1. Problematizzare l’assenza
Una lettura filosofica della figura del padre deve anzitutto fare i conti con il silenzio di una problematica assenza. Per quanto possa sembrare strano, infatti, la filosofia non ha mai veramente sentito il bisogno di dirigere con decisione il proprio sguardo indagatore verso la figura paterna. Non che la parola sia del tutto inusuale nel lessico filosofico; l’Aristotele della filosofia pratica, come lo Hegel della filosofia del diritto, filosofi enciclopedici, non potevano di certo sottrarsi alla considerazione di essa. Siffatta osservazione, tuttavia, non vale a riscattare la scarsa confidenza ed anche il senso di sufficienza con cui la filosofia ha affrontato l’argomento. Eccezioni, dunque, certamente ce ne sono; ma, insomma, si tratta di eccezioni, per quanto significative, entro un panorama che non mostra aver scontato grande interesse per la questione.1 Ne è facile conferma la non fruttuosa consultazione di dizionari ed enciclopedie filosofiche: il lemma è semplicemente assente.
Eppure il pensiero dell’uomo ricercatore della verità, nei suoi primi illuminanti passi, non aveva esitato a far ricorso all’immagine paterna; già Eraclito ne coglie la forte pregnanza semantica, chiamandola in gioco quale metafora simbolica della relazione originaria che governa la totalità del reale. «Pòlemos [la guerra] di tutte le cose è il padre, di tutto poi è re»; così inizia un frammento spesso citato del pensatore greco.2 Dopo questo promettente inizio, tuttavia, la filosofia si è defilata dal confronto con la figura del padre, come colpita da una sorta di sacro pudore; il padre, e la connessa categoria di paternità, non è stato più ritenuto oggetto meritevole di attenzione teoretica.
La constatazione deve diventare dunque problematizzazione.
Alcune questioni si fanno avanti. Come mai la filosofia, questo inesausto desiderio di conoscenza, che sorge con la pretesa di sottoporre ad indagine la totalità delle regioni dell’essere e dell’agire umano, ha nondimeno sdegnato di soffermarsi su una, pur non marginale, dimensione dell’esistere umano? Per quale motivo una simile promessa ermeneutica è poi scivolata silenziosamente nel retroscena dell’affollato teatro del pensiero filosofico? Domande, queste, che rimandano ad un’altra, più radicale, interrogazione: è in grado la filosofia, nella forma che ha preso in Occidente, di misurarsi con ciò che la figura del padre rappresenta? È forse il silenzio sopra constatato segno di un più radicale deficit teorico?
La questione non può essere lasciata inevasa. Si potrebbe forse rispondere, di primo acchito, che la filosofia non si occupa di oggetti se non attraverso la loro riflessione universalizzante nella calma rarefatta del pensiero; laddove quella della paternità è invece un’esperienza diretta, immediata, che coinvolge le dinamiche «calde» della vita, dalle quali l’imperturbabile serietà del pensiero deve tenersi quanto più discosta possibile, onde evitare scivolate emotive o derive irrazionalistiche. Altri ne saranno dunque gli interlocutori. E poi, quella di padre categorialmente è una relazione, un pròs ti, che richiede di necessità un altro termine quale suo sostrato (uomo ad esempio) per poter essere definita. Non si è padre come si è uomo, per natura; padre si diventa. La paternità non è pertanto una realtà sostanziale; non può di conseguenza venire iscritta nello statuto ontologico dell’essere umano, che la filosofia cerca di determinare. Essa è una eventualità, una potenzialità, una dynamis. Alla filosofia basta perciò la conoscenza dei tratti essenziali e costitutivi l’umanità dell’uomo.
Ma, appunto, basta? È proprio così neutra la rescissione della dimensione della paternità dalla base antropologica, oggetto di considerazione teoretica? Non è forse così all’opera un riduzionismo antropologico, che depaupera, credendo invece di potenziare? Il fatto è che la logica del pensiero, quale è stata costruita dall’epistéme3 filosofica, impone, come cercheremo di mostrare, una modalità di approccio che si rivela in fondo inadatta e non sintonica con le aperture di senso occorrenti nella figura del padre. La cui rimozione dalla lista semantica del banchetto filosofico si rivela perciò di valore sintomatico decisivo. Forse non è un caso, allora, che la filosofia, come forma alta di teoresi, sia costretta oggi ad interrogarsi sulla sua possibile fine e sul pressante invito a risolversi nelle concrete indagini delle scienze.4 L’empasse si rivela drammatica quando si scopre l’incapacità di attenzione a dimensioni che radicano, e non solo psicologicamente, l’esistere umano; dato che, effettivamente, l’ambito dell’oggettuale ottiene senz’altro una migliore definizione ad opera dello strumentario scientifico.
2. Dall’individuo alla persona
Occorre dunque riprendere un filo interrotto.
Ad una considerazione più prudente, una cosa risulta anzitutto. La paternità lascia tralucere la sua portata teorica all’interno dell’orizzonte delle relazioni personali, le quali manifestano il loro pieno significato in quadranti antropologici sensibili alle valenze simboliche dell’esistenza umana. Solo un’antropologia capace di cogliere la peculiare modalità dell’esistere umano nella coessenzialità della relazione interpersonale, l’originarietà del rimando ad altri che pone il singolo essere umano come persona, è perciò in grado di poter cogliere il significato costituente della relazione umana. L’approccio essenzialistico, classico ma anche moderno, che si rapporta agli oggetti nei modi del pensiero definitorio tipici dell’epistéme, rimane invece come impigliato nei vincoli spersonalizzanti imposti al pensiero stesso dalla esigenza di neutralità scientifica. Parlare di paternità in termini logico-formali come di un idìon, di una proprietà qualificante ma non costitutiva dell’essenza umana generica, ci pone lungo un cammino deviato, che allontana dalla corretta comprensione.
Non è questione di nominalismo; se è infatti vero che le parole contengono una loro storica sedimentazione, diventa importante recuperare l’intuizione che in esse si è venuta a depositare. Non è difficile capire allora che il collare dell’eidos metafisico, imposto per ogni cosa da una volontà di conoscenza definitoria universale, proprio mentre rende accessibile l’entità umana alla pretesa conoscitiva, la mortifica in una umiliante cosificazione. Resa eguale alle cose in una corposa omogeneità ontologica, il suo quid non possiede alcuna decisiva sporgenza ontologica ed etica su quelle.5 L’uomo viene pertanto intercettato, ente fra gli enti, come atomon di perfezione; perfezione forse non assoluta, ma pur sempre autoreferenziale, vale a dire in grado di dar ragione entro sé della propria identità formale. Egli gioca così il suo destino proponendosi come in-dividuo, come minimum non ulteriormente scomponibile, tale da essere pienamente sussistente per sé, a prescindere e prima di ogni incontro con altri. La qual cosa consente senz’altro all’individualità umana di difendere il proprio spazio e affermare la propria volontà verso quanto gli si contrappone; ma ciò la consegna pure alla dimenticanza della finitudine del privato orizzonte, impropriamente dilatato a dimensioni di presunta assolutezza. Resta così che l’individuo non può trascendersi autenticamente, non può evadere veramente dalla clausura esistenziale, in cui è confinato e da cui affronta il rapporto ad altri nella logica violenta dell’appropriazione dell’estraneo. Le ragioni della sua socialità, anche quando siano volute innate, trovano vera giustificazione sul piano utilitaristico della gestione del fattuale stare assieme. L’altro uomo, verso cui l’individuo si indirizza, è solo strumentale, solo funzionale all’affermazione del Sé proprio; è perciò, fondamentalmente, competitore, nemico, servo, su cui imporre la propria autorità, od anche socio, con cui produrre l’interesse di volta in volta coincidente; giammai però presenza che appella e richiama alla comune radice. L’altro non interviene nella definizione ontologica del Sé individuale. O, se interviene, ciò accade in seconda battuta e solo per un bisogno soggettivo del Sé.6 Qui, però, ogni relazione interumana, e tra queste anche quella di paternità, è meramente accessoria; essa non definisce alcun orizzonte.
In verità, invece, è proprio il campo della relazionalità umana che si incarica di precisare in maniera autentica la condizione d’esistenza dell’uomo. Questi è persona, appello che risuona oltre sé in direzione di altri, da cui è originariamente appellato. Egli è persona in quanto, irriducibile alla sua sola emergenza corporea, si propone come proiezione comunicativa che, attraversando (per) la figura percepibile fisicamente esistente, risuona (sonat) espandendosi in direzione di un incontro con un altro capace di corrispondenza perché a lui simile.7 Come scrive Löwith, l’essere umano è «originario Essere-con-l’altro-in-reciprocità, in cui all’uno ne va dell’altro e con l’altro, insieme, di sé.»8
La pienezza dell’essere personale dell’uomo si dispiega perciò propriamente nelle relazioni che danno fondamento al suo esistere. Tra queste la paternità, come detto, si annuncia come forma forte di relazione umana. Da un punto di vista antropologico, così, la paternità non è un mero dato di fatto biologico; prima ancora, essa è un costitutivo ontologico dell’essere umano, un esistenziale.9 Essere padre — ma anche, per lo stesso motivo, essere madre — appartiene perciò alla più intima costituzione dell’essere umano, che è essere in relazione, persona, rimando essenziale ad altri. Il che vuol dire che nell’esercizio della paternità, nelle varie modalità in cui essa si presenta, l’uomo non solo dà compimento ad una possibilità d’esistenza, ma ancor più esce, con la generosità del suo istinto comunicativo, dalla altrimenti vuota egoità in cui lo reclude la sua immediata condizione naturale.10 Per quanto dunque sia vero che si è uomini anche senza esser padri, resta tuttavia che l’esperienza della paternità non si aggiunge dall’esterno ad una natura umana in sé già compiuta, ma ne costituisce possibilità autentica di reale umanizzazione. Figlio di un padre, l’uomo si pone poi come padre di un figlio, in una relazione che non è solo di paternità fisiologica (il genitore), ma anche psicologica e spirituale (l’educatore) e simbolica.
3. La dimensione simbolica della paternità
Quest’ultima merita attenzione. E non solo perché delle tre dimensioni della relazione appena delineate è quella che si presenta come senz’altro problematica all’interpretazione, di più difficile caratterizzazione.11 In verità, la dimensione simbolica della paternità investe la figura del padre di una forza categoriale aggiuntiva. Come tale, infatti, la paternità supera il piano del puramente naturale, ed acquisisce il peso di una forma culturale. Gli esercizi di analisi del profondo operati da Freud e la secolare riflessione della teologia trinitaria ne sono autorevole conferma. Ora se simbolo è un rimando realizzato nel simbolo stesso, la dimensione simbolica della paternità obbliga allora a cogliere il rimando ad altro che essa instaura.
Sotto questa veste, ad una prima approssimazione la paternità si presenta anzitutto come figura del potere e delle istanze etiche e politiche ad esso connesse, quali la fama l’onore ed il comando. Il padre è perciò paterfamilias, detentore del potere fisico e poi economico e sociale. Per questo aspetto egli porta le vestigia di una condizione di superiorità, che trae la sua legittimazione dalla forza che in qualche modo è capace di esercitare. A lui riconducono le dinamiche decisionali; egli incarna l’autorità e il prestigio dell’intera famiglia, che di siffatta autorità e prestigio si ammanta. Del potere, tuttavia, la categoria della paternità non riesce propriamente ad esprimere l’intera valenza. Essa incontra nell’immediatezza della vita della famiglia un limite,12 che ne riduce l’orizzonte di applicazione e la rende pertanto debole veicolo simbolico. È qui sufficiente richiamare un passaggio dell’Etica nicomachea di Aristotele, dove il filosofo greco afferma che «l’autorità del padre non possiede forza né coercitività (né, in generale, l’autorità di un solo uomo, a meno che non sia un re o una persona di questa sorta)».13
L’inciso della citazione aristotelica, con l’opposizione dell’autorità paterna a quella regale, fornisce un prezioso indizio per la ricostruzione della questione che abbiamo posto avviando la riflessione. Nei termini della comprensione razionale dell’agire umano, di un approccio teoretico cioè che si propone come forma di determinazione inconfutabile perché universalmente dimostrata, la figura del potere è da associare piuttosto al re, che gioca un ruolo societario determinante l’universo comunitario dei comportamenti, che non al padre. È il re, in effetti, il detentore del potere supremo o assoluto, che il dominio paterno non riesce comunque ad eguagliare. Il contorno di quest’ultimo, pertanto, risulta come sfocato e perde rilevanza nonché interesse speculativo. Negletta dall’analisi teoretica, questa figura trova così ben poco spazio anche nell’orizzonte della filosofia pratica.
Il timbro del potere non è però per la filosofia un registro marginale o secondario. Dal momento in cui la filosofia greca ha voltato le spalle all’originaria tensione sapienziale, per inseguire il sogno dell’epistéme — vale a dire della compiuta determinazione concettuale delle cose, in virtù della quale queste hanno il loro posto stabilito ed immutabile nell’armonia del kosmos — una volontà di potenza conoscitiva si è impadronita della filosofia. Le catene argomentative, in cui la razionalità stringe inesorabile il bisogno di conoscenza, circondano della necessità del logos la natura e trovano in essa riconosciuta la loro forza e legittimità. La ragione può allora rivendicare per sé il dominio concettuale (e più avanti nei secoli, in età moderna, anche e soprattutto pratico, cioè tecnico) della realtà stessa, plasmando il flusso caotico del divenire entro lo schema formale della rappresentazione conoscitiva: la scienza è istituita, la realtà dominata.14 La dimensione universale, che la scienza richiede, impone poi l’oltrepassamento della specificità singolare, arbitraria e contingente. Non è dunque per niente casuale che figura associata al simbolo del potere sia stata eletta la figura del re e che ai governanti venga suggerito di contornarsi di filosofi.15 Il governo, infatti, come la filosofia, è sospinto da un’ansia totalitaria di dominio, che non tollera le eccezioni del diritto della singolarità.
L’evanescenza filosofica della figura del padre trova così una sua spiegazione. La fattura privata del potere paterno non è in grado di sostenere il peso dell’universalità del simbolo, cui l’epistéme affida la propria legittimazione e necessità. Il padre deve essere sostituito con altre figure, ben più congruenti ed affidabili.16
La cosa si palesa ancor meglio, se investighiamo nella direzione di un secondo essenziale rimando, al quale la dimensione simbolica della paternità indirizza. Non che confermare le ragioni del persistente ostracismo della figura del padre dalla terra filosofica, avremo occasione di individuare altresì il punto di cesura di un percorso che, ricostituendo la condizione di una rinnovata considerazione di quella figura, può fornire alla filosofia, affrancata dall’abbraccio mortale del sapere assoluto, la bussola di una nuova corretta orientazione della sua matrice sapienziale, nell’età dell’efficientismo di una tecnologia ormai solo autoreferenziale.
La reversibilità della relazione di paternità, che sopra abbiamo richiamato, funge infatti da correttivo alla tentazione di onnipotenza, dall’uomo continuamente sperimentata. Avvicinata entro la cornice del potere, proprio da qui la relazione di paternità invita alla dura meditazione della condizione di eteronomia e di dipendenza entro cui l’uomo avanza la sua pretesa di potere. Questo, in verità, al di là delle illusioni prospettiche che il suo uso genera, non è mai potere assoluto; istituito all’interno di una relazione, esso non riesce a cancellare completamente il segno della fragilità della sua origine. Il fatto è che l’uomo, prima di essere l’adulto che dispone delle cose nell’autorità del suo imperio, è il bambino che volge confidente lo sguardo verso il genitore che lo nutre e lo protegge. E così nel padre io trovo il fondamento a me estraneo della mia presenza, la memoria vivente del mio esser creaturale, la denuncia della impossibile esaustività ed assolutezza del mio essere; ma anche la radice essenziale e la forza sorgiva dell’apertura verso l’altro, che mi costituisce dal profondo persona, ovvero essere in relazione comunicativa. Dipendente da altri, io trovo nell’altro il termine di una relazione che mi impegna, ed alla quale io non posso rinunciare senza rinunciare al mio essere.
Nella figura paterna, in effetti, il segno dell’eteronomia e dipendenza è solo l’altra faccia della gratuità. Il padre testimonia la possibilità dell’esercizio del potere nei termini di un servizio17 libero responsabile e gratuito. Qui l’eccedenza semantica della figura del padre rispetto ai dettami della tradizione filosofica si fa ancora più netta. La gratuità richiama alla logica del dono e della speranza, dell’offerta che trova nel futuro il suo appello cui corrisponde, assumendone anzitempo l’esigenza. Il dono è offerta non necessitata e fondamentalmente arbitraria, vale a dire sfuggente alle misure delle norme che regolano i commerci tra individui. Chi fa un dono, lo fa instaurando una comunicazione, non richiesta né imposta, tra eguali; chi lo riceve, partecipa a questa senza poter rivendicare nulla come dovuto. Né colui che dona, né chi riceve è nella condizione di costrizione; il dono autentico è espressione di libertà.
4. Il padre e la filosofia
A questo punto sono forse finalmente divenute evidenti le ragioni del silenzio sul padre. Essenzialmente estranea alla logica del dominio, che ha rappresentato la vera ambizione nascosta del pensiero occidentale, la figura paterna è stata marginalizzata dalla filosofia come categoria impropria. La paternità non risponde infatti minimamente alla logica economica dello scambio, dove la convenienza egocentrica diviene misura dell’agire.18 La gratuità del dono, in cui si condensano fortemente le valenze simboliche della paternità, sconvolge infatti le rigide determinazioni di necessità, grazie alle quali solamente l’uomo può imporre il proprio ordine alla natura, ottenendo conoscenza. Incapace di altra destinazione, la filosofia si trova quindi come smarrita ed inerme di fronte alla figura del padre, del tutto inadeguata ad accoglierne la gratuità ed il dono da essa simboleggiati. Questi diventano significativi solo quando il pensiero dell’uomo si dispone all’accoglienza di un senso che lo oltrepassa, pur entrando pienamente nella storia; quando il logos cessa di essere apparato violento di dominio, per scoprirsi interlocutore privilegiato di una verità che lo interpella nel silenzio autentico dell’ascolto; ché solo dall’ascolto nasce la consapevolezza mondana della verità.
Allora lo smarrimento descritto, di cui il silenzio sul padre è solo emergenza e metafora, può diventare occasione di riscatto e di rilancio del logos stesso, nell’ascolto di una Parola paterna originaria che, interpellando, chiama alla luce ed alla vita.
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Del resto, anche in Aristotele ed in Hegel l’argomento non è propriamente centrale. Hegel, ad esempio, si interessa solo indirettamente del padre, e solo nei termini giuridici del trasferimento ereditario del patrimonio della famiglia. (Cfr. i Lineamenti di filosofia del diritto, §§ 178-180.) Su altra linea sta il Kierkegaard di Timore e tremore. Tra i pochi ad aver dedicato una riflessione esplicita all’argomento è Paul Ricœur, nel suo saggio «La paternità: dal fantasma al simbolo», in Il conflitto delle interpretazioni (tr. it. Jaca Book, Milano, 1986, pp. 483-512). Vanno segnalate anche le pagine della quarta sezione, «Al di là del volto», di Totalità e infinito di Emmanuel Levinas (tr. it., Jaca Book, Milano, 1990, pp. 257 ss.). ↩︎
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Fr. 14 [A19] ed. Colli [22 B 53 DK]. ↩︎
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L’accostamento della filosofia occidentale all’epistéme va, sia pur sommariamente, motivato. Con la parola epistéme qui si intende quel processo di ragionamento — enucleato anzitutto dalla filosofia, adottato quindi dalla moderna scienza della natura ed affermatosi in seguito come tipologia esclusiva di pensiero grazie all’evidenza del successo pratico delle ricerche condotte in suo nome — in virtù del quale la verità/validità del risultato è garantita anzitutto dalla forza dimostrativa del ragionamento stesso; il quale può esercitare così il proprio dominio concettuale-pratico sul reale, colto nella sua universale oggettività. L’epistéme costituisce pertanto il background cognitivo comune ai sistemi della filosofia occidentale come pure alla moderna scienza sperimentale. (Per una più compiuta delineazione della questione, mi sia consentito di rimandare al mio saggio «Il silenzio dell’intelligenza che ascolta» in E. Baccarini (cur.), Il pensiero nomade. Per una antropologia planetaria, Assisi, Cittadella Editrice, 1994, pp. 49-75.). ↩︎
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La letteratura sulla «fine della filosofia» è quanto mai ampia; impossibile qui anche solo accennarvi. Valgano, per tutti, le sconsolanti conclusioni cui giunge Lucio Colletti in «Fine della filosofia?», Micromega ’96. Almanacco di filosofia, pp. 263-278. ↩︎
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Non è qui questione ovviamente della fattuale prevalenza ontica dell’uomo sulle cose, ma solo della sua ontologica asimmetria rispetto ad esse. ↩︎
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È evidente che qui il Sé è l’individuo adulto, sano, economicamente autosufficiente. Quale forma di eugenetica culturale si nasconda sotto convinzioni così diffuse non è difficile da notare. Si vedano, per contro, le belle pagine che Hans Jonas dedica, nel capitolo IV del suo Il principio responsabilità, alla fondazione della teoria della responsabilità a partire dalla fondamentale «non-autarchia dell’uomo» (tr. it. Einaudi, Torino, 1990, pp. 125 e ss.). Che poi anche i più raffinati sforzi di superamento dell’individualismo della soggettività autoreferenziale non riescano ad evitare il conflitto violento lo conferma Hegel nella dialettica dell’Autocoscienza. L’Autocoscienza, che nella sua Begierde ha bisogno di consumare di continuo l’oggetto, si scinde sì in un’altra Autocoscienza, ma per imporre ad essa il riconoscimento della propria forza nel corso di una lotta per la vita e la morte. (G.W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. La Nuova Italia, Firenze, 1973, vol. I, pp. 144-164.). ↩︎
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Si può richiamare qui la profondità dell’intuizione biblica che presenta l’’adam, l’uomo nell’immediatezza del suo esserci creaturale, compiuto nella sua pienezza solo allorché questi riconosce nella donna l’«aiuto che gli sia simile». Del resto, egli è opera creaturale di un Dio plurale, vitalità di relazione racchiusa nella stessa economia intradivina (Genesi, 1-2). ↩︎
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Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, in Karl Löwith, Sämtliche Schriften. I: Mensch und Menschenwelt. Beiträge zur Anthropologie, Metzler, Stuttgart, 1981, p. 12 nota 3. ↩︎
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Ciò peraltro consente al discorso, che qui si svolge al maschile della relazione di paternità, di essere declinato nelle sue linee portanti anche al femminile della relazione di maternità. ↩︎
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È chiaro che qui naturale non sta per fisiologico. La paternità è una delle dimensioni fondamentali in virtù delle quali l’uomo vive la propria responsabilità; essa assume pertanto i tratti di autentica umanizzazione, laddove il rifiuto di essa, da non confondere con l’impossibilità fisica o la sua sublimazione simbolica, abbassa la persona umana ad individuo monadico. ↩︎
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Scrive Ricœur, nel saggio richiamato in precedenza: «La figura del padre non è una figura ben conosciuta, il cui significato sia invariabile e di cui sia possibile seguire le trasformazioni, la sparizione o il ritorno sotto maschere diverse. È piuttosto una figura problematica, incompiuta e inquieta, poiché si tratta di una designazione suscettibile di attraversare una varietà di livelli semantici, dal fantasma del padre castratore che bisogna uccidere, fino al simbolo del padre che muore di misericordia» (op. cit. p. 483). ↩︎
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Nei Lineamenti di filosofia del diritto Hegel parla di un necessario «scioglimento etico della famiglia», come condizione del riconoscimento ai figli della loro libertà. Qui, prima ancora che nello «scioglimento naturale della famiglia, per la morte dei genitori», si gioca il destino della famiglia e delle figure che in essa hanno realtà e si determina inoltre il tramite dialettico del passaggio alla società civile (cfr. §§ 177 ss.). ↩︎
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Etica nicomachea, 1180 a 20-21 (ed. it., Bur, Milano, 1986, vol. II, p. 883). ↩︎
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Non è qui possibile argomentare in maniera più articolata l’accostamento della filosofia dell’Occidente con la funzione del potere. Se ne può solo cogliere una traccia nella parentela linguistica tra il verbo latino capio (prendere), che forma la base verbale del termine italiano concetto (cum-ceptus: com-preso) ed il sostantivo latino captivus (prigioniero). Comprendere è perciò un prendere-tutto-assieme, un abbracciante catturare la realtà, che così viene messa a disposizione del soggetto conoscente. Il reale, che sovrasta con la sua imprevedibilità l’uomo, viene allora a sua volta dominato dal sapere comprensivo dell’uomo che, abbracciando l’oggetto, lo costringe nella rete concettuale da questi costruita. ↩︎
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«La Città di cui abbiamo detto c’è stata, c’è e ci sarà, quando questa Musa della filosofia diventi signora di essa.» Così Platone, in Repubblica, 499d. (tr. Reale). Ma è poi molto diversa la condizione del moderno Cortegiano, intellettuale organico ed engagé? ↩︎
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Non è senza significato che la teologia filosofica abbia pensato Dio come Essere Sommo, Ragione Assoluta, Perfezione suprema, in piena conformità alle esigenze speculative del logos, senza lasciarsi provocare dalla affermazione scandalosa che Egli possa essere in verità Padre di misericordia. ↩︎
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Degno di nota è l’attribuzione al Papa del titolo di Pater Patrum, assieme a quello di Servus Servorum Dei. ↩︎
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Ma l’Occidente, nella sua corsa senza senso, sembra attualmente disposto ad infrangere anche questo ultimo tabù. Con una scissione lacerante l’unità delle sue dimensioni, la paternità viene rimossa dall’orizzonte simbolico e fatta regredire a mera funzione naturale, che la tecnologia si incarica poi di gestire con il massimo di efficienza e di utilità. Banche del seme e business della fecondazione artificiale, con l’ideologia consumistica che fa loro da supporter, sono lì ad attestare la violazione ed il tradimento della paternità; che così rimane paternità naturale, biologica, senza essere anche paternità psicologica e simbolica.L’evento misura la deriva della ragione filosofica ridotta a pura razionalità strumentale; una ragione che, non più capace di credere ai suoi fasti, si abbandona all’immediatezza del sentire o forse non ritiene più nemmeno sensata la questione. La mercificazione della paternità, cui una tecnologia senz’anima sta assuefacendo il senso etico comune attraverso il balletto colpevole delle risonanze mass-mediatiche — sempre meno neutrali, sempre più affascinate, il che non significa anche sempre più consapevoli —, non è allora che l’ultimo, in ordine di tempo, movimento della parabola del logos dell’Occidente che si avvia al suo tramonto: novello apprendista stregone che, non riuscendo a controllare gli spiriti da lui stesso evocati, ne è dominato e si consola convincendosi che così è giusto che sia. E la mercificazione della paternità è propriamente mercificazione dell’umanità innestata nella coscienza della dignità umana. Che sia la questione bioetica, dopo la questione ecologica, che pure non ha avuto la forza di riconoscerla, a riproporre all’attenzione di tutti l’urgenza di una liberazione della ragione dall’empia pretesa di onnipotenza? ↩︎