da cui partono la sua teoria critica prima e la sua teoria dell’agire comunicativo dopo (che si presenta come un tentativo di «fondare» la sua teoria critica su una teoria del linguaggio): per Habermas la natura umana è fondamentalmente comunicativa ed è naturalmente volta all’intesa e all’interazione libera e non coatta.8 Infatti, se l’assenza di abilità comunicative complesse fa si che negli animali l’organizzazione dei gruppi e le gerarchie restano esterne e basate su forza e dimensioni fisiche (i ruoli delle formiche, la caccia cooperativa nei lupi), nell’uomo il linguaggio (in quanto motore logico del possibile, della menzogna, del diverso, del fantastico) consente quel distanziamento dall’immediato che solo permette la riflessione e perciò l’emancipazione. Tuttavia, non va dimenticato che il linguaggio può essere usato anche in direzione oppressiva, dal momento che il linguaggio è sia il mezzo per ingannare che il mezzo per far emergere l’inganno. Per questo suo carattere bifronte esso cela in sé sia la possibilità del dominio ideologico (Orwell) che la possibilità dell’emancipazione (Habermas) per cui esso è contemporaneamente il veleno è l’antidoto dei mali che affligono le interazioni sociali che sono la base e il motore dello sviluppo evolutivo dell’uomo rispetto al mondo animale.9

2. Il totalitarismo orwelliano

Il regime presentato da Orwell impone il suo dominio totalitario mediante un attacco alla sfera privata che è la condizione di possibilità per operare un distanziamento critico-riflessivo dalla sfera pubblica e quindi operare una critica. A quest’opera di distruzione della privatezza sono volti gli istituti della psicopolizia e del ministero dell’Amore, accomunati dall’uso del teleschermo come mezzo per accedere alla dimensione privata della vita dei cittadini senza interruzioni: «il volume dell’apparecchio (si chiamava teleschermo), poteva essere abbassato, ma non vi era modo di spegnerlo».10 Il teleschermo:

riceveva e trasmetteva contemporaneamente. Se Winston avesse emesso un suono anche appena appena più forte di un bisbiglio, il teleschermo lo avrebbe captato; inoltre, finché fosse rimasto nel campo visivo controllato dalla placca metallica, avrebbe potuto esser sia visto che sentito […] si poteva persino presumere che osservasse tutti continuamente […] dovevate vivere […] presupponendo che qualsiasi rumore da voi prodotto venisse ascoltato e qualsiasi movimento attentamente scrutato.11

In questo modo esso può notare anche il particolare più insignificante che «poteva segnare la vostra fine: un tic, un’inconscia traccia di ansia sul volto, l’abitudine di mormorare fra i denti, tutto quello, insomma, che suggerisse una diversità rispetto alla norma o delle l’idea che avevate qualcosa da nascondere12». Queste infatti possono essere tracce di uno psicoreato, ovvero di ortodossia, reato punito crudelmente dal Partito il cui fine è quello di un’obbedienza non solo esteriore ma anche e soprattutto interiore.13 Lo psicoreato vuole eliminare la possibilità del dubbio attraverso un controllo repressivo e continuo, e attraverso la propaganda volta a rafforzare la presa del Socing sulle coscienze. L’ortodossia è creata e curata all’interno del ministero della Verità (Minver, in neolingua) dove lavora il protagonista Winston Smith: il fine di questo ministero è quello di riscrivere continuamente la storia per adeguarla alle scelte del Partito, in modo che il Grande Fratello dica costantemente la verità ed abbia sempre ragione, rafforzando la fede dei cittadini nei suoi confronti. Lo psicoreato si delinea sulla base dell’ortodossia che, in quanto dogma, non può essere messa in dubbio, cosa che invece il protagonista fa nel momento in cui inizia a scrivere un diario privato, riappropriandosi di quello spazio privato che corrisponde ad un uso privato del linguaggio e del pensiero e quindi ad un distacco dall’ortodossia. L’appiattimento della riflessione che lo psicoreato intende realizzare vuol dire una riduzione dell’individuo ad uno spazio pubblico spersonalizzato perché privo dell’apporto che ogni individuo nella sua diversità è capace di portare allo spazio pubblico. Ad esso corrisponde una riduzione dell’uomo ad automa:

guardando quella faccia senza occhi, quella mascella che si alzava e si abbassava rapidamente, Winston ebbe la curiosa sensazione che non si trattasse di un uomo ma di un fantoccio. A parlare non era il suo cervello, ma la laringe. Quelle che gli uscivano di bocca erano parole, ma non si trattava di un discorso nel verso senso della parola, erano rumori emessi meccanicamente, come lo starnazzare di un’anatra.14

Questa volontà di ridurre l’uomo a macchina, e quindi di privarlo del pensiero, si concretizza lavorando sul linguaggio che è strettamente connesso alla dimensione privata della validità e della riflessione. Lo psicoreato, abbattendo il concetto di sfera privata e di comunicazione libera, elimina quello di riflessione e quindi quello di persona per cui Winston può ragionevolmente sostenere che «lo psicoreato non comporta la morte, esso è la morte».15 Il mezzo con cui il Partito opera concretamente sul linguaggio è la neolingua, prodotto di una riforma continua volta a ridurre il lessico in modo da ridurre la possibilità di creare pensieri contrari al potere. Con questa riforma il Partito auspica di eliminare il rischio di una resistenza perché

lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero […] Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere. Ogni concetto di cui si possa aver bisogno sarà espresso da una sola parola, il cui significato sarà stato rigidamente definito, priva di tutti i suoi significati ausiliari.16

In tal modo i discorsi diventano «puro rumore, un ininterrotto bla bla», manifestazione di un ortodossia pura, che impone la mancanza di autocoscienza e quindi della consapevolezza di ciò che si va dicendo: «un membro del Partito, quando veniva sollecitato a emettere un giudizio etico o politico, doveva essere in grado di sputar fuori le opinioni corrette con lo stesso automatismo con cui una mitragliatrice spara i suoi proiettili».17 Inoltre, più si riducono le possibilità di scelta tra parole e minori sono le tentazioni di mettersi a pensare: «la speranza era di riuscire infine a far fluire il discorso articolato direttamente dalla laringe, senza alcuna implicazione dei centri cerebrali superiori».18 Oltre alla neolingua, tra gli stratagemmi adottati per ridurre l’uomo al Partito vi è il bipensiero, esprimibile in archeolingua col termine «controllo della realtà»: al Partito non basta che un individuo dica che il nero è bianco, se a richiederlo è la disciplina del Partito, ma esige anche la capacità di credere veramente che il nero sia bianco e ancor più di sapere che il nero è bianco, dimenticando di aver mai pensato il contrario. Si tratta di raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero:

sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda; sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo in entrambe, fare uso della logica contro la logica.19

Vengono così sovvertiti basilari principi logici (su cui le nostre relazioni si basano) come quello di bivalenza (un’affermazione o è vera o è falsa) e di non contraddizione (o un’affermazione è vera o è vera il suo contrario), proprio come emblema del processo di disumanizzazione operato dal Partito e dell’oltraggio che si fa alla natura umana. Se il ministero della Verità costituisce l’elemento propositivo dell’ortodossia, il ministero dell’Amore ne costituisce il versante repressivo: è qui che viene ricondotto il protagonista una volta scoperta la sua eterodossia ed è qui che si verifica un opera di ammaestramento e manipolazione, a tratti anche brutale, al fine di convincere ad amare il Grande Fratello. Il Ministero dell’Amore sembra proprio assolvere il compito di eliminare gli sporadici casi di individui mal pensanti (perché dubitanti) e rinvigorire su di essi la presa del Partito e l’attaccamento all’ortodossia, non importa con quale mezzo. Si tratta, in pratica, di volgere i mal pensanti in ben pensanti (perché non pensanti). Pur di ottenere il dominio sulle coscienze, il Partito è disposto ad usare la violenza diretta (se la violenza indiretta della propaganda fallisce), pur incorrendo così nel paradosso di negare la libera volontà dell’individuo e nello stesso tempo chiedergli un amore «ipocritamente sincero».20 In sintesi, quindi, psicoreato, neolingua, bipensiero e violenza persuasiva (diretta e indiretta), fanno della società di 1984 una forma di totalitarismo. Ma come può stabilirsi una forma di totalitarismo? Secondo Habermas, e secondo quanto si può dedurre dall’opera di Orwell, è insistendo sulla comunicazione che il potere può realizzare i suoi fini totalitari: solo manipolando o censurando la libertà, il pensiero, e in fin dei conti la comunicazione linguistica, è possibile influire sul pensiero individuale e sociale e in tal modo far violenza all’uomo che per Habermas è per sua natura libero e aperto alla comunicazione volta all’intesa.

3. Unificazione attraverso semplificazione

Manipolare la comunicazione vuol dire, tra le altre cose, manipolare il libero raggiungimento della verità, la cui ricerca è linguistica: essa avviene infatti secondo ragioni e giustificazioni che si presentano nel mezzo del linguaggio. Il dominio totalitario dei mezzi di comunicazione (e degli archivi) da parte del Partito fa sì che: «quando la memoria veniva meno e i documenti scritti venivano falsificati […] bisognava accettare la pretesa del Partito […] perché non esisteva — né sarebbe più potuto esistere — alcun parametro per operare raffronti» e le masse, «fino a quando non si concede loro di poter fare raffronti, non acquisiscono neanche coscienza di essere oppresse».21 Privare l’uomo della verità (ovvero del suo potenziale raggiungimento tramite giustificazioni) vuol dire compromettere non solo la sua capacità cognitiva e politica (rispettivamente capacità di conoscere e di valutare/decidere), ma anche la sua integrità morale perché i valori su cui effettuare le proprie scelte sono falsati dalla propaganda e dall’inganno, per cui ogni scelta risulta falsata ed insensata nella sua direzione: «la rabbia che ognuno provava costituiva un’emozione astratta, indiretta, che era possibile sposare da un oggetto all’altro come una fiamma ossidrica».22 L’opera di manipolazione della verità e della comunicazione è delegata al ministero della Verità, descritto come un’enorme struttura piramidale che già nella sua stessa forma (che suggerisce la metafora metafisico-religiosa di ispirazione platonica di un sistema al cui vertice la verità coincide col vero, col bello e col bene) presenta la sua finalità: lavorare affinché vi sia sempre e solo una verità, quella del Partito, e quindi rendere impossibile effettuare i raffronti di cui sopra. Per eliminare la possibilità di una riflessione critica è necessario però eliminare non solo i mezzi esteriori (archivi) ma anche quelli interiori con cui operare raffronti e questi sono una sfera privata ed un libero pensiero.23

Il reato di cui si macchia Winston si concretizza proprio nel momento in cui egli inizia a redigere un diario, ovvero nel momento in cui inizia ad avere un rapporto libero con il linguaggio e per questo potenzialmente pericoloso agli occhi del Partito.24 Durante quest’attività di riabilitazione alla libertà attraverso la consapevolezza del dubbio (che avviene solo in maniera linguistica, ovvero nella stesura di un diario) le difficoltà non tardano ad arrivare quando, nel momento della scrittura, Winston si accorge che non solo aveva dimenticato come esprimersi, ma non sapeva neanche più «che cosa voleva dire originariamente».25 L’uso crescente della neolingua, insieme alle continue vessazioni del Partito sulla libertà di parola e sulla possibilità di interazioni comunicative (che nel lessico habermasiano vuol dire senza fini e senza che qualcosa vada tenuto al di qua della comunicazione) miravano infatti a generare una disaffezione pavloviana verso la comunicazione dei propri pensieri se non addirittura verso il pensare stesso. Per questo motivo, attraverso un controllo continuo e la minaccia di venir puniti per i propri passi falsi (come dar adito al sospetto di mantenere una sfera privata), l’essere umano in 1984 sembra aver disimparato a comunicare e a pensare per proteggersi da se stesso e dalla naturale tendenza (evolutivamente acquisita) a sviluppare interazioni autentiche con i suoi simili. La prima cosa da fare dunque, si rivela esser quella di riabituarsi a pensare comunicando con se stessi, se non nella forma dialogica per lo meno nella forma scritta del diario.

4. Verità e comunicazione

L’annientamento di ogni possibilità comunicativa è un operazione molto sottile perché crea un alone di solitudine che rende impossibile la verità, non consentendo il dubbio e di conseguenza anche l’attribuzione di verità: questa può avvenire soltanto attraverso il discorso, che è fatto di un reciproco dare e ricevere ragioni. Per distinguere verità ed illusione, è naturale basarsi sul giudizio altrui e se manca questa possibilità viene meno qualunque occasione di distinguere realtà ed apparenza: «poteva darsi che lui fosse il solo ad avere una simile convinzione, ed essendo il solo doveva per forza di cose essere pazzo».26 Su questa solitudine fa forza il Partito nell’imporre la propria ed indiscutibile versione dei fatti, impedendo agli individui di accedere alla dimensione discorsiva in cui valutare la verità. Paradossalmente, il Partito impone questa solitudine attraverso una massificazione forzata: la spersonalizzazione causata da quest’ultima eliminando la scelta per la solitudine impone una solitudine che di conseguenza, in quanto obbligata ed ineludibile perde le possibilità che gli sarebbero connaturate, ovvero quelle di un’analisi mediata e riflessa. Con una massificazione totale come quella operata dal Partito si ritorna a se stessi dopo aver perso se stessi. In 1984, la verità viene imposta dal Partito come una legge, ma la verità è innanzitutto una credenza che andrebbe riconosciuta consapevolmente e liberamente giustificata dagli individui.27 L’imposizione della verità si inscrive nel progetto totalitario di ridurre l’uomo ad automa, eliminando il bisogno di consapevolezza e di convincimento legati al mantenimento di una sfera privata (e quindi riflessiva e libera) che costituisce un requisito fondamentale non solo per la legittimazione del potere ma anche per l’attribuzione di verità: se non è possibile parlare e quindi dubitare, se in sostanza non c’è più un individuo da convincere, allora ci sono solo delle masse inermi e non pensanti per cui non vi è differenza tra accettare e subire, e a cui è possibile allora imporre una versione dei fatti (dipendente da una scelta di comodo) che si fa valere come ortodossia, ovvero come non pensiero.28 La verità presuppone quindi la comunicazione libera ed essa a sua volta l’idea di persona autonoma in quanto suscettibile di fornire spiegazioni razionali, e non meri slogan propagandistici su cui scaricare l’onore della prova.29

4.1. Dalla solitudine alla falsificazione

La solitudine in cui vivono i cittadini di 1984 si presenta come uno dei più grandi successi raggiunti dal Partito perché solo con quest’isolamento la menzogna che viene creata secondo le direttive dei «cervelli pensanti […] che coordinavano il tutto e fissavano le linee politiche che imponevano di preservare, falsificare o distruggere un determinato frammento del passato» può diventare vera.30 Solo con la solitudine, l’opera di riscrittura del passato operata dal Partito può passare inosservata e accrescere l’alone magico-religioso che avvolge il Grande Fratello perché dimostra corretta ogni previsione fatta. Se non era possibile dimostrare che una qualsiasi falsificazione avesse avuto luogo, ciò si deve proprio all’impossibilità di comunicare una verità diversa da quella creata dal Partito. Un uso ideologicamente distorto dei mezzi di comunicazione della realtà, e quindi una comunicazione distorta della realtà, equivale ad una continua riscrittura della realtà stessa a cui gli individui possono accedere comunicativamente; tale strategia può essere nascosta proprio a causa della solitudine che impedisce agli individui di concretizzare i propri dubbi e di sviluppare comunicativamente un’attitudine critica. L’insistenza del Partito su una comunicazione a senso unico è indirizzata a sfumare il contatto tra la comunicazione e la realtà, insinuando in questa coltre di nebbia una realtà costruita dal Partito (secondo le proprie finalità politiche) e che si fa valere come indubitabile poiché non viene lasciato spazio ad una dimensione privata in cui poter sviluppare il minimo dubbio e a quella comunicativa in cui svilupparli:

tutto si perdeva nella nebbia. A volte, tuttavia, si poteva mettere il dito su qualche bugia clamorosa. Per esempio, non era vero, come sostenevano le cronache del Partito, che il Partito aveva inventato gli aeroplani. Lui gli aeroplani se li ricordava fin dalla più remota infanzia, ma non si poteva dimostrare nulla. Non esistevano prove.31

«Il passato veniva cancellato, la cancellazione dimenticata, e la menzogna diventava verità» e quest’oblio è possibile perché non vi è comunicazione, l’unica capace di mantenere il ricordo dell’errore o di comunicare la scoperta di un errore.32 Una sola volta Winston ha avuto fra le mani la prova incofutabile della falsificazione di un fatto storico ma non essendo possibile comunicarla (pena l’essere intercettato e quindi vaporizzato) e quindi farla valere come miccia in grado di accendere una nuova interpretazione della realtà, l’unica prova di un fatto reale diventa inconsistente alla pari di un fatto irreale: «se ci fosse stato il modo di pubblicarlo e di renderlo noto al mondo intero, chiarendone a pieno il significato, sarebbe stato sufficiente a mandare il Partito in mille pezzi».33 Questo però non è concesso, e di conseguenza non è possibile l’associazione di più individui non controllata dal Partito poiché non vi è comunicazione che non sia controllata, per cui non si entra mai in contatto se non a livello superficiale, l’unico in cui si evita di tradirsi o di generare sospetti. Per questo motivo il dominio sulla comunicazione è a senso unico, dal Partito agli individui, e non c’è modo di invertire la rotta. In questo modo si può solo subire un’interpretazione della realtà che si impone come vera.

4.2. La priorità della comunicazione sulla corrispondenza

La verità (per lo meno secondo le nostre intuizioni pre-teoriche) porta con sè, oltre all’idea di un riconoscimento consapevole, anche quella di una corrispondenza tra i predicati di verità e il come stanno le cose nel mondo. Di conseguenza si ha la sensazione che ad ogni individuo è accessibile una conoscenza veridica della realtà richiamandosi ad un’esperienza individuale giudicata ingenuamente pura e incontaminata. Questa possibilità però è chiusa dal fatto che la corrispondenza tra la conoscenza e il come stanno le cose può essere esplicata solo mediante enunciati e gli stessi criteri della corrispondenza si basano su scelte discorsivamente sviluppate. Ciò apre ad una gamma di interpretazioni differenti della stessa corrispondenza e riporta il gioco della verità all’interno della comunicazione per cui in un mondo come quello di 1984 non c’è scampo: dominare la comunicazione vuol dire dominare l’accesso e la costruzione della realtà. Infatti: «“Chi controlla il passato” diceva lo slogan del Partito “controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”».34 È in questo spazio comunicativo che si insinua il dominio totalitario del Partito che, eliminando la comunicazione democratica tra cittadini, esclude la formazione di interpretazioni della realtà alternative a quella che viene imposta col potere per fini ideologici: un’interpretazione che vale solo per il singolo non può aspirare a quella generalità che caratterizza un’interpretazione del mondo oggettiva (e in quanto intersoggettiva e potenzialmente universalizzabile) e che può quindi concorrere come alternativa a quella fornita dal Partito. Ciò che manca in una tale società è proprio la possibilità (democratica) di sviluppare comunicativamente una tale generalizzazione. Infatti:

il Partito diceva che l’Oceania non era mai stata alleata dell’Eurasia. Lui, Winston Smith, sapeva che appena quattro anni prima l’Oceania era stata alleata dell’Eurasia. Ma questa conoscenza dove si trovava? Solo all’interno della sua coscienza, che in ogni caso sarebbe stata presto annientata. E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal Partito, se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera.35

L’importanza di una comunicazione libera e razionale per la verità è chiara anche nel momento in cui per distinguere gli enunciati veri non ci si basa sulla mera corrispondenza con la realtà (che non si da mai in quanto tale) ma sul parere di ogni altro con il quale si può pensare di avere un colloquio (includendo controfattualmente tutti gli interlocutori che potrei trovare qualora la storia della mia vita fosse coestensiva con la storia dell’umanità) .36 Secondo Habermas, per affermare questa verità i parlanti in questione devono essere competenti: non si può far valere un consenso ai fini dell’attribuzione di verità se esso proviene da persone incompetenti ad affermare giudizi meritevoli di fiducia. Il problema, però, è quello del criterio con cui valutare la competenza dei parlanti: il rischio è di un regresso all’infinito alla ricerca dei criteri per definire gli esperti, e poi i criteri per scegliere i criteri per scegliere gli esperti e così via. In pratica, la decisione sulla scelta di questi criteri deve dipendere, a sua volta, dall’esito di un discorso e così via all’infinito. La soluzione è allora quella di non far dipendere la competenza di un giudice dalla sua conoscenza specifica, ma semplicemente dal fatto se egli sia o meno una persona razionale. Ma la razionalità è legata al linguaggio e al fornire buone ragioni (poiché è solo nel linguaggio che una persona si mostra razionale), e in questo modo la competenza passa da essere un requisito individuale ad essere un requisito del discorso: una verità è tale non se proviene da una persona razionale, ma se è frutto di un discorso razionale, che per esser tale deve soddisfare le condizioni di una situazione discorsiva ideale (massimamente inclusiva e illimitata). Tale condizione non è data in 1984, dove non è possibile accedere alla dimensione comunicativa è possibile solo una «comunicazione intermittente» tra un teleschermo e l’altro ed è quindi impossibile sviluppare questa forma di consenso comunicativo il più ampio possible, che è conditio sine qua non per la verità di un asserto.37 Qui, piuttosto, gli asserti veri sono quelli per cui la generalità e il consenso sono imposti coattivamente e non ottenuti attraverso la «coazione non coatta dell’argomento migliore» e un discorso razionale.38

4.3. La cura habermasiana: la situazione discorsiva ideale

Winston Smith sente il bisogno di uno spazio comunicativo autentico, perciò dedica il suo diario ad un’umanità futura o passata, ma in cui il pensiero sia libero e in cui gli uomini non vivano in solitudine. Questo ideale-utopico cui Winston si riferisce è potenzialmente distruttivo per l’ordine stabilito dal Partito perché costituisce quella pietra di paragone con il presente che il Partito vuole vietare cancellando il passato ed annullando il pensiero, recidendo tutte le possibilità affinché il diverso (reale o immaginario) si insinui nella mente prima e nella società poi, e metta in crisi le certezze assolute fornite dall’ortodossia del Socing.39

Come accennato, il fine anti-democratico del totalitarismo orwelliano è proprio quello di impedire la nascita e la conoscenza di tali modelli alternativi da cui potenzialmente può partire il dissenso innescando la riflessione su un presente che può rivelarsi non scelto ma meramente imposto. Senza questo spazio della riflessione, infatti, l’uomo vive in condizioni imposte (non accettate come valide e legittime) che lo riportano allo stato a-riflessivo del mondo animale. Da questa animalità Winston si allontana attraverso il linguaggio (nella stesura del diario) che gli permette di passare «dai pensieri alle parole, quindi dalle parole all’azione».40 Questa centralità del linguaggio che emerge da 1984 è un punto di collegamento con l’attenzione posta da Habermas al discorso come punto di rottura col fattuale attraverso la conoscenza e lo sviluppo di modelli ideali cui adeguare il proprio comportamento e la propria esistenza: solo nel linguaggio le diversità vengono a contatto e devono (normativamente) venir a contatto se si vuol garantire un evoluzione libera e democratica dello status quo. L’importanza di recidere la comunicazione per evitare la resistenza sia concreta (attraverso l’associazionismo spontaneo) che ideale (attraverso riflessione) è ben intesa dal Partito che con il progetto della neolingua intende raggiungere quello stato di dominio assoluto della realtà (esteriore e psichica) in cui ogni pronunciamento è un rafforzamento dell’ideologia e non è dato pensare in maniera autonoma poiché ogni parola è sarà legata all’ortodossia del Grande Fratello entro pochi decenni, secondo le previsioni del Partito. Il rischio di una simile società totalitaria è quanto Habermas intende scongiurare argomentando per la realizzazione di quella situazione discorsiva ideale che permetterebbe di sventare la possibilità che un regime di questo tipo possa insinuarsi nella nostra società garantendo la massima apertura (inclusività) e libertà della comunicazione (democraticità). Il concretizzarsi di tale possibilità è una questione ancora aperta, secondo Habermas, per cui egli non dà per scontata l’irrealizzabilità dell’universo distopico orwelliano:

se le tendenze alla burocratizzazione descritte da Weber raggiungeranno mai lo stato orwelliano (Orwellschen Zustand) in cui tutte le prestazioni integrative sono state spostate dal meccanismo socializzante dell’intesa linguistica a meccanismi sistemici e se tale stato sia possibile senza una trasformazione nel profondo delle strutture antropologiche è una questione aperta.41

Per scongiurare questa possibilità, Habermas insiste sulla necessità di rafforzare il momento partecipativo e non coattivo delle nostre interazioni linguistiche, sul modello di una situazione discorsiva ideale.42 Egli nel corso degli anni lega sempre più il suo interesse critico all’analisi di una comunicazione senza coazione perché una società libera è per lui quella in cui la formazione della volontà collettiva avviene attraverso un’intesa discorsiva non coatta e il più ampia possibile (democratica). Emancipazione e linguaggio corrono paralleli e si identificano al punto che una vera emancipazione si dà solo in e attraverso un linguaggio emancipato, ovvero libero da distorsioni e in cui tutti i partecipanti hanno le stesse possibilità comunicative, ovvero le stesse possibilità di fornire ragioni, di criticare e di chiedere spiegazioni.

4.4. La sporca verità del Grande Fratello

Negli anni ’70, Habermas sviluppa una teoria discorsiva della verità che, in relazione al suo interesse critico, mette in risalto la necessità di una comunicazione libera ed autentica per il raggiungimento della verità. Tale idea è utile per comprendere le peculiarità del concetto di verità sviluppato nel romanzo di Orwell, dove lo sbilanciamento del potere comunicativo e coercitivo incide pesantemente sul rapporto individuo-verità. La manipolazione della comunicazione in senso ideologico e totalitario fa si che in questo caso la realtà costruita con l’aiuto di predicati veri è contraffatta perché essendo falsati questi, di conseguenza la stessa realtà (come l’insieme di tutti i giudizi veri) si rivela irreale nel senso di non corrispondente a come stanno le cose realmente e, nel caso del passato, a come veramente sono andati i fatti. Alla base dei giudizi di verità falsati cui hanno accesso i cittadini di 1984 c’è una realtà che funge da pietra di paragone che però è costruita ideologicamente e per questo inquinata da fini non cognitivi:

la realtà non è qualcosa di esterno, la realtà esiste solo nella mente, in nessun altro luogo. Non nella mente individuale, che è soggetta a errare ed è comunque peritura, ma bensì in quella del Partito, che è collettiva e immortale. La verità è solo quello che il Partito ritiene vero. Non è possibile discernere la realtà se non attraverso gli occhi del Partito.43

Ciò che manca in 1984 è infatti l’autenticità della costruzione: essa non può essere vera perché è asservita ad un’autorità diversa da quella epistemica. Pur riconoscendo l’ineludibilità di interessi extra-epistemici alla base dell’attitudine cognitiva umana (dal carattere antropologico e evolutivo), bisogna riconoscere la necessità epistemica di oggettività e avalutatività su cui le scienze si basano. Se è vero che gli interessi conoscitivi alla base delle nostre attività epistemiche hanno finalità adattative e antropologiche, è pur vero, paradossalmente, che per adempiere tali finalità essi necessitano di tenersi al di fuori dell’attività epistemica (per quanto possibile) perché solo conoscenze oggettive ed avalutative hanno quel grado di oggettività ed affidabilità che risponde ai bisogni antropologici degli stessi interessi cognitivi.44 Molto superificalmente possiamo dire che ciò che è richiesto ai fini dell’oggettività delle nostre conoscenze è la trasparenza delle stesse; essa è ottenuta dalla massima inclusione possibile. Questo principio di inclusione è incarnato ad esempio nella chiarezza argomentativa con cui un esperimento o una prova viene presentata come accessibile a tutti coloro che, previo accesso alle competenze minime richieste, vogliono saggiarne la verità e l’oggettività. In breve, attenendosi a questo principio della massima inclusione, le nostre attività epistemiche sono tenute alla trasparenza; l’oscurità argomentativa o epistemica è un indizio a sfavore della verità della tesi sostenuta; per questo motivo solo operando in base a questi principi si può garantire ai nostri enunciati epistemici la possibilità di essere considerati conoscenza.

La costruzione orwelliana della realtà non rispetta il requisito della massima inclusione (ristretta solo al Partito) che solo può garantire una maggior sicurezza che ciò che viene reputato vero corrisponde a ciò che è vero. Preservare la massima inclusività comunicativa è infatti un requisito necessario per la razionalità di un discorso e per valutare l’oggettività, l’avalutatività e quindi la verità di una teoria che solo se suscettibile di un controllo oggettivo e democratico può esser valutata tale (situazione discorsiva ideale). Come accennato, solo su tali presupposti infatti, reputiamo che una teoria abbia più probabilità di rispondere al come stanno le cose veramente, non essendo inquinata per quanto possibile da interessi non epistemici o da restrizioni della comunicazione che, interessate o meno, possono falsare il risultato di opinioni epistemicamente valide. Data la contestualità ineludibile delle nostre comunicazioni e quindi delle nostre pratiche epistemiche, non possiamo mai esser certi di cogliere la realtà in sé e di liberarci del tutto da interessi prospettici e non strettamente epistemici, non essendoci consentito un punto di vista neutro sulle nostre pratiche cognitive, se non quello reso possibile dal decentramento cui tende asintoticamente una situazione comunicativa massimamente inclusiva e democratica. Per questo motivo, l’adeguamento della nostra conoscenza al come stanno le cose è solo una questione di grado, probabilistica.45 Per aumentare questa probabilità è necessario tenere in considerazione il maggior numero di opinioni (o per lo meno operare come se le si stesse realmente tenendo in considerazione), cosa che aumenta le possibilità di isolare interessi non epistemici che possono influenzare un discorso epistemico.46

Il fulcro di una conoscenza veridica della realtà è allora quello spazio linguistico in cui in maniera comunicativa si discutono criteri e norme con cui valutare i fatti e costruire democraticamente la realtà. Vista la situazione comunicativa della società orwelliana, qual’è allora il carattere della verità di cui il Partito fa uso? Essa è (1) unica, (2) riscrivibile secondo esigenze non cognitive ma politico-ideologiche, quindi (3) idealista («le cose esistono solo in quanto se ne ha coscienza»), (4) univocamente (ovvero non-democraticamente) determinata e quindi (5) imposta.47 Questi sono i caratteri principali con cui viene connotato il concetto di verità nella società orwelliana, ma cosa non quadra in una simile teoria della verità? Innanzitutto il suo idealismo (3):

la sua riflessione muoveva dal presupposto che da qualche parte, al di fuori di noi, esistesse un mondo reale, nel quale si verificavano eventi reali. Ma come poteva esistere un simile mondo? Come facciamo ad avere conoscenza di qualcosa, se non attraverso la nostra mente? Tutte le cose che accadono sono contenute nella mente e accade veramente solo ciò che è nella mente di tutti.48

Se è vero che la conoscenza avviene solo attraverso la mente individuale e sociale, la realtà non si riduce alla mente ed è tale indipendenza che rende la conoscenza un problema.49 Sull’idea di verità unica (1) è il caso di porre qualche precisazione in più perché, come si è detto, in 1984 la verità viene costantemente riscritta (quello che era vero in passato, allora, diventa falso) e quindi non è unica, eppure di volta in volta essa si fa passare per unica ed assoluta. La difficoltà più grande per il concetto di verità sviluppato nel mondo del Grande Fratello è legato proprio al corto circuto tra questi due caratteri della verità che mal si conciliano. Da un lato vi è il fallibilismo di cui facciamo esperienza quotidianamente in tutte le pratiche cognitive, che ci ricorda che ciò che può essere vero per noi oggi può non esserlo più domani e che ci raccomanda cautela nel reputare assolutamente vero ciò che oggi ci sembra giustificatamente vero; dall’altro vi è l’assolutismo dogmatico con cui il Partito fa valere ogni sua verità inventata o rivisitata. Tale infallibilità è inconciliabile con l’idea che in passato ci si è sbagliati e il compito di mediare tra questi due fronti è affidato al MinVer che deve assicurare la solidità della realtà proposta di volta in volta alle masse.50 Può, questa, essere davvero una verità?

4.5. La limpida verità habermasiana e la sua evoluzione

Un concetto di verità che risponda alle nostre intuizioni pre-teoriche deve necessariamente confrontarsi col fallibilismo che è una colonna portante delle società liberal-democratiche occidentali. Quotidianamente infatti, teniamo in considerazione un’intuitiva differenza tra ciò che la maggioranza crede vero e ciò che è vero, e quindi il fallibilismo implicato in questo scarto fa parte delle strutture profonde del nostro modo di vivere e di stare al mondo consolidatosi nel corso dell’evoluzione naturale. Questa prudenza fallibilista ha risvolti sociali considerevoli perché è alla base del rispetto delle opinioni altrui che caratterizzano la vita democratica: se ciò che si crede vero non corrisponde necessariamente alla verità allora ci si può sbagliare e bisogna tenere in considerazione l’ipotesi che l’altro, sostenitore di una credenza diversa, possa invece essere nel vero. Tale fallibilismo non è presente nella società orwelliana se non nella forma superficiale di una riscrittura (sempre assolutistica) della verità. Di fronte alla scelta tra dar priorità all’assoltuismo della verità o al fallibilismo, il Partito sembra optare per la prima strategia, dando vita così ad un’anti-democrazia in cui eliminare «l’idea stessa di giusto o sbagliato, come indipendenti da quel che il governo dice, significa sradicare non solo il dissenso, ma la stessa possibilità del dissenso».51 Inoltre, come già ribadito in anticipo, quelle che per noi contano come verità sono credenze di cui ci convinciamo e non di cui veniamo persuasi (con violenza o meno) come dogmi che accettiamo senza il vaglio critico della ragione. La verità, sulla scia di quella concezione standard della conoscenza che origina già da Platone (per cui la conoscenza è un opinione vera e giustificata), è infatti connessa al dare e ricevere ragioni, base del convincimento e di un’accettazione (o rifiuto) razionale del contenuto discusso mentre una verità imposta è piuttosto simile a una legge che può essere seguita anche senza convinzione.52 Quella di 1984 si configura allora come «una società senza verità» (almeno dal nostro punto di vista democratico), perché non vi sono i presupposti necessari perche essa si dia, ovvero autonomia di pensiero, libera comunicazione e fallibilismo.

Anche l’idea che la verità viene riscritta secondo esigenze politiche («era quindi necessario riscrivere un passo del discorso del Grande Fratello in modo da fargli prevedere quello che poi era accaduto») crea qualche problema ad una possibile teoria della verità sullo sfondo di 1984, che per questa compromissione definisco sporca.53 Anche se è impossibile assurgere ad una verità limpida in toto (pensiero post-metafisico), bisogna riconoscere che la verità è legata al sapere teorico su stati di fatto ed è dunque di pertinenza di ambiti cognitivi: una verità che non cerca di ripulirsi dalle incrostazioni non-cognitive cui tuttavia è immancabilmente legata, è allora una verità sporca. Tale possibilità è data dal riconoscimento delle differenze tra giustezza (morale) e verità (epistemologica), esposte soprattutto nelle opere epistemologiche del tardo Habermas:

  • Il mondo sociale non è da noi indipendente quanto lo è invece quello oggettivo;
  • Alle pretese di validità morale manca il carattere trascendente la giustificazione.

Il concetto di verità richiede qualcosa di più rispetto alla giustezza morale: un riferimento extra-discorsivo senza il quale non si riesce a spiegare cosa ci autorizza a ritenere vero ciò che supponiamo idealmente giustificato e senza il quale non si riesce a render conto del carattere normativo (nel senso di ideale da raggiungere) della verità rispetto a quello meramente fattuale delle giustificazioni.54 La verità è legata al linguaggio e al riconoscimento ma mantiene (e deve mantenere) un riferimento extra-discorsivo reale che è il nucleo del fallibilismo e che fa del riconoscimento discorsivo dell’extra-discorsivo un evento intersoggettivo perché svolto nell’agone delle ragioni che è pubblico, democratico e inclusivo. Tuttavia, tale carattere intersoggettivo è necessario ma non sufficiente per una teoria della verità che senza il richiamo ad una dimensione al di là delle giustificazioni, al di là delle pretese discorsive di validità, al di là di quanto è in nostro potere conoscere in questo momento, non può spiegare il superamento, sempre possibile, di quanto è meramente giustificato e il fatto stesso che lo scopo delle giustificazioni è «rintracciare una verità che si levi al di sopra di tutte le giustificazioni».55 Ciò che viene creduto vero non può considerarsi vero in assoluto; tra la nostra posizione e quella assoluta dell’Occhio di Dio resta uno scarto incolmabile dovuto all’ineludibile contestualità delle nostre giustificazioni che pure è da conciliare con il presupposto realistico-conoscitivo di cui si ammanta il riferimento delle nostre pratiche cognitive e col senso universalistico di pretese di verità trascendenti il contesto con cui difendiamo le nostre giustificazioni (pur sempre contestuali).

Con questa consapevolezza, dobbiamo mantenere sempre quello spirito critico-fallibilista assicurato da un concetto bifronte di verità capace di tenere insieme il lato intersoggettivo e quello ontologico della verità attraverso un processo circolare in cui le certezze d’azione problematizzate (dove si fa valere un concetto realista forte di verità) salgono al piano argomentativo come pretese di validità da saggiare (e quindi legate all’orizzonte epistemico e contestuale di quanto a nostra disposizione qui ed ora) e una volta riscattate discorsivamente tornano nel contesto d’azione, dove vengono rivestite di un alone di indubitabilità e di un’universalità non meramente presupposta ma in actu.56 Con questa trascedenza della verità rispetto all’ordine delle giustificazioni e avendo mostrato i problemi del concetto di verità usato nel totalitarismo orwelliano, è aperta ora la strada al superamento della società di 1984 e quindi all’allontanamento dei rischi totalitari attraverso la difesa di quel fallibilismo che è legato sia al realismo che alla democrazia, due caratteri che mancano nel romanzo di Orwell. Infatti, se il concetto totalitario di verità parte da un orizzonte idealista in cui il non-realismo della verità (il rifiuto del suo carattere extra-discorsivo) non può sostenere il fallibilismo e dà quindi il via ad una società in cui manca da un lato la differenza tra il vero ed il meramente giustificato e dall’altro quella tra imposizione e legittimazione della sfera pubblica, il concetto habermasiano di verità, per lo meno nella sua recente formulazione pragmatica, riconosce una dimensione extra-discorsiva alla verità che consolida il fallibilismo al punto da garantire quella sana dose di realismo e di democrazia con cui si può sostenere quello scarto tra giustificato e vero, tra privato e pubblico, tra giusto e sbagliato, che consente quel margine di discussione (pubblica) e di consapevolezza (privata) su cui si basa il distanziamento critico-emancipativo che deve esser mantenuto se si vuol garantire ad una società la possibilità di un’evoluzione cognitiva e sociale.57

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  1. Cfr., J. Habermas, Theorie und Praxis, Frankfurt a. M, Suhrkamp, 1963, tr. it., Prassi politica e teoria critica della società, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 56. ↩︎

  2. Sull’idea di condizionamenti contingenti (Darwin) e al tempo stesso necessari (Kant) rimando allo sviluppo del recente pragmatismo kantiano di Habermas. Cfr., J. Habermas, Freiheit und Determinusmus, in Id., Zwischen Naturalismus und religion. Philosophische Aufsätze, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 2005, tr. it., Libertà e determinismo, in Tra scienza e fede, Bari, Laterza, 2008, pp. 53-82 e Die intersubjektive Verfassung des normengeleiteten Geistes, in J. Habermas, Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophishe Aufsätze, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 2005, tr. it.,La condizione intersoggettiva, Roma-Bari, Laterza, 2007. Sull’idea della condizione umana come prospettica e inevitabilmente «limitata», J. Habermas, Erkenntnis und Interesse, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1968, tr. it., Conoscenza e Interesse, Roma-Bari, Laterza 2012. ↩︎

  3. Cfr., J. Habermas, Prassi politica e teoria critica della società, cit., p. 400. ↩︎

  4. L’ideologia è definibile come un tipo di autoritarismo dogmatico che può prendere un versante etico o epistemologico, M. Cooke, Avoiding Authoritarianism: On the Problem of Justification in Contemporary Critical Social Theory’, «International Journal of Philosophical Studies», 13 (3) (2005), pp. 379-404 (qui p. 382). ↩︎

  5. M. Cooke, Resurrecting Rationality of Ideology Critique: Reflections on Laclau on Ideology, «Constellations», 13 1, 2006, pp. 5-20, (qui p. 10). ↩︎

  6. Nel caso di 1984 l’ideologia è l’ortodossia del Socing, termine in neolingua per socialismo inglese. Sul diverso come base riflessiva e potenzialmente migliorativa cfr., M. Cooke, Argumentation and Transformation, in «Argumentation», 16, 1, 2002, pp. 79-108. Seguo qui l’uso orwelliano di indicare il Partito con lettera maiuscola. ↩︎

  7. Sulla svolta comunicativa del pensiero habermasiano cfr., M. Bianchin, Ragione e linguaggio. Ermeneutica, epistemologia e teoria critica in Jürgen Habermas, Milano, Guerini, 1995, p. 100. ↩︎

  8. J. Habermas, Theorie des kommunicativen Handelns, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1981, vol. I, tr. it., Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 496. La priorità della funzione emancipativa del linguaggio è spiegata da Habermas con la priorità della dimensione illocutiva dell’atto linguistico sulle altre (locutiva e perlocutiva) e di conseguenza con la priorità dell’uso comunicativo (volto all’intesa) del linguaggio su forme strategico-manipolative quali quelle usate dal Grande Fratello: le azioni linguistiche possono servire a un obiettivo non illocutivo di influenzare l’uditore solo se sono adatte a conseguire fini illocutivi. In linea con quello che sarà poi il suo pensiero «post-metafisico» (improntato alla consapevolezza postmoderna del fallibilismo e del contestualismo connaturati alla dimensione umana come opposti al presupposto di assolutezza tipico di un pensare «metafisico»), Habermas evita un impegno fondazionale forte ma anche un antifondazionalismo tipicamente postmoderno. Cfr., J. Habermas, Nachmetaphysisches Denken. Philosophische Aufsätze, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1988, pp. 33-58, tr. it., Il pensiero post-metafisico, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 31-56. ↩︎

  9. D. Gambarara, Comunicazione, cognizione, socialità, in D. Gambarara e F. Ferretti, Comunicazione e scienza cognitiva, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 191-235. Tale distanziamento è garantito anche dall’uso dei pronomi personali che permette di oggettivare un io, un tu ed un esso. ↩︎

  10. G, Orwell, Nineteen Eighty-Four, Londra 1949, tr. it., 1984, Milano, Mondadori, 1987, p. 6. ↩︎

  11. Ibidem, p. 7. ↩︎

  12. Ibidem, p. 66. Tale è il reato detto voltoreato in neolingua. ↩︎

  13. Sul concetto di accettazione legittima contro la mera accettazione fattuale cfr., J. Habermas e N. Luhmann, Theorie der Gesellschaft oder Sozialtechnologie, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1971, tr. it., Teoria della società o tecnologia sociale, Milano, Etas Kompass, 1973. La prima presuppone l’esistenza di una sfera privata che può legittimare o meno la sfera pubblica. ↩︎

  14. G. Orwell, 1984, cit., p. 58. ↩︎

  15. Ibidem, p. 31. In questo contesto non distinguo tra individuo e persona, distinzione che non reputo necessaria ai fini del presente discorso. Per questa ragione considero i due termini come sinonimi. ↩︎

  16. Ibidem, p. 56. Corsivo di Orwell. ↩︎

  17. Ibidem, p. 58 e 316. Corsivo di Orwell. ↩︎

  18. Ibidem, p. 316. ↩︎

  19. Ibidem, p. 38. Questa imposizione del Partito (sfera pubblica) sul credere (sfera privata) è segno della volontà di annullare la sfera privata che diventa un mero prolungamento di quella pubblica. ↩︎

  20. P. Watzlawick, Die erfundene wirklichkeit, München, R. Piper & Co, 1981, tr. it., La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, Milano, Feltrinelli, 2010. p. 196. In Habermas queste due forme di violenza prendono la forma dei fini perlocutivi dell’atto linguistico che è il nucleo della comunicazione. cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cit., I, tr. it., p. 401. ↩︎

  21. G. Orwell, 1984, cit., p. 89 e 214. ↩︎

  22. Ibidem, p. 17. ↩︎

  23. Da qui i tre strumenti del totalitarismo orwelliano visti prima. ↩︎

  24. Questa modalità del linguaggio è per Habermas l’Originalmodus. J, Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cit., I, p. 397. Per questo egli è convinto che le interazioni autentiche siano quelle comunicative (sincere e volte all’intesa). La priorità del linguaggio sul pensiero non è condivisa dai cosidetti mentalisti tra cui J. Searle, in polemica con Habermas su questo punto e per cui rimando a J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, cit., pp. 134-147. ↩︎

  25. G. Orwell, 1984, cit., p. 11. ↩︎

  26. Ibidem, p. 85. Corsivo di Orwell. ↩︎

  27. Questa è la distinzione habermasiana tra un consenso fondato e casuale, Id., Wahrheitstheorien (1972), in Id., Vorstudien und Ergänzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1985. pp. 127-183, tr. it. parz. Discorso e verità, in Id., Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 319-343, qui p. 320. ↩︎

  28. «Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa», G. Orwell, 1984, cit., p. 57. ↩︎

  29. Jürgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cit., II, tr. it., p. 564. Sul concetto di autonomia in Habermas cfr., M. Cooke, Language and Reason. A study of Habermas’s Pragmatics, Cambridge, MIT Press, 1994, p. 49. ↩︎

  30. G. Orwell, 1984, cit., p. 46. ↩︎

  31. Ibidem, p. 39. «Tutto svaniva in un mondo fitto di ombre, nel quale diventava incerto perfino in che anno si fosse», ibidem, p. 45. ↩︎

  32. Ibidem, p. 79. ↩︎

  33. Ibidem, p. 83. Chi veniva vaporizzato veniva cancellato da ogni archivio e diventava una nonpersona: «non esisteva, non era mai esistito», ibidem, p. 49. ↩︎

  34. J. Habermas, Discorso e verità, cit. e G. Orwell, 1984, cit., p. 37. ↩︎

  35. G. Orwell, 1984, cit., p. 37. ↩︎

  36. Questo, almeno secondo la teoria consensualista habermasiana. J. Habermas, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., p. 82-83. ↩︎

  37. G. Orwell, 1984, cit., p. 134. ↩︎

  38. J. Habermas, Discorso e verità, cit., p. 321. Solo un discorso razionale (situazione discorsiva ideale) produce quel consenso fondato che è condizione necessaria per la verità. Cfr., nota 23. ↩︎

  39. Solo entrando a contatto con il diverso noi possiamo prender le distanze da noi stessi e guardarci con gli occhi dell’altro. Questa modalità di estraneazione è alla base della conoscenza di sé e del proprio superamento. Per questo motivo una teoria critica necessita di presupporre un modello normativo come raffronto per superare lo status quo. Il problema tuttavia è quello di trovare il giusto equilibrio per questa trascendenza dal contesto: un’eccessiva trascendenza sembra restaurare un realismo dai toni metafisici, mentre un’eccesso di contestualità porta ad un relativismo in cui gli ideali normativi perdono la loro forza critica. ↩︎

  40. G. Orwell, 1984, cit., p. 166. ↩︎

  41. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cit., II, tr. it., p. 965. ↩︎

  42. Sul ruolo di collegamento tra il fattuale e l’ideale del concetto di situazione discorsiva ideale cfr., J. Habermas, Faktiztät und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Frankfurt a. M, Suhrkamp, 1992, tr. it., Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, Guerini, 1996. Per questo bifrontismo, tale concetto non è completamente utopico né completamente fattuale: è presupposto in ogni discorso reale (contestuale) ma ha uno statuto ideale perché non si realizza mai pienamente nelle concrete condizioni discorsive (le trascende). ↩︎

  43. G. Orwell, 1984, cit., p. 256. ↩︎

  44. Questo è, tra le altre cose, uno dei temi portanti di Conoscenza e Interesse↩︎

  45. Che una realtà in sé si dia o meno è questione complicata che sviluppare in questa circostanza sarebbe fuorviante; tuttavia mi rifaccio ad una distinzione di senso comune in cui tale dimensione noumenica è presupposta ingenuamente. Sui problemi di un realismo metafisico cfr., P. Parrini, Conoscenza e realtà. Saggio di filosofia positiva, Roma-Bari, Laterza, 1995. Sul problema di ridimensionare il concetto di avalutatività rispetto all’uso positivista del termine cfr., J. Habermas, Tecnica e scienza in una società tecnologica, cit., p. 50. ↩︎

  46. Cfr. J. Habermas, Technik und Wissenschaft als Ideologie, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1968, tr. it., Teoria e prassi nella società tecnologica, Bari, Laterza, 1968, p. 53. ↩︎

  47. G. Orwell, 1984, cit., p. 272. Grande merito del costruttivismo è quello di ricordarci la responsabilità dell’uomo nella costruzione della sua realtà. Un esempio di tale responsabilità è fornita da P. Watzlawick, La realtà inventata, cit., pp. 87-104 con le profezie che si autodeterminano. Tuttavia il costruttivismo radicale presenta dei problemi, ben evidenziati da P. Boghossian, Fear of Knowledge. Against Relativism and Constructivism, Oxford, Oxford University Press, 2006, tr. it., Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo, Roma, Carocci, 2006. ↩︎

  48. G. Orwell, 1984, cit., p. 285. ↩︎

  49. Sui principi cardine e sui problemi dell’idealismo (come anti-realismo) e del realismo cfr., P. Parrini, Sapere e interpretare. Per una filosofia e un’oggettività senza fondamenti, Milano, Guerini, 2002, pp. 68-82. ↩︎

  50. Come ricorda M. P. Lynch, True to Life. Why Truth Matters, Cambridge, MIT Press,2004, tr. it., La verità e i suoi nemici, Milano, Raffaello Cortina, 2004, p. 34, la certezza è il privilegio del fanatico: la persona più pericolosa è quella certa, assolutamente sicura, che la sua idea sia quella giusta. Questo è dogmatismo. ↩︎

  51. M. P. Lynch, La verità e i suoi nemici, cit., p. 232. Poco più avanti (p. 239), «l’interesse per l’eguale rispetto e altri valori liberali tra i cittadini di un governo democratico esige un interesse per la verità», per cui se teniamo ai valori liberali, dobbiamo tenere alla verità. ↩︎

  52. Sulla concezione standard della conoscenza cfr., A. Pagnini, Teoria della conoscenza, cit., p. 8-14, che la fa risalire al Menone e al Teeteto. Questo «nesso genetico riconoscibile» tra il sapere la sua acquisizione razionale da parte di un soggetto è riconosciuto anche da Habermas, Wahrheit und Rechtfertigung. Philosophische Aufsätze, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1999, tr. it., Verità e Giustificazione. Saggi filosofici, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 48. ↩︎

  53. G. Orwell, 1984, cit., p. 42. ↩︎

  54. Cfr. J. Habermas, Verità e giustificazione, cit., p. 266. Tuttavia l’analogia è forte ed è legata al medesimo trattamento discorsivo che subiscono le pretese in entrambi i casi. Secondo M. Cooke, è invece importante sviluppare lo stesso tipo di realismo non epistemico anche per la verità morale, cfr. Argumentation and Transformation↩︎

  55. Ibidem, p. 47. Il riferimento del Francofortese è qui alla teoria della referenza sviluppata da Hilary Putnam per spiegare come noi possiamo correggere la determinazione concettuale di un oggetto pur restando costante il riferimento. ↩︎

  56. Ibidem, p. 4. In questo modo è possibile, secondo Habermas, conciliare l’ipotesi di un mondo indipendente dalle nostre descrizioni, identico per tutti gli osservatori, con l’idea derivante dalla filosofia del linguaggio secondo cui ci è impedita una presa diretta sulla realtà. ↩︎

  57. Egli sente l’esigenza di superare il concetto procedurale di verità sostenuto negli anni ’70 poiché manchevole di quel realismo del riferimento che rende conto della durezza di una realtà che ci stà davanti e fronteggia o asseconda i nostri sforzi cognitivi e pratici. ↩︎