1. Una semplice questione (in apparenza)
In filosofia è sempre insidioso giocherellare con le questioni, magari aggirandosi attorno ad esse con atteggiamento di affettata pensosità. A trattarle alla stregua di uno scontato e retorico esercizio di pensiero, si ottiene solo di aumentare l’insofferenza per le pretese della filosofia; ed il rischio di andare incontro ad impreviste smentite si fa tanto più grande, quanto maggiore è la (apparente) semplicità di quell’ingenuo darsi da fare. Per molti versi sembra inevitabile ed anche naturale seguire questa strada; argomenti più volte usati, problematiche note, temi da sempre oggetto di studio paiono non offrire più molto da pensare; mentre il loro stesso continuo ricorrere induce una sorta di assuefazione, che si traduce sovente in pazienti appropriazioni e monotone ripetizioni, per quanto diversamente confezionate. Molto dell’attuale dibattito culturale risente di un siffatto sorvolo a debita distanza dal cuore di essenziali questioni; in tutto questo talora si manifesta, è vero, solo un deficit di riflessione. Eppure, che siffatte questioni risorgano e si ripropongano sempre di nuovo, a dispetto di ogni presunta definitiva loro risoluzione, è segno inequivocabile di una permanente vitalità, che si esprime proprio nella spinta che danno all’incedere del pensiero. Il ritorno ad esse diventa allora occasione propizia di assoluta concentrazione sull’essenziale, sul nucleo sorgivo ed autentico che articola ed orienta la nostra umana condizione di nomadi ricercatori di un senso, che ci trascende pur essendo a noi quanto mai vicino. Questo richiama a sé la nostra distratta attenzione nascondendosi dietro forme all’apparenza normali; che invece, se accolte nella loro piena risonanza, giocano più propriamente come vere pietre di inciampo, sulle quali il pensiero è costretto a soffermarsi, per poter procedere lungo la via infinita dell’avvicinamento alla verità. A queste dinamiche non sfugge neanche una riflessione che intenda tornare a riflettere su le domande dell’etica, come suona il titolo assegnato a questo contributo.
Un titolo nel quale di primo acchito risuona un che di paradossale. Nella opinione comune l’etica infatti è classificata come quella disciplina filosofica che si propone tanto come fattore di descrizione del comportamento dell’uomo quanto anche, e soprattutto, come ambiente teorico di definizione delle modalità e finalità del suo agire. Ad essa ci si interessa dunque al fine di ricavare indicazioni di criteri e direttive necessari allorché si tratti di affrontare situazioni dilemmatiche, nelle quali le opzioni possibili sono plurime e impregiudicati i loro esiti. È quando mi chiedo “cosa fare? ”, che l’etica si rivela strumento prezioso e guida indispensabile verso una risposta adeguata. Sembra dunque che, kantianamente, l’unica domanda rilevante per la riflessione etica — una domanda che peraltro precede tale riflessione, attivandola — sarebbe quella appena declinata. Perché allora occuparsi delle domande dell’etica? Quali altre domande si danno? Non dovremmo piuttosto prendere in considerazione le differenti interpretazioni e risposte che sono state e ancora di nuovo vengono suggerite per motivare e rafforzare l’agire umano? Non sbagliamo forse approccio ad affrontare la questione etica dal lato della domanda?
Il paradosso è forse la prima manifestazione del vero; va tenuto per questo nella massima considerazione, dal momento che esso si dà a vedere nello squarcio prodotto nella tela ormai consumata dell’interpretazione del reale. Quando infatti a riproporsi è la domanda, quando la ricerca torna nuovamente a scavare attorno agli elementi costitutivi che la sostanziano, questo è perché la strada finora battuta comincia a mostrarsi faticosa ed incerta. Allora al filosofo si richiede di prendere sul serio e svolgere fino in fondo la domanda che origina la sua ricerca, chiamando direttamente in causa gli snodi cruciali che articolano e sostanziano la cosa stessa di cui va occupandosi. Questo è quello che questo contributo si ripromette di fare. In tal modo il suo percorso è per buona parte già segnato. Esso deve, per non ridursi a presentare risposte che è proprio la riproposizione della domanda a segnalare come inadeguate, assumere decisamente il senso profondo di questo domandare. Le domande dell’etica, dunque.
In effetti il tema, con cui questo contributo si confronta, acquista il suo vero senso sullo sfondo di un più ampio domandare, cui la ricerca filosofica ai nostri giorni non può assolutamente sottrarsi. Qualcosa infatti è tornato ad essere nuovamente problematico. Le domande etiche, che l’attuale contesto culturale, che forse sta perdendo in profondità quanto guadagna in ampiezza, pone al filosofo, lasciano infatti intravvedere nella modalità del loro stesso porsi l’assottigliarsi consistente di quel fondo comune condiviso, entro il quale la pluralità dei percorsi viene a costituire un intreccio di opzioni in dialogo reciproco e non un mero elenco incoerente di affermazioni autoreferenziali. Tutto sembra essersi messo in rapido movimento. Il riferimento vacilla, come pure l’orizzonte generale a lungo considerato come lo stabile sostegno di ogni procedere discorsivo. Siamo diventati tutti, come sostiene Engelhardt, degli «stranieri morali». Le strade che attraversano la regione etica non conducono più tutte a Roma. L’immagine, anch’essa proposta dal filosofo statunitense autore del Manuale di bioetica, rappresenta con grande efficacia la situazione contemporanea e le difficoltà che in essa la riflessione etica incontra. Quella metafora lascia infatti intendere che non solo, come è legittimo ed anche auspicabile, il punto di partenza dei percorsi dell’azione personale, nonché i percorsi stessi, siano differenziati; ma, anche, che non più coincidente sia neppure la meta. Ci si mette in cammino, insomma, senza grande preoccupazione per il luogo verso cui tende il movimento. Anzi, di più, il viaggiare medesimo viene a configurarsi come fine sufficiente a giustificare il viaggio, che diventa perciò un viaggio senza meta. Rendendo esplicito il ragionamento, esso constata la dissoluzione e frammentazione contemporanea del riferimento orientativo al bene, un riferimento che, per quanto diversamente declinato, ha nondimeno pervaso l’ethos dell’Occidente, venendo altresì riconosciuto come elemento gerarchicamente impegnativo per l’agire umano. In un altro momento riprenderemo in maniera più analitica il discorso. Qui per il momento interessa solamente mettere in evidenza come entro la tradizione europea si siano prodotte smagliature, che non consentono più di ritenere omogeneo ed immediatamente condivisibile il discorso etico, a partire dai suoi essenziali presupposti.
Con ogni evidenza, infatti, non è la sola riflessione etica ad essere messa in discussione dai grandi sommovimenti epocali che caratterizzano il nostro tempo. Anzi il fattore primario di crisi deve essere individuato piuttosto nella fragilità degli attuali assetti metafisici ed antropologici, con i quali la dimensione etica dell’esistenza è strettamente intrecciata e dai quali essenzialmente dipende; assetti che, per usare la nota metafora proposta da Zygmunt Bauman, sono segnati dalla liquidità, vera configurazione categoriale caratterizzante il nostro tempo. La società liquida è quella che non ha forma propria, ma si adatta facilmente ad ogni nuovo contorno che lo spirito dei tempi assuma; e che però, con la stessa facilità, corre il rischio di disperdersi e sfaldarsi, allorché il movimento si fa repentino e i cambi di direzione frequenti. E così diventa sempre più difficile identificare dei riferimenti univoci a partire dai quali costruire un profilo antropologico che riesca ad interpretare la pluralità delle esperienze umane. Il fatto è che la liquidità non tollera solidificazioni di alcun genere o livello, mentre le istanze, anche le più estreme e reciprocamente contraddittorie, rivendicano identico spessore e validità. Non è un caso perciò che la questione antropologica stia nuovamente bussando con prepotenza alle porte della riflessione contemporanea. Questa condizione dello spirito ha un evidente risvolto nell’etica, che soffre più di tutto la crisi e si sente messa in questione, dall’interno e dall’esterno, nella sua pretesa di interpretare e motivare l’agire dell’uomo.
Occorre perciò nuovamente assumere il compito del pensare, cercando di recuperare quanto con colpevole indifferenza la cultura contemporanea ha messo da parte. Non si tratta, va detto subito per evitare sul nascere ogni possibile equivoco, di invocare uno scongelamento comunque problematico di proposte conservate nel freezer della cultura, quasi che bastasse spostare indietro le lancette dell’orologio per tornare ad ipotizzare scenari di condivisa normalità. Occorre molto di più. Occorre disporsi a riprendere in mano con rinnovata energia le grandi questioni che da sempre l’uomo ha sentito come inevitabili ed insieme indispensabili per dar senso e reale pienezza alla sua condizione mondana.
2. L’etica in questione
Una cosa sembra infatti attestata con sufficiente certezza: l’etica ai giorni nostri si trova in un “ginepraio di contraddizioni” simile a quello denunciato da Kant per la metafisica del suo tempo. Serrati confronti su opzioni etiche reciprocamente contrastanti; condotte radicalmente differenziate, ricavate da petizioni di princìpi solo nominalmente identici; interferenze ideologiche che fanno sentire tutto il loro peso nella definizione dei programmi di vita: entro un tale scenario frastagliato l’uomo contemporaneo è chiamato ad affrontare la ricerca di un filo di coerenza, che dia valore al proprio agire senza consegnarlo all’evanescenza di decisioni arbitrarie, perché fondamentalmente incapaci di rispondere di sé. E poi, con più esplicita e convinta consapevolezza, ripetuti appelli a favore di un’etica condivisa, che persone di buon senso di tanto in tanto lanciano. Abbiamo un bisogno quasi disperato di trovare riferimenti comuni che ci consentano ancora di nuovo di delineare lo spazio di una convivenza ordinata.
Eppure la situazione continua a restare problematica. Il fatto è che questi appelli si mostrano radicalmente dissonanti o, forse ancor più, non coerenti con lo sfondo nichilistico della tarda modernità, uno sfondo che per un verso dà voce, per l’altro invece legittima il dissenso generalizzato verso ogni affermazione che intenda rivendicare per sé una intrinseca caratura, che dunque avanzi pretese rispetto alle quali l’individuo umano possa sentirsi subordinato e in qualche misura anche essenzialmente vincolato. Di ogni affermazione dell’etica, in relazione alla quale si sostenga una pretesa di normatività trascendente il contesto concreto cui essa possa comunque riferirsi, si avanza il sospetto di umana condizionatezza. Delegittimata in tal modo la pretesa universalizzante dell’etica, il singolo attore individuale della scena pratica proclama perciò se stesso come fondamento esclusivo di legittimità dell’azione. Su questo assunto, esplicitamente o meno convergono le più significative tendenze della modernità: condizionato dalla cultura, dalla religione, dalla vita sociale, dall’educazione, dall’economia — e come potrebbe essere diversamente, essendo l’uomo ontologicamente dipendente e determinato fin dall’atto che lo pone in essere? — l’individuo è invitato a sottrarsi a simili legami al fine di poter affermare se stesso nella sua più ampia libertà. L’uomo, che utilizza la norma etica, vuole esserne anche il creatore. Poche cose sono così radicate nella cultura contemporanea quanto il valore insuperabile della soggettività della coscienza. In qualunque modo si faccia richiamo ad un valore soprastante quest’ultima, la reazione che si genera è quella di ribellione ad un fatto percepito come intollerabile sopruso ed inammissibile violenza. Ma così l’etica ha ancora un senso, o non viene piuttosto destabilizzata fin nelle sue più profonde radici? Può l’etica abdicare al compito di fornire una norma fondamentale generale, che non sia plasmata od anche derivata solamente a partire da circostanze determinate ed assolutamente contingenti? Può l’etica convivere con l’affermazione di una autonomia totale della coscienza individuale, che viene a determinarsi meglio come autoreferenzialità assoluta e che il tratto frammentato dell’esistenza contemporanea traduce in fondo come anomia, ovvero negazione della norma stessa? L’etica non si riduce allora ad essere mera tecnica di comportamento, etologia — approccio che rivendica con essa una qualche forma di parentela, come la comune derivazione etimologica inequivocabilmente mostra? Con queste domande siamo così già entrati nel cuore della riflessione che ci occupa. La questione, che ci si va infatti proponendo, è quella del fondamento della norma etica, sul quale ci sentiamo particolarmente scoperti ed in grave debito di riflessione. Perché le difficoltà, cui si faceva prima riferimento, sorgono in definitiva proprio dal non poter più contare su un principio che possa essere riconosciuto immediatamente come assolutamente valido. Non sono dunque le singole valutazioni morali, pure spesso oggetto di accesa discussione e forte divisione, quelle che anzitutto ostacolano il dialogo e la possibilità di un incontro sull’etica, quanto piuttosto i principi che fungono da fondamento, di cui quelle valutazioni sono in definitiva deduzioni più o meno coerenti.
Questo genere di considerazioni non ci sono del tutto nuove. A porre l’attenzione su di esse ci ha abituato Kant con la sua riflessione critica trascendentale; richiamarne perciò l’ambientazione assieme storica e teoretica può aiutarci ad avanzare nella nostra riflessione. Non potendo più contare sull’immediata evidenza dei princìpi della tradizionale dottrina morale, che la scienza newtoniana da un lato, le trasformazioni sociali e culturali prodotte dal progresso della civiltà dei lumi dall’altro, stavano velocemente erodendo, Kant si è mosso alla ricerca di un nuovo approccio che consentisse di salvaguardare il diritto e la possibilità stessa per la coscienza morale di un’azione moralmente adeguata. Dobbiamo riconoscere che a più di duecento anni dalla sua morte, le questioni che nel campo etico ci si parano dinanzi non sono poi così molto differenti. Non diversamente per noi, è ancor nuovamente con la retroazione che le risultanze scientifiche — oggi della biologia, più che della fisica — esercitano sulla riflessione etica che dobbiamo confrontarci; mentre, per altro verso, va delineandosi un nuovo senso morale, che affida alla valutazione suprema dell’individuo, in verità più autoreferenziale che autonomo, il tono etico dell’agire. Vengono ad evidenziarsi in tal modo due nodi problematici e fondamentalmente aporetici, che vogliamo anzitutto dibattere, rinviando ad un secondo tempo la definizione di una prospettiva di ricerca di un principio condiviso: la questione della libertà e/o determinismo nell’etica, ed in secondo luogo l’opposizione di universalità e/o relatività della norma morale. Entrambe le questioni investono la riflessione etica con una forza radicale che mette in gioco non solo la plausibilità dei sistemi etici, ma in definitiva la possibilità stessa della sussistenza di un pensiero e di una prassi che voglia e possa qualificarsi come etica. Diventa perciò essenziale misurarsi con esse.
3. Universalità vs. relativismo della norma
L’opposizione di universalità e relativismo della norma etica, dalla quale prendiamo le mosse, affronta la questione del fondamento di validità della norma stessa dal suo lato formale. Quella che in tal modo si pone è la questione relativa all’estensione dell’ambito di validità della norma. In relazione a quali eventi, situazioni, decisioni la norma etica può far valere la sua istanza?
In prima battuta, un tale interrogativo sembra solo articolare il ventaglio di possibilità cui la norma medesima si riveli applicabile; agli estremi troviamo il caso della norma che tutti riconoscono, almeno astrattamente, come impegnativa, ad esempio il divieto di uccidere, e dall’altro quello del principio di azione che invece interessa propriamente solo il singolo individuo. Tra questi poli si genera una tensione dialettica che può facilmente scivolare in una radicalizzazione esaltante in maniera esclusiva uno solo dei due estremi, come nel caso delle concezioni che potremmo definire dogmatico-oggettive che fanno della norma nella sua oggettività data un valore assoluto immediatamente applicabile ad ogni singolo caso ed al quale la coscienza individuale può solo mettersi passivamente al servizio; o, dall’altro lato, delle opzioni scettiche e individualistiche che, al contrario, ritengono che la determinatezza sempre particolare del contesto pratico, unita alla insopprimibile differenza dei singoli soggetti agenti, renda di fatto impossibile il ricorso alla mediazione di una fonte normativa univocamente determinata. Il peso specifico di entrambi i principi, che le posizioni filosofiche, qui sopra per sommi capi richiamate, pretendono di salvaguardare mediante la riduzione di valore del termine correlativo, chiede di essere apertamente riconosciuto. Norma morale e coscienza singola sono evidentemente legate in una relazione di equilibrio dinamico, sempre da ricercare e continuamente da ricostituire. Eppure su questo punto di equilibrio, e proprio per la sua dinamica costituzione, si concentrano alcune delle maggiori perplessità che affaticano la ricerca etica contemporanea. È conveniente affrontare la questione dal lato dell’universalità della norma. La domanda che ci poniamo è dunque la seguente: qual è il bisogno di sostenere l’affermazione di una validità universale del principio etico?
Il dato storiografico evidenzia con grande evidenza che la tradizione filosofica ha sostenuto in maniera pressoché costante come premessa fondamentale della possibilità stessa di una considerazione etica la validità della norma per la generalità delle situazioni. Questa impostazione può essere osservata già nella riflessione del primo Platone. La sua riprovazione della decisione dei giudici ateniesi che hanno condannato Socrate e, per converso, la difesa della correttezza dell’operato del suo maestro, è giustificata proprio mediante il confronto delle rispettive condotte con un paradigma unico cui l’agire singolo deve essere commisurato ed ancorato e dal quale solo dipende la correttezza del giudizio e la virtuosità dell’agire. Soltanto in questo modo infatti, a giudizio di Platone, la valutazione del bene può essere sottratta alla definizione del singolo, inevitabilmente parziale e dunque sostanzialmente arbitraria. E se, in altri momenti della storia della cultura, con atteggiamento ispirato a maggiore flessibilità il sentire comune ha aperto uno squarcio nella inflessibilità della legge morale concedendo la legittimità dell’eccezione, quest’ultima nondimeno non veniva ritenuta tale da inficiare la validità potenzialmente universale della legge. La norma etica era ritenuta capace di orientare la prassi in ogni situazione.
Anche affrontando la questione dal versante più propriamente teorico, il carattere di universalità delle sue affermazioni sembrerebbe proprio dell’etica. Che sia il bene o il giusto, la felicità o l’utile il principio che giustifica ed orienta l’azione, questo non può non avere un tratto universale; il principio morale cioè avanza la pretesa di valere non solo per il singolo individuo, in quanto ottiene la legittimazione più vera e forte dal fatto che quanto è affermato avere valore per il singolo è ritenuto potersi estendere anche, almeno di principio, a tutti gli uomini. È senz’altro Kant il pensatore che più di ogni altro ha sostenuto la necessità dell’universalità del giudizio morale, al punto da far valere come giustificazione dello stesso formalismo dell’etica l’insuperabile parzialità connessa ad ogni determinazione materiale della legge morale; questa risulta inevitabilmente condizionata proprio nel merito del comando dalla particolarità delle circostanze contingenti, che la rendono irrimediabilmente puntuale e ne impediscono la possibile estensione ad altre situazioni. La formula dell’imperativo categorico esprime questa preoccupazione kantiana in maniera esplicita: «Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale». In questa sorta di riedizione della regola aurea, che fa di quanto si desidera ricevere da altri il criterio di condotta verso gli altri, in effetti l’obbligazione del giudizio morale trova nell’affermazione di universalità la propria validità, ovvero la sua riconosciuta conformità al dettato della ragione. Solo nella misura in cui il principio della mia azione potrebbe essere accolto ed applicato anche da altri, ben oltre le contingenze del contesto originario — il che in altri termini equivale a dire la sua natura universale — solo in questo caso infatti l’agire del singolo individuo potrebbe rivendicare l’esatta corrispondenza all’obbligazione morale e proclamarsi moralmente corretto, escludendo ogni arbitrarietà del giudizio pratico.
Ma anche nel caso di un approccio etico differente, maggiormente attento ai risvolti empirico-concreti dell’agire umano, trova spazio l’appello a principi di riconosciuta portata universale, vale a dire da considerare da parte di ciascuno come imprescindibili ed assolutamente validi, benché diversamente declinabili nel concreto da soggetti differenti. Tutti gli uomini tendono alla felicità, «il più elevato dei beni realizzabili attraverso l’azione» e fine di queste ultime, sostiene Aristotele nell’Etica Nicomachea. E per quanto la concreta individuazione del contenuto della felicità possa dar luogo ad esiti differenti, che mostrano il diverso grado di educazione e raffinatezza dell’anima, nondimeno è verso di essa che muovono tutte le azioni umane; ne è come la forza attrattiva ultima. Lo stesso si può dire per il principio di utilità, affermato da Hume come criterio di valutazione etica: l’utilità «è la sola fonte dell’approvazione morale che si tributa alla fedeltà, alla giustizia, alla veracità, all’integrità e alle altre qualità e principi utili e degni di stima». Le differenti opzioni teoriche si dividono dunque nella definizione dei caratteri essenziali del principio etico, non nel riconoscimento della sua validità. Ad esso, comunque definito, deve far ricorso il soggetto agente.
Quello che la tradizione filosofica esprime, in buona sostanza, è che la riflessione etica richiede che quanto essa propone possa valere al di là del caso specifico che l’ha attivata. Diversamente rimarrebbe solo il bisogno individuale o la pervicacia della volontà propria a fornire all’azione la determinazione etica essenziale. Con il che, però, la forza del principio che giustifica la dichiarazione etica sarebbe di molto limitata nel suo valore. Affermata solo relativamente al caso specifico, la norma si rivela incoerente e contraddittoria rispetto alla sua pretesa di orientare il comportamento in genere. Certamente la norma universalmente accolta non può escludere, ma anzi necessariamente include l’appello alla coscienza singola, che della condotta conforme a tale norma è esclusivamente responsabile. L’universalità della norma perciò non può essere contrapposta al diritto della coscienza. Ma proprio perché fra le due non si dà opposizione ma integrazione, la coscienza individuale deve riconoscere la valenza in qualche misura obbligante del principio universale.
Certo, ipotesi teoriche del genere manifestano una chiara intenzionalità prescrittiva del giudizio etico, tendono cioè a delineare orizzonti significativi per la prassi. Ma la questione non cambia di molto se, rifiutato per l’etica il riconoscimento di prescrittività, si concede ad essa solo una funzione descrittiva dell’agire umano. Anche in questo caso infatti non è difficile notare come l’iscrizione della proposizione oggetto di analisi al campo dell’etica sia consentita solo mediante il riferimento previo ad un paradigma condiviso del “marcatore” etico. Evidentemente buono o giusto sono termini il cui significato deve essere già presupposto e riconosciuto come valido dagli interlocutori che fanno uso di proposizioni del linguaggio etico. Diversamente non si disporrebbe di nessun elemento per delimitare il registro etico da quello afferente ad altri campi e quindi verrebbe meno la stessa possibilità di definizione della proposizione etica.
E tuttavia la questione non può dirsi chiusa in modo così facile. La forma attuale dell’alternativa etica solo approssimativamente suona identica alla articolazione che ne ha finora data la filosofia morale. A marcare la distanza, infatti, una seconda distinzione, che fa perno attorno alla affermazione della centralità assoluta ed invalicabile dell’esistere proprio di ciascuno, si sovrappone alla questione intrecciandosi con essa e producendo risonanze impreviste che finiscono per disarticolare anche l’equilibrio appena affermato della riflessione etica. Il dibattito interno all’etica, relativo alla migliore modalità di incarnare l’ideale universale che la costituisce nell’intimo, è scavalcato da una nuova posizione della domanda, dove messa in questione è esattamente la pretesa della legge morale di avere un qualche valore vincolante l’agire immediato. Per conseguenza delegittimato in radice è il richiamo ad un confronto della prassi con un quadro di riferimenti etici aventi forza di principio, di cui non si vede neanche il bisogno. Quale diritto può dunque vantare l’universalità della norma nel pretendere di subordinare a sé la volontà individuale del soggetto agente? Perché mai dovrei limitare lo spazio ed il potere della mia volontà libera assoggettando quest’ultima ad un principio che mi trascende, che non ho contribuito io a definire, che io sento comunque vincolante e restrittivo?
Domande come queste sono destrutturanti l’impianto etico tradizionale. Esse mettono in gioco infatti non tanto l’estensione dell’orizzonte etico, l’ampiezza inclusiva del principio cui l’agire singolo deve far riferimento, quanto piuttosto l’intensità dello stesso, la sua pretesa di trascendenza etica ovvero di apriorità nel processo pratico che lo costituisce gerarchicamente sovraordinato al soggetto agente. L’universalità della norma viene in qualche modo ancora riconosciuta; ma si tratta oramai di una universalità solo condizionale, affermata solo relativamente ed anche funzionalmente al diritto delle esigenze individuali, che esigono rispetto assoluto. La possibile estensione del criterio normativo particolare non viene pertanto esclusa di principio, ma se si dà è solo per un dato di fatto assolutamente non riconducibile ad uno schema di ragionamento di tipo universalizzante. Quello che sembra far problema alla coscienza contemporanea, insomma, è il primato che la norma morale rivendica per sé. Ecco che, rispetto a questa diversa formulazione della domanda etica, la lode kantiana al dovere, «nome sublime e grande» che «chiedi la sottomissione» e che «esponi soltanto una legge che da sé trova adito nell’animo e anche contro la volontà si acquista venerazione», mostra tutta la sua inefficacia. Altre sono le coordinate del problema.
Il fatto è che l’affermazione dell’individuo, vera e propria cifra della modernità, confligge con il riconoscimento della trascendenza della norma e si oppone radicalmente alla pretesa di universalità di questa. Per un motivo di interna coerenza la modernità, costituitasi attorno alla centralità del soggetto, non è disposta a rinunciare al principio di autodeterminazione individuale. Ma lo sviluppo dialettico di questo principio conduce ad esiti clamorosi, per quanto del tutto consequenziali. Autodeterminazione non significa più solo, kantianamente, che il principio della legge morale non può venirmi imposto in modo eteronomo, costituendo esso l’essenza stessa della ragion pratica; autodeterminazione in realtà sta a dire la rivendicazione di assoluta disponibilità di ogni principio, non solo materiale ma anche formale, da parte del soggetto agente. C’è un detto di Nietzsche su cui dobbiamo soffermare la riflessione. «Posto che si dia la verità, perché non, piuttosto, la non verità?» Della radicalità dell’attacco nietzscheano alla tradizione culturale che ha sorretto l’Europa (preferisco parlare di Europa piuttosto che di Occidente, come fa Nietzsche con una identificazione che andrebbe almeno ridiscussa. Europa non è la terra del tramonto.) solo ai nostri giorni cominciamo a prender coscienza. Minacciosa per la possibilità stessa dell’etica non è la contestazione della morale cristiana come morale degli schiavi, ma lo sconquasso operato sul sistema dei riferimenti in nome dell’assoluta volontà dello Übermensch, l’uomo che ha oltrepassato lo stadio umano di vita per collocarsi nel luogo dell’oltre, dove la sua volontà, che è volontà di potenza, domina sovrana senza più alcuna censura o remora. Non si dà infatti motivo alcuno, che non sia la volontà dell’uomo creatore, che possa attribuire un senso ed anche un valore a cose ed eventi. Nulla è già definito: non la verità, non la non verità. «Se esistessero ancora gli dei, come potrei tollerare di non essere io — un dio?», si lamenta Zarathustra. Eccola l’etica a-morale di Nietzsche, che abbatte ogni dato trascendente e reclama assoluta onnipotenza per la volontà vogliosa dell’uomo dell’Umanità superiore. Più nessun dio, sia pure nella forma di un valore secolarizzato, può ormai contrastare l’autoaffermazione dell’individuo che si afferma sul gregge degli uomini restati tali.
Non sorprende perciò che per molti di noi, nipotini non sempre consapevoli di Nietzsche, ogni rimando a principi universali, che avanzino una pretesa di validità intrinseca ed antecedente la libera scelta degli stessi da parte dell’individuo protagonista assoluto dell’agire, venga percepita come una minaccia ed anche una limitazione insopportabile al principio medesimo di libertà. E così il disaccordo etico ha preso il posto dell’accordo, la trasgressione e l’estraneità morale quello della condivisione, il relativismo etico quello dell’universalità della norma morale. L’ambito di validità di questa sembra restringersi agli orizzonti omogenei di senso e di valore di cui ciascuno, individuo o gruppo sociale, è nei fatti portatore. L’appartenenza ereditata dalla nascita o la consapevole adesione a differenti tradizioni culturali risulta costituire ostacolo insuperabile all’individuazione di una norma condivisa da tutti. Sicché ogni tentativo di accreditare una qualche validità a priori della norma viene considerato un ostacolo alla possibilità stessa dell’agire libero dell’uomo. Qui si tratta di più che della semplice enfatizzazione di esigenze individuali che non vogliono cedere ad un principio sovraindividuale, di cui pure si ammette la possibilità; in realtà quello che viene sostenuto è il riferimento delle scelte pratiche ad un soggetto che non riconosce vincoli estranei a quelli che lui stesso ritiene di autoimporsi. Al kantiano “tu puoi perché devi” si è sostituito il nichilistico “tu devi perché puoi”. Una prassi del genere trova sul terreno etico la sua più compiuta teorizzazione nel relativismo; questo restringe il campo di indagine etico alla circostanza fattuale nella sua più concreta immediatezza, dove solo il soggetto agente individuale è protagonista; dove pertanto non si danno altre istanze cui commisurare la propria condotta. E così l’etica dell’individuo razionale si rovescia nella prassi a-morale dell’imposizione inevitabilmente violenta del forte sul debole, del ricco sul povero, dell’incluso sull’escluso, del sano sul malato.
Ovviamente il relativismo è solo il portato finale di un processo che si muove molto più in profondità, ad investire i gradi preliminari su cui la riflessione etica si basa, quali l’antropologia e la stessa metafisica. Il riferimento a Nietzsche deve essere letto in questo senso. A considerare la cosa nel suo complesso, possiamo dire che giunge qui a compimento un processo plurisecolare di emancipazione, che ha liberato l’uomo dalle pastoie di oggettivazioni dogmatiche che finivano per negare quella dignità antropologica al cui servizio pure erano state elaborate. Una morale oggettivata ed al tempo stesso sclerotizzata in forme che pretendevano avere una vitalità ed una sostanza per sé stanti, pensate al tempo stesso più come gabbie entro cui comprimere la vita che come supporti per una vita buona, ha generato una reazione di ribellione. Il rifiuto di tali forme, che fanno dell’uomo niente più che un luogo della realizzazione di istanze esterne in cui la coscienza non ha parte attiva, ha però prodotto la versione semplificata, ed altrettanto estremizzata, di una prassi dove sono quelle istanze a non avere più parte alcuna. Il processo va ovviamente compreso nella totalità delle sue manifestazioni dinamiche, che qui possono essere solo alluse. Non serve a nulla la sua demonizzazione, così come conta poco osservare che il relativismo è in verità un assolutismo mascherato, dove la prospettiva individuale del soggetto agente viene totalizzata e proposta come prassi assolutamente giustificata dalla volontà stessa di chi opera. Resta che lo scardinamento dell’etica, nella sua stessa possibilità, è violento.
La segmentazione del principio etico nei rivoli di una soggettività affermante la propria assoluta ed incondizionata autonomia, che non risponde che a se stessa dei propri comportamenti, lungi dal valere come elemento di rinforzo della fondazione etica, ne mina in realtà le radici profonde. Perché un’etica possa darsi, occorre infatti almeno condividere un perimetro minimale di riflessione, che salvi dall’illusione dell’arbitrio e renda possibile il confronto. Aristotele questo lo dice della filosofia in genere. Noi limitiamoci ad affermarlo per la riflessione etica. Ed il motivo di ciò sta nel fatto che l’etica è chiamata ad intervenire non propriamente sui meccanismi dell’azione umana, quanto piuttosto sulle dinamiche che la stessa azione attiva nel contesto umano sociale. Già Hume osservava che non ci sarebbe bisogno della virtù della giustizia se l’uomo vivesse isolato da ogni contatto con il suo simile. Se l’uomo è essere-in-relazione, persona, l’agire umano, su cui l’etica afferma la competenza, non può non tener conto della presenza di altri e non può non essere oggetto di considerazione ed analisi da parte di altri; dal momento che le azioni e i loro effetti modificano strutturalmente la relazione umana, di cui tutti sono egualmente protagonisti e spettatori. Soltanto nell’ipotesi astratta ed irrealistica di un essere umano, individuo solitario ed isolato da ogni contatto con i suoi simili, si potrebbe sostenere a ragione la non necessità di un riferimento etico fondamentale previo ed indipendente rispetto all’azione data nel concreto. Ma poi forse, a ben vedere, nemmeno in questa ipotesi il singolo individuo potrebbe fare a meno di confrontare i diversi momenti del suo agire e cercare di tenerli assieme costruendo una condotta coerente capace di dare orientamento alle sue azioni.
Ecco dunque che l’elevazione dell’autonomia individuale a principio normativo esclusivo dell’agire, se può ancora valere in riferimento all’individuo singolarmente preso, diventa estremamente problematica quando pretenda di porsi come criterio di determinazione della condotta di singoli in relazione umana tra di loro. È evidente che in questo caso nessun motivo razionale può essere addotto a giustificare la modalità di gestione e di composizione del conflitto, che si genera inevitabilmente ogni qualvolta non si produce una concordanza immediata degli interessi individuali. A questo livello l’etica non potrà essere che espressione dell’interesse del singolo individuo concretamente impegnato nell’azione. E, a meno di non far ricorso all’ipotesi veramente metafisica, nonché sottilmente totalitaria, di un soggetto astratto, quale ad esempio l’umanità la società o lo stato, è allo stesso modo inevitabile che l’interesse del soggetto individuale sia un interesse limitato: a sé, ai suoi, al suo gruppo sociale. E che ne è allora degli altri? degli estranei al nostro ambiente sociale? degli stranieri?
Un caso che ha occupato tempo addietro le pagine dei giornali, quello dei “respingimenti” presso i paesi di partenza degli immigrati clandestini che cercavano di sbarcare sulle coste italiane, può essere un interessante esempio delle nuove difficoltà che un approccio etico di tipo relativistico pone. Esso dimostra che qualora l’utile nazionale richieda l’adozione di misure di contrasto lesive dei diritti elementari del “popolo dei barconi”, che sfugge alla guerra e alla fame, il primo fa premio sul secondo e questa priorità viene a giustificare eticamente l’azione. La relativizzazione della norma morale, fatta dipendere dalle esigenze del soggetto (individuale o collettivo) protagonista dell’agire, rende non appellabile il riferimento al principio universalmente riconosciuto dei diritti dell’uomo. Se l’individuo è legislatore a se stesso senza che niente e nessuno possa contestargli il suo diritto primario a definire il contenuto della norma che egli riconosce come prioritariamente valida, non si vede per quale motivo questo stesso individuo che definisce assolutamente giusto il comportamento di tutela dei propri beni e territorio debba sottostare ad imperativi etici come quello della promozione della pace o del rispetto della salute o della dignità dell’altro uomo non appartenente allo stesso gruppo identitario. Nel contesto relativistico, il discorso può essere perfettamente coerente. Ma andiamo provocatoriamente fino in fondo. Gli italiani che lavorano sul territorio africano per conto di imprese italiane o gli escursionisti di safari in Africa non sono, dal punto di vista degli indigeni, altrettanti stranieri che operano illegittimamente in territorio altrui? non hanno pertanto pieno diritto i ribelli della Nigeria o i pirati del Corno d’Africa a far valere le norme della loro etica individuale (di gruppo)? e dunque “respingere” (che in questo caso equivale a rapire) questi stranieri, immigrati da loro non autorizzati? Non vorrei essere frainteso. Non intendo affatto giustificare tali comportamenti, che ritengo moralmente inaccettabili; sto solo cercando di rendere evidente come il riferimento alle esigenze individuali, che ognuno è nel pieno diritto di rivendicare — a meno di non introdurre una razzistica differenziazione tra uomo e uomo — non sia poi sufficiente a sostenere il minimo di decenza etica necessario a garantire la sopravvivenza delle relazioni umane. Mi sembra che l’esempio mostri bene come basti cambiare prospettiva, spostare il centro del sistema, e quello che prima sembrava anche tollerabile se non anche accettabile, diventa improvvisamente crudele e illecito. La logica del ragionamento rimane la stessa: l’affermazione di una prassi di cui il soggetto agente è anche il fondamento di legittimità. Con quale coerenza di ragionamento allora sostenere la colpevolezza e la disumanità di quei comportamenti? Una volta ammesso il criterio di ricondurre ogni decisione al punto di vista del soggetto agente, si potrà poi distinguere tra soggetto e soggetto? Pare perciò che non resti altro che la forza del vincitore ad attribuire apprezzamenti e biasimo. Perversa è dunque questa logica.
Perversa perché apre le porte alle giustificazioni più incredibili e alle legittimazioni più arroganti che nessun appello alla ragione potrà scardinare. Di fronte ad essa persino il richiamo ai diritti fondamentali dell’uomo, che pure valeva come ultimo contrappeso all’arbitrio di una soggettività esasperata, si rivela un’arma spuntata. Chiuso nel suo bozzolo dove egli è legge a se stesso, il relativista non si lascia scalfire dall’appello ad un fondo comune di dignità umana. Egli esalta il politeismo dei valori della società multietnica e multiculturale, dove ognuno può scegliere in tutta libertà e senza obbligo di giustificazione il suo idolo. Ma, e qui sta tutta la questione, questo politeismo ha scalzato il fondamento stesso che poteva sostenere e finora aveva sostenuto la ricerca del punto mediano di equilibrio, ha relativizzato persino quei diritti. Tra soggetto e sue maschere, l’immagine dell’uomo è andata in frantumi. La ricerca etica scopre così uno dei suoi lati deboli, ovvero il lato antropologico. Chi è infatti il soggetto dell’agire etico? Un individuo autoreferenziale, in grado di determinare assolutamente se stesso e pertanto estraneo ad ogni interpellanza di responsabilità verso altri, o una persona, essere in relazione con altri cui deve in qualche modo rispondere di sé e del suo operare? Dalla risposta a questa domanda dipende la possibilità di continuare nella nostra riflessione.
La conclusione è pertanto aporetica. L’etica sembra come bloccata in una situazione di stallo, nella quale le domande risuonano con maggiore intensità.
4. Libertà vs. determinismo
Lo scenario non si fa di certo più nitido se affrontiamo il secondo dei nodi sopra individuati come centrali per l’attuale ricerca etica, nodo che aggredisce la possibilità dell’etica in una maniera che si rivela speculare al primo. Se infatti l’alternativa tra universalità e relativismo metteva sotto scacco l’etica dal versante della norma, la quale si trova ad essere relativizzata in nome del diritto sovrano della coscienza di comporre i criteri del suo agire, adesso nella sfida che il determinismo lancia nei confronti della libertà è invece la coscienza morale ad essere sottoposta ad attacco frontale, dal momento che l’operare umano viene ricondotto a dinamiche biologiche pensate come determinanti la stessa coscienza nel suo efficace intervento pratico. E mentre nel caso precedentemente esaminato il naufragio della norma porta con sé la disarticolazione della comunità etica e la conseguente perdita di potere della ragion pratica a vantaggio dell’immediatezza del sentire e del desiderio, in questo caso il tentativo riduzionista dello scientismo più agguerrito finisce per rendere niente affatto scontato persino il semplice parlare di etica. È necessario perciò prendere nota anzitutto dello stato della questione.
L’esperienza della libertà propria è per l’uomo esperienza di un’evidenza palmare. Sembra perciò difficile revocarla in dubbio. E tuttavia nel passaggio dall’esperienza della libertà alla presa di coscienza di essa la semplicità di quell’esperienza originaria si carica di fattori di forte tensione problematica. Sentita come valore irrinunciabile e caratterizzante l’essere umano nella sua essenza, la libertà nondimeno risulta spiazzante ed insieme conturbante per lo stesso uomo, che scopre se medesimo e l’altro dotati di un potere sfuggente ad ogni predeterminazione. Come in epoca moderna ha notato Kierkegaard, la libertà dell’esistenza è fattore di possibilizzazione estrema, che sottrae l’uomo al ciclo biologico naturalisticamente determinato del semplice vivente e lo costituisce sovrano di se stesso. A lui solo tra tutti i viventi è dato di poter modellare se stesso e l’ambiente in cui vive secondo modalità non naturali. La necessità della natura non è per lui limite assolutamente insuperabile.
Ma al tempo stesso ed in virtù degli stessi motivi la libertà sconvolge anche ogni sicurezza che l’uomo può aver costruito per sé, lasciandolo privo di ogni garanzia di futuro; proiettato verso il futuro del suo esistere, egli sa che nulla di questo futuro gli è garantito, proprio perché niente è per lui predeterminato. Connotata da un tratto così ambivalente, la libertà costituisce la sfida sovrana che l’uomo gioca con se stesso nel suo progetto, che è al tempo stesso il suo destino, di umanizzazione. L’umanità dell’uomo è infatti qualcosa di più di un dato organico fissato una volta per tutte; è realizzazione di sé, secondo un progetto di esistenza che prende corpo solo quando ciascuno, costruendolo come se fosse dato per la prima volta, lo assume per sé e su di sé. In questo modo si pone per l’uomo la condizione di un agire consapevole e responsabile; è dunque la libertà del suo essere che fa di un uomo un soggetto morale. Solo allorché questi può assumere responsabilmente su di sé la decisione ed anche gli effetti del suo agire, in quanto deliberatamente voluti e non semplicemente imposti, si danno le condizioni per un discorso etico. La libertà, come ha sottolineato Kant, è perciò come la ratio essendi della moralità. Dovesse venir meno, il comportamento umano perderebbe immancabilmente il suo tono etico e dovrebbe ricercare altrove il suo motore e la sua spiegazione.
Ma proprio questo sigillo di umanità che l’uomo porta con sé iscritto nella radice del suo essere confligge clamorosamente con un altro grande fattore che qualifica in maniera altrettanto essenziale e forse anche più riconoscibile l’essere umano, vale a dire l’intelligenza. Il raffinato esercizio di questa è lo strumento con cui l’uomo trova le modalità per elevarsi al di là del dato della propria posizione naturale e si mette in grado di gestire il progetto di libertà che lo individua. L’uomo è dunque altrettanto intelligenza, logos, ragione; e benché questi termini non siano del tutto sinonimi, sottolineando sfumature differenti che non possono essere soppresse, nondimeno essi tutti convergono verso un medesimo fuoco, quello di rendere possibile la comprensione del mondo ed organizzare in modo conveniente l’ambiente in cui l’uomo è inserito; la qual cosa costituisce fuori d’ogni dubbio uno degli impulsi originari dell’esistere umano. Realizzazione di sé e conoscenza del mondo, dunque: questa potrebbe essere la formula della relazione di libertà e ragione. Ma non è lungo la direzione interno-esterno che si gioca la difficile partita della coesistenza della libertà con la ragione, quanto piuttosto nella radicale opposizione delle dinamiche che rispettivamente le ispirano.
La dinamica della libertà ha la sua peculiare connotazione nella flessibilità del processo che la chiama in gioco. Esperienza di libertà si dà veramente solo laddove si presenta una pluralità di alternative, tutte egualmente possibili, tra le quali il soggetto dell’azione può esercitare la sua scelta. Essa suppone e richiede pertanto l’indeterminatezza del contesto operativo; una strutturazione già prestabilita di quest’ultimo, tale da rendere inevitabile la scelta della soluzione finale, avrebbe solo la parvenza di libertà, la renderebbe evanescente e fittizia. Libertà è pertanto rottura dell’ordine della necessità che governa inflessibilmente l’ordine naturale degli eventi. Ora proprio l’individuazione, comprensione, costruzione e ricostruzione della catena della necessità costituisce invece l’importante contributo che la ragione apporta all’esistere dell’uomo. Considerato sotto quest’ultimo punto di vista, il mondo appare governato da una ferrea legge, che la ragione sa scoprire nelle cose stesse. E così quello che ha l’aspetto di un assembramento caotico di enti casualmente disposti diventa un cosmo ben ordinato di eventi, nel quale l’uomo può trovare il suo posto ed interagire produttivamente; appropriandosi dell’ordine nascosto, all’uomo poi riesce anche di modificare con la potenza della sua tecnica il mondo. In questo modo, e tanto più quanto maggiore è il successo del suo intervento, l’uomo fa esperienza della legge di necessità cui il mondo della natura è sottoposto, principio che non ammette la possibilità di alternative, eccezioni, distorsioni, che non siano governate dalla necessità medesima. Nulla avviene per caso, nel mondo della natura, perché nella natura non si dà alcuna libertà. Qui ricava tutta la sua forza la costruzione razionale con la quale l’uomo spiega i fenomeni naturali, vale a dire la scienza. Che pertanto non può far posto ad alcuna ammissione di libertà.
La differenza delle prospettive è evidente. Su di essa aveva già attirato l’attenzione Kant, con la celebre affermazione su «il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me». Meno pacifica è invece la possibilità di coesistenza di questi due mondi, fisico e morale; dato che libertà e necessità non possono coabitare nello stesso orizzonte — e qui l’orizzonte è il medesimo, l’uomo. Ma pur essendo il medesimo il soggetto di riferimento, da questa univocità del riferimento non consegue assolutamente che unico debba anche essere l’approccio ad esso. La proposta kantiana si distingue esattamente per il rifiuto di ogni ipotesi di riduzionismo, troppo facile soluzione che risolve questioni complesse col riportare semplicemente al contesto proprio di senso quanto a questo contesto sfugga; lasciando così però che, ciò che resta eccedente, non è veramente interpretato ma solo rimosso. L’insegnamento del filosofo tedesco rimane dunque ancora una volta decisivo, proprio perché presta attenzione alla complessità e globalità dell’esistenza dell’uomo, contrastando tanto il pigro allentamento dell’ordine inflessibile della natura nel nome di superiori diritti di libertà, quanto lo stritolamento della libertà nelle maglie di una necessità richiesta e sostenuta dalla conoscenza scientifica. Le differenti esigenza dell’etica e della scienza possono venire entrambe salvaguardate limitando le pretese colonizzatrici, che entrambe intimamente coltivano allorché si affidano ad una medesima struttura, quella della razionalità epistemica che si vuole esattamente ed assolutamente in grado di determinare l’oggetto, teorico o pratico che sia. Non dunque l’universo unidimensionale del sistema gerarchico della razionalità scientifica, dove metafisica del trascendente o dello spirito e scienza dell’immanente o della materia si contendono il primato del sapere inconfutabile dell’episteme, ma la possibilità di un universo plurale, dove il riconoscimento della coappartenenza reciproca dei due mondi renda legittimo, accanto all’approccio apodittico della conoscenza scientifica, anche quello non necessario né necessitante, ma non per questo inutile od incerto, di un’etica della libertà consapevole e responsabile. Facendo una volta ancora ricorso alle parole di Kant, questa volta prese dalla prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, il sapere della scienza deve «far posto alla fede» della ragion pratica.
E tuttavia, come la storia del postkantismo insegna, l’equilibrio kantiano si rivela troppo fragile e difficilmente condivisibile da parte di una scienza impegnata a raggiungere l’obiettivo di un sistema di conoscenze che possa dirsi assolutamente garantito perché assolutamente necessario. La dialettica interna alla scienza, che mira a raggiungere il grado assoluto di episteme, non può accettare il vincolo fenomenico invalicabile che Kant poneva alla ragione teoretica. Il modello dell’episteme in effetti non ammette limiti all’avanzamento della conoscenza in tutte le regioni dell’essere; una scienza o è assoluta o non è. Dietro la cosiddetta cortina del tempio, osserva Hegel, non c’è nulla da vedere; in altre parole per l’episteme, filosofica o scientifica che sia, non si dà realtà noumenica che non possa manifestarsi, almeno di principio se non anche di fatto. L’appello alla dignità e all’interiorità dell’uomo, il richiamo alla nobiltà della sua coscienza, lo stesso immediato sentimento di libertà, cose tutte che sfuggono alla manifestazione oggettivante, devono perciò trovare una nuova e più adeguata riformulazione nei termini neutrali e (apparentemente) wertfrei della scienza. Laddove la necessità governi sovrana, termini come interiorità, coscienza ed altri dello stesso genere, valgono solo come parole ambigue che attendono una più precisa chiarificazione e definizione da parte della ricerca scientifica stessa. Anche l’etica ed il suo mondo non possono sottrarsi alla medesima esigenza. E così, è stato sufficiente attendere che il potenziamento degli apparati tecnici consentisse più raffinate e specialistiche indagini dei processi della vita dell’uomo, perché ne seguisse con grande naturalezza l’annuncio sempre più trionfale che tutte o quasi le questioni, che hanno finora animato il dibattito etico, trovino la loro precisa soluzione nel quadro della ricerca scientifica e tecnica. Le sensazionali scoperte, rilanciate con grande clamore dai massmedia, di “geni dell’amore”, della felicità, della religione e così via fanno il resto, contribuendo a plasmare il modo di pensare di un’opinione pubblica sempre più confusa e disorientata.
Il fatto è che ad una scienza sperimentale non è dato accesso a quanto di principio non può essere oggetto di osservazione. È questa una considerazione quasi tautologica e forse, proprio per questo, spesso premessa di conclusioni improprie. Perché è senz’altro vero che dell’agire umano, eticamente significativo, la scienza può cogliere esclusivamente il momento esteriore misurabile sperimentalmente, vale a dire il comportamento di un certo individuo che fa in un certo modo certe operazioni. Tutto il processo di libertà che precede l’agire, la valutazione della conformità a valori come pure la deliberazione circa la convenienza dell’azione con il progetto di esistenza che l’uomo coltiva, per non dire della costruzione di questo medesimo progetto, tutto questo dibattito interiore si sottrae alla osservazione ed alla analisi della scienza. Essa non può che dichiararlo estraneo al suo ambito di ricerca e quindi non attinente le sue indagini. Ma una tale dichiarazione di estraneità non porta affatto né richiede l’assimilazione dell’elemento estraneo e la sua riduzione all’orizzonte familiare dell’oggettività. Mentre è proprio questo che accade, allorché in nome dei diritti della conoscenza l’approccio scientifico si impossessa del mondo della libertà e ne ritraduce nei termini della necessità ad esso propri ciò che invece a questa necessità precisamente si sottrae. Ciò che rimane sul tavolo quindi sono soltanto le metodiche di comportamento oggetto di osservazione. Non più etica perciò ma, come dicevamo all’inizio, etologia, scienza del comportamento dell’animale della specie homo sapiens.
A dire il vero, però, più che risultato della scienza, queste sono solo le affermazioni che lo scientismo, pessima metafisica travestita di scienza, si incarica di promuovere e sostenere. È soltanto con la rielaborazione teorica delle risultanze della ricerca scientifica da parte di costrutti di interpretazione globale, ricavati non sempre con consapevolezza da implicite assunzioni filosofiche di senso, che si produce quella totalizzazione della conoscenza scientifica che pretende di valere come assoluta ed in ogni caso tale da rendere improponibili altre modalità di ricerca. Lo spazio dell’etica viene in tal modo confiscato; come ha scritto Nicholas Wade, un giornalista scientifico collaboratore della sezione scientifica del The New York Times, «fu il biologo Edward O. Wilson, oltre trent’anni fa, il primo a suggerire che “è giunto il momento di togliere temporaneamente l’etica dalla sfera di pertinenza dei filosofi per passarla ai biologi”» (La Repubblica, 22 marzo 2007).
5. Una conclusione provvisoria
Questa conclusione inattesa e per certi versi anche conturbante, che chiede comunque di essere pensata, mostra con grande plasticità come l’empasse contemporanea dell’etica sia qualcosa di più di una tempesta di superficie. L’evoluzione del contesto culturale contemporaneo mette in discussione l’etica nel cuore della sua pretesa di valere come riferimento significativo per l’agire dell’uomo. Espropriata dapprima del diritto di poter dare orientamenti per l’azione che fungano da criteri per la valutazione dell’azione medesima e non si limitino invece alla semplice registrazione del fatto, comunque benedetto in quanto opera non discutibile di una coscienza assolutamente sovrana, essa si è trovata da ultimo delegittimata persino nella sua semplice possibilità di sussistenza ad opera di una ideologizzazione dogmatica della scienza, che si affida in definitiva al successo pragmatico ed effettuale per tacitare del tutto il richiamo alla coscienza, ultima spiaggia dell’etica. Allo stesso modo dell’osservazione critica di Pascal verso il dio cartesiano, l’etica oggi sembra inutile dunque ed incerta.
Eppure il comune sentire si ribella ad una simile conclusione. Sentiamo che senza un quadro di riferimento che ci fornisca prospettive valide per l’azione, alle quali far ricorso nel tessuto vitale delle relazioni umane, il nostro stesso agire resterebbe estremamente volubile e privo di efficaci motivazioni. Accade così che, orfana di una matura riflessione etica, l’umanità contemporanea sia poi costretta ad andare alla ricerca di surrogati che non reggono veramente il peso del confronto e dell’essenziale compito cui sono chiamati. Non si può far veramente a meno di un orizzonte etico. Sempre meglio ci rendiamo conto di come a gestire le relazioni umane poi resterebbe solo il primato della forza; che non tarda a mostrare il suo volto violento e disumano. È la muta ed inquietante Bia, compagna di Kratos del prologo del Prometeo incatenato di Eschilo, inquietante proprio perché muta, cioè estranea al territorio comunicativo della parola, che dà conto di sé e forma così la trama di una relazione razionale che è alla base della comunità etica. Sono le enormi violenze che il potere, comunque definito, ha inflitto e continua ad infliggere oggi con gli smisurati mezzi della tecnica sull’umanità indifesa, inerme, umiliata di quanti non possono in qualche modo opporre un qualche contropotere. Ma la resistenza etica delle coscienze, che si rifiuta di riconoscere giustizia e concedere legittimazione etica al potere brutale della forza — force n’est pas droit, come la borghesia illuminata gridava contro l’Ancien Régime — mostra come l’istanza etica sia sempre risorgente, a dispetto di ogni preteso comando di esilio più o meno dorato. Un compito pertanto ci attende e ci riguarda tutti, ed è quello di tessere nuovamente la trama di una riflessione pensante che sappia articolare e dar forma attuale al bisogno di etica. Le sfide culturali provenienti dalla stagione che stiamo vivendo, una stagione confusa ma insieme anche ricca di promettenti aperture, lo richiede in maniera inderogabile. Definire con maggiore precisione la domanda etica, precisarne i suoi mutevoli e problematici contorni è stato quindi il primo essenziale passo, propedeutico ad ogni risposta, che qui abbiamo cercato di percorrere. In attesa di riformulare le coordinate di un’etica per il nostro tempo.