Marina Abramović, Platone e l’anello di Gige: sull’idea di una giustizia tra gli uomini

La tradizione narra che Platone si fosse dedicato alla filosofia in virtù di un’ingiustizia: la fine di Socrate, l’uomo più giusto, condannato a morte dalla città che si proclamava giusta, è stata per lui un colpo decisivo, che lo ha spinto a ritenere che solo la vera filosofia permettesse di distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto.1

Può dunque davvero esistere una giustizia tra gli uomini? Questo interrogativo ha tenuto occupato il grande filosofo greco per tutta la vita e, alla fine, probabilmente, una sola risposta per lui fu possibile: la giustizia esiste solo in un mondo ideale. A guardar bene, tuttavia, nemmeno questa speranza lo salva: solo per citare l’esempio più noto, Karl Popper parla del modello platonico di città ideale come di una «giustizia totalitaria»2 e critica certi aspetti dell’organizzazione politica e sociale descritti nella Repubblica, che non appaiono affatto giusti all’uomo liberal-democratico di oggi.

Non è tuttavia direttamente di ciò che vogliamo discutere in questa sede. Vorremmo partire da un passo forse meno noto del testo platonico per mostrare che l’idea di giustizia si scontra con caratteri della natura umana che sembrano contraddirla o, addirittura, con comportamenti che paiono relegarla in secondo piano rispetto alla ricerca di beni o al perseguimento di fini considerati ben più importanti e necessari. E lo faremo intrecciandovi alcune riflessioni che nascono dall’esame filosofico di una performance artistica di grande rilievo, inscenata dall’artista serba Marina Abramović nel 1974.3

Siamo certamente consapevoli che, quando si propone una riflessione sull’arte parlando di Platone, non si può evitare di considerare che essa fosse per lui ben poca cosa nella città ideale, come è evidente da importanti passaggi dell’ultimo libro della Repubblica. Platone vi definisce l’arte, in particolare quella del pittore e del poeta che imitano la realtà, come «inferiore e […] associata a ciò che è inferiore», che non può generare che «cose inferiori» (Rep. 603b);4 addirittura, ritiene che le opere d’arte facciano presa solo sulla parte dell’anima più bassa, quella «che ci porta verso i lamentosi ricordi della passione e ne è insaziabile» e che, pertanto, «è irrazionale e inetta e incline alla viltà» (Rep. 604d), e non invece sulla parte razionale, che resta appannaggio delle scienze (Rep. 605a-b).

Platone non si limita però a tale giudizio, dal momento che giunge perfino a bandire l’arte dalla città. Se vi entra, sostiene, «il piacere e il dolore regneranno nella […] città invece della legge e del principio razionale che la comunità in ogni circostanza avrà considerato come il migliore» (Rep. 607a). Per questo, Popper osserva laconicamente che «è difficile vedere come gli amanti dell’arte e della letteratura greca possano trovare incoraggiamento in Platone».5

È chiaro allora che, almeno in questa sede, non ci riferiamo a Platone per cercare incoraggiamenti verso l’estetica, né vogliamo rimettere in discussione il tema estetico nella Repubblica. Piuttosto, come cercheremo di mostrare, se ci si svincola dall’idea che l’arte sia imitazione o rappresentazione di qualcosa, si può forse comprenderne meglio la portata filosofica e contribuire a sviluppare, in modo almeno più articolato, il tema della giustizia, questo tanto caro a Platone quanto a noi contemporanei. In effetti, siamo d’accordo con Arthur Coleman Danto, per il quale, quando l’arte contemporanea non si pone più il problema della rappresentazione, «pone spesso l’artista in spazi morali inesplorati».6

Il passo platonico a cui facciamo riferimento è contenuto nel libro II della Repubblica. Appena terminata una discussione sull’idea di giustizia con Trasimaco, il quale era giunto perfino a esaltare l’ingiustizia, Socrate si trova incalzato dall’agguerrito Glaucone, che dal discorso precedente non è stato affatto convinto. Subito Socrate afferma che la giustizia andrebbe posta nella categoria dei beni che si amano per se stessi, cioè che non hanno un fine esterno, poiché in essi stessi risiede l’essere felici. Glaucone non è però ancora soddisfatto, poiché ritiene che «l’opinione dei molti» non consideri la giustizia come un fine in sé, bensì semplicemente come un mezzo per raggiungere un qualche profitto, o addirittura la gloria (Rep. 357a-358a).

Per dimostrarlo, Glaucone si avventura in una sorta di esperimento mentale, allo scopo di comprendere gli effetti provocati dalla giustizia e dall’ingiustizia nel momento in cui si insediano nell’anima, senza considerare gli eventuali vantaggi o svantaggi esteriori. Egli suppone che, come è opinione comune, la giustizia sia praticata dagli uomini «malvolentieri», in quanto per loro si tratta «di un obbligo ma non di un bene» (Rep. 358c). Nel suo ragionamento, che prende le mosse da quello appena concluso di Trasimaco, giunge perfino ad affermare che, almeno secondo la mentalità comune, l’ingiustizia sia preferibile alla giustizia.

A dire il vero, Glaucone si affretta a precisare che questa non è la sua opinione, in quanto si tratta soltanto di un esperimento concettuale. E aggiunge che, finora, non ha ascoltato un solo argomento altrettanto convincente a favore della giustizia. Pertanto, la realtà è che, schierandosi a difendere la vita dell’ingiusto, il suo vero obiettivo sia di stimolare Socrate a fornire una difesa della giustizia di per se stessa, come poi in effetti accadrà.

Ebbene, il primo punto dell’argomento di Glaucone è che commettere un’ingiustizia è preferibile al subirla. In altri termini, afferma, se potessero scegliere, tutti preferirebbero fare un torto piuttosto che subirlo. Ma non è sempre possibile evitare i dispiaceri connessi al subire un torto, né d’altra parte essere sicuri di non riceverne. Dunque, osserva, gli uomini preferiscono mettersi d’accordo e far nascere le leggi e le convenzioni, che sono definite legali o giuste, appunto perché impediscono, almeno in teoria, che si commettano o subiscano ingiustizie (Rep. 358e-359a).

Chiaramente, l’assunto di Glaucone è che ogni uomo, se potesse e se restasse impunito, commetterebbe ingiustizie per trarne vantaggi. In tal modo, l’amore per la giustizia non sarebbe altro che, nel caso migliore, una sorta di rassegnazione, derivante dal fatto che la si apprezza solo «perché manca la forza di recare ingiustizia, visto che chi potesse farlo e fosse dunque un vero uomo non stipulerebbe mai con nessuno il patto di non fare né subire ingiustizia: sarebbe davvero pazzo» (Rep. 359b), poiché dovrebbe rinunciare ai vantaggi che essa comporta.

La tesi di Glaucone deve essere apparsa sconcertante a Socrate e verosimilmente apparirà sconcertante anche al lettore di oggi. Allora come oggi, tuttavia, è una tesi che nasconde una velata attrazione, dovuta probabilmente all’effetto traino di quel cavallo nero narrato nel Fedro, che ci fa cadere, tutti, prima o poi, vittime delle passioni concupiscibili. Era però anche un segno dei tempi infausti in cui versava la città di Atene e, senza perdersi in eccessive e anacronistiche considerazioni, potrebbe essere meno ovvio di quanto si possa pensare: in fondo, anche ai nostri giorni, è evidente che molti preferiscono commettere ingiustizie per trarne vantaggi, piuttosto che rispettare le leggi o rischiare di subire le ingiustizie altrui.

Ebbene, la tesi di Glaucone, ossia che chi cerca di mantenersi giusto lo fa contro la sua volontà e solo perché è incapace di commettere ingiustizia, è spiegata più precisamente facendo ricorso a un interessante esperimento mentale. Egli invita a immaginare due uomini, uno giusto e l’altro ingiusto, che siano messi nella condizione di fare ciò che desiderano, fino al punto di ritrovarsi entrambi sullo stesso cammino dell’ingiustizia. Glaucone, del resto, è convinto che la «il desiderio di sopraffazione» è qualcosa «che ogni singola natura naturalmente persegue come un bene» e che è solo con l’intervento («la violenza») della legge che si può tornare al rispetto dell’uguaglianza (Rep. 359c).

Ma che succederebbe, si chiede Glaucone, se i due uomini avessero uno strumento come quello che, si racconta, possedeva un tempo Gige (Rep. 359c)? Era costui un pastore al servizio del re della Lidia; un giorno, mentre pascolava le pecore, Gige si trovò nel bel mezzo di una grande tempesta e di un terremoto che aprì la terra proprio sotto i suoi piedi. Egli vi discese all’interno e scoprì numerose meraviglie, tra cui un cavallo di bronzo dal ventre cavo. Vi si addentrò e vi trovò il cadavere di una sorta di gigante nudo, che aveva al dito un anello d’oro. Gige lo prese e subito se ne tornò fuori. Si trattava di un anello che aveva il potere di dare l’invisibilità a chi lo indossava. Pieno di stupore, il pastore approfittò di questo suo potere per sedurre la regina, uccidere il re e impossessarsi del trono.

A questo punto, Glaucone si chiede che cosa accadrebbe se i due uomini descritti sopra, quello giusto e quello ingiusto, avessero ciascuno un anello di Gige. Ebbene, a suo avviso «nessuno sarebbe, è dato credere, tanto adamantino da resistere nella giustizia, astenendosi coraggiosamente dall’impadronirsi delle cose altrui, mentre gli sarebbe possibile prendere impunemente ciò che vuole nel mercato, entrare nelle case ed unirsi con chiunque voglia, e uccidere o sciogliere dalle catene tutti quelli che vuole, e fare tutto il resto come se fosse, tra gli uomini, eguale a un dio» (Rep. 360b).

Per questo, Glaucone conclude che entrambi gli uomini, quello giusto e quello ingiusto, messi nella condizione di poter approfittare dell’anello dell’invisibilità, si comporterebbero allo stesso modo. E questa, a suo avviso, è la «prova più evidente che nessuno è giusto di sua volontà, ma solo per costrizione» e che la giustizia «non è considerata alla stregua di un bene privato», ossia un bene che un individuo possa perseguire per proprio unico interesse (Rep. 360c). Addirittura, se qualcuno fosse messo in condizione di agire ingiustamente e si rifiutasse di farlo, sarebbe giudicato dagli altri come «del tutto degno di compatimento per la sua demenza», salvo però lodarlo quando se lo trovassero di fronte, «ingannandosi a vicenda» per timore di subire loro stessi un’ingiustizia (Rep. 360d).

Delineati i due personaggi, l’esperimento di Glaucone continua descrivendo che cosa accadrebbe se i due uomini, il giusto e l’ingiusto, fossero messi ciascuno nelle migliori condizioni per esplicare il loro modo di intendere la vita. Così facendo, egli ritiene di poter rendere evidente in tutta la sua chiarezza la distanza che separa «le due punte estreme della massima giustizia e della massima ingiustizia» (Rep. 360e). In questo esperimento mentale, così, le due vite appena delineate fungono da veri e propri paradigmi, rispettivamente dell’ingiustizia e della giustizia estrema.

A questo punto, dunque, l’ingiusto cercherà di compiere le sue manovre sempre senza farsi scoprire, cioè sembrando comunque giusto. Da qui deriva il postulato fondamentale dell’ingiustizia assoluta: «Sembrare giusto non essendolo»; la cui motivazione è forse l’aspetto più sorprendente: se l’ingiusto si facesse scoprire, apparirebbe mediocre (Rep. 361a). E quanto alle doti che deve possedere, l’assolutamente ingiusto non potrà che essere abile di parola, disposto all’uso della violenza, aggressivo e forte, ma sostenuto da una rete di amicizie e da buone disponibilità finanziarie (Rep. 361b).

Dalla parte opposta sta ora il giusto. Egli è un tipo che fondamentalmente fa di tutto per essere giusto, senza curarsi dell’apparire giusto. Anzi, se apparisse giusto, gliene verrebbero onori e vantaggi, cosicché gli altri, vedendolo, potrebbero fraintendere e pensare che se li sia procurati con qualche inganno e che, come nel caso dell’ingiusto, dietro all’apparire ci sia un essere del tutto opposto. È per questo che, sostiene Glaucone, il giusto va spogliato di ogni apparire di giustizia e, sebbene di fondo sia un uomo innocente e puro, all’esterno va dipinto come capace delle peggiori scelleratezze. E questo perché, fatto costante oggetto di calunnia, il giusto è costretto a riaffermare ogni volta la propria innocenza dinanzi alle peggiori accuse, restando fino alla morte incrollabile. Egli, cioè, è considerato un criminale, «essendo invece giusto» (Rep. 361c-d).

Che la figura qui tratteggiata somigli molto da vicino a Socrate, non c’è dubbio. Si tratta di un uomo, afferma Glaucone, che finirà i suoi giorni subendo ogni genere di vessazioni, torturato e ucciso finché non imparerà «che quel che bisognava volere non è essere giusti, ma sembrarlo» (Rep. 362a). L’ingiusto, al contrario, vivrà sembrando giusto e, come tale governerà le città e trarrà ogni possibile vantaggio dal suo comportamento cinico, concreto e privo di scrupoli morali. La sua più grande abilità è infatti il sembrare giusto, utilizzando il suo potere e le sue ricchezze per proteggere gli amici e rovinare i nemici, «e agli dei celebra sacrifici e dedica offerte in modo adeguato e magnifico, rendendo agli dei e agli uomini che abbia prescelto servigi molto migliori dell’uomo giusto» (Rep. 362d). In altre parole, nell’amministrare il culto degli dei e l’ossequio alle persone che lo interessano, l’ingiusto si dimostra molto più accorto rispetto all’uomo giusto. E, per questo motivo, la gente non può che ritenere che la sua vita sia di gran lunga preferibile rispetto a quella dell’uomo giusto.

Subito dopo questo appassionato intervento di Glaucone prende la parola Adimanto, che sembra addirittura rincarare la dose in difesa dell’ingiustizia. Il suo discorso, tuttavia, nella sostanza riprende quello di Glaucone, incentrandosi sulla tesi che «nessuno […] è giusto volontariamente, semmai biasima il compiere ingiustizia perché è incapace di farlo per mancanza di coraggio, vecchiezza o qualche altra debolezza» (Rep. 366d). Ai fini del nostro argomento, dunque, le parole di Adimando non fanno che rafforzare quelle di Glaucone e costringere Socrate a impegnarsi non poco per difendere la tesi opposta, ossia che la giustizia e l’uomo giusto siano da preferire. Come è noto, è proprio da qui che Socrate comincia a prospettare la sua città ideale (Rep. 369a), convito che il tema della giustizia non riguardi soltanto il singolo uomo, ma l’intera collettività.

Ebbene, conosciamo il risultato dell’esperimento mentale di Socrate, vale a dire una città giusta perché, come un grande organismo, ciascuno vi occupa il posto che, per natura, gli spetta. Una città in cui la giustizia, poiché è frutto dell’ordine e del sapere, è trasmessa attraverso l’ordine e il sapere. I veri giusti, sembra dire Socrate, sono coloro che sanno e che, sapendo, non possono non essere virtuosi. Tutti gli altri, ne consegue, sono giusti solo nella misura in cui ottemperano al proprio dovere e alla propria natura, beneficiando dell’ordine che i giusti costruiscono e diffondono.

La domanda iniziale, tuttavia, è ancora senza risposta, perché di fatto Platone ha delineato una città ideale, una situazione per lo meno progettuale, se non addirittura utopica: può dunque davvero esistere la giustizia tra gli uomini? Per rispondere a questa domanda, immaginiamo cosa accadrebbe se, come Glaucone ha invitato a pensare, ai giusti venisse dato un anello di Gige: che cosa ne sarebbe della loro giustizia?

Per tentare di osservare la questione da un altro punto di vista, ci avvarremo ancora di un esperimento, ma questa volta di tipo artistico. Si tratta di Rhythm 0, la celebre performance dell’artista serba Marina Abramović, svoltasi alla galleria Morra di Napoli nel 1974, che, sebbene sposti la questione dal piano filosofico-politico a quello filosofico-estetico, continua a mantenere aperta la questione teorica principale da cui siamo partiti.

Si ricorderà che Glaucone ha affermato che la vita del giusto è, fino alla morte, esposta alla calunnia e al potere di chi lo vuole spogliare di ogni apparenza di giustizia. Il giusto, evidentemente, è profondamente innocente, nudo di ogni potere, spogliato da ogni apparenza di vantaggio che possa derivare dalla sua condizione. Fino al punto che nessuno comprende come possa non crollare dinanzi a tali accuse e come possa arrivare a sacrificare la sua stessa vita.

Nel 1974, Marina Abramović non era ancora un’artista affermata. Stava percorrendo la propria strada, elaborando le sue prime performance con un linguaggio forse mai parlato prima o, comunque, che si cominciava a distinguere rispetto ad altri body o performer artist del momento. Dalla metà degli anni Sessanta era già attivo il gruppo del Wiener Aktionismus e, nel 1971, Hermann Nitsch aveva acquistato il castello di Prinzendorf, nei pressi di Vienna, dove svolgeva le inquietanti azioni del suo Orgien und Mysterien Spiel. Anche Vito Acconci, nel gennaio 1972, aveva già tenuto la performance Seedbed, alla Sonnabend Gallery di Soho. Nel 1973, in Italia, Gina Pane aveva realizzato la Azione sentimentale, nella galleria milanese di Luciano Inga Pin, ponendosi all’avanguardia in Europa nel campo delle performance legate alla consapevolezza dell’identità corporea.

Con molti di questi artisti, ma soprattutto con Joseph Beuys, la Abramović era entrata in contatto al Festival di Edimburgo del 1973. In quell’occasione, proprio alla presenza di Beuys tra il pubblico, l’artista serba presentò un’audace performance dal titolo Rhythm 10, una sorta di roulette russa con coltelli e molto sangue. Come lei stessa confessa, fu allora che comprese per la prima volta il senso di quelle performance, che si giocava tutto sul rapporto che il «piccolo sé» della sfera privata di ciascuno di noi intrattiene con «un sé superiore». In questo nuovo spazio di consapevolezza, il dolore e la paura scomparivano e, scrive l’artista, «ero diventata una Marina che ancora non conoscevo».7

In effetti, Rhythm 10 si può considerare l’inizio del percorso artistico di Marina Abramović come performer artist. Nel 1974, ancora una volta alla presenza di Beuys, presso il circolo culturale studentesco SKC di Belgrado, l’artista serba realizzò Rhythm 5, una performance al centro della quale stavano una stella a cinque punte, simbolo tra l’altro del comunismo in cui era cresciuta, e tanto fuoco.

Proseguendo, qualche mese dopo, al museo di arte contemporanea di Zagabria, eseguì Rhythm 2, durante la quale sperimentò su se stessa gli effetti di due pillole, una per malati catatonici e l’altra per schizofrenici. Infine, nello stesso anno, alla Galleria Diagramma di Milano, realizzò Rhythm 4: nuda davanti a un grande ventilatore, l’artista cercava di inspirare più aria possibile, fino a svenire.

In tutte queste performance, Marina Abramović diventò sempre più consapevole di se stessa, sperimentando di volta in volta nuovi modi per usare il suo corpo «come materia prima».8 Tuttavia, le reazioni del pubblico, soprattutto a Belgrado, furono estremamente negative, arrivando a dipingerla come «un’esibizionista e una masochista», il cui posto era soltanto il manicomio.9

Fu probabilmente da questa reazione che nacque il progetto di Rhythm 0. Occorreva partire dalla reazione del pubblico per riflettere sul senso di un percorso e, probabilmente, dell’arte stessa. Il titolo, del resto, rimanda a un nuovo punto di partenza, poiché d’ora in avanti in gioco non ci sarà più soltanto l’artista, ma anche il pubblico e, in un certo senso, l’essenza stessa dell’umano. In effetti, l’artista vuole ora agire direttamente sulle persone, non solo per coinvolgerle nelle performance, ma soprattutto per far loro esperire direttamente gli effetti del fare artistico e sollecitare nuove visioni del mondo. Ogni performance diventa così un esperimento, un modo per rivelare aspetti reconditi della natura umana, un sistema artistico-spirituale, che l’artista negli anni seguenti canonizzerà in un vero e proprio «metodo Abramović».10

La domanda che guidava l’artista in questo nuovo corso era: «Se invece di fare qualcosa a me stessa, avessi lasciato che fosse il pubblico a decidere che cosa fare di me?».11 Questa domanda ci ricollega immediatamente all’anello di Gige e alla questione della giustizia platonica. Che cosa accadrebbe se al pubblico fosse dato l’anello di Gige? In atri termini, se finora a decidere le sorti dell’umanità è stato l’artista, che ha indicato la via che conduce al bello, ora Marina Abramović ribalta la prospettiva: l’artista si denuda, si svuota di ogni potere e lascia che il pubblico si prenda la responsabilità di fare l’opera.

Ebbene, che cosa accadde quella sera alla Galleria Morra, quando Marina Abramović diede al pubblico l’anello di Gige? L’artista si presentò vestita di nero, immobile, davanti a un tavolo con settantadue oggetti di ogni sorta, tra cui un martello, una sega, un piuma, una rosa, un paio di forbici, una penna, un osso d’agnello, uno specchio, uno scialle, una macchina fotografica e una pistola con accanto un proiettile. Alle otto di sera il pubblico cominciò ad arrivare e fu accolto da un foglietto con cui l’artista forniva istruzioni piuttosto precise su come utilizzare l’opera, cioè lei stessa, per 6 ore, dalle 20 alle 2 di notte. E tra le indicazioni, una in particolare ha un indiscutibile senso etico: «Durante questo intervallo di tempo mi assumo ogni responsabilità».12

Paragonata a Socrate, che tiene la sua apologia in tribunale, è come se l’artista ponesse ora la propria impotenza a difesa dell’arte. Un’arte che, da Duchamp in poi, è stata capace di fare praticamente qualsiasi cosa; gli artisti, come novelli Re Mida, hanno trasformato in oro qualunque cosa, perfino un cesso.13 E allora, sembra chiedere l’Abramović, che cosa resta da fare all’artista? Forse la cosa più difficile, cioè spogliarsi di tutto, apparire innocente e impotente, per lasciarsi così realizzare, come un’opera integrale, dal pubblico. Per 6 lunghe ore, l’artista ha dato al suo pubblico l’anello di Gige, la possibilità di non essere visto e fare tutto ciò che vuole.

La prima osservazione degna di nota, racconta l’Abramović, è che, «in genere, le visitatrici dicevano agli uomini che cosa farmi, piuttosto che farlo di persona».14 L’atmosfera prese una piega decisiva solo a notte fonda, quando «nella galleria cominciò ad avvertirsi una certa tensione sessuale». E racconta: «Dopo tre ore un uomo mi tagliò in due la maglietta e me la tolse. La gente mi costringeva ad assumere varie posizioni. […] Ero una marionetta, completamente passiva. A seno nudo». Pian piano le cose si fecero sempre più audaci: «Due tizi mi sollevarono di peso e mi portarono in giro. Mi misero sul tavolo, mi allargarono le gambe e conficcarono il coltello a poca distanza dal mio sesso». Poi, «qualcuno mi punse con gli spilli. […] Qualcuno mi fece un taglio sul collo con il coltello e succhiò il sangue. Ho ancora la cicatrice».15

Probabilmente, la spiegazione più semplice è che la notte avesse richiamato gli ingiusti e che l’anello di Gige avesse fatto far loro finalmente quello che desideravano. In effetti, il pubblico era ormai assorbito totalmente nella performance «e divenne sempre più attivo, come in trance».16 Un uomo basso di statura arrivò persino a prendere la pistola, metterci il proiettile e puntarla al collo dell’artista. Fortunatamente, poco prima di premere il grilletto, qualcun altro dal pubblico lo fermò e lo allontanò dalla galleria.

L’artista aveva rischiato di morire, di non essere più presente alla sua performance. Come ha osservato Danto, del resto, la performance non è un’opera d’arte qualsiasi, prima di tutto perché non è propriamente replicabile. Infatti, essa è inseparabile dal momento e dalla persona che la compie, come se fosse un rituale. Certo, precisa, «gli artisti non sono santi, ma c’è certamente un senso in cui la questione della loro presenza in una performance ha almeno una risonanza nella loro metafisica dell’arte. Come presentiamo una performance quando colei che fa la performance non è più presente?».17

Non è tuttavia esattamente così, perché l’artista è presente, fino al punto di esserlo perfino nell’eventualità che la performance si concluda con la sua morte. La morte dell’artista, in questo caso, non sarebbe affatto un’assenza, bensì la sua presenza estrema. A tale proposito, Danto cita un’intervista di Marina Abramović con Thomas McEvilley, in cui racconta che, quando era in Jugoslavia, pensava che «l’arte fosse un genere di questione tra la vita e la morte» e che, in effetti, alcune delle sue performance prevedessero «la possibilità di morire». E commenta che, «come regola generale, questo tipo di sentimento non fa parte della normale esperienza estetica»,18 ma divenne l’ispirazione principale di molte performance degli anni 1970.

La stessa Rhythm 0, come si è visto, prevedeva la possibilità che qualcuno volesse utilizzare la pistola per uccidere l’artista. L’artista si spoglia di tutto, diventa un oggetto nelle mani del pubblico, fino a prevedere la possibilità stessa della morte. Dunque non è la spiegazione più semplice quella corretta: la notte non aveva attratto gli ingiusti, ma aveva svelato la difficoltà della giustizia.

Assistiamo qui a una sorta di epifania estetica: nel momento stesso in cui l’artista è oggetto, si rivela l’impossibilità della sua morte. L’alterità dell’artista, come si potrebbe dire citando il filosofo lituano Emmanuel Levinas, «resta infinitamente trascendente».19 La sua uccisione è possibile solo perché l’altro, nella sua essenza, è tale assolutamente, indipendentemente da ogni mio potere: «L’omicidio resta un potere su ciò che sfugge al potere».20

Del resto, anche questo è l’insegnamento di Socrate: è stato ucciso, ma nessuno ha ucciso Socrate. L’uomo giusto si è esposto nudo a ogni tipo di potere ma, così facendo, si è sottratto a ogni possibile potere. Marina Abramović ha portato questo concetto nel mondo dell’arte. L’artista si è manifestato, nella sua alterità assoluta, al proprio pubblico; non più un Re Mida, non più un genio capace di scolpire o dipingere opere immortali, bensì un Altro nudo, immobile, che rivolge il suo sguardo innocente e privo di qualsiasi volontà di potere. Del resto, scrive Levinas, «Altri è il solo essere che posso desiderare di uccidere».21 La giustizia, potremmo dire, ha sempre a che fare con l’innocenza e l’innocenza ha uno sguardo che è arduo sostenere.

Nell’azione compiuta quella sera a Napoli si è determinata perciò una «resistenza etica»,22 un rapporto nel quale il potere è trasferito a qualcuno (il pubblico) che può esercitarlo su Altri (l’artista) fino alla possibilità estrema che l’artista stessa possa essere annientata. Chiediamoci però: se ciò fosse avvenuto, il pubblico sarebbe stato forse ricordato come l’artista della performance? O l’Abramović sarebbe rimasta, al di là del potere esercitato, come qualcosa di assolutamente altro rispetto a quel corpo che avrebbe lasciato?

Torniamo allora al tema della giustizia tra gli uomini. Dinanzi all’impotenza, alla resistenza etica, al volto innocente che guarda senza chiedere, come si è comportato il pubblico? La Abramović racconta che, quando la serata finì, si trovò in uno stato pietoso: «Mezza nuda, sanguinante, con i capelli bagnati». E che fu proprio in quel momento che accadde una cosa strana, imponderabile e, probabilmente, inattesa: «D’un tratto, quelli che erano ancora lì ebbero paura di me. Mentre andavo verso di loro, uscirono dalla galleria».23

Che cosa era accaduto? Semplicemente era svanito l’effetto dell’anello di Gige. Il giorno dopo, racconta infatti l’artista, «decine di persone che avevano partecipato all’evento telefonarono in galleria. Dicevano di essere terribilmente dispiaciute; non si erano rese conto di ciò che era successo mentre stavano lì – non sapevano che cosa fosse successo a loro».24 Non che cosa fosse successo all’artista, ma a loro stessi.

La domanda, dunque, è che cosa successe al pubblico. L’artista risponde che è successa la performance, cioè l’opera d’arte. Eppure, è successo anche molto di più. La Abramović, quasi seguendo il discorso di Glaucone e Adimanto, non ha, platonicamente, esposto una sua versione della città ideale governata dalla giustizia. Al contrario, quasi immolandosi alla domanda di giustizia, come ha fatto Socrate, ha superato i limiti della teoria, mostrando col volto del suo corpo indifeso ciò che Socrate stesso probabilmente pensava: la giustizia non è di questo mondo. Basta dare all’uomo un anello di Gige per svelare la sua natura profondamente corrotta.

Sotto questo aspetto, d’altronde, Rhythm 0 ricorda da vicino un esperimento socio-psicologico compiuto appena qualche anno prima, in una domenica d’agosto del 1971, dal professor Zimbardo a Stanford.25 Fu simulato l’arresto di un gruppo di studenti, che vennero messi in una prigione, le cui guardie erano altri studenti. Ebbene, si instaurarono delle sorprendenti dinamiche di gruppo che portarono dei bravi ragazzi di provincia a diventare in breve tempo degli spietati aguzzini. Tanto che Zimbardo si trovò costretto a interrompere l’esperimento prima del previsto.

Un esperimento altrettanto celebre era stato condotto nel 1961 dallo psicologo statunitense Stanley Milgram. L’esperimento di Milgram, in particolare, seguiva di poco il processo Eichmann e mirava a verificare se un uomo potesse veramente andare contro i propri valori morali semplicemente perché stava eseguendo degli ordini. Milgram dimostrò che, in quel contesto, l’obbedienza all’autorità aveva instaurato uno stato di eteronomia, per la quale la gran parte dei soggetti coinvolti fu disposta ad agire contro le proprie convinzioni morali. L’autorità, sia nel caso di Zimbardo che in quello di Milgram, aveva chiaramente funto da anello di Gige.

Tuttavia, se Rhythm 0 fosse solo la conferma che la distinzione tra bene e male non è sempre netta e che gli esseri umani sono, nella loro natura, profondamente corrotti, non avremmo colto il senso più vero dell’arte dell’Abramović, il suo potere catartico e, in fondo, un certo ottimismo circa la nostra possibilità di salvezza. L’artista, infatti, scrive che «noi esseri umani abbiamo paura di cose molto semplici: la sofferenza, la morte». E ci invita a pensare che Rhythm 0 non fosse altro che una messa in scena di tali paure fatta per il pubblico: usandone l’energia, l’artista si liberava dalle sue paure e, nel farlo, liberava anche il pubblico. Quella sera si è dunque svolto un rito, una sorta di tragedia greca che, come uno specchio, rendeva sopportabile e superabile ogni dolore e ogni sofferenza: «Se potevo farlo io, potevano farlo anche loro».26

Si può dunque dire che l’autodisciplina di cui l’artista è capace durante ogni performance è un esercizio di umanità. E che il dolore che prova su di sé sono «come una porta sacra da cui si accede a un altro stato di consapevolezza. Quando varcavi quella soglia si apriva un’altra dimensione».27 L’artista diventa un canale di comunicazione, attraverso il quale si può liberare ogni desiderio più profondo. L’anello di Gige, nel caso di Rhythm 0, ha perfettamente funzionato: il pubblico ha preso coscienza di come i limiti del buon senso, del perbenismo e delle regole sociali non solo occultino passioni indicibili, ma possano essere superati con estrema facilità.

Del resto, esiste una forma di giustizia che è molto semplice da rispettare. Quella formale, esteriore, fatta del rispetto di regole che vigono tra persone perbene. Regole che, come già diceva Glaucone, sono spesso solo una facciata, o che vengono accettate a malincuore per poterne trarre dei vantaggi. L’ipocrisia sociale da cui tale giustizia nasce è il motivo per cui l’anello di Gige riesce così facilmente a smascherarla.

Viene qui in mente un passo del libro X della Repubblica, quando Er racconta esempi di anime che scelgono il proprio futuro destino. Dinanzi ai paradigmi delle vite, la prima anima sorteggiata sceglie una vita terribile, quella di un tiranno tra i peggiori. Una scelta stolta, fatta con leggerezza, che ha portato la povera anima a trascurare alcuni aspetti terribili di quella vita, come ad esempio il fatto che, da tiranno, le toccherà perfino divorare i propri figli. Ora, racconta Er, è degno di nota che tale anima venisse dal cielo, che fosse cioè un’anima che nella vita precedente aveva vissuto in modo virtuoso e giusto, in una città ben governata. Malgrado questo però, commenta Er, essa veniva dal cielo avendo vissuto in una città bene ordinata e, dunque, «partecipando alla virtù per abitudine priva di filosofia». E come lei c’erano molte altre anime che, per minore esperienza di sventure non avevano avuto esperienza del male, e dunque non erano in grado di riconoscerlo (Rep. X, 619d).

È come se Platone ci invitasse a distinguere una giustizia esteriore, coincidente più o meno col rispetto delle regole sociali, da una giustizia interiore, che è possibile scoprire solo se si è in grado di liberarsi dai propri limiti e dagli stereotipi. Una giustizia che sfida il nostro potere, che ci mette a nudo dinanzi a un abisso di senso. In questa sporgenza infinita, nessun uomo è giusto davvero, perché basterebbe un semplice anello di Gige per svelare il male di cui ciascuno è capace.

Al tempo stesso, tuttavia, ogni uomo è giusto, nella misura in cui ha la possibilità di comprendersi alla luce di una purificazione che, per molti, significa espiazione. Le telefonate che giunsero in galleria il giorno dopo Rhythm 0, evidentemente, furono una sorta di confessione, di ammissione di colpa per azioni di cui non ci si credeva capaci. E, dunque, furono anche una richiesta di perdono.

Con questa osservazione ci avviciniamo alla conclusione, richiamando un’altra struggente performance di Marina Abramović, Balkan Baroque, presentata alla XLVII Biennale di Venezia nel 1997. Per 4 giorni e 6 ore, l’artista se ne stava sopra una immensa catasta di ossa di vacca in un sotterraneo del Padiglione Italia. Ogni giorno, per 7 ore, sfregava le ossa fino a pulirle da tutti i brandelli di carne. Col passare dei giorni, le ossa marcivano e imputridivano, l’odore nella stanza si faceva nauseabondo, mentre l’Abramović continuava impassibile a sfregare le ossa. E mentre sfregava, scorrevano su due monitor le immagini dei suoi genitori e lei cantava canzoni popolari jugoslave della sua infanzia.

La performance aveva anche altri dettagli, che qui non occorre raccontare. Balkan Baroque è stata comunque una terribile esperienza di espiazione e di riconciliazione. Espiazione di tutti i mali che la guerra porta con sé, a partire dalle guerre accadute nella polveriera dei Balcani. E riconciliazione con la propria natura, con la propria patria e il proprio carattere, per comprendere che ogni vera guerra è, prima di tutto, con se stessi.

Balkan Baroque fece ottenere alla Abramović il prestigioso Leone d’Oro. E lei, nel discorso di accettazione del premio, disse: «L’unica arte che mi interessa è quella in grado di cambiare l’ideologia della società… L’arte che insegue valori esclusivamente estetici è incompleta».28

Per concludere, si può affermare che, se avessimo un anello di Gige, sicuramente saremmo capaci di compiere le peggiori azioni, al solo scopo di ottenere tutti quei vantaggi che, comportandoci in modo giusto e virtuoso, temiamo di non poter ottenere. Tuttavia, soltanto allora scopriremmo probabilmente che vi è una giustizia dell’anima molto più profonda, la cui ricompensa sta solo in se stessa. Per raggiungere tale consapevolezza, tuttavia, dovremmo esplorare fino in fondo la tragedia dell’esistenza, l’esperienza del dolore e della compassione umana. Nel suo essere Altro, l’artista è quasi un novello poeta tragico, che si denuda di ogni potere e ci permette di partecipare all’opera. L’opera diventa, a sua volta, un tramite, un’esperienza collettiva che ci consente di guardare e tentare di comprendere quella parte di noi che vorrebbe superare i limiti e le prescrizioni. È in questa dimensione nuova dello spirito che, probabilmente, diventa perfino possibile accettare la morte del giusto, poiché in fondo egli è presente: non si può mai veramente ucciderlo, come nel caso di Socrate.


  1. Su questo cfr. Platone, Lettera VII, 324a-326b (tr. it. di M.G. Ciani, in Platone, Lettere, Arnoldo Mondadori, Milano 2002). ↩︎

  2. Cfr. K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 1, Platone totalitario, tr. it. a cura di D. Antiseri, Armando, Roma 2003, in part. pp. 117-118. ↩︎

  3. Marina Abramović, Rhythm 0, performance presso la Galleria Studio Morra, Napoli, 1974. ↩︎

  4. Edizione di riferimento: Platone, Repubblica, tr. it. di M. Vegetti, Bur-Rizzoli, Milano 2017. ↩︎

  5. K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit., p. 290, nota 39. ↩︎

  6. A.C. Danto, Danger and Disturbation. The Art of Marina Abramović, in Marina Abramović. The Artist is Present, ed. by M. Christian, The Museum of Modern Art, New York 2010, p. 28. ↩︎

  7. M. Abramović, Attraversare i muri. Un’autobiografia, tr. it. di A. Pezzotta, Bompiani, Milano 2017, p. 75. ↩︎

  8. Ivi, p. 82. ↩︎

  9. Ivi, p. 83. ↩︎

  10. Solo per fare un esempio, nel 2012 al PAC di Milano si è svolta una complessa performance dal titolo «The Abramović Method», in cui il pubblico ha potuto sperimentare su di sé l’opera d’arte come esperienza fisica, emotiva e concettuale. Tuttavia, il climax del metodo era stato già raggiunto al MOMA di New York nel 2010, con l’appassionante ed estenuante performance «The artist is present». ↩︎

  11. Ibidem↩︎

  12. Ivi, p. 84. ↩︎

  13. Dalla celebre Fountain, un comune orinatoio che, siglato da Duchamp «R. Mutt 1917», diventò un’opera d’arte, molti autori si sono cimentati con l’idea che sia l’artista a decidere che cosa è arte. Nel 1961 fece scalpore la Merda d’artista, 30 grammi di escrementi che l’autore, Piero Manzoni, chiuse in una scatoletta e vendette a peso d’oro. Più di recente, nel 1991, l’appropriation artist Sherrie Levine ha replicato la fontana di Duchamp in bronzo levigato effetto oro. Fino ad arrivare a Maurizio Cattelan, che nel 2016 ha realizzato, in uno dei bagni del Guggenheim Museum di New York, l’opera America, un water placcato in oro 18 carati, perfettamente funzionante. ↩︎

  14. M. Abramović, Attraversare i muri, cit., p. 85. ↩︎

  15. Ivi, p. 85. ↩︎

  16. Ivi, p. 86. ↩︎

  17. A.C. Danto, Danger and Disturbation, cit., pp. 28-29. ↩︎

  18. Ivi, p. 29. ↩︎

  19. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2004, p. 201. ↩︎

  20. Ivi, p. 203. ↩︎

  21. Ivi, p. 204. ↩︎

  22. Ibidem↩︎

  23. M. Abramović, Attraversare i muri, cit., pp. 86-87. ↩︎

  24. Ivi, p. 87. ↩︎

  25. Cfr., ad esempio, Ph.G. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008. ↩︎

  26. M. Abramović, Attraversare i muri, cit., p. 88. ↩︎

  27. Ivi, p. 107. ↩︎

  28. Ivi, p. 269. ↩︎