Recensione a Paola Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos

Paola Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos, Edizioni Messaggero, Padova 2002.

In un tempo in cui la tecnica, col suo pensiero calcolante alimentato dal desiderio di dominare spazio e tempo in un unico gesto di appropriazione definitiva, spinge l’uomo occidentale sugli oceani aperti e illimitati di nuovi poteri, di nuovi orizzonti economici e politici, sradicati da ogni appartenenza ad una terra o ad una fede che non siano quelle del mercato comune e globale, coloro che sono assetati di spirito non possono non chiedersi, senza tregua, se esista ancora uno spazio, ma soprattutto un tempo, in cui si abbia la possibilità di udire e sperimentare un’eco differente, una voce fuori dal coro degli incantatori di anime che continuano ad ammiccare sul disastro del mondo in nome del denaro e del potere.

La questione di uno spazio d’anima, di un tempo spirituale, di una fonte che disseti corpi inariditi da giorni vissuti nella fretta, nella disattenzione, nell’oblio di quella sete d’altro che, pure, ha segnato — più della comparsa della postura eretta — il destino dell’homo sapiens, diventa ineludibile se non si vuole affondare nell’oceano dei bisogni indotti, delle paure pilotate, dei piaceri somministrati da una rete fitta e invisibile di signori della terra che, con la condiscendenza passiva di menti stanche e infiacchite, continuano indisturbati a dettare leggi e confini fra una desolante immanenza e una pseudotrascendenza. Tutto è stravolto da un rapporto falsato fra spazio e tempo, ma per rendersene conto bisogna essere delle sentinelle vigilanti, come la sentinella di Seyr di biblica memoria, a cui bisogna chiedere ancora a che punto è la notte in cui ci troviamo (cfr. Is. 21, 11-12). A tal proposito Paola Ricci Sindoni, con la consueta chiarezza che contraddistingue tutti i suoi lavori, ha il merito di avere offerto ad un pubblico, potenzialmente molto vasto e non formato dai soli specialisti, il pensiero di una delle più attente «sentinelle di Seyr» degli ultimi decenni del Novecento: Abraham Joshua Heschel.

Il suono poetico, la musicalità interiore e i richiami simbolici del linguaggio di Heschel accompagnano, come una melodia di sottofondo, tutto il percorso del volume della Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos (Edizioni Messaggero, Padova 2002). Su questo armonico sfondo si intrecciano pensiero filosofico e riflessione religiosa, entrambi presenti e caratterizzanti l’itinerario pensante di Heschel, anzi talmente colmati reciprocamente e traboccanti l’uno dell’altro, da aprirsi costantemente a plurivoci orizzonti, in un itinerario che diviene specchio fedele della visione del mondo giudaica, come la stessa autrice sottolinea: «Non certo definibile in modo esclusivo come teologia, o come filosofia, e neppure come un racconto sacro della tradizione, muovendosi liberamente fra progetto etico e memoria storica, la visione del mondo giudaica non sopporta catalogazioni esemplificative, tipiche dell’idea occidentale, configurandosi come «semplicemente» pensiero, o con Rosenzweig come pensare ebraicamente, al cui interno contenuti apparentemente diversi, come la scienza, la religione, l’arte, la poesia, la teologia, la vita si miscelano coerentemente» (p. 6).

Un orizzonte così vasto può essere abbracciato solo se si riesce a trovare un punto di osservazione ben saldo ed abbastanza alto da consentire allo sguardo di spaziare a trecentosessanta gradi, senza perdere le coordinate del proprio esserci nel qui ed ora, a cui bisogna restar fedeli per non cadere in futuribili utopie o romantiche reminescenze di migliori tempi passati. Questo centro saldo da cui orientare lo sguardo Heschel lo individua nella Torah, della quale la tradizione afferma: «girala e rigirala (la Torah), poiché in essa vi è tutto; contemplala, invecchia e consumati in essa, poiché non vi è per te porzione migliore» (Mishnah Avot, 5. 25). La scelta della Torah come centro consente di mettersi in un rapporto dialettico e dinamico con la storia, l’etica, l’esistenza quotidiana, poiché, lungi dall’essere una dipendenza del tutto dogmatica, come accade in altre religioni, per gli ebrei il rapporto con il testo sacro è improntato su un fervente dialogo, fatto di commenti, dispute, contraddizioni, plurivoche interpretazioni, che prendono respiro dal costante riferimento alla vita pratica, alla concreta situazione storica, alla differenza di interpretazione delle varie scuole rabbiniche. Ma, soprattutto, da un vitale interpellarsi vicendevole fra Dio e gli uomini, un continuo chiamarsi in causa reciprocamente, un costante richiamo alle responsabilità di una parte e dell’altra dato che solo insieme possono affrettare la venuta del regno messianico e solo insieme possono mantenere fede all’alleanza. Le questioni da affrontare in questo rapporto sempre in fieri sono, dunque, intimamente segnate da un intreccio fra aggadah, cioè l’interiorità della fede, la spontaneità, la preghiera, il racconto, e halachah, cioè la disciplina della legge, l’azione, la pratica morale.

Il Dio vivente a cui non si chiede solo ma, potremme dire, da cui si pretende collaborazione fattiva e reale nelle vicende umane, è un Dio costantemente diveniente-Dio, in stretto rapporto al popolo costantemente diveniente-popolo-di-Dio, in una attitudine emotiva che, come evidenzia Ricci Sindoni, Heschel chiama pathos: «Dire che Dio è pathos non significa attribuire al Creatore qualche specificazione metafisica di sapore antropomorfico, ma desumere dal Libro e dall’esperienza profetica che Dio nutre un reale interesse per il mondo, ha bisogno dell’uomo ed esprime esplicitamente questa sua esigenza attraverso numerosi segnali, che dicono passione, coinvolgimento, chiamata, appello al reciproco incontro, per una mutua collaborazione che punti alla redenzione di tutti gli uomini» (p. 13).

Proprio questa attitudine è, secondo Heschel, quella con cui ogni uomo — che nella sua essenza è sempre un Sefer Torah, cioè un libro vivente — deve cercare di riflettere e intervenire sui mali oscuri del XX secolo, a cominciare dalla immane tragedia di Auschwitz, per finire alle guerre etniche e alla violenza dilagante in tutti i campi, al protrarsi infinito, cioè, di quella notte di cui la sentinella di Seyr vorrebbe annunciare la fine. È infatti il pathos che Heschel predilige nell’esercizio della sua funzione di intellettuale, impegnandosi in prima persona nelle battaglie sociali e politiche — che lo vedono, ad esempio, schierato con Martin Luther King o fondatore di una delle più forti associazioni contro la guerra del Vietnam — ma anche nella scrittura delle sue opere, in cui l’intreccio fra vita e riflessione teorica è costantemente visibile, anche nella scelta dei temi da approfondire, come Ricci Sindoni non manca, volta per volta, di mettere in evidenza, tanto che i suoi scritti «possono definirsi «occasionali», nel senso più pregnante del termine, se è vero che […], è sempre un’urgenza del presente a far scattare il suo pensiero riflessivo» (p. 141). Dunque, l’essere fedele al qui ed ora, con lo sguardo sempre rivolto ad un altrove — che ha e non ha contorni netti — diviene la cifra della riflessione hescheliana. Questo altrove infatti è la Torah, ma è anche ciascun essere umano, Sefer Torah, con la sua esperienza di vita; è l’eternità della Sacra Scrittura, ma è anche il tempo del quotidiano con le sue esigenze pressanti; è lo spazio interiore della preghiera, ma è anche lo spazio dominabile della tecnica moderna. L’esigenza di riuscire ad abitare queste contraddizioni, che sembrano fratturare incessantemente il rapporto fra l’uomo, Dio e il mondo, conduce Heschel a porsi in contrasto dialettico sia con le scuole rabbiniche ultraortodosse, che erano fautrici di una attenzione esclusivamente centrata sulla preghiera e sul rispetto della complessa ritualità, sia con quelle scuole, soprattutto in America, fautrici di un impegno sociale quasi del tutto avulso dalla tradizione ebraica.

Mentre il fascio di luce delle sacre scitture illumina il suo itinerario di pensiero, Heschel trova nella filosofia un cristallo da far attraversare da quel fascio di luce, per poterne vedere tutti i colori possibili. Senza divenire mai potenza mortifera, che paralizza nel concetto le cifre di un ineffabile sempre sorprendente, la filosofia, come avverte Ricci Sindoni, «ha il compito di servire da propedeutica di tipo fenomenologico, da metodo critico, al fine di bene impostare le domande e le problematiche relative all’esistenza e alla sua condizione nel mondo» (p. 10). Se nella religione ebraica e nella Torah, suo centro, si possono trovare tutte le risposte, d’altra parte l’uomo che abbia smarrito la capacità di fare le giuste domande, rischia di non riuscire mai più a trovare neanche le giuste risposte. La possibilità del domandare è propria solo di coloro che sanno meravigliarsi, ma, soprattutto, di coloro che sono aperti ad un ascolto profondo, che faccia della domanda una vera domanda e non un domandare retorico, già chiuso nelle risposte che si presuppone di conoscere e delle quali si cerca solo conferma.

Filosofia e religione si intrecciano in questo virtuoso — ma anche molto complesso — rimando fra domande e risposte, mentre l’attitudine ermeneutica propria dell’ebraismo offre lo spazio per una sempre nuova e feconda interpretazione delle domande ed una mai scontata interpretazione delle risposte. Le domande e le risposte che provocano con urgenza Heschel non sono di ordine ontologico o gnoseologico — come quelle che, ad esempio, avevano sollecitato l’attenzione di Rosenzweig — ma soprattutto, si direbbe, di ordine religioso, laddove questo termine sia inteso nella sua stretta correlazione alla vita pratica e la dimensione etica vi sia sempre coimplicata, vista la necessità, costantemente avvertita da Heschel, di tenere insieme parola sacra ed agire morale, in una riflessione filosofica che sia contemporaneamente addestramento rigoroso all’ascolto dell’oltre e implicito appello al fare.

Del resto, riferendosi in prima istanza al chassidismo, Heschel porta nei suoi scritti la forza mistica, ma anche la semplicità richiesta a coloro che vogliono mettersi in ascolto di questa antica e preziosa sorgente della spiritualità ebraica. Infatti, se da una parte il libro dello Zohar e la Kabbala luriana sono i pilastri su cui il chassidismo si fonda, d’altra parte il tentativo di questa corrente mistica — simile, per alcune esigenze di fondo al francescanesimo — è quello di «popolarizzare», in un certo senso, la Kabbala, evidenziandone, in primo luogo, l’aspetto etico-pratico. Una ricaduta pratica della Kabbala è, ad esempio, legata al concetto di Tzimtzum, secondo il quale Dio crea il mondo come «trattenendo il respiro», cioè autolimitandosi, ritirandosi e lasciando uno spazio che, nella sua paradossalità, è al contempo assenza-presenza di Dio. In questa sorta di esilio di Dio da se stesso il chassidismo vede il supremo atto di amore di Dio per l’uomo, poiché Egli si ritira per evitare che l’essere umano sia sopraffatto dal suo splendore cessando, perciò, di esistere e, di conseguenza, impedendo la relazione Dio-uomo. Dio ha bisogno di una risposta dell’uomo e l’uomo, per dare questa risposta, ha bisogno dell’autonascondimento di Dio.

In questa priorità necessaria della responsabilità reciproca i chassidim, ed Heschel per primo, si mettono continuamente in ascolto della voce del Dio nascosto, cercandone le scintille e lasciandosi rapire da quel senso dell’ineffabile, verso il quale non si possono fare tanti passi senza cadere poi, inevitabilmente, nell’abbraccio di Dio. Il Sabato, di cui Heschel celebra le meraviglie in uno splendido testo (Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Rusconi, Milano 1972), diviene il simbolo di quell’armonico intrecciarsi di spazio e tempo, di Dio e degli uomini, che solo in questo privilegiato luogo senza luogo possono rendere grazie per la loro avvenuta cor-rispondenza. Il significato del Sabato per l’uomo moderno è racchiuso, secondo Heschel, proprio nella potenza dirompente di questa dimensione del tempo, sempre atteso e mai posseduto, forse solo reciprocamente donato, che infrange lo stretto binomio tempo-produttività e spazio-dominio — vessilli fiammeggianti della tecnica moderna e dell’economia di mercato — con un’azione che, per dirla con Simone Weil, in verità è un’azione non-agente, è uno stacco, una sospensione, non solo dal lavoro quotidiano, ma dall’essere sottomessi costantemente alla quantità di un tempo cronologico e perciò calcolabile, anzicchè alla qualità di un tempo messianico, aperto alla venuta del Regno.

Se è vero che, come sottolinea Heschel nel titolo di un suo volume, L’uomo non è solo (Rusconi, Milano 1970), questo Dio che ha bisogno di lui per compiere l’opera di redenzione del mondo ed affrettare, secondo lo Zohar, l’evento del Tikkun, cioè la ricostituzione dell’unità di Dio, non pretende di essere trovato sotto un’unica forma, né ascoltato solo in alcune parole. Per trovare Dio, secondo i chassidim, sarebbe inutile tentare di seguire pedissequamente un unico modello, poiché se la via per trovarlo fosse davvero unica, ci sarebbe da chiedersi, come sottolinea Buber, se sia davvero degno di questo nome un Dio che si debba servire seguendo necessariamente un unico cammino. Invece è possibile per ciascuno seguire Dio in un modo diverso, chi con lo studio, chi con la preghiera, chi con il digiuno, chi mangiando, ma cercando sempre di comprendere fino in fondo verso quale cammino porta il proprio cuore, poiché, rileva giustamente Ricci Sindoni «L’inaudita grandezza della creazione sta appunto in questa felice fusione di uguaglianza e diversità, che si rispecchia in modo mirabile nell’uomo, la cui dignità ontologica — l’essere creato a immagine di Dio — stabilisce la costitutiva identità del genere umano e, al contempo, la sua complessa differenza» (p. 49).

La vita quotidiana e il lavoro, come lo studio e la preghiera, dunque, compiuti nella fedeltà al cammino individuale verso Dio, sono gli unici strumenti che i chassidim hanno per contribuire alla redenzione messianica. Questa non viene concepita, però, come un evento di tipo escatologico, situabile alla fine dei tempi, ma come un processo di continua ricerca di corrispondenza fra Dio e l’uomo: ogni volta in cui essi riescono a trovarsi in perfetta sintonia, infatti, certamente contribuiscono, insieme, alla liberazione di un’altra scintilla di luce che potrà, unita alle altre, porre fine alla notte su cui la sentinella di Seyr continua a vegliare.

In questo viaggio nell’attesa di una nuova alba, il libro di Ricci Sindoni offre un’affascinante «carta del cielo» per orientarsi nel pensiero di Heschel e nell’ebraismo, indicandoci le stelle più luminose di questo grande universo spirituale, in uno sforzo di profondità analitica e di sintetica completezza che, accompagnate dallo stile lineare e chiaro, fanno del suo testo un segnavia fondamentale sulle tracce del sacro.