L’immagine dialettica. Lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin

1. Introduzione

Il passaggio dalle immagini arcaiche del Moderno al pieno dispiegamento dell’immagine dialettica avviene soltanto nell’ultimo scritto di Benjamin, le tesi Sul concetto di storia, che, oltre ad essere una sorta di testamento spirituale del filosofo, sono anche, nell’intentio dell’autore, l’introduzione metodologica al libro incompiuto su Baudelaire. Il concetto noologico di immagine dialettica si assume il compito di costruire un nuovo metodo storico e dialettico e per questo viene, in un certo senso, «storicizzato».1 I tre paradigmi (nel significato di modello di intelligibilità dato a questo termine da Thomas Kuhn) della storia, che il critico Stephane Mosès individua nel pensiero di Benjamin (e cioè il teologico, l’estetico e il politico, con il secondo che funge da medium per gli altri due), si riassumono alla fine proprio nel concetto di immagine dialettica delle Tesi, che assume quindi una funzione epistemologica ben precisa: come si forma un’immagine nella storia (che per questo è dialettica)? Le Tesi vanno lette sia dal punto di vista politico che teologico, senza tralasciare nessuno dei due aspetti: «La stessa ambivalenza delle tesi […], si rivela in realtà filologicamente falsa, perché all’interno della cultura ebraica è tutt’altro che assurdo pensare il messianismo in termini storico-politici così terreni e concreti da poter ipotizzare anche una qualche forma di materialismo messianico o di messianismo materialistico.2»

Anche nelle Tesi il carattere distruttivo del metodo benjaminiano precede necessariamente il principio costruttivo, in quanto soltanto dopo aver spazzato via le false concezioni della storia è possibile lasciare spazio all’immagine dialettica. L’obiettivo polemico è soprattutto lo historismus con la sua fede nel progresso e una concezione continuistica del tempo: «I momenti distruttivi: demolizione della storia universale, eliminazione dell’elemento epico, nessuna immedesimazione con il vincitore. La storia dev’essere spazzolata contropelo. La storia della cultura come tale viene a cadere: dev’essere integrata nella storia delle lotte di classe.3» A questo punto è possibile costruire una nuova concezione della storia che sia in grado di leggere la vera tradizione, la tradizione degli oppressi, nelle immagini dialettiche che appaiono nel discontinuum del tempo storico soltanto nell’attimo del pericolo. Bisogna redimere il passato e per farlo è necessario istituire la nuova tradizione.4 Entriamo ora concretamente nel dettaglio delle Tesi.

2. La I tesi

Nella prima tesi introduttiva Benjamin riprende il saggio di Edgar Allan Poe (nella versione tradotta da Baudelaire), Il giocatore di scacchi di Maelzel,5 per identificare metaforicamente i due poli a partire da cui intende formulare un nuovo concetto di storia: il materialismo storico (identificato con l’automa giocatore di scacchi) e la teologia (rappresentata dal nano gobbo che lo guida). Il materialismo storico è, come afferma Rolf Tiedemann, l’intera Apparatur costituita dal fantoccio, dal nano, dalla scacchiera e dal tavolo corrispondente.6 Fuor di metafora, è chiaro che l’azione politica del marxismo non potrà essere incisiva, nei tempi bui del nazismo, soltanto con il suo metodo dialettico, senza un intervento esterno. In questo caso la teologia ha un significato soprattutto storico, in quanto indica lo sguardo per una nuova concezione del tempo e della storia che possa indirizzare l’intervento rivoluzionario della classe oppressa che lotta.7 Tuttavia, anche se il senso teologico prevalente in questa tesi, e nell’economia complessiva delle altre, è soprattutto questo, non si può espungerne completamente l’aspetto trascendente, e quindi il suo significato religioso letterale. La salvezza in Benjamin è disperata, ha bisogno del lavoro concreto degli uomini nel presente, ma non è possibile ottenerla soltanto con le proprie deboli forze. In altri termini, essa può venire solo dal lato escatologico. È necessario però interpretare l’intervento della teologia nella storia, come guida per la salvezza, sul piano etico-politico: bisogna agire per modificare la realtà mettendo in gioco la propria vita con la consapevolezza che non si ha nulla da perdere in questa vita, in quanto l’azione, rispetto alla passività sconfitta in partenza, ha perlomeno il vantaggio della scommessa, della speranza che qualcosa possa davvero cambiare. In caso di sconfitta resta la speranza in un’altra vita, nella ricompensa del giusto, anche se si tratta di una speranza ‘disperata’. Se analizziamo la tesi riferendoci al saggio di Poe, notiamo subito che Benjamin introduce il termine automa (Automaten) in senso negativo: infatti l’automa non si muove da solo, ma è dato per scontato che sia guidato dall’interno da un nano gobbo (ein buckliger Zwerg). In realtà, Poe scrive che l’ipotesi del nano è soltanto un primo tentativo di spiegazione dell’abilità dell’automa, in un pamphlet pubblicato a Parigi nel 1785 (di cui non viene citato l’autore). In un libro successivo di M. I. F. Freyhere, pubblicato a Dresda nel 1789, e in un saggio pubblicato su un settimanale di Baltimora (di cui non viene riportato il nome dell’autore e la data di pubblicazione, che Poe ritiene essere il pamphlet a cui si riferisce Sir David Brewster nelle sue lettere sulla magia naturale che tiene presente nel suo saggio), non si parla più di un nano bensì di un ragazzo molto magro e alto per la sua età (nel primo caso) e di una persona normale (nel secondo). Lo stesso Poe dichiara di aver probabilmente identificato la persona nascosta nell’Automa di Maelzel in un uomo di nome Schlumberger, di statura media e con le spalle molto incurvate (quando invece l’automa apparteneva ancora al suo inventore, il barone von Kempelen, l’uomo nascosto era probabilmente un italiano del suo seguito). Benjamin, dunque, che considera veritiera la ricostruzione razionale di Poe, non lo segue fino in fondo e si serve soltanto dell’immagine metaforicamente più efficace per il suo discorso, il nano gobbo, che è l’immagine speculare della «teologia, che oggi, com’è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere.8». Per comprendere il ruolo che il filosofo tedesco assegna nelle Tesi alla teologia, è necessario analizzare una figura popolare dell’immaginario collettivo della sua infanzia, l’omino con la gobba (ein bücklicht Männlein), di cui parla in un pezzo del libro autobiografico Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Benjamin allude a una filastrocca molto popolare che leggeva nel suo Deutsches Kinderbuch e la cui figura lo accompagnò per tutta la vita:

In cantina voglio andare, il mio vino voglio bere; un omino con la gobba ahimè compare e si beve il mio bicchiere. […] In cucina voglio andare, a scaldare il mio brodino; un omino con la gobba ahimè compare e mi rompe il pentolino. […] Nella stanza voglio andare, a mangiare il panpepato; un omino con la gobba ahimè compare, e metà ne ha già mangiato.9

Il nano gobbo della prima tesi non allude quindi a una persona reale, ma ad un’immagine dell’infanzia che ‘muta di funzione’ (in senso brechtiano) diventando la metafora della teologia in un contesto storico più ampio della propria esperienza personale (che rimane comunque sullo sfondo in quanto, in Benjamin, non è possibile separare la riflessione critica da quella psicologico-soggettiva). All’omino gobbo è dedicato anche un paragrafo del celebre saggio del 1934 su Franz Kafka, e non è un caso che ricorra a questa figura per rappresentare lo scrittore praghese come un «fallito» e per accostarla al personaggio più kafkiano, Odradek:«Questo ometto è l’inquilino della vita distorta; e svanirà quando verrà il Messia, di cui un gran rabbino ha detto che non intende mutare il mondo con la violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo.10» L’omino gobbo è anche il titolo del primo capitolo della biografia su Benjamin di Hannah Arendt, e la sua non è stata una scelta casuale. Infatti, la caratteristica principale dell’esistenza di Benjamin fu la sfortuna e l’incapacità di modificare le condizioni della propria vita:

Con una precisione che ricordava quella di un sonnambulo, la sua imperizia lo conduceva inevitabilmente sempre al centro della sfortuna, o dovunque qualcosa di analogo potesse celarsi. Così, nell’inverno del 1939-40, il pericolo di bombardamenti gli fece decidere di lasciare Parigi alla volta di un luogo più sicuro. Be’, non fu sganciata una sola bomba su Parigi, ma il luogo nel quale Benjamin si rifugiò, Meaux, era un centro di assembramento di truppe e probabilmente uno dei pochi luoghi della Francia seriamente a rischio in quei mesi di guerra annunciata.11

In un breve racconto del 1935, Rastelli erzählt, Benjamin introduce per la prima volta la metafora del nano: Rastelli narra, infatti, di un giocoliere famoso che con un semplice pallone riusciva a creare le più svariate figure. In realtà dentro il pallone vi era nascosto un nano dotato di grandissima abilità, che riusciva a compiere quegli esercizi straordinari rispondendo a ogni minimo impulso del giocoliere. Ma il giorno in cui questi riuscì a svolgere l’esibizione con risultati ancora più sorprendenti, il nano non si trovava dentro il pallone perché era a letto ammalato e, quindi, senza rendersene conto, aveva operato da solo come se il nano ci fosse.12 Le analogie con la prima tesi sono sorprendenti, ma ci sono anche delle differenze significative: in questo racconto, pur essendo la presenza del nano significativa per la riuscita dell’esibizione, tuttavia non è decisiva. Il giocoliere, con la sua forza di volontà, riesce addirittura meglio da solo che in presenza del nano. Mi sembra chiaro che è il contesto storico che cambia la situazione: nel racconto del 1935 l’ottimismo e la fiducia di Benjamin nei confronti del materialismo storico e dell’utilizzo in senso progressista dei nuovi mezzi tecnici di comunicazione è al massimo, mentre dopo lo scoppio della guerra e il patto Ribbentrop-Molotov del ’39 il suo pessimismo diventa radicale, ripercuotendosi inevitabilmente nel suo ultimo scritto. Riprendendo la lettura benjaminiana del saggio di Poe, un altro particolare importante è «il sistema di specchi», che precede l’introduzione della figura del nano gobbo: «Con un sistema di specchi veniva data l’illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato.13».

Se gli specchi servono per dare l’illusione che la macchina (l’Automa) funzioni da sola, mentre in realtà funziona soltanto grazie al nano gobbo che la guida, di conseguenza ci si illude soltanto che il materialismo storico possa funzionare da solo, mentre in realtà ha necessariamente bisogno della teologia per poter funzionare davvero. In altri termini, dopo la fiducia incondizionata nel marxismo dei primi anni Trenta, Benjamin recupera il messianismo apocalittico della teologia che è presente in sottofondo in tutta la sua produzione. Lo storico materialista deve dunque ora assumersi una precisa responsabilità etica, prima ancora che politica, ed è sulla base della decisione presa che si giocano il presente e il futuro del materialismo storico e della rivoluzione (anche se non basta più la decisione di una categoria di intellettuali a determinare in modo decisivo il rovesciamento dello status quo). Il rapporto insolito tra teologia e marxismo che il filosofo tedesco instaura nel suo pensiero è stato attualizzato negli ultimi decenni dalla teologia della liberazione in America Latina, con la differenza che in quest’ultimo caso si tratta della teologia cristiana e non ebraica. A questo proposito scrive Michael Löwy: I milioni di cristiani che si sono ispirati a questa teologia, nelle comunità di base o attraverso le pastorali popolari, hanno avuto un ruolo fondamentale nella rivoluzione sandinista in Nicaragua (1979), nello sviluppo della guerriglia in America Centrale (El Salvador, Guatemala), nella formazione del nuovo movimento operaio e contadino brasiliano — il Partito dei lavoratori (PT), il Movimento dei lavoratori senza terra (MST) — e anche nell’esplosione delle lotte indigene in Chiapas. In effetti, la maggior parte dei movimenti politici rivoluzionari latino-americani nel corso degli ultimi trent’anni ha avuto a che fare, a diversi livelli, con la teologia della liberazione.14

3. La II tesi

La seconda tesi inizia con una citazione di Lotze da Mikrokosmos, che permette a Benjamin di collegare l’immagine/idea della felicità (das Bild/Vorstellung von Glück) con l’idea di redenzione (die Vorstellung der Erlösung): «Una delle peculiarità più notevoli dell’animo umano, — dice Lotze — è, accanto a un così grande egoismo nel singolo, la generale mancanza d’invidia di ogni presente per il proprio futuro.15». Pur rifiutando una concezione religiosa della storia, Lotze influenza in modo decisivo Benjamin sul rapporto tra l’idea di progresso e la redenzione:

L’idea che, sia pure in modo imperscrutabile, il progresso della storia accada anche per le generazioni che passano, questa fede soltanto, ci consente di parlare di un’umanità così come facciamo.16 Il termine Erlösung ha un significato sia teologico (la salvezza) che politico (la liberazione) e Benjamin lo riprende quasi certamente da La Stella della Redenzione di Franz Rosenzweig che conosceva molto bene.17

In questa tesi Benjamin accentua il legame dell’idea di felicità con ciò che è stato piuttosto che con la speranza in ciò che sarà. Di più: la felicità guarda sempre al passato, non al futuro che è incerto. Si appiglia con rimpianto a ciò che è perduto, non a quello che potrà accadere. Ma è proprio questo legame con il passato che potrà permettere la redenzione futura. Il futuro, in altri termini, potrà essere modificato soltanto se lo sguardo dello storico (e dell’inconscio collettivo delle masse) sarà in grado di leggere certi contenuti del passato. Il cambiamento del futuro dipende dal cambiamento del passato. Felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi. In altre parole, nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.18

In questa tesi è evidente il legame tra la componente individuale, psicologica e soggettiva del ricordo (propria dello storico) e la redenzione collettiva, politica, delle masse oppresse che combattono in nome di generazioni di vinti. In Benjamin il primo aspetto non è superato dal secondo, ma coesiste con esso, ed è una chiara ripresa del concetto di mémoire involontaire che si sforza di recuperare l’Erfahrung individuale e complementare/collettiva. Pertanto non è giusticabile una lettura estetica della storia che non sia anche etico — politica: Lo storico, così come l’attore della storia, non può strappare all’istante la scintilla messianica che esso contiene, se non è mosso da una preoccupazione diversa da quella (certamente indispensabile) della mera conoscenza: se non è mosso dalla propria responsabilità per il passato e per l’avvenire che gli sono affidati.19 Il tempo storico non può essere soltanto, e principalmente, un tempo estetico, in quanto l’attualizzazione (o la Jetztzeit) presuppone un rapporto reale, concreto, tra l’immagine del passato e il presente. Così per Robespierre (come per la moda) l’immagine del passato, l’antica Roma, viene attualizzata proprio in quanto viene realizzata nel suo presente. La concezione dell’immagine dialettica in Benjamin ha un forte significato politico: riattivare un’immagine del passato significa concretamente utilizzarla per modificare il presente, per rivoluzionarlo. Non si tratta di una semplice sequenza di immagini cinematografiche che colpisce l’immaginario degli spettatori (anche se l’«origine» dell’immagine dialettica è sostanzialmente questa), ma di un’occasione per modificare lo status quo. L’interpretazione poetica delle Tesi non basta. I termini estetici utilizzati da Benjamin sono soprattutto metafore che non si esauriscono semplicemente nel ricordo, altrimenti non servirebbero a nulla. Si può discutere sull’efficacia del senso politico (accanto a quello estetico) dell’immagine dialettica (di cui dubito anch’io, che propongo infatti una lettura in termini di immaginario collettivo, e dunque noologica, di essa), ma non si deve disconoscere l’intentio di fondo di Benjamin.

Riprendendo la lettura politica della tesi, si può dire che una situazione politica rivoluzionaria non può sorgere per caso, in quanto non esiste una legge di sviluppo della storia che porti inevitabilmente, in futuro, ad una società senza classi. È necessario che prima cambi l’atteggiamento psicologico dello storico nei confronti del passato, nel medium del ricordo suscitato dalla memoria involontaria. Qui si presenta, a mio avviso, una prima aporia (che attraverserà tutte le Tesi): con quali mezzi lo storico può favorire l’azione politica delle masse? Il cambiamento di sguardo nei confronti del passato non rischia di restare chiuso soltanto a livello psicologico-soggettivo (e giustificare così la sola posizione estetica)? In realtà, chiamando in causa un’intera generazione (con il pronome noi), Benjamin pensa ad un mutamento di sguardo collettivo mediante quel concetto (che non è stato affatto approfondito nelle Tesi e nel Passagenwerk) di inconscio collettivo, che dovrebbe portare al risveglio dal sogno una parte significativa delle masse. Il ruolo dello storico con il suo metodo dialettico non può che essere di «guida» a questo risveglio, alla presa di coscienza cioè di possedere «una debole forza messianica» (eine schwache messianiche Kraft). Debole in quanto la situazione è disperata, e Benjamin dispera che possa effettivamente riuscire. Il suo pessimismo storico e il suo fallimento di intellettuale riguardano entrambi gli aspetti di questo discorso: da un lato l’improponibile compito affidato allo storico nel momento del pericolo di poter riuscire davvero a fungere da guida (anche perché non c’è tempo da perdere contro il fascismo); dall’altro la reale efficacia dell’inconscio collettivo per il risveglio della coscienza di massa. Mi sembra che il filosofo tedesco proponga una strategia storico-politica alternativa che sa già in partenza essere inefficace nel proprio tempo e che può essere più utile alle generazioni future per riscattare questa generazione di vinti.20 Una seconda aporia riguarda sempre il rapporto del presente con il passato. Non è solo la generazione presente di Benjamin ad essere stata attesa sulla terra, bensì ogni generazione presente (compresa la nostra) è sempre attesa dalle generazioni passate di vinti. Che cosa rende dunque un determinato presente qualitativamente migliore di un altro? Certamente, come scriverà più avanti, quello che coglie l’adesso della conoscibilità (la Jetztzeit) nell’attimo di pericolo ed è in grado così di attivare la forza o scarica rivoluzionaria. Ma se è così, non tutte le epoche storiche hanno davvero la possibilità di cogliere la Jetztzeit (sul piano conoscitivo) e la corrispondente chance rivoluzionaria per il passato oppresso, ma soltanto quelle rivoluzionarie (o epoche di decadenza, per usare un termine di Alois Riegl). In altri termini, con un concetto che formalmente significa la continuità di una condizione (il rapporto costante tra le generazioni passate e la nostra), si giustifica la discontinuità degli eventi storici (epoche rivoluzionarie contra epoche normali). Non solo, ma viene presupposto implicitamente una discontinuità anche delle cosiddette epoche rivoluzionarie, in quanto quella del presente vissuto da Benjamin dovrebbe (al momento della stesura delle Tesi) riscattare completamente il passato e, pertanto, essere qualitativamente migliore delle epoche precedenti in quanto, come insegna la storia, tutte le rivoluzioni che sono già avvenute non sono state in grado di riscattare del tutto il passato, né sono state in condizioni di farlo. La concezione discontinua della storia, pur rompendo il continuum della tradizione, crea a sua volta, se così si può dire, un continuum del discontinuum, per cui non si può privilegiare soltanto il rapporto del presente con il passato, ma considerare come elemento determinante, ancorchè incerto, il futuro. Qualcosa del genere pensa anche Enzo Rutigliano che scrive: «La storia degli oppressi è collocata nelle crepe di questo continuum. Il materialista storico deve ricostruire un altro continuum e con esso identificarsi: quello di queste crepe, delle rotture.21»

Sulla possibilità di recuperare davvero il passato l’interlocutore di Benjamin è ora Max Horkheimer. Questi, a proposito della possibilità di redimere il passato, nella celebre lettera a Benjamin del 16 marzo 1937 scrive:

Sulla questione in quale misura l’opera del passato sia definitivamente conclusa, ho riflettuto da molto tempo. […] L’asserzione della non-definitività è idealistica, se in essa non è sussunta quella della definitività. L’ingiustizia passata è avvenuta e definitivamente conclusa. Gli uccisi sono veramente uccisi. La Sua affermazione è, alla fin fine, teologica. Se si prende del tutto sul serio la non-definitività, bisogna credere al giudizio universale.22

La risposta di Benjamin è decisamente proustiana, cioè una risposta «teologica» che, di fatto, elude in parte il problema storico-politico:

Il correttivo di questi ragionamenti sta nella riflessione che la storia non è solo una scienza, ma anche, e non meno, una forma della rammemorazione. Ciò che la scienza ha «stabilito», può essere modificato dalla rammemorazione. La rammemorazione può fare dell’incompiuto (la felicità) un compiuto e del compiuto (il dolore) un incompiuto. Questa è teologia; ma nella rammemorazione noi facciamo un’esperienza che ci vieta di concepire la storia in modo fondamentalmente ateologico, per quanto non ci sia lecito tentare di scriverla in concetti immediatamente teologici.23

4. Le tesi III,IV e V

Non è un caso che la terza tesi sposti l’accento in una direzione prettamente messianica, il giorno del giudizio (der Tag der Jüngste): «Certo, solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti».24 L’umanità redenta (erlösten Menschheit) è impossibile nel contesto storico, come ammette lo stesso Benjamin. Il compito disperato dello storico materialista è di essere un «cronista» che raccoglie tutti gli avvenimenti grandi e piccoli della storia senza perderne alcuno. Questo atteggiamento dimostra, a mio avviso, che il filosofo tedesco è pienamente consapevole dell’impossibilità del compito dello storico per la sua generazione: si raccoglie tutto perché non si conosce la via giusta e si dispera di poterla trovare. Da qui deriva il suo fallimento consapevole. L’alternanza delle tesi materialistiche con quelle teologiche non è casuale: la speranza debole si alterna alla consapevolezza che il riscatto non potrà avvenire in questa vita. È questo il movimento delle Tesi.25 In questa tesi il ruolo del cronista ‘cambia di funzione’proprio in quanto coincide con quello dello storico materialista: egli non deve più soltanto constatare gli avvenimenti per interpretarli, ma leggerli per modificarli alla luce dell’attimo di pericolo del presente che è un attimo rivoluzionario. Il cambiamento nella praxis risulta ora determinante. L’altro concetto-chiave della tesi, il Giudizio finale, qui è inteso come una apocatastasi, come scrive lo stesso Benjamin in questo passo del Passagenwerk:

Piccola proposta di metodo per una dialettica della storia della civiltà. È molto facile operare per ogni epoca, nei suoi differenti «ambiti», bipartizioni secondo punti di vista determinati, di modo che da un lato si situi la parte dell’epoca “fertile”, “colma di futuro”, “vitale” e positiva, e dall’altro quella inutile, arretrata e morta. Solo se si traccia il profilo di questa parte positiva di contro a quella negativa, si potranno fare emergere i suoi contorni in modo netto. Ma d’altra parte ogni negazione ha il suo valore solo come sfondo per i tratti del vitale, del positivo. Per questo è di decisiva importanza riapplicare alla parte negativa, che prima era stata eliminata, una divisione, di modo che, con uno spostamento dell’angolo visuale (ma non dei parametri applicati!) riemerga anche in essa un lato positivo e diverso da quello prima designato. E così via all’infinito, fino a che tutto il passato sia immesso nel presente in una apocatastasi storica.26

La quarta tesi è materialistica e riprende le indicazioni da fornire allo storico per la costruzione di un nuovo metodo, insieme etico e politico. Il compito dello storico nella lotta di classe (der Klassenkampf) è di rimettere sempre in discussione il potere del vincitore di turno utilizzando al meglio le sue qualità che non sono teoretiche ma pratiche: «fiducia, coraggio, gaiezza, astuzia, perseveranza».27

Il coraggio rivoluzionario potrà venire soltanto se si inverte la direzione dello sguardo in direzione del passato che può essere ancora riscattato. In questo modo si comprende come in Benjamin il presente conservi il suo rapporto privilegiato con il passato subordinando a esso il futuro, che è il tempo della speranza, senza tuttavia poter prescindere da esso: «Come i fiori volgono il capo verso il sole, così, per un eliotropismo di natura misteriosa, ciò che è stato tende a rivolgersi verso quel sole che sta per sorgere nel cielo della storia. Di questo, che tra tutti i mutamenti è il meno appariscente, deve intendersi il materialista storico.28»Il sole è appunto quello dell’avvenire (una delle immagini più famose del movimento operaio), non del presente, a cui guardano, e questa è la novità, anche le generazioni passate di sconfitti. La speranza, che nasce dal riscatto del passato, riguarda il futuro e non il presente, e così si spiega il suo inserimento anomalo in un contesto in cui viene criticata la fiducia nel progresso e nell’inevitabilità della rivoluzione secondo le previsioni di Marx. L’anomalia si risolve facilmente considerando che il presente non ha un rapporto lineare e continuo con il passato (ciò che è stato) e il futuro (la speranza), ma dipende necessariamente dal rapporto tra il passato e il futuro. Senza questo rapporto il presente non avrebbe alcuna chance da offrire. Il compito dello storico è proprio quello di portare a consapevolezza ciò che nelle rivoluzioni del passato è stato colto soltanto a livello intuitivo e che ora deve farsi metodo costruttivo: il rapporto imprescindibile tra passato e futuro. Quest’immagine indica qualcosa di diverso dalla dottrina ufficiale del marxismo e della socialdemocrazia: la rivoluzione futura ci sarà soltanto se il passato sarà redento, quindi solo se cambia il metodo storico. La speranza è condizionata dalla riuscita di questo lavoro già a partire dal presente (che di per sé non può essere redento, secondo il pessimismo malinconico benjaminiano). Riprendendo il motto rielaborato di Gottfried Keller, «La verità non ci scapperà»29, nella quinta tesi Benjamin inizia la polemica contro lo storicismo proponendo il concetto-chiave della sua filosofia: l’immagine dialettica (nelle Tesi non compare l’aggettivo dialettica in quanto, a mio avviso, Benjamin avrebbe concentrato nel termine Bild un significato prettamente storico, che conserva tuttavia in sé anche il precedente significato estetico e linguistico). La vera immagine del passato guizza via. È solo come immagine che balena, per non più comparire, proprio nell’attimo della conoscibilità che il passato è da trattenere. […] Infatti è un’immagine non rievocabile del passato quella che rischia di scomparire con ogni presente che non sia riconosciuto inteso in essa.30

In alcune versioni è aggiunto questo passo significativo dal tono pessimistico (espunto forse dalla versione definitiva proprio per questo): «La lieta novella che lo storico, con il respiro ansante, reca al passato viene da una bocca che forse, già nell’attimo in cui si apre, parla nel vuoto.31»

Qui avviene la trasformazione del concetto di immagine (Bild) dal suo significato originario di tipo estetico-linguistico (che tuttavia conserva) a quello di immagine della storia (nel suo rapporto con il passato e il presente in vista del futuro). Benjamin ci avverte del pericolo di perdere quest’immagine repentina, senza riuscire a fare davvero i conti col passato. Infatti «la vera immagine del passato» è un’esperienza che le generazioni passate hanno fatto sporadicamente nelle situazioni rivoluzionarie, quasi sempre fallendo. Ci sono almeno due diverse modalità di lettura del passato tra i vincitori e i vinti: sono soltanto questi ultimi ad avere interesse a rievocare le immagini degli asserviti delle epoche storiche precedenti, mentre i primi, detentori del potere, rievocano soltanto la storia ufficiale, cioè quello che a loro conviene. Pertanto la partita non si può giocare sul piano estetico, ma, per essere davvero efficace, soprattutto su quello politico. Il ricordo delle immagini da parte della memoria involontaria della coscienza dello storico può certamente facilitare il cambiamento storico (basti pensare alla Giornata della memoria il 27 gennaio di ogni anno, che tuttavia è frutto di una memoria volontaria, consapevole), ma non può certo modificare i rapporti di forza tra chi detiene il potere e chi resta asservito. L’immagine balenante diventa dunque un monito a non perdere tempo, se si vuole evitare che vincano definitivamente i regimi totalitari, ma il ruolo dell’intellettuale non è più sufficiente e di questo Benjamin è pienamente consapevole. Per questo motivo le tesi sono autobiografiche: sono, in altri termini, l’arma intellettuale di cui dispone per indicare un percorso futuro nella ridefinizione del patrimonio culturale (Kulturgüter).32

5. Le tesi VI, VII e VIII

Nella tesi successiva (la sesta) Benjamin afferma esplicitamente, in contrapposizione al detto di Ranke di poter conoscere il passato «proprio come è stato davvero», che bisogna impossessarsi del ricordo (Erinnerung) in un «attimo di pericolo»: è solo nei momenti estremi che può essere recuperato il passato strappandolo alla lettura conformistica dominante. Su questo concetto si basa la «svolta copernicana» della nuova visione della storia, come scrive chiaramente in un appunto del Passagenwerk:

La svolta copernicana nella visione storica è la seguente: si considerava «ciò che è stato» come un punto fisso e si vedeva il presente sforzarsi di avvicinare a tentoni la conoscenza a questo punto fermo. Ora questo rapporto deve capovolgersi e ciò che è stato deve diventare il rovesciamento dialettico, l’irruzione improvvisa della coscienza risvegliata. La politica consegue il primato sulla storia. I fatti diventano qualche cosa che ci colpì proprio in quest’istante, fissarli è compito del ricordo. E in effetti il risveglio è il caso esemplare del ricordo […]. C’è un sapere-non-ancora-cosciente di ciò che è stato, la cui estrazione alla superficie ha la struttura del risveglio.33

Il risveglio, però, non assume soltanto una valenza politica (che richiede cioè la responsabilità dell’azione dell’uomo), ma piuttosto teologico-politica, con l’introduzione della figura del messia:

Il messia infatti viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l’Anticristo. Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.34

Il passo è estremamente indicativo: la lettura teologica (il messia) e quella politica (l’Anticristo da sconfiggere) sono interconnesse. La figura dell’Anticristo è evidentemente il Terzo Reich, il cui potere si collega ai vincitori e dominatori di sempre per consolidare la tradizione storica dominante, in cui i vinti di ieri e di oggi non hanno voce. Il compito del materialismo storico, pertanto, non è puramente estetico, letterario, ma fondamentalmente politico (o meglio estetico-linguistico in funzione del politico). Solo l’azione rivoluzionaria, per nulla pacifica, contro il dominio del nazionalsocialismo può accendere la speranza in un futuro diverso che possa riscattare (redimere) il passato dei vinti e il presente. La vittoria del futuro risiede nel passato: solo così è possibile ritrovare le energie giuste per contrastare la barbarie che sembra inarrestabile. Il messia ha un significato nello stesso tempo teologico e politico: è grazie allo sguardo messianico del recupero dell’autentico rapporto con il passato, della vera esperienza, che è possibile la chance rivoluzionaria. Tuttavia il pessimismo di Benjamin non esclude che la restitutio in integrum possa avvenire al di fuori della storia. Il tono apocalittico è piuttosto evidente nella triste consapevolezza che anche nel presente il nemico non ha smesso di vincere e che la lotta, oltre che urgente, è disperata. Questo pessimismo, a mio avviso, collega la speranza più nel rapporto tra il futuro (anche immediato) e il passato che tra il presente e il passato. Il filosofo tedesco aveva ben presente la dottrina neotestamentaria dell’Anticristo (anticipata in Ezechiele, 38-39), ed è dall’analisi di questa figura che può emergere la prospettiva escatologica accanto a quella storica (che in questa tesi è largamente prevalente, per la concezione tipicamente ebraica del messia, che attinge anche a testi cristiani). Nella Prima lettera di Giovanni (2, 18-22), ad esempio, è scritto:

Figlioli, questa è l’ultima ora. Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo conosciamo che è l’ultima ora. Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri. Ora voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza. Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità. Chi è il menzognero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio.35

Nell’Apocalisse è simboleggiato l’Anticristo nella potente immagine della «bestia che sale dall’Abisso», identificata con l’imperatore Nerone, che fronteggia «i due Testimoni» di Dio di cui si sta parlando (11, 7-13):

E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso. Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. Gli abitanti della terra faranno festa su di loro, si rallegreranno e si scambieranno doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo, un soffio di vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo: «Salite quassù» e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici. In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città; perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti presi da terrore davano gloria al Dio del cielo.36.

La critica allo storicismo emerge con forza nella settima tesi con l’esplicito riferimento a Fustel de Coulanges: la vera posta in gioco nella concezione della storia è il patrimonio culturale (Kulturgüter).37 L’Einfühlung (immedesimazione emotiva, tradotta nella versione francese con identification affective) è sempre con il vincitore, ed è questa la forza principale dei detentori del potere rispetto al materialismo storico che, preso dall’acedia e dalla tristezza (Benjamin fa qui riferimento a Flaubert), per l’impotenza a contrastare questo aspetto, non è in grado di recuperare nel passato la tradizione dei vinti.38

Il compito principale dello storico è di prendere le distanze dal patrimonio culturale dominante per riscrivere la storia. Infatti tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d’insieme, del patrimonio culturale gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatto, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo della trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico, quindi, prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.39 Questa tesi è dunque teorica: si occupa del nuovo metodo storico da contrapporre alla tradizione storicista dominante, che è fondamentale per il mantenimento del potere del vincitore di turno. Benjamin affida allo storico un ruolo chiave per preparare la strada all’azione rivoluzionaria possibile.40 L’élite dominante si appropria del patrimonio culturale integrandolo nel suo sistema di potere ed escludendo l’aspetto più significativo: il lavoro di schiavi, contadini, operai che con il loro sacrificio hanno eretto i grandi monumenti che sono serviti a mantenere vivo il ricordo dei loro sovrani ma non il loro. Bisogna, in altri termini, recuperare la memoria dei senza-nome (Gedächtnis der Namenlosen). Su questo punto scrive Löwy:

Un esempio latino-americano recente ci aiuta a capire cosa significhi l’esigenza di «spazzolare la storia contropelo»: la celebrazione del quinto centenario della scoperta delle Americhe (1492-1992). I festeggiamenti culturali organizzati dallo Stato, dalla Chiesa o su iniziativa privata sono chiari esempi di empatia con i vincitori del XVI secolo — una Einfühlung che avvantaggia invariabilmente i governanti di oggi: le élite finanziarie locali e multinazionali, che hanno ereditato la potenza degli antichi conquistadores.41

Il concetto di barbarie, usato in questo contesto in un’accezione negativa, che si ricollega alla poetica di Brecht (non a caso presente nella citazione in epigrafe da L’opera da tre soldi)42,è stato dapprima introdotto da Benjamin con un significato positivo, come reazione alla perdita dell’esperienza, nello scritto del 1933 Erfahrung und Armut:

Che valore ha allora l’intero patrimonio culturale, se proprio l’esperienza non ci congiunge ad esso? […] Sì ammettiamolo: questa povertà di esperienza non è solo povertà nelle esperienze private, ma nelle esperienze dell’umanità in generale. E con questo una specie di nuova barbarie. Barbarie? Proprio così. Diciamo questo per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie. A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal Nuovo; a farcela con il poco; a costruire a partire dal Poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra.43

L’ultima frase, a mio avviso, contiene in nuce, con molta chiarezza, il rapporto tra lo storico materialista e la classe oppressa che lotta che stiamo analizzando nelle Tesi. La lotta per il patrimonio culturale potrà riuscire soltanto se muta lo sguardo dello storico nei confronti del passato. Qui non si tratta semplicemente di recuperare la tradizione degli oppressi contra la tradizione culturale dominante, ma di capovolgere completamente la percezione storica, considerando, come ci dice la tesi ottava, che lo stato d’eccezione è ormai diventato la regola, rappresenta cioè la storia dell’oppressione di classe. Questo concetto, mutuato dal saggio di Carl Schmitt Teologia politica (1921) e già presente nel Dramma barocco tedesco, è la chiave per il recupero del passato dei vinti, a partire da cui è possibile affrontare la lotta contro il fascismo.44 In realtà Benjamin dà un significato completamente diverso allo stato d’eccezione schmittiano: mentre in quest’ultimo esso è frutto della decisione del sovrano nel vuoto di legittimazione del potere che lo circonda, diventando l’effettivo criterio di misura del suo potere reale, nel primo lo stesso concetto, messo tra virgolette, si riferisce alla tradizione degli oppressi e al bisogno urgente di agire nell’attimo del pericolo per contrastare efficacemente il fascismo imperante.

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato d’eccezione» in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione, migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. Il compito dello storico è pertanto duplice: da un lato deve riscrivere la storia in modo discontinuo, seguendo l’altra tradizione, quella degli oppressi, dal punto di vista delle rotture della storia rappresentate dalle rivoluzioni e dalle rivolte (per cui lo stato d’eccezione è la regola in quanto rottura del continuum della tradizione culturale predominante). Dall’altro, il suo impegno deve essere, nel presente, soprattutto politico, e suscitare l’azione rivoluzionaria contro l’oppressore dominante (in nome quindi del vero stato d’eccezione, che sia in grado di modificare in modo irreversibile la realtà storica che si sta vivendo, abolendo definitivamente l’oppressione dominante con l’avvento di una società senza classi).

È un’indicazione morale prima ancora che culturale quella che Benjamin ci offre: al patrimonio culturale dominante dei vincitori bisogna opporre la memoria del passato dei vinti, che è poi la consapevolezza di dover agire nel rischio estremo proprio perché non si ha più nulla da perdere. L’azione rivoluzionaria potrà riuscire soltanto se saranno recuperati gli stimoli sufficienti a intraprenderla, che sopraggiungeranno esclusivamente dal passato e dalla memoria collettiva. Al centro di questa tesi vi è dunque la critica al concetto di progresso, che bisogna superare per salvare la vera tradizione. Da qui deriva l’ironia di Benjamin alla fine della tesi:«Lo stupore perché le cose che noi viviamo sono «ancora» possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l’idea di storia da cui deriva non è sostenibile»45.

6. La tesi IX

La tesi centrale è la nona: la tesi dell’angelo della storia. Essa nasce da una costante meditazione dell’acquerello di Paul Klee dal titolo Angelus Novus, in possesso di Benjamin dal 1921. C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.46Per comprendere la figura dell’angelo, e il suo significato esistenziale e storico nello stesso tempo, bisogna partire da un breve scritto benjaminiano del 1933 in due stesure dal titolo Agesilaus Santander e dall’interpretazione che ne ha dato Gershom Scholem.47 Benjamin descrive il carattere effimero di certi angeli: «La Kabbalah racconta che Dio crea ad ogni istante un numero sterminato di nuovi angeli, tutti destinati soltanto a cantare per un attimo le sue lodi davanti al suo trono prima di dissolversi nel nulla.48».È chiaro che il suo Angelus Novus né come angelo personale né come angelo della storia riesce ad assolvere questo compito, in quanto nel primo caso si trattiene troppo a lungo a fissare l’uomo che ha davanti (Benjamin stesso), mentre nella tesi non ha alcuna possibilità di portare a compimento il suo compito storico «di destare i morti e riconnettere i frantumi». Scholem mette in luce l’aspetto teologico e mistico del pensiero dell’amico, presente, a suo avviso, anche nelle ultime opere. Inoltre sottolinea a ragione l’aspetto personale, autobiografico di molti scritti benjaminiani, comprese le Tesi. Egli, che aveva una certa familiarità con il quadro di Klee, scrisse anche una poesia dal titolo «Saluto dall’angelo» dedicata a Benjamin nel 1921 per il suo compleanno, e non è un caso che il filosofo tedesco citi la prima strofa in epigrafe.49 Il commento di Scholem a questo scritto benjaminiano è fondamentale per comprendere l’angelo della storia. Il termine angelo in ebraico è identico a quello di messaggero (mal’akh). Benjamin si riferisce innanzitutto alla tradizionale immagine giudaica dell’angelo personale di ogni essere umano che rappresenta l’io segreto di lui e il cui nome tuttavia gli resta celato. L’io celeste di ogni essere umano (così come ogni altra cosa creata) è intessuto, in forma angelica ma in parte anche nella forma del suo nome segreto, in un velario che pende davanti al trono di Dio. Questo angelo, naturalmente, può trovarsi anche in contrasto e in un rapporto di forte tensione con la creatura terrena cui è associato, come si rispecchia nelle espressioni usate da Benjamin nell’Agesilaus Santander.50 Nelle meditazioni benjaminiane sul quadro di Klee è presente anche l’elemento luciferino della bellezza satanica che proviene invece da Baudelaire. A questo proposito, Löwy cita due strofe di due poesie dai Fleurs du mal che potrebbero aver influenzato la tesi: Une gravure fantastique (l’infinito, ventoso cimitero/dove dorma la gente della storia / sotto i raggi d’un sole bianco e smorto) e Femmes damnées (Scendete, scendete, vittime lamentevoli, / correte nell’inferno senza scampo! / Giù nel più fondo abisso, dove insieme, / flagellati da un vento che non viene dal cielo, / ribollono i delitti come un sordo uragano!).51

Il titolo del testo, infatti, è un’anagramma (di cui Benjamin era appassionato e che utilizza già nel Dramma barocco tedesco) di «Der Angelus Satanas» con l’aggiunta di una pleonastica i. Lo scritto è autobiografico perché descrive l’infelice amore di Benjamin per Jula Cohn, di cui aveva preso coscienza in ritardo (per questo scrive di essere nato sotto Saturno, «il pianeta delle diversioni e dei ritardi»). Subito dopo egli descrive come una forza la sua pazienza nell’attendere che condivide con l’angelo, che è sicuramente Satana perché possiede artigli e grinfie. Ma la mia pazienza, che al pari dell’angelo possiede artigli e ali affilate come lame, non accenna a precipitarsi su colei che ha avvistato. Impara dall’angelo, che avvolge con lo sguardo il partner ma poi retrocede a scatti, inarrestabilmente: se lo tira dietro in quella fuga verso un futuro da cui proviene.52 L’angelo riflette lo sguardo melanconico dello stesso Benjamin, qui perfettamente speculare al melanconico allegorista Baudelaire descritto alcuni anni dopo:

Ma l’angelo somiglia a tutto ciò da cui io sono stato costretto a separarmi: alle persone e particolarmente alle cose. Nelle cose che non ho più, egli alberga. Le rende trasparenti, e dietro ciascuna di esse mi appare la persona cui è dedicata: per tale ragione io sono insuperabile nel donare. Anzi, l’angelo è stato forse attratto da un donatore rimasto a mani vuote.53

L’angelo di Klee proviene dal futuro verso cui ritorna, traendosi dietro il partner umano che sta guardando in volto, «rendendolo in tal modo partecipe di ciò ch’egli in effetti vuole, la felicità».54 Nella stesura definitiva la via del ritorno non sarà una fuga verso il futuro utopico. La felicità viene descritta da Benjamin in modo dialettico (e la possiamo collegare allo stesso tema della II tesi):

Egli vuole la felicità: il contrasto in cui l’estasi dell’unicità, della novità, del non ancora vissuto, è unita a quella beatitudine della ripetizione, del recupero, del vissuto. Perciò egli non ha speranza di novità per altra via che non sia quella del ritorno, quando conduce seco un nuovo essere umano. Così come io, non appena ti ho veduta per la prima volta, ho fatto ritorno con te colà donde sono venuto.55

Nell’economia generale delle Tesi, la dialettica della felicità tra novità e ripetizione (che è il tema centrale dell’interpretazione di Baudelaire e della modernità) non è altro che il rapporto tra il presente e il passato del tempo qualitativo e discontinuo della rammemorazione (Eingedenken). Attualizzare il passato significa riattivarlo per salvarlo nella memoria: è possibile cioè far rivivere quel che è stato nell’attimo assolutamente nuovo del presente. È questo il compito dello storico materialista.56Rispetto all’interpretazione dello scritto Agesilaus Santander, nella tesi l’angelo sembra allontanarsi da ciò che afferra con lo sguardo. L’angelo non porta più la felicità, anzi rappresenta l’orrore del tempo storico con l’espressione del volto (bocca aperta e occhi spalancati per lo stupore e il terrore) e le ali aperte al volo. Volge le spalle al futuro e guarda in faccia il passato: in questo modo indica al materialista storico qual è la posizione giusta per interpretare gli eventi storici del passato alla luce del presente. La sua percezione è opposta a quella dello storicismo: invece di una catena di eventi che si succedono dal passato al presente (e che sono accumulati nel patrimonio culturale), l’angelo vede la catastrofe, le rovine, le macerie della storia. Dall’origine, il paradiso terrestre, proviene una tempesta che lo spinge inarrestabilmente nel futuro impedendogli di portare a compimento la sua missione, che è quella di «destare i morti e riconnettere i frantumi». In questo modo le macerie non fanno altro che aumentare sempre, inesorabilmente. In altri termini, quel che si crede essere il progresso non è altro che catastrofe permanente. Una considerazione a parte va fatta sul paradiso delle origini. È da lì che parte la tempesta, cioè l’accumularsi degli eventi della storia, e per questo motivo lo sguardo dello storico, che è lo sguardo dell’angelo con in più una debole forza messianica, deve indirizzarsi idealmente proprio in quel punto per cogliere l’immagine dell’Erfahrung autentica. Ma non si dà memoria storica di questo punto d’origine, il passato preistorico della società senza classi, così come non si dà esperienza della lingua pura divina da cui procedono le lingue storiche dopo la caduta post-adamitica. Questo punto d’origine si dà solo come immagine autentica, da cui derivano le immagini dialettiche che solo nell’istante della Jetztzeit possono essere recuperate storicamente. Pertanto si può avere rammemorazione soltanto di quelle immagini che nella loro autenticità rinviano alla loro origine, e che nella loro concentrazione monadologica racchiudono il senso di un’altra storia, di un altro tempo, di un’altra lingua.

L’angelo della storia non può essere il messia, ma viene piuttosto identificato da Benjamin con se stesso e, in senso lato, con lo storico materialista.57 Qui emerge con molta evidenza il pessimismo storico benjaminiano: nell’attimo del pericolo, nel presente che sta vivendo, pur avendo indicato all’intellettuale i criteri per una nuova metodologia della storia opposta a quella dello storicismo (compresi la socialdemocrazia e il marxismo), egli non crede affatto che si possa portare a termine questo compito. La speranza non è per noi, sembra dire con Kafka, ma per le generazioni future. Il futuro, però, qui ha un significato diverso da quello che si attendono coloro che guardano al progresso e all’ineluttabilità della rivoluzione. L’angelo, infatti, gli volge le spalle, in quanto il futuro è assolutamente incerto, proprio in quanto il passato non è stato ancora redento a causa dell’impotenza del lavoro dello storico nella situazione presente. Nella lettura complessiva delle Tesi, Benjamin lascia una debole speranza che non permette di identificare completamente il lavoro dello storico con quello dell’angelo: all’impotenza assoluta di quest’ultimo il primo risponde con un lavoro teorico e politico volto a tentare di modificare il proprio presente. Tuttavia la Bild dell’Angelo è necessaria per rendere consapevole lo storico della direzione in cui deve guardare e agire: l’altra tradizione con un altro tempo, un’altra scrittura e un’altra politica. La centralità di questa tesi, che non riguarda soltanto la sua collocazione cronologica (che altro senso avrebbe altrimenti l’aver tolto una tesi importante, la XVIII, nella versione definitiva e utilizzato le lettere anziché i numeri per le ultime due, anch’esse espunte dalla versione finale, se non ci fosse stata la precisa volontà di porla al centro?), è un indizio importante della consapevolezza di Benjamin del suo fallimento: il pessimismo storico ed esistenziale è radicale (l’angelo non può nulla) e la speranza semmai è affidata all’utopia messianica escatologica. Se il compito dello storico (qui l’angelo), infatti, è determinante per preparare l’azione rivoluzionaria della classe oppressa (il messia di cui parla in altre tesi), sembra ormai che non sia in grado di portare a termine il suo compito. Rimane soltanto il compito culturale: recuperare lo sguardo dell’angelo e volgere le spalle all’ottimismo del progresso (rivolto al futuro) guardando in faccia il passato a partire da cui si accumulano macerie. Il problema dunque rimane: la tempesta non si può certo arrestare. Ed è indicativo il fatto che essa provenga dal passato, il paradiso dell’origine, il paradiso terrestre: come afferma la dottrina cabbalistica del tiqqun, lo stato originario dell’armonia divina è stato spezzato dallo shevirat hakkelim, la «frantumazione dei vasi», e questa rottura non può essere restaurata dagli uomini, ma soltanto da un intervento escatologico di tipo messianico. Solo così si potrà sperare nella restitutio in integrum. A questo proposito scrive Scholem:

il paradiso è nel contempo origine e remotissimo passato dell’uomo, nonché l’immagine utopica del suo futuro di redenzione — in una concezione più ciclica che dialettica del processo storico.58

Secondo Bonola e Ranchetti è proprio la figura dell’angelo della storia, che percepisce la storia come catastrofe a parte Dei, la grande invezione di Benjamin nelle Tesi:

L’angelo, nella sua visione trascendentale vede ovunque nella storia il negativo e la necessità della redenzione, cui egli, semplice angelo, non può provvedere (e anzi, si trova perfino nell’impossibilità di arrestarsi). Il materialismo storico invece è in grado di agire, di trasformare la condizione del mondo perché, opera d’uomo, è provvisto di una, sia pure debole, forza messianica e può compiere azioni messianiche. Ma se non perverrà alla chiara avvertenza della portata globalmente (e quindi anche teologicamente) soterica della propria azione, sarà privo del discernimento dei tempi e quindi della tempestività necessaria all’efficacia del suo intervento.59

Löwy inoltre considera la società senza classi del futuro in un certo senso come il ritorno al comunismo primitivo, anche se non del tutto coincidente con esso:

Per Benjamin, la società senza classi dell’avvenire — il nuovo paradiso — non costituisce un ritorno puro e semplice a quella della preistoria: essa contiene in sé, come sintesi dialettica, tutto il passato dell’umanità. La vera storia universale, fondata sulla rammemorazione universale di tutte le vittime senza eccezione — l’equivalente profano della resurrezione dei morti — sarà possibile solo nella futura società senza classi.60

7. Le tesi X, XI, XII e XIII

La decima tesi, prevalentemente politica, inizia assegnando un compito teologico alle Tesi nel loro complesso: per recuperare il vero senso della storia è necessario estraniarsi dal mondo (dall’attualità politica e dalle teorie del progresso), come fanno i monaci. Questo compito apparentemente teorico deve, però, immediatamente rivolgersi alla praxis per modificarla. Non a caso subito dopo Benjamin rivolge un attacco diretto al marxismo e alla sua linea politica, come conseguenza soprattutto del patto Ribbentrop-Molotov del 1939:

«In un momento in cui i politici nei quali avevano sperato gli oppositori del fascismo giacciono a terra e confermano la loro sconfitta col tradimento della loro stessa causa, esse si propongono di liberare i figli del secolo politici dalle pastoie in cui quelli li hanno irretiti.61»

Ma il pessimismo, fin troppo evidente, del filosofo tedesco è tutt’altro che passivo. Il soggetto di questa tesi e le riflessioni in essa contenute hanno una funzione politica ben precisa: portare ad una nuova concezione della storia come viatico per una rivoluzione possibile. Possibile soltanto se si inverte il rapporto tra struttura e sovrastruttura e si prende coscienza che quest’ultima può essere determinante per il mutamento di funzione della prima. Che il compito sia pratico e non puramente teorico è detto nello scopo dichiarato che riprende un’espressione di Goethe: «liberare i figli del secolo politici (das politiche Weltkind, nella versione francese enfants du siècle) dalle pastoie in cui quelli li hanno irretiti».62

L’attacco al marxismo non è antimarxiano, ma un diverso modo di utilizzare la dottrina per l’azione rivoluzionaria. Il distacco dallo stalinismo e dall’ideologia è una diretta conseguenza della critica all’idea di progresso che attraversa buona parte delle Tesi. Qui la critica, oltre che alla fiducia nel progresso, si estende anche alla fiducia marxista nella «base di massa» e all’«apparato incontrollabile» (nella versione francese Benjamin traduce con confiance aveugle dans le parti), che convergono nello stesso punto (la critica al concetto di apparato è un elemento in comune con l’analisi del totalitarismo sovietico di Morin). La tesi si conclude con un tono amaro: la nuova concezione della storia, radicalmente alternativa alla complicità della politica marxista con la tradizione dei dominatori di turno e la loro idea di progresso, «costerà cara». Il filosofo tedesco non intende rinunciare a lottare, ma capisce bene che nel presente sarà pressochè impossibile cambiare le cose. Non a caso scrive in un appunto dal Passagenwerk: «L’esperienza della nostra generazione: il capitalismo non morirà di morte naturale».63

La tesi undicesima riprende il pensiero genuino di Marx, che Benjamin contrappone al marxismo imperante e al conformismo della socialdemocrazia, che si basava già nell’Ottocento sulla fede nello sviluppo tecnico e su una concezione positiva del lavoro (compreso il lavoro di fabbrica), riprendendo in forma secolarizzata l’etica protestante del lavoro già analizzata da Max Weber. Il programma di Gotha e l’opera di Josef Dietzgen sono considerati precursori del fascismo con la loro visione del lavoro come progresso continuo nello sfruttamento e dominio della natura, che nasconde abilmente il vero problema, che è lo sfruttamento del proletariato. Questo concetto volgarmarxistico di lavoro «vuol tenere conto solo dei progressi del dominio della natura, non dei regressi della società».64

Nel saggio su Fuchs Benjamin anticipa questa critica al concetto socialdemocratico del lavoro inserendolo nel processo di fallimento della ricezione della tecnica nel secolo diciannovesimo:

Ma la tecnica non è evidentemente un fatto puramente scientifico. Essa è anche un che di storico. Come tale, essa impone di verificare la separazione positivistica, antidialettica, che si era cercato di stabilire tra le scienze della natura e quelle dello spirito. Le domande che l’umanità pone alla natura sono tra l’altro condizionate dallo stadio a cui è giunta la produzione. È questo il punto su cui fallisce il positivismo. Nello sviluppo della tecnica, esso riconosce i progressi della scienza naturale, ma non i regressi della società. Non si rende conto del fatto che a condizionare questo sviluppo concorre, in modo decisivo, il capitalismo. Allo stesso modo coloro che tra i teorici socialdemocratici erano positivisti non si resero conto che questo sviluppo rendeva sempre più precario l’atto, che peraltro si dimostrava sempre più urgente, con cui il proletariato avrebbe dovuto impadronirsi della tecnica stessa. Non riconobbero il lato distruttivo di questo sviluppo perché erano ormai lontanissimi dall’aspetto distruttivo della dialettica.65

Il riferimento a Fourier in questa tesi è fondamentale per comprendere la struttura noologica e immaginale della concezione politica di Benjamin, agganciata fortemente alle utopie socialiste pre-quarantottesche ed essa stessa utopistica nella sua forma.66 Dopo due tesi in cui è all’opera il carattere distruttivo benjaminiano, con la tesi dodicesima inizia a intravedersi anche il procedimento costruttivo, a partire dall’iniziale epigrafe antistoricista ripresa da Sull’utilità e il danno della storia per la vita di Nietzsche (il cui peso nella critica allo storicismo delle Tesi non è stato considerato abbastanza).67 Riprendendo ancora Marx (il cui pensiero intende recuperare per metterlo al servizio di un’altra concezione della storia e dell’azione rivoluzionaria) scrive: «Il soggetto della conoscenza storica è di per sé la classe oppressa che lotta».68 La lotta viene condotta nel modo giusto quando la sua azione liberatrice si volge indietro al passato delle generazioni vinte per riscattarlo. Questo modo di agire è presente nei due esempi che Benjamin riporta in questa tesi: il rivoluzionario Blanqui e la Lega di Spartaco (Spartakusbund), fondata da Rosa Luxemburg (per cui la coscienza di classe scaturisce dalla lotta operaia) e Karl Lienknecht, che già nel nome si collegava alla rivolta degli schiavi guidati da Spartaco contro Roma e che voleva portare a termine quell’ azione nel suo presente storico. L’errore della socialdemocrazia, criticata anche in questa tesi, è stato invece «di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future.69». In tal modo, la classe rivoluzionaria ha perso le qualità essenziali della sua forza emancipatrice, l’odio e la volontà di sacrificio, che «si alimentano all’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati».70 In altri termini, è guardando al passato e non al futuro che si possono trovare le energie necessarie per trasformare la realtà in senso rivoluzionario. La stessa Rivoluzione russa, come scrive in alcune versioni delle Tesi, ha realizzato il suo compito proprio guardando ai vinti morti del passato piuttosto che ai discendenti futuri, come è sintetizzato magistralmente con la parola d’ordine: «nessuna gloria ai vincitori, nessuna pietà ai vinti».71

Benjamin ha probabilmente cassato questa parte nella versione finale per evitare che il suo lavoro fosse oggetto di equivoci: la sua, infatti, è una critica al marxismo nella versione stalinista, non allo spirito e agli ideali della Rivoluzione russa (da lui letta e interpretata dal punto di vista di Trotskji). La proposta politica di queste Tesi è l’azione rivoluzionaria in sé a favore degli oppressi e dei vinti di sempre, e pertanto non può non guardare con favore a qualunque rivoluzione si sia mossa in passato seguendo questo spirito emancipatore. In questa tesi, in particolare, è evidente l’influenza di Storia e coscienza di classe (1923) di Lukács, secondo cui il marxismo rappresenta il punto di vista di classe del proletariato che è insieme soggetto dell’azione storica e soggetto della conoscenza.72

«Nella conclusione di una versione precedente della tesi il pessimismo storico nei confronti del presente è scritto chiaramente: se una generazione lo deve sapere è la nostra: ciò che possiamo attenderci dai posteri non è la gratitudine per le nostre imprese, bensì che vi sia memoria di noi che siamo stati battuti.»73 Questa è una dichiarazione di fallimento non solo personale, ma anche del suo stesso metodo storico. Infatti, se la storia va letta come un discontinuum (in relazione alla tradizione dei vinti del passato) e va costruita in base alle azioni rivoluzionarie (che rappresentano nella prassi politica questo discontinuum), allora si può solo sperare nel compito teorico (una nuova riscrittura della storia) ma non, almeno nell’immediato, in quello pratico. La storia non è altro che il ripetersi dei fallimenti rivoluzionari in un determinato presente, compreso il suo. Ora, chi ha interesse a leggere la storia sempre e comunque dalla parte degli sconfitti? Gli sconfitti di sempre, o chi ha simpatia per essi. Come è possibile allora trasformare la tradizione dominante senza un reale cambiamento? La redenzione del passato nel presente fallisce sempre e si aggiungono vinti a vinti. Solo la speranza nel futuro (utopica, escatologica, messianica) può davvero redimere il passato, anche se qui si tratta di un futuro atteso non sulla linea del continuum ma del discontinuum. La critica al concetto di progresso della socialdemocrazia (l’epigrafe iniziale è una citazione da Dietzgen) si fa più dettagliata nella tesi tredicesima. Il progresso era visto non solo in senso generale come un progresso dell’umanità, ma anche come interminabile e inarrestabile. Esso, infatti, seguiva spontaneamente «un percorso diritto o a spirale».74 In questo passo si trova l’unico accenno alla teoria dell’eterno ritorno come sostanzialmente identica alla concezione del tempo rettilineo, in quanto entrambe percorrono un tempo omogeneo e vuoto che guarda soltanto in direzione del futuro senza modificare il passato. Su questa ingenua concezione della socialdemocrazia sul progresso della società umana Benjamin, nel saggio su Fuchs, scrive:

La concezione deterministica si accompagna così a un incrollabile ottimismo. Alla lunga, nessuna classe potrà operare politicamente con successo senza la fiducia. Ma la differenza sta in questo: si tratta di vedere se l’ottimismo concerne la capacità d’azione della classe oppure invece le circostanze in cui la classe è chiamata ad operare. La socialdemocrazia era incline a questo secondo e alquanto discutibile ottimismo. La prospettiva della incipiente barbarie, che era balenata a Engels in La condizione della classe operaia in Inghilterra, a un Marx nella prognosi sullo sviluppo capitalistico, e che oggi è ovvia anche per un mediocre uomo politico, per gli epigoni della fine del secolo era bloccata.75.

È proprio la critica a tale concezione del tempo, a suo avviso, il fondamento per una critica all’idea di progresso, in quanto questa si regge su quella. L’idea di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto. La critica all’idea di tale procedere deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso.76

Il progresso tecnico e scientifico non porta automaticamente al progresso dell’umanità, anzi gli oppressi possono acquistare la libertà soltanto con le interruzioni, siano esse rivolte o rivoluzioni, fondando pertanto un discontinuum del processo storico.

8. La tesi XIV

Oltre ad essere aporetica, la nuova concezione della storia non è neanche così semplice da tematizzare, come dimostra un appunto dei materiali dal Passagenwerk in cui si trova esattamente la concezione opposta (discontinuum della tradizione dominante, continuum degli oppressi) a quella definitiva delle Tesi:

Per il dialettico materialista la discontinuità è l’idea regolativa della tradizione della classe dominante (e quindi in primo luogo della borghesia), la continuità l’idea regolativa della tradizione degli oppressi (e quindi in primo luogo del proletariato). Il proletariato vive più lentamente della borghesia. Gli esempi dei suoi militanti, come le conoscenze delle sue guide, non invecchiano, o invecchiano comunque molto più lentamente delle epoche e delle grandi figure della borghesia. Le ondate della moda si infrangono contro la massa compatta degli oppressi. I movimenti della classe dominante hanno invece in sé, una volta che essa abbia raggiunto il potere, un’impronta ‘alla moda’. In particolare le ideologie dei dominatori sono per loro natura più mutevoli delle idee degli oppressi. Esse devono infatti non solo, come queste ultime, adattarsi di volta in volta alla situazione del conflitto sociale, ma anche trasfigurarlo ogni volta in una situazione in fondo armonica, affare questo in cui bisogna procedere in modo eccentrico e a salti.77

La tesi quattordicesima è, a mio avviso, la più importante nella costruzione del metodo storico benjaminiano. Il primo indizio di ciò è la citazione in epigrafe di Karl Kraus: Ursprung ist das Ziel (L’origine è la meta). Al tempo omogeneo e vuoto egli sostituisce esplicitamente la Jetztzeit (l’adesso, che qui appare per la prima volta),78 che assume nello stesso tempo un significato teoretico e storico.

Così, per Robespierre, l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. […] Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.79

In questa tesi emerge chiaramente il procedimento costruttivo di Benjamin che, tuttavia, cela abilmente un’aporia di fondo. Contrapporre al continuum dei vincitori il discontinuum della storia degli oppressi è un’operazione affascinante, ma concettualmente forzata. Se è vero, infatti, che la Rivoluzione francese (come in fondo tutte le rivoluzioni storiche) ha estrapolato un momento del passato (l’antica Roma) per attualizzarlo nell’adesso del suo presente, non si può dire lo stesso dei regimi totalitari? Il fascismo, ad esempio, attualizzando la Roma imperiale, ha, nello stesso modo, volutamente ripreso la grandezza passata per il suo presente. Non è un caso, quindi, che Benjamin abbia subito dopo spostato l’attenzione sulla moda come esempio di recupero del modo di vestire di un determinato passato per volontà di chi ha il potere (che poi impone i suoi gusti alle masse). Il «salto dialettico» della storia ad opera della rivoluzione degli oppressi si contrappone facilmente al salto differente che la classe dominante effettua nella moda. Tuttavia il riferimento a Marx per spiegare la sua concezione della rivoluzione, sebbene accennato, dà un’indicazione precisa dell’intentio di Benjamin: il salto dialettico, la storia come discontinuum della tradizione degli oppressi è rivoluzionario soltanto nella misura in cui riesce a redimere il passato dei vinti e a riscrivere la storia. L’aporia comunque rimane, in quanto nel periodo storico in cui Benjamin scriveva le Tesi, il suo pessimismo è la chiara testimonianza del fatto che non fosse affatto sicuro che il fascismo e il nazismo avrebbero fallito il loro compito. Inoltre, se introduce il suo metodo storico qualitativo come una assoluta novità (e lo è certamente), è perché è convinto che le rivoluzioni del passato (soprattutto la Rivoluzione francese e quella russa) non siano riuscite (né avrebbero potuto farlo) a riscattare il passato dei vinti. Per quanto riguarda la Rivoluzione russa, Benjamin è ora convinto del suo fallimento nello stalinismo, tanto è vero che nelle Tesi la critica al marxismo come dottrina è separata dal recupero del pensiero genuino di Marx e del suo concetto di rivoluzione inteso come «autentico» (come è chiaro anche in questa tesi). Si potrebbe dire che il filosofo tedesco sia ora un marxiano senza riferimenti politici e partitici, e credo che sia questa la chiave giusta per comprendere la dialettica di materialismo storico e messianismo dell’ultima fase del suo pensiero, proprio in quanto il concetto marxiano di rivoluzione è utopistico. Questa aporia ne presuppone altre due ad essa subordinate. Innanzitutto, quando la Rivoluzione francese citava l’antica Roma (questo esempio è tratto da Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte) non si riferiva certo ai popoli vinti dai Romani, agli schiavi, agli oppressi in genere. Per questo motivo era più logica la citazione della grandezza romana intrapresa dal fascismo. In realtà, secondo Benjamin, la Rivoluzione francese non cita l’antica Roma, ma solo un momento di essa, la fase giacobina guidata da Robespierre (non a caso citato esplicitamente) che estrae dal continuum della storia l’attimo dell’antica Roma in cui la Repubblica con Cesare rischia di diventare un Impero. È un’azione fallita nel suo obiettivo primario (l’assassinio di Cesare ad opera di Bruto e Cassio non impedisce, anzi favorisce la nascita dell’Impero romano) che Robespierre vuole attualizzare, fallendo a sua volta. Si accumulano così i fallimenti nella storia, si amplia la memoria dei vinti e si può solo sperare che un determinato attimo del presente (non certo quello in cui si trova a vivere) possa in futuro redimere davvero il passato. Mi sembra chiaro che il presente che guarda al passato debba costruire un ponte tra questo e il futuro. Pertanto la redenzione appartiene al futuro soltanto se il presente non si rivolge ad esso ma al passato. Sulla stranezza della citazione giacobina di Benjamin scrive significativamente Löwy:

Com’è noto, nel Diciotto brumaio Marx aveva duramente criticato le illusioni romane dei giacobini. Benjamin, che non poteva ignorare quel celebre testo, contraddice il fondatore del materialismo storico. Mi sembra che egli abbia insieme torto e ragione: torto, perché la Repubblica romana, schiavista e patrizia, non poteva affatto ispirare gli ideali democratici del 1793. D’altra parte, è stupefacente che Benjamin non menzioni — al posto di Robespierre — ‘esempio di Gracco Babeuf, che non «citava» la Roma antica, ma i tribuni della plebe romana. Le fantasmagorie romane dei giacobini erano certo, come aveva mostrato Marx, una illusione. Ma l’autore del Diciotto brumaio traeva una conclusione affrettata affermando che le rivoluzioni proletarie, diversamente da quelle borghesi, ricevevano la loro poesia dal futuro e non dal passato.80

Se la storia degli oppressi è una storia radicalmente altra, allora Mosès individua un’altra aporia di fondo:

[…] se è vero che la storia degli oppressi è essenzialmente discontinua, come possono — questi raccontarla, cioè svolgerla in una sequenza di avvenimenti, senza imporle — loro malgrado — lo schema della continuità temporale? […] Detto altrimenti: se, a fronte della storia dei vincitori, c’è una tradizione segreta dei vinti, non incombe forse sempre su quest’ultima la minaccia di essere, a sua volta, riassorbita in un’altra forma di conformismo?81

L’aporia fondamentale viene facilmente risolta, o meglio elusa, dallo studioso francese riprendendo i concetti fondamentali della storia secondo Benjamin: la discontinuità, l’arresto del tempo, la rivoluzione, il tempo della festa e del rito.

Il filosofo tedesco a proposito del concetto di rivoluzione è ambiguo: da un lato sembra riconoscere che esiste una differenza anche qualitativa tra le rivoluzioni precedenti e la rivoluzione proletaria che immagina per il presente in cui vive. Dall’altro invece è convinto che anche la possibile rivoluzione del presente fallirà come tutte le altre, augurandosi che le generazioni future siano capaci di portare a termine il compito, ricordando i vinti del suo tempo che hanno lottato per una giusta causa. Certamente per lui solo la rivoluzione dialettica marxiana proletaria può avere il significato della rammemorazione della tradizione dei vinti, degli oppressi, non certamente quelle borghesi, come la stessa Rivoluzione francese, da cui estrapola soltanto la fase giacobina a suo avviso più vicina a quella tradizione. Quel che è certo è che tutte le azioni rivoluzionarie della storia hanno fallito il loro scopo emancipatore verso gli oppressi, e Benjamin è perfettamente consapevole che la rivoluzione in cui spera non sarà quella decisiva. Un’altra aporia riguarda invece il recupero nell’immagine (dialettica) del passato degli sconfitti. Sì, ma di quali? Nella jetztzeit lo storico è in grado di far rivivere solo un aspetto del passato, quindi soltanto la tradizione di un unico popolo di vinti. E gli altri? È per questo motivo che, nel giorno del giudizio finale, solo all’umanità redenta toccherà interamente il suo passato? A me sembra che lo sguardo dello storico materialista, che è lo sguardo dell’angelo, non sia solo individuale e a disposizione di un collettivo, le masse rivoluzionarie. Questo sguardo è già di per sé collettivo: in base alla tradizione culturale di appartenenza e alla propria origine, ciascuno storico potrà riesumare la tradizione dei vinti, degli oppressi a lui più vicina. Solo così la miccia rivoluzionaria potrà accendersi in ogni parte del globo, in Africa rammemorando la tratta degli schiavi e le guerre tribali, nelle Americhe i genocidi degli indiani e degli indios e così via. È qui implicita la potente ripresa del concetto di Trotskji di rivoluzione permanente (non a caso gli scritti di Trotskji sono quelli che maggiormente hanno influenzato i giudizi di Benjamin sulla Rivoluzione russa e lo stalinismo). Nella tesi Benjamin cita il carattere rivoluzionario della moda, a cui dedica la sezione B del Passagenwerk, di cui, in funzione della nuova concezione della storia, gli interessano in particolare la capacità di anticipazione e la dialettica della novità e dell’abituale. Scrive ad esempio:

L’interesse più scottante della moda consiste per il filosofo nelle sue straordinarie anticipazioni. È noto come l’arte sia spesso capace di cogliere, ad esempio in immagini, la realtà percepibile con un anticipo di anni. Si sono potuti vedere strade e saloni scintillanti di luci variopinte già molto prima che la tecnica li illuminasse così per mezzo di pubblicità luminose o di altri dispositivi. Certamente la sensibilità per il futuro propria del singolo artista supera di gran lunga quella della gran signora. Tuttavia la moda, in virtù del fiuto incomparabile della collettività femminile per ciò che si prepara nel futuro, è in contatto molto più costante e preciso con le cose a venire. Ogni stagione porta nelle sue ultime creazioni un qualche segnale segreto delle cose future.82

9. Le tesi XV e XVI

L’aporia teoretica di fondo della concezione della storia di Benjamin emerge anche nella tesi quindicesima: «La consapevolezza di scardinare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione.»83

Questo significa che il suo metodo non è altro che una presa di coscienza, nella riflessione, di qualcosa che emerge inconsciamente e istintivamente nelle classi che portano avanti la rivoluzione, qualsiasi rivoluzione del passato. La grande rivoluzione introdusse un nuovo calendario. Il giorno inaugurale di un calendario funge da compendio storico accelerato [historischer Zeitraffer, nella versione francese une sorte de raccourci historique] . E, in fondo, è sempre lo stesso giorno che ritorna in figura dei giorni di festa, che sono giorni della rammemorazione [nella versione francese aussi bien des jours initiaux que des jours de souvenance.84] L’esempio principale riguarda sempre la Rivoluzione francese, che introdusse nel 1793 un nuovo calendario alternativo a quello tradizionale, accelerando il processo storico. Qui stiamo parlando di una rivoluzione che, dal punto di vista delle masse degli oppressi, ha fallito, e il simbolo di ciò è la messa da parte del nuovo calendario subito dopo la sconfitta giacobina. Benjamin vuol dire che a scardinare il continuum della storia e a introdurre un discontinuum sono le azioni rivoluzionarie, o almeno i loro tentativi. Questo giustifica il suo pessimismo storico: era convinto che nel suo tempo dovesse maturare necessariamente la rivoluzione degli oppressi contro il nazismo, ma era anche consapevole che questo sforzo sarebbe fallito. Fallito proprio nel senso della rivoluzione indicata da Marx. Perciò è legittimo, a mio avviso, parlare di utopia politico-teologica (o messianismo apocalittico) a proposito del suo pensiero, e in questo modo si può anche giustificare lo strano connubio tra il messianismo e il materialismo storico, che trovano così una loro radice comune.85

In un appunto scrive infatti: «Nell’idea della società senza classi, Marx ha secolarizzato l’idea del pensiero messianico».86 Per lui, quindi, marxismo ed ebraismo sono conciliabili. Del resto è la tesi stessa che lo attesta, nel passo citato sopra in cui paragona i giorni della rivoluzione ai giorni di festa (di natura teologica), nel senso che sono giorni che si distinguono dagli altri in quanto introducono all’interno del continuum del tempo quantitativo omogeneo e vuoto degli ‘ora’il tempo qualitativo della rammemorazione (Eingedenken), che è anche il tempo della memoire involontarie di Proust e delle correspondances di Baudelaire.87

Il rapporto tra i giorni di festa e i giorni lavorativi è indispensabile per capire la nuova concezione della storia benjaminiana come dialettica di arcaico e nuovo.88 Secondo Michael Löwy, questa concezione della storia può essere definita un romanticismo rivoluzionario, per cui la rammemorazione (Eingedenken) in contrapposizione al ricordo (Andenken) si ricollega a due campi dell’esperienza perduta: la lotta delle generazioni vinte (le vittime del progresso) e il paradiso perduto, cioè l’esperienza della società senza classi della preistoria. Le società arcaiche dell’Urgeschichte sono così quelle dell’armonia tra l’uomo e la natura, infranta dal «progresso» e da ristabilire nella società emancipata del futuro.89

Che il tempo dei calendari non sia quello degli orologi è testimoniato da un episodio della Rivoluzione di Luglio del 1830 (fallita anch’essa), citato alla fine della tesi, in cui i rivoluzionari spararono contro gli orologi dei campanili per fermare il tempo. Questo è un esempio concreto della coscienza (istintiva) delle masse rivoluzionarie di voler scardinare il continuum della storia. In questo caso è l’azione concreta ad offrire allo storico materia di riflessione teorica.90 È tipico in ogni caso della riflessione di Benjamin sulla storia la dipendenza della teoria dall’azione concreta in una prima fase, a cui segue subito dopo, con un rovesciamento dialettico, l’influenza determinante della teoria sulla prassi (che è il suo contributo principale come intellettuale nelle Tesi). Già nel saggio giovanile del 1916 «Trauerspiel» e tragedia il filosofo tedesco contrapponeva il tempo degli orologi al tempo messianico della storia: «Ma il tempo della storia è diverso da quello della meccanica. Il tempo della storia determina molto di più che la possibilità di spostamenti di una determinata grandezza e regolarità — ossia del movimento della lancetta dell’orologio — durante spostamenti simultanei di struttura più complicata».91

La tesi sedicesima è un ulteriore approfondimento del compito del materialista storico. Scardinare il continuum della storia significa giungere in un determinato punto del presente ad un arresto (Stillstand) del tempo. È proprio questo punto di arresto che permette allo storico di leggere il passato secondo un’esperienza che resta unica in quanto differente dall’interpretazione tradizionale, definitiva, dello storicismo.92 In questo senso per Benjamin il passato non è morto definitivamente: l’appropriazione di esso non è avvenuta una volta per tutte, ma è l’interpretazione dello storico in un determinato presente, nell’attimo del pericolo, che lo può modificare. L’immagine del passato che offre il materialista storico permette un’esperienza unica con esso:

Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica in posizione di arresto. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’adesso è dialettica: non è un processo ma un’immagine, a salti. Solo le immagini dialettiche sono immagini autentiche (cioè non arcaiche); e il luogo in cui le si incontra, è il linguaggio.93

L’espressione «C’era una volta» intesa come una prostituta nel bordello dello storicismo è un’altra indicazione, curiosamente non considerata dai critici, dell’influenza determinante della Seconda Inattuale di Nietzsche nella critica allo storicismo delle Tesi.94 Anche se l’alternativa qui è radicale, a mio avviso non si possono riprendere gli avvenimenti del passato eliminando la tradizione dominante che è compresa in essi. Benjamin lo sa bene e perciò utilizza il metodo storico in funzione politica: il passato si può rileggere e modificare soltanto nell’azione rivoluzionaria del presente. Il lavoro dello storico ha valore soltanto in vista di essa.

10. Le tesi XVII, XVII a, XVIII, A e B

Anche la tesi diciassettesima è teorica: allo storicismo, che utilizza un procedimento additivo per accumulare i fatti storici nel tempo omogeneo e vuoto degli Jetzt, e il cui obiettivo è di scrivere una volta per tutte la storia universale, Benjamin oppone il procedimento costruttivo della storiografia materialista come dovrebbe essere. L’arresto del movimento delle idee introdotto nella tesi precedente è la monade, un altro concetto-chiave che si ricollega al Dramma barocco tedesco. Quando il pensiero si arresta d’improvviso in una costellazione satura di tensioni, le provoca un urto in forza del quale essa si cristallizza come monade. Il materialista storico si accosta a un oggetto storico solo ed esclusivamente allorquando questo gli si fa incontro come monade. In tale struttura egli riconosce il segno di un arresto messianico dell’accadere o, detto altrimenti, di una chance rivoluzionaria nella lotta a favore del passato oppresso. Egli se ne serve per far saltar fuori una certa epoca dal corso omogeneo della storia; così fa saltar fuori una certa vita dalla sua epoca, una certa opera dal corpus delle opere di un autore. Il profitto del suo procedere consiste nel fatto che in un’opera è custodita e conservata tutta l’opera, nell’opera intera l’epoca e nell’epoca l’intero corso della storia. Il frutto nutriente di ciò che viene compreso storicamente ha al suo interno, come seme prezioso ma privo di sapore, il tempo.95 La monade leibniziana nel suo differente rapporto con il tempo favorisce allo stesso tempo un diverso modo di scrivere e interpretare la storia. L’antitesi qui non è soltanto allo storicismo, ma anche all’ermeneutica che da esso deriva (che Benjamin conosceva nell’accezione di Schleiermacher e di Dilthey). Far saltare fuori, estrarre un’epoca, un’opera, una vita non significa semplicemente individualizzare, ma semmai illuminare da una determinata prospettiva le caratteristiche universali di un periodo storico, e inserirlo successivamente nel corso della storia nelle novità che questo ha comportato. Il filosofo tedesco sottolinea inoltre il carattere messianico e insieme politico della struttura monadologica, per cui i due aspetti vanno letti insieme come un’Erma bifronte, due facce della stessa medaglia.96La costituzione della monade avviene, secondo Fabrizio Desideri, attraverso un duplice movimento: da un lato, è prodotta dal pensiero, dal suo arrestarsi, dallo «chock» che questo impartisce ad una «costellazione carica di tensioni»; dall’altro, il pensiero accede ad un oggetto storico, solo allorchè questo gli si presenta come già strutturato monadicamente. La contraddizione qui è — come ha ben visto la Greffrath — soltanto apparente:

questa è una contraddizione, finchè si parte dalla necessità di legare il momento che costituisce la monade ad uno dei suoi lati: o a quello del soggetto che scrive la storia, o a quello dell’oggetto storico. Invece in Benjamin deve essere ipotizzata una doppia determinazione: la storia presenta corrispondenze e costellazioni obiettive, che però nel potenziale critico in esso contenuto, vengono dispiegate solo attraverso la costruzione storico-materialistica.»97

Questo concetto è ribadito nella tesi successiva, la diciassette a: «Nell’idea della società senza classi, Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico.»98 Pertanto il suo è un messianismo secolarizzato sul modello marxiano (anche se il concetto di secolarizzazione deriva quasi certamente dalla Teologia politica di Carl Schmitt). L’errore è stato fatto dalla socialdemocrazia e dal neokantismo ad essa collegato che hanno definito l’ideale, il compimento come un compito infinito (in questa tesi Benjamin cita Schmidt, Stadler, Natorp e Vorländer e Löwy ha scoperto una sorprendente analogia di questo passo con le idee contenute in un quaderno inedito di Scholem).99 In questo modo l’azione rivoluzionaria è stata differita nel futuro introducendo la pratica dell’attendismo. In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria — essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo.100 La chance rivoluzionaria nell’attimo (Augenblick) richiede un’attenta lettura della situazione politica da parte dello storico; tuttavia questo compito non basta. Qui non si capisce bene se lo storico, l’intellettuale materialista, debba fungere da guida (cogliere l’attimo giusto) per l’azione rivoluzionaria delle masse (come sembra pensare Benjamin), oppure se si dà la possibilità che sia la stessa azione delle masse a poter illuminare la situazione politica. Il filosofo tedesco riconosce che l’azione politica rivoluzionaria, dal carattere distruttivo, sia anche un’azione messianica: all’attendismo che guarda alla rivoluzione possibile futura egli intende dare una scossa, sotto forma di uno shock scritturale. La sua è, dunque, innanzitutto un’esigenza etico-politica di risveglio delle coscienze nell’attimo del pericolo. Non c’è tempo da perdere, ma è proprio perché bisogna cogliere al volo la chance rivoluzionaria che, a mio avviso, il suo pessimismo non viene meno: nessuno probabilmente risponderà all’appello. Da qui deriva la lettura ambivalente del messianismo delle Tesi: come cambiamento rivoluzionario nel presente e come attesa escatologica in quanto il compito è superiore alle forze umane. In questa tesi è indubbiamente presente soltanto il primo significato, ma bisogna considerare che questa è una tesi in più poi cassata nella stesura definitiva (se di stesura definitiva è possibile parlare per le Tesi).101 Il concetto di Jetztzeit come modello del tempo messianico viene ribadito come fulmineo, istantaneo, singolare abbreviazione della storia dell’umanità nella tesi diciottesima, in cui viene citato il seguente passo del biologo J. Rostand:

I miserabili cinquantamila anni dell’homo sapiens, — dice un biologo moderno, — rappresentano, in rapporto alla storia della vita organica sulla terra, qualcosa come due secondi al termine di una giornata di ventiquattro ore. La storia dell’umanità civilizzata, riportata su questa scala, occuperebbe inoltre un quinto dell’ultimo secondo dell’ultima ora». L’adesso che, come modello del tempo messianico, riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità, coincide rigorosamente con la figura che la storia dell’umanità fa nell’universo.102

Il concetto di Jetztzeit, alla lettera tempo-ora, viene usato da Benjamin anche in opposizione al livellamento degli jetzt (ora) del tempo quantitativo degli orologi di cui parla Heidegger in Sein und Zeit. Così Desideri marca la distinzione tra le due posizioni su questo punto:

Così, mentre in Heidegger la temporalità «originaria» che si annuncia nel fenomeno altrettanto originario della decisione anticipatrice non può nulla sul tempo indeciso del livellamento degli «ora» in serie continua, in Benjamin è l’indecidibile presentarsi di una incostruibile immagine del passato a interrompere il continuum degli jetzt (degli «ora») e a svelare il tempo storico come radicale discontinuità. La dialettica continuità/discontinuità che percorre tutte le Tesi non ha dunque niente in comune con la distinzione heideggeriana temporalità autentica/inautentica: mentre in quest’ultima si dà un rapporto di fondazione tra due modi egualmente originari di temporalizzarsi dell’Esserci, il continuum/discontinuum benjaminiano implica una intersecazione e una rottura che si configura come distruzione dell’apparenza (di continuità) del tempo.103

Giorgio Agamben trova un’analogia tra l’idea di abbreviazione (Abbreviatur), usata da Benjamin in questa tesi, e il concetto cristiano di anakephala osis («ricapitolazione») che appare nella lettera di san Paolo agli Efesini: «Tutte le cose si ricapitolano nel messia» (Ef. 1, 10).104 Un’immagine efficace dell’abbreviazione del tempo è il passo de Il narratore in cui il filosofo tedesco cita il racconto di Johann Peter Hebel Insperato incontro, che narra di un giovane minatore che muore sul lavoro alla vigilia delle nozze. La fidanzata lo ricorderà per sempre e lo rivedrà un’ultima volta, ormai molto vecchia, quando il cadavere sarà riportato alla luce, dopo molti anni, con il corpo rimasto intatto dalla disgregazione in quanto saturo di vetriolo. Per spiegare i lunghi anni trascorsi tra la morte e il ritrovamento del cadavere, Hebel scrive:

Nel frattempo la città di Lisbona fu distrutta da un terremoto, e passò la guerra dei Sette anni, e morì l’imperatore Francesco I; fu soppresso l’ordine dei Gesuiti, e fu divisa la Polonia, e morì l’imperatrice Maria Teresa, e fu giustiziato Struensee. L’America si liberò, e la forza unita dei Francesi e degli Spagnoli non potè occupare Gibilterra. I Turchi circondarono il generale Stein nella fossa dei veterani in Ungheria, e morì anche l’imperatore Giuseppe. Il re Gustavo di Svezia conquistò la Finlandia russa, e cominciò la Rivoluzione francese e la lunga guerra, e anche l’imperatore Leopoldo II scese nella tomba. Napoleone conquistò la Prussia, e gli inglesi bombardarono Copenaghen, e i contadini seminarono e mieterono. Il mugnaio macinò, i fabbri martellarono, e i minatori scavarono in cerca di vene metallifere nella loro officina sotterranea. Ma quando i minatori a Falun nell’anno 1809. . .105

Bonola si serve dell’interpretazione della storia naturale utilizzata da Hebel per legittimare in un certo senso il recupero del passato di Benjamin. In realtà, in base alla lettera del racconto stesso, il recupero del corpo intatto dell’amante dopo tanti anni da parte della fidanzata ormai vecchia, non è altro che il recupero dell’immagine dell’amato, non certo del passato. Ha ragione perciò Horkheimer: in realtà, che cosa si recupera del passato se non un corpo morto, come dice chiaramente la novella? Per questo motivo è necessario ricorrere, come fa lo stesso Bonola, alla speranza nella redenzione finale, redenzione che non si potrà dare mai nella storia.106

Anche la tesi A considera il presente «come quell’adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico.»107 Qui Benjamin riprende la critica allo storicismo che ha fatto proprio il principio di causalità dei fenomeni per introdurre dei nessi cronologici tra gli eventi storici sulla linea del tempo omogenea e continua (quantitativa). La Jetztzeit rappresenta, invece, la lettura differente che fa lo storico materialista dei fatti storici che entrano fra loro in una congiunzione di tipo sincronico, rompendo la diacronia cronologica dei fatti narrati una volta per tutti. La storia non procede dal presente al futuro in modo omogeneo dopo aver catalogato definitivamente il passato. Sul concetto di adesso nei materiali preparatori egli aggiunge questo passo significativo non inserito nella stesura finale:«Questo concetto istituisce una connessione tra storiografia e politica, che è identica a quella teologica tra rammemorazione e redenzione. Questo presente si condensa in immagini che si possono chiamare immagini dialettiche. Esse rappresentano una “trovata salvifica” per l’umanità».108

Il concetto di immagine dialettica o della Bild è alla base della concezione del tempo storico qualitativo benjaminiano, e in particolare della Jetztzeit. La congiunzione di un momento del passato con il presente dà vita ad un’immagine salvifica (che riguarda cioè il futuro) che è insieme teologica e politica. O meglio, la storiografia e la politica hanno come modello il tempo messianico della teologia come tempo radicalmente e qualitativamente altro dal tempo continuo, omogeneo e vuoto dello storicismo e della tradizione imposta.Nella rammemorazione, di natura ebraica come dice esplicitamente la tesi B, al tempo quantitativo si sostituisce un tempo qualitativo in cui il presente entra in relazione con il passato secondo una nuova prospettiva che lo può modificare. Il futuro, invece, tempo dell’attesa messianica, ha in ogni suo attimo la possibilità che venga il messia, ossia la chance specifica di cui ha parlato sopra.

È noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione. Ciò liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia.109 Sulla differenza fondamentale tra divinazione e rammemorazione, scrive significativamente Mosès:

La prima postula, infatti, l’esistenza di un legame necessario tra il passato e il futuro: non certo secondo la necessità della causalità, e quindi del determinismo, bensì secondo la necessità che è propria dell’analogia, cioè del destino. […] Il rapporto, invece, che la rammemorazione istituisce tra il presente e il passato non ha nulla di necessario. […] Tra i due istanti che la rammemorazione connette non sussiste relazione causale né rapporto di analogia. L’affinità tra i due non è data, ma scelta, o — piuttosto — liberamente creata.110

Non è possibile comprendere il messianismo di Benjamin senza analizzare il giovanile Frammento teologico-politico (1920 o 1921), che presenta delle differenze importanti con la concezione delle Tesi, soprattutto per quanto riguarda l’assenza della concezione storico-politica del materialismo storico. In questo scritto infatti solo il Messia può compiere la redenzione (la classe oppressa non ha ancora la debole forza messianica citata nelle Tesi):

Per questo il regno di Dio non è il Telos della Dynamis storica; esso non può essere posto come scopo. Da un punto di vista storico, esso non è scopo ma termine.111

Piuttosto che intrecciarsi, in questo scritto giovanile il filosofo tedesco traccia due vie parallele, la messianica e la politica, la cui affinità è nel comune obiettivo finale, la felicità:

Alla restitutio in integrum spirituale, che conduce all’immortalità, ne corrisponde una mondana, che porta all’eternità di un tramonto e il ritmo di questa mondanità che eternamente trapassa, e trapassa nella sua totalità, non solo spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è la felicità. Poichè la natura è messianica per la sua eterna e totale caducità.112

Per Benjamin è questo il compito della politica, che qui viene ancora identificata con il nichilismo e che soltanto dopo la svolta materialistica del 1924 diventerà il marxismo (anche se un marxismo alquanto eterodosso che conserva la componente libertaria dell’anarchismo e la forte presenza di motivi teologici e nichilistici).113 Se non c’è escatologia nelle Tesi, allora si può interpretare il lavoro dello storico come una continua ripresentazione nel presente, di volta in volta diverso per le epoche storiche che si succedono nel tempo, dell’adesso della conoscibilità del passato. Si tratta cioè, in altri termini, di quella che definisco una «continuità del discontinuum», con la differenza essenziale che, anziché guardare al futuro, si indirizza verso il passato. Ma questo è da sempre l’atteggiamento dello storico: non esiste storico che non sia «un profeta rivolto all’indietro», con l’ulteriore differenza che quello materialista attualizza immagini del passato dei vinti, dei sofferenti, non dei vincitori. Bisogna modificare il punto di vista, d’accordo, ma non si può staccare la storia dei vinti da quella dei vincitori (di coloro cioè che ne hanno determinato la sconfitta), a meno che non avvenga, nell’attimo del pericolo del presente, un’azione politica rivoluzionaria. Tuttavia l’azione rivoluzionaria in quanto azione messianica non è mai decisiva e definitiva, come non lo sono mai state le rivoluzioni storiche, dalla rivolta di Spartaco alla Rivoluzione francese e alla Rivoluzione russa (per citare solo gli esempi benjaminiani). O, perlomeno, non lo sono mai state per il riscatto dei vinti del passato, a cui si sono aggiunti nuovi vinti che chiedono alle generazioni future anche il loro riscatto. Pertanto l’Erlösung benjaminiana è incompiuta, e lo storico materialista, nella sua impotenza, coincide perfettamente con l’angelo della storia che viene spinto indietro verso il futuro (cioè la direzione principale) con la consapevolezza che le macerie, pur guardandole intensamente, non fanno altro che accumularsi. Certamente lo storico non guarda soltanto, ma si risveglia nella Jetztzeit e deve anche risvegliare gli altri al supremo compito politico, spinto dall’odio e dalla volontà di sacrificio, ma è ugualmente impotente a riscattare il passato degli oppressi nonché il proprio presente. Lo sguardo angosciato e melanconico dell’angelo è lo stesso sguardo dello storico, che è poi quello di Benjamin stesso e della consapevolezza del proprio fallimento sia esistenziale che storico. Solo scintille, con la debole forza messianica di cui dispone, può produrre la classe oppressa che combatte con lo sguardo dello storico materialista, ma la redenzione non è di questo mondo. Pertanto mi sembra assolutamente essenziale cogliere un significato soprattutto escatologico della figura del Messia114,come emerge chiaramente in questo passo:

Il lume perpetuo è un’immagine dell’esistenza storica autentica. È l’immagine dell’umanità redenta — della fiamma che viene accesa il giorno del giudizio finale e che trova nutrimento in tutto ciò che è accaduto tra gli uomini.115

La convergenza tra messianismo e rivoluzione libertaria-comunista è fondata sia sul principio di distruzione che su una struttura restituzionista-utopica:

Esiste un legame misterioso, una corrispondenza in senso baudelairiano, tra ogni termine dell’utopia rivoluzionaria profana e della sfera messianica sacra, tra la storia della redenzione e la storia della lotta di classe: al Paradiso perduto corrisponde la società comunista preistorica, egualitaria (senza classi), democratica e non autoritaria, vivente in un’armonia edenica con la natura; all’espulsione dal giardino dell’Eden, o alla tempesta che allontana gli uomini dal Paradiso, verso l’Inferno, corrispondono «il progresso», la civiltà industriale, la società capitalistico-mercantile, la catastrofe moderna e il suo accumulo di detriti; all’avvento del Messia corrisponde l’interruzione rivoluzionaria-proletaria della storia; e all’Età messianica, il ristabilimento del Paradiso con la sua lingua adamitica, corrispondono la società senza classi e senza stato e la sua lingua universale. Ursprung ist das Ziel e restituito in integrum sono la quintessenza spirituale di questa «teologia della rivoluzione» marxista-libertaria.116

La concezione messianica è qui ripresa da Rosenzweig, ma anche da Vie des formes dello storico Focillon citato nel Passagenwerk.117 Quel che i critici non hanno notato è che Benjamin utilizza un tempo passato per annunciare la venuta del messia («era» e «poteva»). Pertanto la conclusione delle Tesi è il sipario sul senso storico ed esistenziale di fallimento che lo accompagnava: il messia era solo una speranza escatologica e storica che si è esaurita e ormai non ci resta neanche la possibilità di sperare, non per noi almeno, come ha detto Kafka da lui ripreso più volte. Questo motivo emerge chiaramente nella seguente poesia dedicata da Brecht all’amico suicida:

A Walter Benjamin, che si tolse la vita mentre fuggiva davanti a Hitler.

Stancare l’avversario, la tattica che ti piaceva quando sedevi al tavolo degli scacchi, all’ombra del pero. Il nemico che ti cacciava via dai tuoi libri non si lascia stancare da gente come noi.118

Vorrei chiudere comparando la posizione storico-politica ed esistenziale di Benjamin con il testo di una canzone, l’ultima, di Luigi Tenco, presentata al Festival di Sanremo del 1967, Ciao amore, ciao, considerata anche il simbolo del fallimento esistenziale del cantautore che, secondo la versione ufficiale, si sarebbe suicidato la notte stessa dell’esibizione per il mancato raggiungimento della finale canora (negli ultimi anni sono state raccolte alcune prove inconfutabili che si è invece trattato di un omicidio, tesi che condivido pienamente). Il testo, che contiene la speranza in un cambiamento delle proprie condizioni di vita di un contadino del Sud che emigra al Nord per fare l’operaio, è il seguente:

La solita strada bianca come il sale, il grano da crescere i campi da arare. Guardare ogni giorno se piove o c’è il sole per saper se domani si vive o si muore. E un bel giorno dire basta e andare via.

Ciao amore, ciao amore, ciao amore, ciao. Ciao amore, ciao amore, ciao amore, ciao.

Andare via lontano, cercare un altro mondo. Dire addio al cortile, andarsene sognando. E poi mille strade grigie come il fumo, in un mondo di luci sentirsi nessuno. Saltare cent’anni in un giorno solo, dai carri nei campi agli aerei nel cielo. E non capirci niente e aver voglia di tornare da te.

Ciao amore, ciao amore, ciao amore, ciao. Ciao amore, ciao amore, ciao amore, ciao.

Non saper fare niente in un mondo che sa tutto e non avere un soldo nemmeno per tornare.

Ciao amore, ciao amore, ciao amore, ciao…119

Il fallimento raccontato da Tenco è anche il fallimento di Benjamin: «Solo per chi non ha più speranza è data la speranza».120


  1. Su questo punto scrive Christine Buci-Glucksmann: «l’archeologia benjaminiana verrebbe dunque a costituirsi come una archeologia dell’immaginario nella e della storia, quale si rivela nei momenti di cerniera della modernità» (La raison baroque, Galilée, Paris 1984; La ragione barocca. Da Baudelaire a Benjamin, trad.it. di C. Gazzelli, Costa&Nolan, Genova 1992, p.23). Anche Stephan Mosès sottolinea questo aspetto: «L’oggetto storico non è dato, è costruito dalla scrittura della storia, cioè mediante le immagini dialettiche» (L’Ange de l’histoire. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Seuil, Paris 1992; La storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, trad.it. di M. Bertaggia, Anabasi, Milano 1993, p.163). ↩︎

  2. G. Bonola-M. Ranchetti, Introduzione a W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p.XV (mi riferirò a questo testo per la mia lettura delle Tesi). Per quanto riguarda l’impianto complessivo delle Tesi, Bonola e Ranchetti preferiscono parlare di brani aforistici concatenati piuttosto che di tesi vere e proprie, per via della situazione di emergenza in cui furono scritte, per la forma contratta e soprattutto per il loro carattere non definitivo. Non a caso sono state recuperate ben sei stesure: un manoscritto senza titolo (contrassegnato come M, contenente 17 tesi); il dattiloscritto T1 (scelto dai curatori tedeschi con lo stesso numero di tesi del precedente); i dattiloscritti T2 (copie uguali che contengono le tesi A e B); i dattiloscritti T3 (copie uguali parzialmente modificate per la censura); il dattiloscritto T4 (ritrovato da Giorgio Agamben con ben 19 tesi e numerose correzioni a mano di Benjamin, intitolato Handexemplar); una versione parziale francese. Anche Fabrizio Desideri individua due piani delle Tesi che si intersecano fra di loro: l’uno epistemologico (la ricerca di una struttura della storia basata sull’aporia fondamentale tra continuum e discontinuum) e l’altro politico (ovvero il problema della coscienza storica). Riprendendo un’osservazione di Krista R. Greffrath, egli rileva anche che, rispetto al suo immediato antecedente, il saggio su Fuchs del 1937, nelle Tesi si nota una certa angoscia dettata sicuramente dalla situazione storica di quegli anni di guerra (cfr. Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Ed.Riuniti, Roma 1980, cap.VII, Le tesi «sul concetto di storia», p.311). Il saggio della Greffrath, dal titolo Der historische Materialist als dialektischer Historiker, è incluso in P. Bulthaup (a cura di), Materialien zu Benjamins Thesen «Über den Begriff der Geschichte», Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1975. Per una lettura complessiva della concezione benjaminiana della storia si veda anche E. Greblo, La tradizione del futuro, Liguori, Napoli 1989. ↩︎

  3. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., Materiali preparatori delle tesi, Ms 446, p.76. In un altro passo aggiunge: «Un’idea di storia che si fosse liberata dallo schema della progressione in un tempo omogeneo e vuoto, riporterebbe finalmente in campo le energie distruttive del materialismo storico, che per tanto tempo sono state paralizzate» (Ms 447/1094, pp.76-77). Sulle Tesi benjaminiane rimando anche al mio Walter Benjamin e la storia, «Incontri Mediterranei», Anno III, N.1, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2001, pp.167-175. ↩︎

  4. Su questo aspetto cfr. ivi, Ms 486 e Ms 488, p.93. ↩︎

  5. E. A.Poe, Il giocatore di scacchi di Maelzel, trad.it. di G. Crocco, con uno scritto di R. Barbolini, SE, Milano 2000. ↩︎

  6. Su questo punto scrive Desideri: «Se nell’immagine è il nano a guidare per mezzo di fili il fantoccio, nell’interpretazione-trasformazione benjaminiana, al contrario, è il fantoccio chiamato «materialismo storico» che deve prendere al suo servizio la teologia […]. Benjamin dispone dell’immagine descritta come l’Allegoriker dispone delle sue allegorie: significati e funzioni vengono capovolti. Quel che nell’immagine è «Automat» già perfettamente costruito e funzionante, nell’interpretazione diviene un compito, qualcosa di programmatico, che le tesi cercheranno di costruire» (Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit., pp.322-323). Sugli stessi motivi della I tesi si veda anche Id. Il nano gobbo e il giocatore di scacchi. Le «tesi sul concetto di storia» di Walter Benjamin, in F. Rella (a cura di), Critica e storia, Cluva, Venezia 1980, pp.73-115. Una variante della I tesi è il Ms 466v dei Materiali preparatori delle tesi, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp.81-82. ↩︎

  7. Nel suo libro, a proposito del significato della teologia, Desideri riporta il seguente passo di K. R.Greffrath con relativo commento: ««la teologia non è il centro segreto del criticato «materialismo storico», bensì è l’elemento con cui Benjamin si propone di porre in movimento questo stesso per liberarlo dai suoi fatali irretimenti deterministici» e (aggiungiamo) renderlo così capace di «affrontare» teoreticamente lo Historismus. […] Nelle Thesen la teologia è la forma teorica che rende possibile sottrarsi alle cristallizzazioni in cui il «materialismo storico» si è storicamente irrigidito, prender distanza dalla apparente definitività dei suoi risultati e mettere, anzi, in movimento quella rigidità, sostanziandola di nuovi elementi teorici, che non la facciano soccombere alle tendenze storiche proprie della «herrschende Klasse»» (in Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit., p.324). ↩︎

  8. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.21. ↩︎

  9. Id. Infanzia berlinese intorno al millenovecento, in Id., Opere complete VII. Scritti 1938-1940, a cura di R. Tiedmann, ed.it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2006, pp.58-59 (da ora in poi OC VII). Benjamin commenta così il suo rapporto con questa bizzarra figura: «Soltanto oggi so come si chiamava. Me lo svelò mia madre. «Un saluto dal signor maldestro», mi diceva quando cadevo o rompevo qualcosa. E ora capisco di cosa parlasse. Parlava dell’omino con la gobba che mi aveva guardato. E quando l’omino getta lo sguardo su una persona, questa non riesce a stare attenta. Né a se stessa, né all’omino […] Le cose si assottigliavano, ed era come se spuntasse loro una gobba che le assimilava all’omino. L’omino mi anticipava sempre. E nell’anticiparmi intralciava il mio cammino. In realtà quel grigio funzionario, non faceva che riscuotere, di ogni cosa cui volgevo la mia attenzione, la metà del dimenticare […]. Spesso si presentò l’omino. Io però non lo vidi mai. Fu sempre solo lui a vedere me. Mi vide nel nascondiglio e davanti al recinto della lontra, nei mattini d’inverno e davanti al telefono nel corridoio che porta alla cucina, ai piedi del Braunhausberg con le farfalle e sulla mia pista da pattinaggio al suono della fanfara. Da molto tempo ormai ha abdicato. Ma la sua voce, che è come il sussurro della retina del gas, da oltre la soglia del secolo mi bisbiglia le parole: «Prega bambino mio, / per l’omino con la gobba prega Iddio»» (pp.58-59). ↩︎

  10. W. Benjamin, Franz Kafka, in Id., Opere complete VI. Scritti 1934-1937, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed.it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2004, p.147 (da ora in poi OC VI). Nel saggio Benjamin cita altre due strofe della filastrocca dell’omino gobbo non comprese nel pezzo citato di Infanzia berlinese: «Nella stanza voglio andare/a rifare il mio lettino, /un omino con la gobba ahimè compare /che si mette a ridacchiare. […] /Sulla panca m’inginocchio/a pregare un pochettino, /un omino con la gobba ahimè compare/che con me vuole parlare:/prega piccol mio/per l’omino con la gobba prega Iddio» (pp.147-148). ↩︎

  11. H. Arendt, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, trad.it. di A. Carosso, Mondadori, Milano 1993, pp.13-14 (lo stesso saggio è contenuto in Id. Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, trad.it.di V. Bazzicalupo e S. Muscas, Il Mulino, Bologna 1995, pp.43-103). Secondo la Arendt un’altra circostanza sfortunata si verificò nel tentativo benjaminiano di ottenere la libera docenza a Francoforte con il lavoro sul Dramma barocco tedesco: nel saggio precedente su Le affinità elettive aveva infatti polemizzato apertamente con il libro su Goethe di Friedrich Gundolf, legato al circolo di Stefan George, che era molto influente negli ambienti universitari. L’ultima circostanza, quella decisiva, avvenne il giorno della sua morte, il 26 settembre 1940 a Port-Bou, città di frontiera spagnola. La Arendt riferisce che proprio il giorno dell’arrivo degli esuli fuggiti dalla Francia, la Spagna aveva chiuso i confini e «i funzionari di frontiera non accettavano più i visti emessi a Marsiglia. […] Un giorno prima Benjamin sarebbe transitato senza problemi; un giorno più tardi i funzionari di Marsiglia avrebbero saputo dell’impossibilità di transitare verso la Spagna. Solo quel giorno fu possibile il dramma» (p.33). Il fallimento esistenziale di Benjamin è accomunato giustamente dalla Arendt al fallimento che lo stesso vedeva in Kafka (cfr. pp.30-31), e anche a quello di Proust, a proposito del quale Jacques Rivière scrisse: ««Marcel Proust è morto della stessa imperizia che gli ha consentito di scrivere la sua opera. È morto perché inesperto del mondo, e perché non seppe cambiare le condizioni della sua vita, che erano diventate letali per lui. È morto perché non sapeva come si accende il fuoco, come si apre una finestra»» (citato in W. Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Id., Opere complete III. Scritti 1928-1929, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed.it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2010, p.295; da ora in poi OC III). ↩︎

  12. Su questo racconto (e per una lettura complessiva delle Tesi), si veda D. Gentili, Il tempo della storia. Le tesi «sul concetto di storia» di Walter Benjamin, Guida, Napoli 2002, pp.37-40. Cfr. anche W. Benjamin, Rastelli racconta, in Id., OC VI, cit., pp. 265-267. ↩︎

  13. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.21. Il passo di Poe a cui si riferisce è il seguente: «L’introduzione di specchi tra i congegni non poteva servire a modificare in alcun modo il meccanismo stesso. La loro funzione, qualunque fosse, doveva necessariamente essere in rapporto con lo sguardo dello spettatore» (Il giocatore di scacchi di Maelzel, cit., p.59). ↩︎

  14. M. Löwy, Walter Benjamin: Avertissement d’incendie. Une lecture des thèses «Sur le concept d’histoire», PUF, Paris 2001 (Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, trad.it. di M. Pezzella, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p.41). ↩︎

  15. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp.21-23. Nel Passagenwerk, Benjamin riprende e completa la citazione precedente e l’intera tesi nel modo seguente: «La nostra vita è, detto altrimenti, un muscolo che ha la forza sufficiente per contrarre l’intero tempo storico. O, ancora, la concezione autentica del tempo storico si fonda totalmente sull’immagine della redenzione» (Opere complete IX. I «passages» di Parigi, a cura di R. Tiedemann, ed.it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000, N 13a, 1, p.539. Da ora in poi PW). Nella stessa sezione N del PW, strettamente legata alle Tesi, Benjamin trascrive alcuni passi dell’opera maggiore di questo storico, Mikrokosmos, che insiste soprattutto sulla critica del concetto di progresso e su una vena malinconica che li accomuna entrambi. Scrive ad esempio Lotze: «Desterà sempre un doloroso stupore una considerazione spregiudicata di quanti beni della cultura e quanta bellezza di vita… siano andati perduti per non ritornare mai» (N 13, 2, p.538). Oppure: «Non può esserci progresso che non sia una crescita di felicità e perfezione per quegli stessi animi che hanno sofferto una condizione manchevole» (N 13, 3, p.538). Si veda anche R. H.Lotze, Microcosmo. Idee sulla storia naturale e sulla storia dell’umanità. Saggio di antropologia, a cura di L. Marino, UTET, Torino 1988. ↩︎

  16. PW, N 13a, 3, p.539. E ancora: «Tutti i gradi e le sfumature della crudeltà morale, dell’ottusità spirituale e della miseria corporea si sono sempre trovati accanto alla raffinatezza colta della vita e al libero godimento dei benefici dell’ordine civile» (N 14a, 1, p.540). Secondo Lotze non è possibile parlare di un’unica storia dell’umanità, in quanto il progresso scientifico e culturale coinvolge soltanto una piccola parte di essa: «Il progresso della scienza non è… immediatamente alcun progresso dell’umanità; sarebbe tale, solo se con la crescita del contenuto di verità raccolto aumentasse anche la partecipazione degli uomini a esso… e soprattutto la chiarezza della visione d’insieme che essi ne hanno» (N14a, 3, p.541). ↩︎

  17. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Martinus Nijhoff, The Hague 1981 (La Stella della Redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Genova 1985). Sull’Erlösung scrive Desideri: «L’Erlösung del passato si attua, da una parte, nel «compiere» al presente ciò che in un passato era fallito, dall’altra (e questo è il compito del materialista storico), nello strappare il passato alla tradizione in cui le tendenze ideologiche della classe dominante lo hanno imprigionato» (Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit., p.328). ↩︎

  18. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.23, primo corsivo mio. Giorgio Agamben collega la «debole forza messianica» di cui parla Benjamin alla seconda lettera di San Paolo ai Corinzi in cui viene usata la stessa espressione. Scrive San Paolo: «Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor. 12, 9-10) (in Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp.129-130). ↩︎

  19. S. Mosès, La storia e il suo angelo, cit., p.191. E aggiunge più avanti: «Una stessa temporalità essenzialmente aleatoria, cioè sufficientemente indipendente dai principi di continuità e di causalità, può permettere, a ogni istante, la correzione degli errori del passato e — al contempo — il sorgere sempre imprevedibile di un numero, se non illimitato, almeno incalcolabile di nuovi possibili» (p.197). E conclude: «Se, per Benjamin, l’idea di felicità rinvia a quella di redenzione è, quindi, proprio nel senso in cui questo termine [Er-lösung] dev’essere inteso come la re-soluzione delle aporie del presente» (p.198). Gianni Carchia invece legge l’idea di redenzione in tutta l’opera benjaminiana come un’idea interpretabile soltanto esteticamente, con la sola differenza che le prime opere fino all’Ursprung si riferiscono alla salvazione del passato in termini di puro essere linguistico delle idee, mentre le ultime, culminate nelle Tesi, utilizzano il tempo estetico dell’immagine (Bild) dialettica. Grazie alla memoria involontaria è possibile recuperare il ricordo delle immagini del passato e in questo modo il tempo storico benjaminiano è sostanzialmente un tempo estetico, come tempo dell’anima. Se è vero che l’immagine è un concetto estetico, a mio avviso dire che il tempo della storia è il tempo estetico del ricordo da parte del soggetto è una visione troppo riduttiva (poetica direi) della reale concezione di Benjamin. Condivido tuttavia la posizione di Carchia secondo cui il tempo storico è il tempo del Trauerspiel: «solo in rapporto a quest’ultimo si determina la possibilità di pensare la redenzione e l’idea di un tempo messianico: è solo nello spazio della storia, che è insieme spazio della rivelazione, che si può porre la separazione fra la verità e l’apparenza e, dunque, anche il problema del salvataggio (redenzione) di quest’ultima» (Tempo estetico e tempo storico in Walter Benjamin, in L. Belloi-L. Lotti (a cura di), Walter Benjamin. Tempo storia linguaggio, Ed.Riuniti, Roma 1983, p.190). Si veda anche G. Carchia, Nome e immagine. Saggio su Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2009, soprattutto il cap.3, Il problema della storia, pp.129-147, che riprende l’articolo citato sopra. ↩︎

  20. Benjamin sembra condividere la posizione di fallimento del suo alter-ego Kafka secondo cui vi è una quantità infinita di speranza, solo non per noi (a questo proposito si veda la lettera di Benjamin a Scholem del 12 giugno 1938, in Id., Lettere 1913-1940, raccolte e presentate da G. Scholem e T. W.Adorno, trad.it. di A. Marietti e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1978, p.348). ↩︎

  21. E. Rutigliano, Lo sguardo dell’angelo. Su Walter Benjamin, Dedalo, Bari 1981, p.25. ↩︎

  22. M. Horkheimer, lettera a Benjamin del 16 marzo 1937, in W. Benjamin, Lettere, cit., p.261. ↩︎

  23. PW, N 8, 1, pp.121-122. ↩︎

  24. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.23. ↩︎

  25. La figura del cronista rimanda esplicitamente al Dramma barocco tedesco (in W. Benjamin, Opere complete II. Scritti 1923-1927, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed.it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2001, soprattutto pp.116-117. Da ora in poi OC II), testimoniando la sostanziale continuità tematica del suo pensiero, ma anche una presa di distanza critica dalla curvatura soltanto materialistica degli anni precedenti. Nel cap.12 del saggio Il narratore, Benjamin scrive anche: «Il cronista è il narratore della storia. […] Lo storico è tenuto a spiegare, in un modo o nell’altro, gli eventi di cui si occupa; non può mai limitarsi a presentarli come esempi del corso del mondo. Che è proprio ciò che fa il cronista, specie con i suoi rappresentanti classici, i cronisti medievali, che furono i precursori degli storici moderni. Ponendo essi alla base della loro narrazione storica il piano imperscrutabile della salvezza divina, si sono liberati in anticipo dell’onere di una spiegazione dimostrabile. Al suo posto subentra l’interpretazione, che non si occupa dell’esatta concatenazione di determinati eventi, ma del modo in cui si inseriscono nel grande e imperscrutabile corso del mondo» (in Id., OC VI, cit., p.331). Sul cronista scrive Rutigliano: «Chi è il cronista? È colui che appare capace di evocare il passato (di conferirgli significato) e di riportare così «all’ordine del giorno» anche le sconfitte inutili, le lotte di quanti non sono soggetti legittimati al cambiamento sociale in quanto classe a sè stante, incapaci cioè di raggiungere la autocoscienza autoriconoscendosi come tali, le lotte di quanti non furono soggetti della trasformazione storica in cui il movimento del pensiero avrebbe potuto trovare un suo inveramento» (Lo sguardo dell’angelo, cit., pp.15-16). E aggiunge significativamente: «In questa prospettiva si scopre che, parallela alla storia della lotta tra classi, ne corre un’altra — sotterranea — di strati che non sono mai riusciti a costituirsi in soggetti, che non sono mai riusciti ad essere «attuali» (come direbbe Nietzsche). È a loro che il cronista deve tentare di dare voce» (pp.16-17). ↩︎

  26. PW, N 1a, 3, p.513. Nel saggio su Leskov Benjamin coglie nell’arte di narrare di questo scrittore l’influenza della dogmatica della chiesa greco-ortodossa, in particolare le «teorie di Origène, respinte dalla Chiesa romana, sull’apocatastàsi: l’ingresso di tutte le anime in paradiso» (Il narratore, cit., in OC VI, p.337). Sul doppio significato dell’apocatastasi scrive Löwy: «La redenzione, il Giudizio finale della tesi III, è dunque una apocatastasi, nel senso che ogni vittima del passato, ogni tentativo di emancipazione, per quanto umile e «piccolo», sarà salvato dall’oblio e citato «all’ordine del giorno», dunque riconosciuto, onorato, rammemorato. Ma apocatastasi significa anche, letteralmente, ritorno di ogni cosa allo stato originario — nel Vangelo, il ristabilimento del paradiso da parte del messia. È l’idea della Widerbringung aller Dinge («restituzione di tutte le cose») o del Versöhnende Rückkehr am Ende der Dinge («ritorno riconciliato alla fine di tutte le cose»), di cui sognava Lotze nel Microcosmo: la forma segreta o misteriosa grazie a cui il progresso potrebbe reintegrare gli spiriti degli antenati. […] L’equivalente ebraico, messianico e cabalistico dell’apocatastasi cristiana è, secondo Scholem nel suo saggio Kabbala (1932) dell’Encyclopedia Judaica, il tiqqun, la redenzione come ritorno di tutte le cose alloro stato originario» (Segnalatore d’incendio, cit., p.50). ↩︎

  27. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.25. Sul carattere pratico di questa tesi scrive Gentili: «Ogni azione politica, infatti, si realizza concretamente soltanto se è in grado di fare spazio nel presente, abbandonando ogni comportamento contemplativo di fronte alla strutturazione data degli oggetti: de-strutturando, cioè, lo spazio del presente. È questa modificazione del punto di vista sullo spazio degli stessi oggetti a essere la vera origine della conoscenza storica: è la prassi concreta del presente a originare ogni nuova teoria. La conoscenza storica è orientata verso il passato, l’unico oggetto possibile di una teoria storica, ma il punto da cui si origina la prospettiva della visione, che ri-conosce il passato nell’attualità del proprio spazio, è il presente. Il senso, la direzione della teoria, procede a ritroso da questo presente verso il passato» (Il tempo della storia, cit., p.82). ↩︎

  28. Ibidem↩︎

  29. ivi, p.27. ↩︎

  30. ivi, pp.25-27. Nei Materiali preparatori delle tesi, Benjamin scrive la seguente variante: «Se essa è autentica, lo deve alla sua fugacità. In essa sta la sua unica chance. Proprio perché questa verità è caduca e basta un alito di vento a spazzarla via, molto dipende da essa. A prendere il suo posto, infatti, è pronta l’apparenza, che va più d’accordo con l’eternità» (Ms 440, B 3, p.73). Un’anticipazione di questa tesi si trova nel saggio su Fuchs in cui scrive: ««La verità non ci sfuggirà»: questa proposizione, che è di Gottfried Keller, definisce con esattezza, nel quadro storico dello storicismo, il punto in cui questo quadro vien fatto deflagrare dal materialismo storico. Perchè sarebbe un quadro irrecuperabile del passato, che minaccerebbe di scomparire insieme con qualsiasi presente, il quale non si riconoscesse implicito in esso» (Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in Id., OC VI, cit., p.468). ↩︎

  31. Nei Materiali preparatori delle tesi aggiunge anche: «La salvazione (Rettung) del passato che viene compiuta dallo storico può essere operata solo nei confronti di qualcosa che nell’attimo successivo è già irrimediabilmente perduto» (Sul concetto di storia, cit., Ms 448, A 4, p.78). ↩︎

  32. Sull’immagine dialettica in un passo del PW scrive: «Nell’immagine dialettica il momento temporale si lascia determinare interamente solo grazie al confronto con un altro concetto. Quest’altro concetto è l’«adesso della conoscibilità»» (Primi appunti, Passages di Parigi I, Q°, 2I, p.136). Sullo stesso concetto scrive Mosès: «L’immagine dialettica, nata dall’illuminazione dell’istante presente, concentra — come in un punto focale — un momento del passato e un momento dell’avvenire. Il nunc-stans del «tempo-ora» disloca la cronologia, senza che perciò la differenza temporale venga annullata, ma facendo coesistere nel presente il passato e il futuro» (La storia e il suo angelo, cit., p.187). Su questi temi si veda anche M. Pezzella, L’immagine dialettica. Saggio su Benjamin, ETS, Pisa 1982, soprattutto i capp. III (L’Angelus Novus) e IV (L’automa e l’angelo), pp.103-173. ↩︎

  33. PW, K 1, 2, p.112, corsivo mio. Lo stesso nesso tra ricordo e risveglio è ribadito in K 1,3, p.113. ↩︎

  34. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.27. ↩︎

  35. La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 1998, p.2613. Nello stesso contesto, Giovanni scrive poco più avanti: «[…] ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo» (4, 3, ibidem). Anche nella Seconda lettera di Giovanni (versetto 7) è scritto: «Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo!» (p.2619). ↩︎

  36. ivi, p.2641. La figura dell’Anticristo (che è anche il titolo del libro di Nietzsche che Benjamin conosceva certamente) viene utilizzata da Benjamin per la prima volta nella recensione del 1938 al romanzo di Anna Seghers Die Rettung, dal titolo Eine Chronik der deutschen Arbeitlosen. Zu Anna Seghers Roman «Die Rettung» (Una cronaca dei disoccupati tedeschi, trad.it. di A. M. Marietti, in OC VII, cit., p.66). Il suo riferimento principale è il teologo protestante e socialista rivoluzionario svizzero Fritz Lieb che già nel 1934 aveva definito il nazismo come l’Anticristo moderno. ↩︎

  37. Di Fustel de Coulanges si veda La cité antique. Études sur le culte, le droit, les institutions de la Grèce et de Rome, Paris 1864 (La città antica, trad.it. di G. Perrotta, Sansoni, Firenze 1972). Sulla tesi si vedano anche i Materiali preparatori delle tesi, Ms 442 12, in Sul concetto di storia, cit., p.74. ↩︎

  38. Il concetto di acedia è un altro punto di contatto delle tesi con il Dramma barocco tedesco (cit., in particolare pp.192-193). Su questo concetto scrive Löwy: «l’acedia è il sentimento malinconico dell’onnipotenza della fatalità, che toglie ogni valore alle attività umane. Essa conduce perciò alla sottomissione totale al presente ordine delle cose. In quanto meditazione profonda e malinconica, essa si sente attratta dalla maestà solenne del corteo dei potenti. Il melanconico per eccellenza, dominato dalla pigrizia del cuore — l’acedia — è il cortigiano. Il tradimento è il suo elemento, perché la sua sottomissione al destino lo porta sempre nel campo del vincitore» (Segnalatore d’incendio, cit., p.64). Sulla tristezza Benjamin cita invece la frase di Flaubert «Peu de gens devineront combien il a fallu être triste pour ressusciter Carthage» («Poche persone s’immagineranno quanto è stato necessario essere triste per resuscitare Cartagine»), in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.29. ↩︎

  39. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.31. Questo passo è anticipato in Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in OC VI, cit., p.476. Cfr. anche Materiali preparatori delle tesi, Ms 1073v, p.97. ↩︎

  40. Scrive Mosès: «Così come la coscienza autentica, cioè politica, del presente implica una certa anticipazione dell’avvenire, analogamente essa manifesta anche un certo tropismo verso il passato. Non si tratta di uscire dal presente per riportarsi indietro e identificarsi (come nella teoria dell’empatia storica di Fustel de Coulanges) con un dato momento privilegiato del passato, ma — al contrario — di leggere, al fondo del nostro presente, la traccia di un passato dimenticato o represso. La concezione politica del presente evidenzia la parentela della situazione che si sta vivendo con le lotte e le sofferenze delle generazioni che ci hanno preceduti» (La storia e il suo angelo, cit., pp.166-167). ↩︎

  41. M. Löwy, Segnalatore d’incendio, cit., pp.70-71. ↩︎

  42. La citazione è la seguente: «Considerate la tenebra e il grande freddo in questa valle di grida e di strazio», in B. Brecht, L’opera da tre soldi, in Id. Teatro, volume primo, a cura di E. Castellani e R. Mertens, Einaudi, Torino 1958, p.501. Benjamin ha certamente presente la poesia brechtiana Domande di un lettore operaio (1935) dalle Svendborger Gedichte (in Id., Poesie 1933-1956, trad.it. di M. Carpitella, C. Cases, E. Castellani, R. Fertonani, R. Leiser e F. Fortini, Einaudi, Torino 1977, pp.168 sgg.). ↩︎

  43. W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Id., Opere complete V. Scritti 1932-1933, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed.it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2003, pp.204-205 (da ora in poi OC V). Tuttavia alla fine dello scritto Benjamin usa in riferimento ai potenti di turno il termine barbaro nel senso negativo delle Tesi in una sorta di anticipazione: «Star saldi è divenuto oggi affare dei pochi potenti, che, lo sa Iddio, non sono più umani dei molti; nella maggior parte dei casi più barbari, ma non alla buona maniera. Gli altri allora devono prepararsi, di nuovo e con poco. Lo fanno insieme a quegli uomini, che del radicalmente nuovo hanno fatto la loro causa e lo hanno fondato su comprensione e rinuncia. Nelle loro costruzioni, immagini e storie l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è necessario. E quel che è più importante, lo fa ridendo. Forse a tratti questo riso suona barbaro. Bene. Talvolta il singolo può pure cedere un po’ d’umanità a quella massa, che un giorno gliela renderà con interessi e interessi raddoppiati» (p.208). ↩︎

  44. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.33. Sullo stato d’eccezione e la differenza Benjamin-Schmitt si veda M. Palma, Benjamin oltre Schmitt, in G. Perretta (a cura di), Nel tempo dell’adesso. Walter Benjamin tra storia, natura e artificio, Mimesis, Milano 2002, pp.103-115. ↩︎

  45. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.33. ↩︎

  46. ivi, pp.35-37. La classica traduzione di Renato Solmi, che ritengo migliore, è la seguente: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta» (in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p.80). ↩︎

  47. W. Benjamin, Agesilaus Santander I e II, in G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, trad.it. di M. T.Mandalari Adelphi, Milano 1978, pp.20-25. ↩︎

  48. ivi, p.21 e p.23. Lo stesso passo è presente in Annuncio della rivista: «Angelus Novus», in Id., Opere complete I. Scritti 1906-1922, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed.it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2008, p.522 (da ora in poi OC I) e in Karl Kraus, in Id., Opere complete IV. Scritti 1930-1931, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed.it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2002, p.358 (da ora in poi OC IV). ↩︎

  49. La citazione è la seguente: «La mia ala è pronta al volo / tornerei volentieri indietro / perché, rimanessi anche tempo vivo, / avrei poca felicità» (ivi, p.35, anche la nota 18 per il testo integrale). Sul rapporto Benjamin-Scholem si veda l’importante biografia di Scholem Walter Benjamin-die Geschichte einer Freundschaft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1975 (Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, trad.it. e note di E. Castellani e C. A.Bonadies, Adelphi, Milano 1992). ↩︎

  50. G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit., p.33. Buci-Glucksmann riprende invece l’etimologia dell’angelo di Lacan: «Scrive Lacan: «’Strano’ (étrange) è una parola che si può scomporre in ‘essere angelo’ (être ange)» (La ragione barocca, cit., p.16). Più avanti aggiunge: «L’angelico, in virtù della sua stessa «estraneità» (être-ange-tè) di fronte a ogni esame di realtà, fa apparire la precarietà dell’umano» (p.37). ↩︎

  51. M. Löwy, Segnalatore d’incendio, cit., p.77. Per le poesie si veda C. Baudelaire, Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Introduzione di G. Macchia, Mondadori, Milano 1996, pp.144-145 e 230-233. ↩︎

  52. W. Benjamin, Agesilaus Santander, in G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit., p.21. Nella seconda versione, del giorno dopo, Benjamin invece scrive: «Non appena quest’uomo si è imbattuto nella donna che lo ha ammaliato, si è improvvisamente deciso a mettersi in agguato sul cammino di lei, ad attendere finchè ella, malata, invecchiata e in vesti logore, fosse caduta nelle sue mani» (p.23). ↩︎

  53. ivi, p.24. Commenta Scholem: «Allo stesso modo come la visione melanconica scopre nelle cose l’infinita profondità delle allegorie, ma non è capace di compiere il passo che dalla caducità porta alla sfera religiosa, e quindi in definitiva se ne va a mani vuote perché la redenzione in tal caso può essere ottenuta solo attraverso un prodigio, così al donatore accade di andarsene a mani vuote, non riuscendo mai a raggiungere l’amata cui ha donato una larga parte della propria creatività, pur avendo realizzato nell’immaginazione la più profonda comunione con lei, di cui sarà parola nella chiusa dell’appunto» (p.49). ↩︎

  54. ivi, p.51. ↩︎

  55. ivi, pp.24-25. L’ultima frase è presente anche nella prima versione, pp.21-22. Qui Benjamin riprende la dialettica della felicità già enunciata nel saggio Per un ritratto di Proust, in Id., OC III, cit., p.287 (si veda soprattutto la nota 876). Commenta Scholem: «la felicità risiede invece nel contrasto tra unicità e ripetizione. Poiché l’unicità sta proprio, in questa frase, non nel vissuto […], ma piuttosto nell’assolutamente nuovo e non ancora vissuto. Di contro a ciò sta la beatitudine della ripetizione, che si appunta sul ripetibile, sulla ripetizione del già vissuto» (Walter Benjamin e il suo angelo, cit., p.52). Buci-Glucksmann interpreta invece l’angelo di Agesilaus Santander come un Angelo androgino (in La ragione barocca, cit., pp.71-72). ↩︎

  56. Secondo Desideri si può intendere nella figura dell’angelo il materialista storico e in quella del Messia la classe operaia: «Se la Rettung del passato non è solo frutto di un’«operazione teorico-intellettuale» (quella del materialista storico), ma anche e non in ultima istanza di un’azione storico-politica (quella della classe oppressa), l’immagine allegorica della tesi IX testimonia la tensione e, in un certo senso, pure la «storica lacerazione» tra questi due momenti della Rettung» (Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit., p.335). ↩︎

  57. Scrive significativamente Scholem: «Già nel Dramma barocco tedesco è detto che la storia per gli allegoristi barocchi non era un processo in cui prende forma la vita eterna, ma piuttosto un «evento di inarrestabile decadenza». La frammentazione barocca, di cui tanto spesso si discorre in quel libro e che l’angelo di questa tesi riprende col voler «ricomporre l’infranto», si riconnette alla melanconica visione del passato storico. L’evento della decadenza è diventato l’unica grande catastrofe che il passato spinge davanti agli occhi dell’angelo soltanto come un cumulo di rovine. Al contempo, però, nella mente di Benjamin vi è il concetto kabbalistico del Tikkun, della restaurazione e della riparazione messianiche, che ricostituisce e ripristina l’essenza originaria delle cose, e anche della storia, infranta e corrotta dalla «frantumazione dei vasi». Certo, destare i morti e ricomporre le cose infrante e spezzate non è per la Kabbalah lurianica, compito di un angelo, bensì del Messia. Tutto ciò ch’è storia, che non è redento, ha per sua natura carattere frammentario. L’angelo della storia però, come lo vede qui Benjamin, fallisce in tale missione, che nell’ultima tesi di questa serie può essere assolta solo dal Messia» (Walter Benjamin e il suo angelo, cit., pp.61-62). ↩︎

  58. ivi, p.60. Aggiunge poco più avanti: «L’angelo della storia è dunque, in fondo, una figura melanconica che naufraga nell’immanenza della storia, perché può venir superata soltanto da un balzo che non salvi il passato storico in una «immagine eterna» di esso, ma lo tragga fuori dal suo continuum nel «tempo-ora», sia questo tempo di carica rivoluzionaria oppure messianica» (pp.62-63). E conclude: «Benjamin ha suddiviso la funzione del Messia, cristallizzata dalla visione storica ebraica, in quella dell’angelo che deve fallire il suo compito, e in quella del Messia che può realizzarlo» (p.63). ↩︎

  59. G. Bonola-M. Ranchetti, Introduzione a W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.XVIII. ↩︎

  60. M. Löwy, Segnalatore d’incendio, cit., p.83. ↩︎

  61. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp.37-39. ↩︎

  62. Ibidem↩︎

  63. PW, X IIa, 3, p.134. ↩︎

  64. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.41. Non è casuale dunque la citazione marxiana dalla Critica del programma di Gotha per cui l’uomo ««non può essere lo schiavo degli altri uomini che si sono fatti…proprietari»» (pp.39-41). Benjamin riprende anche le utopie socialiste prequarantottesche, in particolare Fourier, che criticano il lavoro come dominio sulla natura per l’emancipazione dell’uomo, compreso l’operaio. Si veda anche dai Materiali preparatori delle tesi il Ms 1072, p.97, in cui Benjamin cita gli harmoniens, cioè gli uomini che popoleranno l’utopica «Armonia societaria» teorizzata dallo stesso Fourier. A quest’ultimo è dedicata la sezione W del Passagenwerk. In particolare gli interessa il suo materialismo idealistico (accostato a quello di Georg Büchner) e la critica della civiltà culminata nella struttura del phalanstère, definito «un macchinario umano», cioè «una macchina costituita di esseri umani» (PW, W 4, 4, p.696). Di Fourier si veda soprattutto Teoria dei quattro movimenti, il nuovo mondo amoroso e altri scritti sul lavoro, l’educazione e l’architettura, scelta e introduzione di Italo Calvino, trad. di E. Basevi, Einaudi, Torino 1971 (Calvino cita Benjamin a pp.XVIII-XIX). Sulla tesi in generale si veda anche il Ms 1079r, pp.97-98. ↩︎

  65. W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in OC VI, cit., p.474. ↩︎

  66. Si veda PW, W 7,4, p.701 e la nota 846. Più avanti aggiunge: «Per spiegare le stravaganze fourieriste, si può far riferimento a Topolino dove si è compiuta, proprio nel senso delle sue idee, la mobilitazione morale della natura. Qui lo humour mette alla prova la politica. Topolino conferma come avesse ragione Marx a vedere in Fourier soprattutto un grande umorista. L’effrazione della teleologia naturale avviene secondo il piano dello humour» (W 8a, 5, p.705). Cfr. anche PW, W 8, 1, p.703. ↩︎

  67. Cfr. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad.it. di S. Giametta, Nota introduttiva di G. Colli, Adelphi, Milano 1994. ↩︎

  68. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.43. ↩︎

  69. Ibidem↩︎

  70. Ibidem↩︎

  71. Il passo completo è il seguente: «La rivoluzione russa ne era consapevole. La parola d’ordine «nessuna gloria ai vincitori, nessuna pietà ai vinti», è calzante perché porta ad espressione più una solidarietà con i fratelli morti che una solidarietà con gli eredi» (ibidem). ↩︎

  72. G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, trad.it. di G. Piana, Sugarco, Milano 1991. ↩︎

  73. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.43. La versione francese contiene lo stesso passo leggermente modificato (p.68). Nei Materiali preparatori delle tesi Benjamin cita la poesia di Brecht An die Nachgeborenen (A coloro che verranno, in Id., Poesie 1933-1956, cit., pp.328-33) che commenta così: «Dai posteri non pretendiamo ringraziamenti per le nostre vittorie, ma la rammemorazione delle nostre sconfitte. Questa è consolazione: consolazione che si dà solo per quelli che non hanno più speranza di consolazione» (Ms 446, p.76). ↩︎

  74. ivi, p.45. ↩︎

  75. W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in OC VI, cit., p.486. ↩︎

  76. Id, Sul concetto di storia, cit., p.45. Commenta Mosès: «Quel che Benjamin rimprovera allo storicismo è di trasporre nell’ambito della storia il modello della causalità meccanica, in cui la causa di un effetto dev’essere immediatamente anteriore (o quantomeno assai prossima) a esso nella catena temporale. Per Benjamin, il fatto che tra due eventi successivi si stabilisca un nesso di causalità non è, di per sé, fattore d’intelligibilità storica, la quale — invece — può emergere solo dall’incontro di un dato momento del passato con un momento del presente: quello stesso in cui si colloca lo storico» (La storia e il suo angelo, cit., pp.176-177). E più avanti conclude: «[…] il tempo fisico che noi percepiamo spontaneamente come continuo e irreversibile, non ha — di per sé — alcun carattere storico; viceversa, perché il tempo appaia in quanto storico, è necessario che s’interrompa il suo svolgimento. La storicità del tempo si manifesta ogniqualvolta sorge una nuova immagine dialettica» (p.184). ↩︎

  77. PW, J 77, 1, pp.111-112. ↩︎

  78. Su questa tesi cfr. anche i Materiali preparatori delle tesi, cit., Ms 443, p.74. Sulla storia del rapporto tra tempo, attimo e Jetztzeit si veda R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Bibliopolis, Napoli 1979 (II ed. 1982), cap. II, Attimo e tempo: a confronto con le filosofie tra Platone e Heidegger, pp.55-130 (su Benjamin in particolare le pp. 71-79). Sul concetto di Jetztzeit si veda F. Desideri, Ad vocem Jetztzeit, in Id., La porta della giustizia. Saggi su Walter Benjamin, Pendragon, Bologna 1995, pp.153-165. ↩︎

  79. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.47. Su questo punto scrive Schiavoni: «All’idea di tempo (e di memoria) come continuum «omogeneo e vuoto» Benjamin contrappone il concetto di Jeztzeit (adesso e tempo-ora), in cui quasi proustianamente il passato e il presente si uniscono in una singolare costellazione. In tal senso la Jeztzeit si configura come un modello di temporalità disomogenea, avulsa dalla linearità delle scienze naturali, e piena, in quanto solcata dalle tensioni dell’attualità e del presente storico. La memoria altra in cui salvare la tradizione degli sconfitti e dei dimenticati è una memoria della Jeztzeit, dell’«adesso» (o, letteralmente, del «tempo-ora») (Walter Benjamin. Il figlio della felicità, cit., p.375). Scrive invece G. Bonola: «Dove compare, essa significa l’attualità, la validità-per-l’oggi anche del più remoto passato, di cui rende possibile la vera comprensione (storia) e al tempo stesso il recupero e la collocazione in una posizione di simultaneità con il presente (rivoluzione)» (Redenzione del passato. Su origine e senso delle metafore di salvezza nelle tesi «Sul concetto di storia» di W. Benjamin, in G. Perretta (a cura di), Nel tempo dell’adesso. Walter Benjamin tra storia, natura e artificio, Mimesis, Milano 2002, p.38). ↩︎

  80. M. Löwy, Segnalatore d’incendio, cit., pp.106-107. ↩︎

  81. S. Mosès, La storia e il suo angelo, cit., pp.173-174. ↩︎

  82. PW, B 1a, 1, p.68. In un altro passo aggiunge: «A essere predominante è certo sempre l’ultima novità, ma solo laddove emerga nell’elemento del più antico, del già stato, dell’abituale. Il modo in cui l’ultima novità prende forma di volta in volta in questo elemento del già stato, questo è il vero spettacolo dialettico della moda» (B 1a, 2, p.68). ↩︎

  83. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.47. ↩︎

  84. ivi, pp.47-49. ↩︎

  85. Sul fallimento di Benjamin scrive Schiavoni: «Abbandonato dall’inviato delle realtà indistruttibili, Walter Benjamin resta di fronte a una realtà trascendente che non s’annuncia però per il suo mondo; resta scartato da angeli che s’involano senza che la «redenzione» subentri alla loro scomparsa e senza che il demone benjaminiano della «giustizia» appaia placato. Cogliendosi — in quanto storico materialista e in quanto produttore di cultura in genere — come spettatore di un’impossibile restitutio della visibilità compromessa all’ordine custodito dall’angelo (che sottraeva agli uomini e alla visibilità i testi della scrittura per salvarli dalla corruzione), Benjamin esprimeva la prospettiva chiusa, disperata del suo stesso materialismo, al quale non restava più alcuno spazio storico, oltre che per un’azione rivoluzionaria politicamente articolata, neppure per accogliere in sé l’Erlösung (la «redenzione»). Ma con ciò il suo progetto conoscitivo stesso raggiungeva una «trasparenza» che lo faceva autenticamente autodistruggere» (Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura, Sellerio, Palermo 1980, pp.314-315). ↩︎

  86. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., Materiali preparatori delle tesi, Ms 1098v, p.100. ↩︎

  87. Sui giorni festivi scrive Löwy: «il calendario ebraico è un esempio evidente, che Benjamin forse teneva presente quando scriveva queste righe: i principali giorni festivi sono votati alla rammemorazione di eventi di redenzione: l’esodo dall’Egitto (Pesack), la rivolta dei Maccabei (Hanukkah), il salvataggio degli esiliati in Persia (Purim). L’imperativo del ricordo — Zakhor! — è anche un elemento centrale della Pasqua ebraica: ricordati dei tuoi antenati in Egitto, come se tu fossi stato uno schiavo in quell’epoca» (Segnalatore d’incendio, cit., pp.109-110). ↩︎

  88. Scrive Remo Bodei: «[…] il programma di Benjamin si presenta come lo sforzo di congiungere le potenze arcaiche del mito e dell’ebbrezza alla ragione» (La malattia della tradizione. Dimensioni e paradossi del tempo in Walter Benjamin, in L. Belloi-L. Lotti (a cura di), Walter Benjamin. Tempo storia linguaggio, cit., p.232). ↩︎

  89. M. Löwy, Rédemption et utopie. Le judaïsme libertaire en Europe centrale. Une étude d’affinité élective, PUF, Paris 1988 (Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, trad.it. di D. Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p.126). Aggiunge poco dopo: «Il suo procedimento, caratteristico del romanticismo rivoluzionario, consiste nel tessere rapporti dialettici tra il passato precapitalista e l’avvenire postcapitalista, l’armonia arcaica e l’armonia utopica, l’antica esperienza perduta e la futura esperienza liberata» (p.127). E conclude: «Per Benjamin non si tratta dunque di restaurare la comunità primitiva, ma di ritrovare, attraverso la rimembranza collettiva, l’esperienza perduta dell’antico egualitarismo antiautoritario e antipatriarcale, e di farne una forza spirituale nella lotta rivoluzionaria per l’istituzione della società senza classi dell’avvenire» (pp.127-128). ↩︎

  90. Cfr. anche W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., Materiali preparatori delle tesi, Ms 1055v, pp.96-97. ↩︎

  91. W. Benjamin, «Trauerspiel» e tragedia, in OC I, cit., p.274. Un concetto simile è ribadito in un celebre passo di Zentralpark a proposito di Baudelaire: «Interrompere il corso del mondo — era la più profonda volontà di Baudelaire. La volontà di Giosuè» (Parco centrale, in OC VII, cit., p.188). Su questo punto commenta Mosès: «la rivoluzione compiuta da Benjamin sta in questo: nel trasporre l’esperienza del tempo vissuto dalla sfera personale alla sfera storica, nel deformalizzare il tempo della storia al modo in cui Sant’Agostino o Bergson avevano deformalizzato il tempo fisico, nel sostituire all’idea di un tempo oggettivo e lineare l’esperienza soggettiva di un tempo qualitativo, ogni istante del quale è vissuto nella sua incomparabile singolarità» (La storia e il suo angelo, cit., p.164). ↩︎

  92. Un’anticipazione quasi letterale di questa tesi si trova in W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in OC VI, cit., p.469. Nei Materiali preparatori delle tesi Benjamin approfondisce ulteriormente la concezione del presente come arresto del tempo riprendendo il seguente brano di Turgot che assume una concezione critica del progresso: ««Prima che noi ci siamo potuti informare su un dato stato di cose, — egli scrive — questo si è già modificato più volte. Così è sempre troppo tardi che veniamo a sapere quel che è accaduto. E per questo si può dire della politica che essa è, per così dire, ridotta a prevedere il presente»» (Ms 444 11, p.75). Il presente «è l’oggetto di una profezia» che non guarda al futuro ma al passato per modificarlo. Citando Friedrich Schlegel egli aggiunge: «Lo storico è un profeta rivolto all’indietro. Egli scorge il proprio tempo nel medium delle sciagure trascorse. Ma certo così, allora, per lui è finita con la placidità del narrare» (ibidem). Qui la novità non consiste nel fatto che lo storico guarda all’indietro (è compito della storia, infatti, ricostruire gli eventi passati). A cambiare è lo sguardo dello storico e l’oggetto da considerare, in quanto Benjamin vuole leggere ciò che non è mai stato scritto, cioè la tradizione degli oppressi, dei vinti e non quella dei vincitori. ↩︎

  93. PW, N 2a, 3, pp.116-117, corsivi miei. In un altro passo scrive: «Ciò che distingue le immagini dalle «essenze» della fenomenologia è il loro indice storico. […] L’indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono a un’epoca determinata, ma soprattutto che esse pervengono a leggibilità solo in un’epoca determinata» (N 3, 1, p.117, corsivo mio). ↩︎

  94. Scrive infatti Nietzsche: «Ogni moderno filosofare è politico e poliziesco, limitato dai governi, dalle Chiese, dalle accademie, dai costumi e dalle viltà degli uomini a un’apparenza erudita; ci si accontenta del sospiro «se invece» o della nozione «c’era una volta»» (Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p.42). E più avanti scrive anche: «Io direi dunque che la storia inculca sempre: «c’era una volta», e la morale: «non dovete» oppure «non avreste dovuto». Così la storia diventa il compendio di un’effettiva immoralità» (p.73). ↩︎

  95. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp.51-53. A questa tesi si collegano, nei Materiali preparatori delle tesi, il Ms 443 8, pp.74-75; il Ms 450 XV, pp.79-80; il Ms 451 XV, p.80. Un’anticipazione quasi letterale di questa tesi è in Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in OC VI, cit., pp.468-69. ↩︎

  96. Sull’importanza di questa tesi nel suo pensiero si veda la lettera a Gretel Adorno dell’aprile 1940 (in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.10). ↩︎

  97. F. Desideri, Walter benjamin. Il tempo e le forme, cit., p.349. ↩︎

  98. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.53. ↩︎

  99. Su questo punto cfr. M. Löwy, Segnalatore d’incendio, cit., pp.118-119. ↩︎

  100. ivi, p.55. ↩︎

  101. In un passo dei Materiali preparatori delle tesi, Ms 1098v, che si riferisce a questa tesi, Benjamin aggiunge: «la società senza classi non è la meta finale del progresso della storia, ma ne è piuttosto l’interruzione, tante volte fallita e infine attuata» (ivi, p.101). ↩︎

  102. ivi, p.55. ↩︎

  103. F. Desideri, Catastrofe e redenzione. Benjamin tra Heidegger e Rosenzweig, in L. Belloi-L. Lotti (a cura di), Walter Benjamin. Tempo storia linguaggio, cit., p.202. Più avanti aggiunge: «All’unità dei modi di temporalizzarsi della temporalità dell’Esserci autentico come unità estatico-orizzontale […], Benjamin oppone un’unità catastrofica del tempo storico: un katastrofikón puro e semplice. […] È l’ininterrotto e repentino precipitare del tempo, della Zeit in ogni adesso, in ogni Jetzt a determinare lo strappo di ogni Jetzt dall’altro ed a configurare il tempo come un discontinuum. […] Salvezza del passato significa allora trattenere la Zeit nello Jetzt: pro-vocare la Jetztzeit. Arrestare il tempo, distenderlo in Gegenwart, in un presente che «sta immobile nel tempo»: in quell’irripetibile costellazione di immagini temporali che è l’i-stante. La Jetztzeit benjaminiana (l’attualità e la presenza di una costellazione temporale nell’istante) è così radicalmente e (nell’uso del medesimo termine) anche polemicamente opposta alla Jetzt-Zeit heideggeriana (che indica il tempo intramondano degli «ora» che trapassano indifferentemente l’uno nell’altro» (pp.203-204). La lettura di Desideri, che mette in evidenza le differenze fondamentali tra i due pensatori è giustamente critica con la lettura di Paolo Pullega che tende invece a inserire Benjamin sotto l’influenza heideggeriana proprio sulla concezione del tempo come Jetztzeit (cfr. P. Pullega, Commento alle tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, Cappelli, Bologna 1980, pp.123-127). ↩︎

  104. Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta, cit., pp.132-135 (la citazione di S. Paolo è a p.133). Löwy ritiene invece che la Jetztzeit non rinvii direttamente all’espressione o nyn kairós paolina, e che l’influenza cristiana sulle Tesi sia assai meno rilevante di quella del messianismo ebraico (Segnalatore d’incendio, cit., pp.121-122). ↩︎

  105. W. Benjamin, Il narratore, in OC VI, cit., p.330. ↩︎

  106. Cfr. G. Bonola, Redenzione del passato, cit., p.38. ↩︎

  107. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.57. Si veda anche il Ms 1104 XVa dei Materiali preparatori delle tesi, p.102. ↩︎

  108. ivi, Ms 442 12, p.74. ↩︎

  109. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p.57. Si veda anche il Ms1053v dei Materiali preparatori delle tesi, p.96. ↩︎

  110. S. Mosès, La storia e il suo angelo, cit., p.195. E prima aggiunge significativamente: «Così, la nozione benjaminiana di «rammemorazione» [Eingedenken] riprende la categoria ebraica di «ricordo» [Zeker], che non denota la conservazione nella memoria degli accadimenti del passato, bensì la loro riattualizzazione nell’esperienza presente» (pp.171-172). Come nota Löwy, «non si tratta di attendere il messia, come nella tradizione dominante del giudaismo rabbinico, ma di provocare la sua venuta. […] Benjamin appartiene a una tradizione dissidente, quella di coloro che erano chiamati i dokhei haqetz, coloro che «fanno precipitare la fine del tempo»» (Segnalatore d’incendio, cit., pp.125-126). ↩︎

  111. W. Benjamin, Frammento teologico-politico, in OC I, cit., p.512. Tuttavia è nell’idea della felicità (anticipazione della II tesi) che «l’ordine profano del Profano può favorire l’avvento del regno messianico. Il profano non è, dunque, una categoria del Regno, ma una categoria — e certamente una delle più pertinenti — del suo più facile approssimarsi. Poichè nella felicità ogni essere terrestre aspira al suo tramonto, ma solo nella felicità esso è destinato a trovarlo» (ibidem). ↩︎

  112. ivi, pp.512-13. A questo proposito, scrive Löwy: «La restitutio in integrum (o restitutio omnium) è una figura della teologia cristiana che rinvia contemporaneamente alla resurrezione dei morti nel Giudizio Universale e al ritorno escatologico di tutte le cose alla loro primitiva perfezione» (Redenzione e utopia, cit., p.111). Scrivono anche Desideri e Baldi: «La restitutio in integrum spirituale, che è opera unicamente dell’agire del Messia, si traduce nell’idea di immortalità. Il problema sta nello stabilire se quest’ultima nozione significhi salvezza dal tempo oppure una salvezza del tempo» (Benjamin, Carocci, Roma 2010, p.183). E aggiungono più avanti: «le Tesi non pongono mai il problema di un passaggio escatologico […] come fine assoluta del tempo. Forse tale assenza deriva proprio dalla consapevolezza delle aporie teoretiche inerenti alla pensabilità di un istante temporale che significhi la fine del tempo e l’ingresso nell’eternità. A differenza che nel Frammento teologico-politico Benjamin più che sulla fine assoluta del tempo insiste, nelle Tesi, sulle catastrofi che ne interrompono il continuum. […] Quanto Benjamin mira a distruggere è, infatti, proprio la possibilità di pensare la storia come un in sé, come qualcosa di assolutamente e oggettivamente reale al di fuori della coscienza individuale e collettiva» (p.187). ↩︎

  113. Ancora Löwy scrive: «Questo rovesciamento-trasformazione (Umschlagen) paradossale dell’anarchismo (o «nichilismo») in messianismo e viceversa è forse una delle chiavi più essenziali per comprendere la visione del mondo sociale-religiosa esoterica di Benjamin dal Frammento teologico-politico alle Tesi di filosofia della storia» (Redenzione e utopia, cit., p.113). ↩︎

  114. Di parere opposto sono Desideri e Baldi che scrivono: «Interrompere la storia non equivale, però, a decretarne la fine. A tale riguardo Benjamin sembra condividere l’idea di un messianismo senza escatologia […]. Intendendo il giorno del giudizio come indistinto da tutti gli altri («ogni attimo è l’attimo del giudizio su certi attimi che l’hanno preceduto»), Benjamin sposta nel tempo, e non al suo limite, il confine critico. Il confine messianico-escatologico (dove la fine è interruzione del tempo in quanto tale) si dà, così, nella congiunzione «politica» di catastrofe e redenzione all’interno della coscienza storica» (Benjamin, cit., p.189). E aggiungono poco più avanti: «Se il tempo messianico è il tempo nel quale il Messia è atteso in ogni secondo, la tensione tra la categoria e l’evento (tra il «messianico» e il Messia) resta. Quel che resta qui non è, però, né il tempo né la sua fine. Quel che resta è l’immagine dell’incompiutezza dell’origine che proprio l’unità di catastrofe e redenzione rivela. Di qui lo sguardo rivolto al passato del profetismo messianico di Benjamin. Se dal punto di vista storico la giustizia è qualcosa di in-compibile, ciò non comporta affatto il tradurre in impossibilità il suo rapporto con il mondo storico. Implica, piuttosto, intendere la redenzione del passato come un procedere in infinitum […]. Il lavoro redentivo dello storico (animato da un principio costruttivo e non meramente ricostruttivo) si rivelerebbe, perciò, come un lavoro nel carattere differenziale dell’immagine, in quanto origine aintenzionale (incostruibile) di ogni costruzione storica» (p.191) ↩︎

  115. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., Ms 445 A, p.76. ↩︎

  116. M. Löwy, Redenzione e utopia, cit., pp.133-134. ↩︎

  117. Cfr. H. Focillon, Vita delle forme seguito da Elogio della mano, Prefazione di E. Castelnuovo, trad.it. di E. De Angeli e S. Bettini, Einaudi, Torino 2002. ↩︎

  118. B. Brecht, Poesie, trad.it. di R. Fertoniani, Einaudi, Torino 1992. In un’altra poesia, Per il suicidio del profugo W. B., scrive Brecht: «Ho saputo che hai alzato la mano contro te stesso/prevenendo il macellaio. / Esule da otto anni, osservando l’ascesa del nemico, /spinto alla fine a un’invalicabile frontiera/hai valicato, dicono, una frontiera valicabile./ Imperi crollano. I capibanda/incedono in veste di uomini di stato. I popoli/non si vedono più sotto le armature. /Così il futuro è nelle tenebre, e le forze del bene/sono deboli. Tutto questo hai veduto/quando hai distrutto il torturabile corpo» (in W. Benjamin, OC VII, cit., p.IX). Le poesie sono citate anche nella biografia di H. Mayer, Der Zeitgenosse Walter Benjamin, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1992 (Walter Benjamin.Congetture su un contemporaneo, trad.it. di E. Ganni, Garzanti, Milano 1993, pp. 73-74). ↩︎

  119. L. Tenco, Ciao amore, ciao, in Le canzoni di Luigi Tenco, RCA, Roma 1967. ↩︎

  120. W. Benjamin, Le affinità elettive, in OC I, cit., p.589. ↩︎