La modernità come secondo (e definitivo) superamento della gnosi. Hans Blumenberg e la legittimità dell’età moderna

1. La querelle sulla secolarizzazione

Il nome di Hans Blumenberg è frequentemente associato, per viam oppositionis, a quello di Karl Löwith ed alla vivace controversia sulla secolarizzazione sviluppatasi in Germania negli anni ’60 del nostro secolo. Riprendendo e distendendo in un grandioso scenario storico le intuizioni weberiane sul processo di razionalizzazione dello spirito moderno, Löwith dette forma in un famoso saggio — significativamente sottotitolato I presupposti teologici della filosofia della storia1 — ad un ampio affresco dell’età moderna, in virtù del quale la filosofia della storia veniva raffigurata ed interpretata quale risultato emblematico del processo di secolarizzazione dell’idea cristiana di storia della salvezza. In opposizione polemica contro lo storicismo ancora ben radicato, che individuava il luogo di fondazione del pensiero storico nella cultura del Settecento, intento di Löwith era invece quello di «mostrare che la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico».2

Sebbene interesse dell’autore fosse non tanto quello di celebrare nuovi trionfi della fede, quanto piuttosto quello opposto di far risaltare per contrasto, quale unica alternativa ad un eschaton sempre in via di venire ma incapace di realizzarsi veramente, la necessità di «ritornare alla teoria classica di un movimento circolare, poiché soltanto presupponendo un movimento che non ha né principio né fine la continuità [del processo storico] è realmente dimostrabile»,3 nondimeno la relazione fra fede biblica e pensiero storico moderno reclamata da Löwith non poteva non venire percepita come obiezione sufficientemente pesante nei confronti delle pretese di autonomia normativa della ragione moderna; una ragione peraltro che già pareva vacillare sotto i colpi di altri agguerriti avversari, tutt’altro che disposti ad accettare il suo incontrastato dominio.

La reazione non si fece attendere e trovò in Blumenberg un convinto protagonista. Come scandalizzato da quello che aveva tutta l’apparenza di uno scippo della maestà della ragione critica, egli contestò la tesi di Löwith in un libro fortunato — fortunato almeno per la icasticità simbolica del titolo, La legittimità dell’età moderna —,4 con cui opponeva un netto rifiuto ed una ferma censura della plausibilità teoretica e della affidabilità ermeneutica della categoria di secolarizzazione. Già il titolo della prima parte dell’opera — Secolarizzazione. Critica di una categoria dell’ingiustizia storica — ne fornisce sufficiente anticipazione.

Che la secolarizzazione sia una categoria dell’ingiustizia storica risulta, a parere di Blumenberg, dalla sostanziale eterogeneità che essa sconta con il suo explicandum. Col sostegno di essa viene proposto un percorso culturale che intende ricondurre fatti contesti ed esperienze, aventi tutti il loro luogo di svolgimento nell’orizzonte della mondanità, ad un non meglio precisato fondamento e scaturigine non mondani; con ciò lasciando anche cadere una pesante ipoteca sulla spontaneità e genuinità della cultura — la cultura dell’epoca moderna — che ha fatto suo e rivendicato come segno distintivo e vessillo liberante l’appartenenza ed il radicamento in quell’orizzonte. Ma come si può pensare, si chiede Blumenberg, che una categoria storiografica possa essere rivestita di uso esplicativo laddove essa supponga una sorta di dialettica trascendentale della ragione ermeneutica, vale a dire «qualcosa come uno scambio di mondi, una discontinuità radicale delle appartenenze»5 metafisiche? Come fa il mondo con la sua mondanità, in altre parole, ad essere interpretato da un concetto, quale quello di secolarizzazione, che trae la sua forza semantica dall’appartenenza e dal riferimento ad orizzonti di senso semplicemente trascendenti quel mondo stesso? Blumenberg non sembra disposto ad ammettere, nella pratica ermeneutica, qualcosa come la possibilità di una eterogenesi dei fini ovvero una “storia degli effetti”, per la quale un concetto possa avere valenza esplicativa e produrre risonanze ermeneutiche anche al di là dei circuiti culturali inizialmente conformi. Il concetto di secolarizzazione rimanda in definitiva ad un contesto semantico che, proprio per il suo riferimento fontale alla trascendenza, lo rende improponibile quale principio interpretativo della realtà mondana, ad esso antagonista. Parlare di un mondo che si è allontanato dalla sua prima origine divina nasconde quindi una mistificazione ideologica, in quanto omette di dire che un mondo secolarizzato è tale solo rispetto ad un presuntoincipit trascendente, inadatto, proprio in quanto trascendente e dunque eterogeneo ad ogni tipologia mondana, a fornire le chiavi per una lettura filosofica del processo evolutivo di quel mondo. L’utilizzo della categoria di secolarizzazione sviluppa pertanto una sorta di cortocircuito ermeneutico, che ne rende inutile e decisamente fuorviante il ricorso.

La linea argomentativa di Blumenberg è chiara. Nella ricerca di una purezza analitica totale, indifferente a vincoli gödeliani perché capace di autonoma fondazione, egli trova intollerabile l’uso di categorie le quali ricevano invece il loro senso al di fuori dell’orizzonte ermeneutico di riferimento. Una categoria ermeneutica, infatti, è provvista di una «solida utilità metodologica» alla condizione che possa essere utilizzata in funzione esplicativa non solo nei riguardi dei risultati di un processo storico, ma anche in relazione agli inizi del processo stesso. Essa deve essere in grado di giustificare la sua necessità. Invece «l’illegittimità del risultato della secolarizzazione consiste nel fatto che esso non può secolarizzare il processo stesso dal quale è sorto».6

Un mondo secolarizzato è pur sempre un mondo portato a pensarsi come instabile e privo di certezza, orfano dell’origine perduta, dalla quale pure si sente essenzialmente differente. Un vizio originario, questo, che impedisce vantaggiosi sviluppi nella comprensione di sé. Accettare una origine eterologa del processo storico di produzione della sindrome culturale moderna, senza essere poi in grado di riuscire a ricondurre anche siffatto principio all’interno del quadro normativo della ragione moderna, tutto questo testimonia palesemente della artificiosità della storiografia löwithiana. Quello che conta è invece «comprendere la costituzione dell’età moderna», senza far entrare in campo elementi e processi, sia pure analogizzabili, ma chiaramente allotrii, quali ad esempio la realtà di un Cristianesimo mondanizzato, cui attribuire la responsabilità della genesi dell’epoca moderna.7 Tra questa e l’altro si dà infatti un contrasto di fondo non componibile.«Lo schematismo della trascendenza pone un dualismo della decisione tra possibilità, intenzioni, direzioni che sussistono contemporaneamente» ed in modo alternativo, tra le quali, quindi, non si dà effettivamente alcuna trasmutazione o passaggio, sia pur di decadenza.8 In Löwith e nella sua categoria-cardine di secolarizzazione si nasconde così un residuo di «sostanzialismo storico», indimostrato ed inaccettabile, che obbliga a pensare il processo storico della modernità secondo lo schema di una inarrestabile degenerazione concettuale.9 La critica di Blumenberg è pungente.

Essa tuttavia non riesce a nascondere completamente il tratto metafisico in essa latente; un tratto che piega verso l’opposizione logica assoluta di concetti mutuamente esclusivi una processualità storica che non si lascia ingabbiare da vincoli preformati. Ciò che, come non mondano, è trascendente, non può venir utilmente connesso a ciò che, come mondano, trascendente non è — questa verità logica potrebbe anche non essere una verità effettuale. E questo almeno in un senso, quello cioè per il quale l’abituale confidenza in sé del pensiero, conquistata e pienamente giustificata dalla cogenza dei suoi ragionamenti, rende questo insensibile a fronte di eventi che sfuggono, perché originari, alla ferrea necessità, dal pensiero stesso richiesta ed imposta. Accade così che l’eccedenza di senso del reale, che si svela solo ad uno sguardo meno fuggevole e più intenso dell’ordinario scambio strumentale con il mondo che abitiamo, si dilegui e rimanga preclusa alla volontà di potenza conoscitiva del logos.10

Non è perciò sufficiente osservare una contraddizione logica di concetti astrattamente considerati, per poter concludere alla illegittimità del loro uso coniugato. Argomentare la differenza dei concetti non dice senz’altro nulla a favore della loro possibile appartenenza ad un comune orizzonte, ma nemmeno nulla contro. Con più stretto riferimento al pensiero del nostro Autore, occorre dire che il concreto divenire storico, in cui l’agire libero dell’uomo assume e si innesta nel solco di una tradizione culturale determinata entro cui soltanto quell’agire è efficace, risulta inaccessibile ai circuiti teorici di interpretazione costruiti sul pensiero duale della non contraddittorietà. Ora, è senz’altro fuori discussione che il concetto di trascendenza sia connotato dal rimando ad un termine atemporale e metastorico, di principio inconciliabile con il concetto temporale e storico di mondo, o che esso, in alcune varianti teoriche, sia provvisto di una forte carica escatologica implicante il superamento finale della storia, la quale del mondo costituisce invece il ritmo vitale; come pure non può essere contestato che l’attesa escatologica sia stata vissuta dal Cristianesimo delle origini con modalità esistenziali di alternatività all’impegno mondano attivo.

Ma tutto ciò autorizza forse a ritenere prive di senso quelle affermazioni che non accettano siffatta logica dell’opposizione assoluta? Non ci si dovrebbe lasciar interrogare, senza sovrapporre risposte preconfezionate, e non si dovrebbe tentare di interpretare, come pure hanno fatto filosofi del rango di Hegel, affermazioni “impensabili”, quali quella dell’incarnazione e umanizzazione di Dio? Non è assolutamente vero che l’attesa escatologica debba inevitabilmente condurre al disinteresse per la storia. Si rivela perciò affrettata e semplicistica la conclusione che «l’autoaffermazione [sc. della ragione] diviene qui la quintessenza dell’assurdità».11

Che l’infinito si opponga semplicemente al finito, osservava Hegel, è solo il segno di una cattiva comprensione dell’infinito stesso. Quanto di statico permanga in tale posizione non è difficile da intravedere. Con tali osservazioni, Blumenberg ha di fatto costruito attorno all’affermazione della legittimità dell’età moderna, per finalità che si sveleranno soltanto più avanti, una impalcatura metafisica rigida ed impenetrabile, che non lascia più spazi aperti e che è pronta a rimuovere ulteriori ostacoli imprevisti. Ma non sembra felice operazione di analisi culturale quella che non sappia anche dar conto di quanto eccede il limite da essa preventivamente tracciato. Né, a tranquillizzare le intelligenze, è ormai più sufficiente la professione di fede di un’ermeneutica positivistica, che nega di principio la possibilità dell’eccedenza di senso del dato ermeneutico.

Il fatto è però che, in verità, qui si nasconde altro. Esplicitamente Blumenberg non lo dice, ma lo lascia chiaramente intuire: la secolarizzazione è il nuovo cavallo di Troia con il quale si reintroduce entro la cittadella della modernità il pensiero religioso della trascendenza, che la modernità stessa ha penato ad espellere ed è riuscita finalmente a neutralizzare. Occorre quindi abbandonare questo «ultimo theologumenon» rappresentato dal teorema della secolarizzazione, che ricondurrebbe ancora una volta lungo i sentieri del pensiero teologico.12 Si tratta al contrario di riprendere e riabilitare i moduli teorici dell’illuminismo, i quali conducono alla «secolarizzazione del concetto stesso di secolarizzazione».13

Troppo facile è annotare che, una volta avviata, la reduplicazione di un concetto diventa poi inarrestabile e rende impossibile alla fine perfino l’uso minimale del concetto stesso; e che pertanto quella avanzata ha soltanto l’apparenza di una soluzione. Più interessante è invece sottolineare che in tal modo il filosofo tedesco si propone quale principale artefice del sotterraneo movimento di riscossa e di riabilitazione dell’esperienza illuministica, deciso nel rivendicare l’eccellenza della razionalità umana e convinto nel non riconoscere altri limiti che quelli che quest’ultima sa riconoscere. Certo, il nostro sa bene che l’illuminismo, come fenomeno storicamente datato e quindi già realizzato (e non più potenziale ed ancora promettente), non è stato esente da equivoci e limitazioni che ne hanno frainteso la portata. Il concetto di legittimità non equivale senz’altro a quello di legittimazione. E però l’uno difficilmente può stare senza l’altro. Occorre pertanto un rinnovato impianto della modernità«come epoca fondata scientificamente e quindi definitiva»,14 un nuovo inizio capace di una piena «riduzione dei propri presupposti», oltrepassando l’«insufficiente radicalità del cogito cartesiano» ancora viziata dalla presenza del divino.

Si tratta di riprendere gli assunti teorici di quella stagione culturale, per una più esatta ridefinizione del contesto, che riporti all’uso mondano della ragione l’onore della fondazione dei princìpi della modernità; senza di che, la pretesa di legittimità della ragione moderna condurrà inevitabilmente all’odioso fondamento teologico.

2. La legittimità dell’età moderna

Queste ultime battute invitano all’approfondimento. È evidente, infatti, come dietro la critica della inefficacia ed illegittimità ermeneutica della categoria di secolarizzazione sia racchiusa una precisa tesi filosofica.

Benché la polemica sulla secolarizzazione costituisca indubbiamente un leit motif che attraversa l’intero lavoro di Blumenberg e rappresenti tuttora il cespite maggiore di riferimenti bibliografici all’opera del filosofo tedesco,15 pure essa non pare definire adeguatamente la intenzionalità profonda della riflessione storica e teoretica dell’autore. Non è infatti questione della pur non indifferente valutazione degli esiti di una ricostruzione storiografica né tantomeno del privilegio accordato ad una diversa prassi ermeneutica. L’opposizione alla categoria löwithiana, in realtà, contiene tutti i tratti di una funzione paradigmatica; essa si nutre della radicale diffidenza avverso ogni tentativo intellettuale che osi pretendere di inficiare il diritto della razionalità moderna a rivendicare l’indipendenza e l’originalità dei suoi assiomi teorici.

Lo sviluppo del ragionamento di Blumenberg introduce così ben presto una seconda sequenza esplicativa dell’istanza contenuta nella categoria di secolarizzazione; una istanza di cui si riconosce quindi, sia pure implicitamente, lo spessore ermeneutico. Essa adesso non viene più denegata, ma solo riscritta in nuovi e più confacenti termini. È sufficiente, a questo fine, richiamare alcuni percorsi teoretici, contemporanei, se non anche preesistenti, alla diffusione del Cristianesimo, dai quali sia possibile scavare un più che millenario tunnel, capace di scavalcare i secoli della occupazione religiosa del mondo umano e condurre direttamente al luogo fontale dell’epoca moderna. Un fiume carsico percorre secondo Blumenberg la storia; un fiume che non bagna né feconda altre regioni che non siano quelle cui è destinato.16 Si tratti della concezione stoica di pronoia o del sorgere dell’idea di progresso, l’approccio è il medesimo. Non di secolarizzazione è dunque propriamente questione, con il suo improbabile corredo di eterne questioni ed immutabili proprietà originarie.

«Questo genuino diventar mondo non è una mondanizzazione in quanto trasformazione di qualcosa di preesistente, ma assomiglia alla cristallizzazione primaria di una realtà sconosciuta in precedenza».17 E poco più oltre: «Ciò che è accaduto prevalentemente […] nel processo interpretato come secolarizzazione può essere descritto non come trasposizione di contenuti autenticamente teologici nella loro autoalienazione secolare, ma come nuova occupazione di posizioni divenute vacanti da parte di risposte le cui relative domande non poterono essere eliminate».18

Una nuova strategia d’attacco sta facendo la sua comparsa. Se la civiltà umana ha saputo sublimare le proprie energie nel riconoscimento della mondanità del proprio orizzonte culturale, dopo le incerte e deprimenti vicende dell’intermezzo della sfiducia nelle forze dell’uomo, ciò è dovuto esclusivamente alla riscoperta, non mediata da alcunché, degli autentici registri antropologici finora obliterati. Il concetto di «nuova occupazione» deve prendere il posto del processo erroneamente descritto come secolarizzazione. Come la seconda parte del libro si incaricherà di mostrare, la «nuova occupazione» o «rioccupazione» di luoghi cosmologici e metafisici ad opera della modernità dice l’insediamento, nel cuore dell’autocomprensione antropologica, dei nuovi valori originali al posto degli antichi — forse un tempo anch’essi autentici, ma comunque ormai completamente vuoti ed esausti. Esso è un processo irreversibile, in quanto definisce un compito storico cui la ragione non può sottrarsi.

Si potrebbe osservare che tale processo di sostituzione, per non soffrire di sintomi da indigenza ermeneutica, dovrebbe dar conto delle motivazioni della sua necessità; dovrebbe far comunque rimando alle dinamiche dell’esaurimento di precedenti appelli culturali ed al formarsi della condizione di vacatio nei plessi significativi di dibattito ora nuovamente occupati;19 dovrebbe insomma rinviare, proprio in quanto processo, al continuum della temporalità, sulla cui base solo si giustifica quella discontinuità storica rivendicata dalla «nuova occupazione», e non far semplicemente ricorso ad una supposta e mai tematizzata autenticità delle posizioni, dalla natura quanto mai controversa, rispetto alla quale impostare ed anche legittimare l’alternanza delle stesse.20 Ma Blumenberg non pare concedere grande attenzione a siffatte osservazioni.

La difesa della modernità viene anzi affidata proprio ad una rivendicazione di legittimità dell’atteggiamento moderno, la quale vale tanto più, quanto più decisamente sa richiamarsi ad un fondo antropologico di autenticità, contrastante ogni ipotesi di derivazione storica e culturale. Laddove infatti l’interpretazione secolarizzante «deforma l’autenticità dell’età moderna facendone un relitto, un substrato pagano, un semplice residuo nel ritiro della religione su posizioni autarchiche di estraneità al mondo»,21 la affermazione della legittimità dell’età moderna consente precisamente di dichiarare assenti o inconsistenti tutte quelle tradizioni e condizionamenti storici, che possono in qualche modo ipotecare la libera creatività delle opzioni teoriche e pratiche sviluppate dalla modernità. Il ragionamento sembra ben costruito. Avendo assunto il compito di difensore d’ufficio della razionalità moderna da quella che, sotto le mentite spoglie di semplice descrizione, si è rivelata invece una efficace e plausibile contestazione della sua giustificazione, Blumenberg ritiene di respingere l’attacco delegittimante mosso dalla tesi della secolarizzazione, opponendovi l’affermazione della autenticità dei presupposti su cui si è edificata l’epoca moderna.

Tale strategia genera una situazione di asimmetria ermeneutica, per la quale, da un lato, genesi culturale dei concetti e fondazione teoretica degli stessi vengono a configurarsi quali funzioni incommensurabili, tali da depotenziare e rendere vano il ricorso a ragionamenti riconducibili alla tipologia rivendicazionista di presunte proprietà concettuali originarie, quali quelli messi in campo da Löwith e compagni; e dall’altro, e per conseguenza, obbliga a ricercare il luogo di fondazione dei concetti stessi all’interno di un ologramma fondamentale, nel quale l’originarietà è il segno distintivo dell’autenticità. Per tal via, il Cristianesimo si configura come «una religione [che] rimane, con questo allontanamento dalle proprie premesse [che avevano esaltato le potenzialità conoscitive dell’umanità], ineluttabilmente debitrice nei confronti dell’uomo di ciò che gli spetta»;[^22] una religione, ovvero, che ha smarrito il suo coefficiente originario. Stando così le cose, il Cristianesimo non ha diritto di avanzare alcuna pretesa di paternità di valori.

Si chiarisce così l’intenzionalità racchiusa nell’impostazione della problematica come di una questione di legittimità.22 La legittimità come appello autorizzato all’autentico si qualifica come unica giustificazione possibile della correttezza del processo, che in tale inizio assoluto ha la propria motivazione. Blumenberg può pertanto affermare: «Come tutti i processi di legittimità politici e storici, anche quello dell’età moderna sorge per discontinuità».23 Non il processo della secolarizzazione come tale, dunque, ma il presupposto della continuità culturale tra epoche storiche, o meglio, la secolarizzazione quale sottoprodotto della continuità storica, questo è quanto Blumenberg investe del dubbio di illegittimità.

L’asse del discorso si è venuto così lentamente, ma significativamente, piazzando sulla questione problematica della continuità nella storia. Come sganciato da imbarazzanti eredità esteriori e protetto da ogni contagio, il mondo reale degli uomini di una data epoca, così come lo pensa Blumenberg, costituisce una totalità autoreferenziale, finalmente liberata dal bisogno di ricercare i suoi punti archimedei in un qualsiasi luogo fuori di sé. Se si ha difficoltà ad accogliere tale situazione e si continua ad andare alla ricerca di attestazioni e conferme giustificanti la correttezza dell’esperienza culturale della modernità, ciò è dovuto solo ad un malinteso senso storico. «Un concetto storico sorto dall’apprezzamento della tradizione ci ha vincolati a vedere delle cogenze soprattutto nella relazione di ogni presente nei confronti del proprio passato e dell’origine dei valori trasmessigli».24

Ogni verità è completamente ed esclusivamente filia temporis, in un’accezione esclusiva, che però forse lo stesso Bacone non avrebbe integralmente sottoscritto. Sarebbe sbagliato leggere in tale posizione un’eco della polemica antistoricistica. A ben vedere, infatti, Blumenberg non nega che possa venire a formarsi in generale qualcosa come una tradizione storica capace di produrre una lettura omogeneamente, seppure non deterministicamente, coordinata dell’evoluzione culturale e temporale di un’epoca — non si darebbe infatti nessuna epoca; ciò che egli nega è la possibilità della connessione di queste tradizioni storiche all’interno di un’unica catena culturale, di cui allora ognuna di essa sarebbe solo un anello, inevitabilmente sorretto dal precedente. Più precisamente, è il concetto di «debito culturale oggettivo»25 a rivelarsi inadatto. Cerchiamo di capire meglio.

Ciò che è sbagliato, agli occhi di Blumenberg, è la tendenza diffusa a voler ricercare, per ogni precipitato storico, «il presupposto, necessariamente legato alla pretesa di rivelazione, di un inizio non motivabile a partire dalla storia, immanentemente privo di premesse».26 È facile così concludere dalla supposizione di un inizio assoluto alla censura di ogni ulteriore rivendicazione di novità.

«L’inizio assoluto che inaugura la storia vieta a se stesso di avere una storia».27 Ma come può accettare siffatta inibizione una «autocoscienza storica che credesse di poter istituire o di aver istituito ancora una volta, all’interno del decorso storico cominciato con essa, un nuovo inizio che avrebbe costituito l’età moderna come epoca fondata scientificamente e quindi definitiva»?28 Nuovo inizio si dà solamente nell’esclusione di possibili staffette storiche e culturali. L’ultimo atleta di una corsa a staffetta, colui che taglia da vincitore il traguardo, conquista non da solo l’ambito premio. Il testimone che egli porta alla vittoria, lo ha a sua volta ricevuto da altri atleti; non può dunque escluderli e presentarsi da solo sul podio. Ma se sul podio è con altri, come può ritenersi il migliore? Come legittimare, in altri termini, la pretesa di definitività, scientificamente motivata, dell’età moderna senza togliere di mezzo la simile rivendicazione, teologicamente fondata, già avanzata nella storia dalla religione cristiana? Certo, Blumenberg riconosce che una richiesta «non è più giusta»29 dell’altra. «Eppure non si tratta di pretese dello stesso tipo», essendo l’una fornita di una legittimazione solo storica, «gli eventi cristiani dell’anno zero», e l’altra, la moderna, di una legittimazione filosofica capace di autorizzare più autentici discorsi. Siamo così arrivati al cuore della ben rotonda verità blumenberghiana.

Come le osservazioni sulla debolezza della lettura illuministica della cultura dell’inganno lasciavano già bene intravedere, il nostro Autore ha capito che la semplice contestazione di una tesi storiografica non lascia molti margini di manovra, non essendo risolutiva della questione. L’appello immediato alla storia insomma è infido e soprattutto equivoco.30 Occorre un più solido supporto. E questo non potrà essere ricercato che in un aggancio teorico, di natura squisitamente razionale, in quanto imperniato sulla sola forza di autoaffermazione legittimante della ragione.

3. L’autoaffermazione della ragione

Nel concetto di autoaffermazione si condensano dunque tutte le considerazioni che Blumenberg è venuto pian piano facendo. Qui conducono i temi della nuova occupazione, della discontinuità, della legittimità, che Blumenberg sapientemente ha intrecciato: un intreccio che deve ora valere quale giustificazione piena della razionalità della ragione. Autoaffermazione dice dunque fondamentalmente autonomia dell’agire razionale, spontaneità della libertà dell’uomo, in cui si rispecchia la propria illimitata potestà sul mondo. Pur comprendendola al suo interno e richiamandola costantemente quale suo segreto fondamento, l’autoaffermazione non va minimamente confusa con la conservazione in vita dell’essere naturale, con la sua mera sopravvivenza biologica od economica. Ben diversamente, essa viene ad identificarsi con un progetto d’esistenza che consente all’uomo di determinare la modalità del suo rapportarsi alla realtà circostante, realizzando le proprie aspirazioni con l’aiuto dell’enorme«potenziale tecnico» reso disponibile dalla scienza moderna,«il grande strumento dell’autoaffermazione».31

Autodeterminazione assoluta dell’esistenza, sorta di potere surrogato della divinità creatrice — o meglio, il potere creatore, rispetto al quale quello attribuito alla divinità dalle religioni è solo anticipazione illusoria: è quanto si esprime attraverso questa formula. Si comprende allora per quali motivi l’autoaffermazione possa venire considerata come la vera cellula segreta della costruzione teoretica blumenberghiana. Non si tratta infatti, semplicemente, di rivendicare per il soggetto conoscente la rottura del vincolo obbligante dell’universalità della verità,32 in nome della forza espansiva della ragione individuale; né più solo di passare ad una condizione di potenza pratica — sapere è potere — da ottenere con l’ausilio della tecnica, che mette l’uomo in grado non soltanto di «mascherare il fattore del bisogno, ma addirittura eliminarlo nell’immanenza del suo divenire scopo a se stessa»;33 bensì, più radicalmente, si tratta di rintracciare nel codice genetico della ragione, anzitutto moderna, quei fondamenti che diano consistenza alla pretesa di legittimità dell’epoca che viviamo, rendendo possibili quei due passaggi prima indicati.

Tali fondamenti consistono, per il versante negativo, come sappiamo, nella dichiarazione di indifferenza nei riguardi di ogni condizionamento storico, e, per quello positivo, nella dichiarazione di immanenza alla ragione medesima dei suoi princìpi generativi. La ragione così legittima se stessa; e fa ciò con un atto di spontaneità assoluta, la cui necessità non è determinata da nessun inizio, che le imponga di essere, e da nessun fine, che la reclami. «Il suo postulato è quello dell’autoproprietà della verità tramite l’autogenerazione».34 Un nichilismo leggero, delle sole matrici infratemporali, circola nel testo di Blumenberg; un nichilismo che non osa guardare l’abisso che preclude alla vista ogni fondamento alla storicità dell’uomo, ma che si accontenta di riscrivere i registri dell’anagrafe culturale delle epoche, col disconoscere ogni paternità storica della creatura partorita dalla ragione moderna. Questa si concepisce allora come «ragion sufficiente», sufficiente almeno «a fornire l’autoaffermazione post-medievale», da cui «è sorta l’idea dell’epoca come autofondazione […] che inizia dal nulla».35

Ancora una volta l’appello a quella che potremmo definire la sindrome di Munchausen — che, come è noto, si alzava da terra tirandosi per i capelli — viene in aiuto. È così salvaguardato il principio di autoaffermazione ed imposta la rinuncia alla calma tranquilla della rassicurazione teologica, che il modello secolarizzato ancora conteneva in sé. Il circolo è chiuso, l’aut-aut ha funzionato di nuovo — non più contro la categoria della secolarizzazione, ma a favore del principio di autoaffermazione. È pronto, in questo modo, uno schema di pensiero in grado di ripristinare finalmente la maestà della ragione incrinata dai dubbi löwithiani, mettendola altresì al riparo da indiscrete domande. Alle quali, però, non si può rinunciare con la stessa facilità.

Sappiamo che l’autoaffermazione della ragione legittima la razionalità dell’epoca moderna. Ma cosa legittima a sua volta l’autoaffermazione medesima? La ragione che reclama se stessa?36 In altri termini, dove trova fondamento il ragionamento che affida funzione risolutiva, e quindi legittimante, alla natura dell’evidenza — nonostante Blumenberg, cartesiana — della ragione, con le sue esigenze di incondizionatezza? Ovvero — se di fondamento non si vuol parlare, perché si danno solo fondamenti limitati — in nome di che cosa si nega alla categoria di secolarizzazione quella legittimità che poi si attribuisce alla moderna idea di progresso? Forse che basta ritenersi convinto che a far ciò «siano state esperienze di nuovo tipo di un’ampiezza cronologica tale da rendere ovvio il salto nella generalizzazione ultima verso l’idea di progresso»?37

Domande indiscrete, le ho sopra definite. O forse meglio, non-domande, domande già da sempre risolte nell’orizzonte filosofico che Blumenberg mostra implicitamente, ma con grande convinzione, di abbracciare. Lo ritroviamo nascosto tra le pieghe di un’affermazione tutto sommato secondaria.

Contestando ad Agostino la responsabilità dello spostamento della questione metafisica del male sull’asse della fede, Blumenberg osserva che «la giustizia del deus iustus è mantenuta come premessa, non dimostrata come conseguenza».38 La debolezza della riflessione agostiniana, lascia intendere Blumenberg, sta tutta nella sua incapacità di dare stabile assetto, in virtù di un’argomentazione apodittica, dunque rigorosa e rispettosa della legalità del lògos, alle conclusioni che ne possono derivare. A queste ultime infatti è lecito attribuire validità solamente nella misura in cui esse vengan fatte risultare attraverso una procedura di pensiero determinata nei suoi moduli; mediante detta procedura, la dimostrazione diventa funzione veritativa del pensiero. L’attendibilità e verità dei risultati risulta così garantita dalla cogenza del lògos, che si applica su premesse a loro volta anch’esse conquistate nel corso di un medesimo processo dimostrativo. È l’approccio teoretico caratteristico della matura riflessione filosofica greca, che ha condotto la filosofia alla sua piena identificazione con l’epistème.39 A questa struttura, il pensiero moderno ha aggiunto poi l’ulteriore rinforzante conferma rappresentata dalla oggettiva forza di penetrazione reale e di dominio manipolativo della natura, che la razionalità tecnico-scientifica ha saputo produrre. Tale è dunque la struttura del pensiero epistemico, che ha connotato con tanta forza e successo l’Occidente.40 Ora, proprio a detta forza e successo Blumenberg si appella per allontanare la minaccia della problematizzazione della legittimità dell’autoaffermazione della ragione.

Come sempre, dal circolo della petizione di principio si esce solo con un atto di rottura. A render solido il discorso è allora sufficiente richiamarsi alla pretesa di universalità del logos dell’Occidente, antico e moderno, che col successo pratico nella dimostrazione teorica dei suoi risultati vede legittimate le sue presupposizioni. La risposta ai nostri interrogativi viene così a trovarsi nei fatti. La prova provata della validità del principio di autoaffermazione della ragione sta quindi nel fatto, storicamente indiscutibile, che la razionalità moderna ha avuto buon successo nel sostituire la fede religiosa medievale come guida dell’agire teoretico e pratico umano.41

Siffatta argomentazione storiografica, alla cui costruzione Blumenberg dedica i restanti quattro quinti del volume, non rimane però senza effetti; essa, in realtà, produce una sorta di sbilanciamento critico dell’impianto complessivo del pensiero. La legittimità dell’età moderna viene consegnata così, in definitiva, al fatto storico che l’età moderna ha saputo scalzare quella medievale. L’etica (e la logica) della verità è soppiantata dalla logica (e dall’etica) del successo.

Ecco che, allora, a sostegno del sistema resta solo una variabile indipendente di natura estrinseca, la cui plausibilità non gode più dei privilegi della rarefatta atmosfera della necessità del puro lògos. Affidare alla riuscita di un’operazione la giustificazione della validità e necessità dell’operazione medesima è difatti procedura equivoca e non sempre prova di dubbi. Si può certamente accettare che il successo sia fattore legittimante; esso però spesso nasconde tra le sue pieghe effetti perversi, i quali da ultimo costringono a ripensare l’intera vicenda. Non ci si può più nascondere che gli esiti contemporanei della modernità — epoca che pure indiscutibilmente ha prodotto un significativo progresso dell’umanità — non corrispondono propriamente all’utopia dei suoi padri fondatori. Sempre più di frequente, l’umanità moderna si trova a paragonarsi all’apprendista stregone che ha messo in moto un meccanismo che non gli riesce più di controllare; le vicende politiche novecentesche, che faranno passare alla storia il XX secolo come il secolo dei totalitarismi, o la questione ecologica stanno lì a dimostrarlo. E l’interrogativo è allora quello di capire se ciò sia solo un prevedibile errore di guida e di calcolo, o se non sia il delirio dell’impossibile onnipotenza, il fallimento del sogno prometeico dell’uomo.42

Ma in Blumenberg, come si è detto, non si trova traccia di dubbio; la sua lettura neoepicurea della vicenda storica non si lascia scalfire da simili incertezze. L’autoaffermazione della ragione risultante dal moderno rapporto di dominio pragmatico sul mondo legittima l’epoca della ragione affermante se stessa.

4. La modernità come definitivo superamento della gnosi

Nel quadro teorico sopra ricomposto si inquadra ora, con un’alta valenza dimostrativa, la questione della gnosi e del suo superamento. Anzi, proprio in questo superamento, che riesce in maniera definitiva e completa solo alla ragione moderna, Blumenberg vede una delle conferme maggiormente significative della sua tesi interpretativa. Non fa pertanto meraviglia che in questo scritto Blumenberg si occupi della gnosi perché guidato da un interesse retorico e fortemente strumentale. Non lo studio approfondito e dettagliato di essa o la suggestione per il fascino dei suoi tipici ragionamenti di confine trapelano dalle pagine del volume, ma solo la attenta considerazione per il ruolo efficacemente giocato dalla gnosi nella ricostruzione dell’avventura della ragione moderna.

Non per nulla, lo gnosticismo in detta vicenda svolge un’essenziale funzione di cerniera. È infatti proprio nella battaglia contro la gnosi che il pensiero medievale fu costretto a ricondurre l’attenzione dell’umanità verso quel mondo, da cui inutilmente aveva tentato di distrarla, e ad innescare così il circuito del rinnovato interessamento mondano, rinascimentale dapprima e moderno poi. Allora «la formazione del Medioevo può essere compresa solo come tentativo di garantirsi definitivamente dalla sindrome gnostica»,43 conclude Blumenberg, riprendendo ed ampliando una vecchia tesi di Adolf von Harnack. L’affermazione può sembrare sorprendente. Essa però perde gran parte della sua eccentricità, se la si legge all’interno dello schema brevettato dal nostro Autore; che resta quello, dalle vaghe risonanze idealistiche, di un processo in definitiva dialettico che, muovendo dalla naturale adesione alla determinazione teleologicamente antropocentrica del cosmo, ritorna con la maggiore convinzione possibile all’apprezzamento del mondo pensato come luogo dell’esercizio della finalità teorico-pratica dell’uomo, dopo aver affidato la fallace ed estraniata compensazione della dura esistenza mondana all’intervento risolutivo della divinità onnipotente nella sua trascendenza.

L’orizzonte metafisico greco non poteva essere assunto immediatamente. La fragilità, che lo gravava, si nascondeva non tanto nel problema della stabilità dell’essere del mondo, quanto piuttosto in quello dell’insidenza in esso dell’absurdum rationale del male. La radicalità metafisica della riflessione gnostica fu precisamente quella di evitare il contagio, logicamente improponibile, della bellezza dell’ordine (kòsmos) con la deformità del male, affidando al «dualismo tra la sfera della salvezza e il mondo della creazione» il compito della loro necessaria separazione. La “grandezza” di Marcione si manifesta nella sua volontà di affermare «un dio che non debba contraddirsi creando l’uomo in modo tale da doverlo poi redimere dalla sua perdizione»; facendo ciò, al tempo stesso egli «scaricò il suo dio straniero di ogni responsabilità verso il mondo», che rimase come residuo terrificante, di cui attendere la distruzione finale. La gnosi, dunque, come demondanizzazione radicale dell’agire e delle aspettative umane. Lottando contro di essa in nome dell’ortodossia, il pensiero cristiano ha perciò portato con sé, accanto alla difesa dell’unicità e bontà del Dio creatore e redentore, la correlata riabilitazione del mondo; un mondo, però, che rivendicava ben altri investimenti e coinvolgimenti, che quelli derivabili dalla sua condizione di natura creata.44

Da questo «nuovo conservatorismo del cosmo», infatti, la gnosi non venne propriamente superata, ma solo rimossa. Interiorizzando l’iniquità della creazione con l’imputazione agostiniana del male alla libertà dell’uomo, il pensiero della cristianità medievale investì infine l’uomo della responsabilità della eliminazione del male dal mondo. Si rese così necessario il secondo e definitivo superamento del problema gnostico, che solo il pensiero moderno, mediante l’autoaffermazione della ragione capace di imprimere il sigillo della propria potenza alla realtà che si oppone ad essa, sarà in grado di portare a compimento. «Il Medioevo finì quando, all’interno del suo sistema spirituale, esso non poté più conservare per l’uomo la credibilità della Creazione come provvidenza, e quindi gli addossò l’onere della sua autoaffermazione».45

Il successo della ragione moderna nel superamento della gnosi, non riuscito al Cristianesimo, rassicura così la ragione moderna stessa circa la legittimità delle proprie rivendicazioni. Queste godono di una credibilità assoluta, che la tecnica continuamente rinforza col suo dominio pratico del reale: l’antico ordine del cosmo, dalla gnosi rovesciato in disordine, viene ora ripristinato, garantito ed intensificato. Può così essere tranquillamente abbandonata a se stessa la «sindrome della struttura antropologica della carenza», che a lungo ha inibito le risorse della produttività umana. Ora «nella crescita della sfera tecnica vive una volontà che affronta consapevolmente la realtà estraniata, una volontà di conquistare una nuova umanità di questa realtà».46

La gnosi ha veramente lanciato, come da un trampolino, l’autoaffermazione della ragione; una ragione, come sappiamo, completamente risolta nel pensiero tecnico-calcolante. E la partita sembra chiusa. In realtà, a ben vedere, qui, come di norma in simili casi, si compie piuttosto la vendetta della sapienza originaria, che i primi cercatori della verità hanno amato, la vendetta della filosofia contro i tentativi di snaturarla incatenandola al giogo di comprimenti schematismi. E il paradosso si ritorce contro lo stesso Blumenberg. Egli riteneva il pensiero della trascendenza niente più che ingenua e mortificante tranquillizzazione. Non si è accorto però che l’assolutizzazione della tecnica ha finito per essere un altro tranquillizzante, che induce una anestetizzazione delle coscienze ancora più potente. Per Blumenberg la tecnica non produce, perché non lo conosce, il male. Peccato che proprio questo argomento sia improvvisamente balzato in faccia all’umanità post-moderna.

  1. Blumenberg, p. 122. Non è fuori luogo notare che il referente storico del termine Cristianesimo presenta in Blumenberg tratti oscillanti e anomali. Con tale termine egli infatti intende sempre la civiltà costruita sulla base di valori cristiani, la civitas christiana. Il suo riferimento preferito è Tertulliano insieme ad Agostino. Talora a rappresentanti della tradizione cristiana sono eletti«i fanatici chiliastici» del Medioevo. (p. 52) Degli scrittori biblici conosce solo Paolo e Giovanni (quest’ultimo per i tratti apocalittici). Gli unici rinvii a passi della Sacra Scrittura sono contenuti in una nota di p. 50. La conoscenza del pensiero biblico — che pure dovrebbe fornire gli agganci indispensabili per un rigoroso discorso filosofico o genericamente culturale sul Cristianesimo che, come anche Blumenberg riconosce, è anzitutto una religione — sembra alquanto approssimativa. Una frase per tutte: «La formula stoica secondo la quale il mondo sarebbe stato creato per l’uomo è ampiamente accolta dalla Patristica […]. Il concetto della provvidenza, per quanto estraneo al mondo della concezione biblica, viene assimilato come patrimonio teologico […].» (p. 138. Corsivo mio) La semplice lettura del Salmo 8 vale più di ogni articolata confutazione:

    … Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato.


  1. Karl Löwith Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie, Kohlhammer, Stuttgart, 1953 (tr. it. Significato e fine della storia, Comunità, Milano, 1979). Löwith aveva originariamente pubblicato l’opera negli Stati Uniti con il titolo Meaning in History (The University of Chicago Press, 1949). Le citazioni del testo sono tratte dall’edizione italiana. ↩︎

  2. Löwith, 21-22. ↩︎

  3. Löwith, 236. ↩︎

  4. Hans Blumenberg, Die Legittimität der Neuzeit, II ed. riveduta e ampliata, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1974, 19661; la traduzione italiana completa è però solo del 1992 (La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova, 1992). In precedenza erano state pubblicate in italiano solo traduzioni parziali di singoli capitoli (cfr. Aut Aut, 222 (1987), pp. 51-58). Alla traduzione integrale sopra citata fanno riferimento, ove non diversamente indicato, tutti i successivi rimandi al pensiero di Blumenberg. ↩︎

  5. Blumenberg, 16. ↩︎

  6. Blumenberg, 24. ↩︎

  7. Cfr. Blumenberg, pp. 25-32. ↩︎

  8. Blumenberg, 47-48. Più oltre Blumenberg parla di un «tratto di un dualismo quasi gnostico» per «la rivalità di istanze, presupposta nel concetto della secolarizzazione» (p. 54). ↩︎

  9. Blumenberg, 35. E’ questo il cuore della critica di Blumenberg alla posizione di Löwith. Il quale «presuppone come incontestabile un’origine assoluta e trascendente dei contenuti in questione», senza interrogarsi sulle «differenze che devono aver bloccato ogni trasposizione» dell’escatologia cristiana nell’idea di progresso (cfr. pp. 36 e 37). La tesi della sostanziale incomunicabilità delle matrici valoriali dei sistemi culturali contrasta peraltro, in maniera alquanto clamorosa, con la densa intuizione centrale di un altro lavoro di Blumenberg, Elaborazione del mito, ove l’Autore sostiene precisamente la costanza dei modelli mitici pur nelle loro infinite trasmutazioni e metamorfosi. (Cfr. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Suhrkamp, Frankfurt, 1979. Tr. it., Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna, 1991. Si veda anche quanto annota G. Carchia nella sua “Introduzione all’edizione italiana”, ivi, p. 17). ↩︎

  10. Blumenberg non ha dubbi in proposito. «Innanzitutto devo chiedere come possa avvenire l’occultezza del surplus in ciò che è dato, del senso celato in ciò che è palese.» (Blumenberg, 23-24). ↩︎

  11. Blumenberg, 48. Il riferimento è all’epoca dell’«assolutismo teologico» (come recita il titolo del secondo capitolo), cui il concetto di «autoaffermazione» (Selbstbehauptung) più avanti si opporrà come deciso antagonista. Per parte mia al contrario, resto convinto che i tentativi più originali ed interessanti della tradizione filosofica occidentale siano precisamente quelli che hanno cercato di sondare l’unità originaria in cui hanno comune dimora le differenze maggiormente polarizzanti, che la necessità dell’epistème impone peraltro di considerare come radicalmente oppositive ed esclusive. E, per altro verso, non risiede in quest’ultimo fatto una delle ragioni per cui la filosofia occidentale ha saputo declinare il riferimento alla trascendenza solo negli aridi termini di una rigida ed astratta teologia, senza lasciarsi interpellare, salvo pochissime eccezioni, dalla affermazione assolutamente sconvolgente dell’Uomo che si è proclamato Dio? ↩︎

  12. Blumenberg, 126. ↩︎

  13. Blumenberg, 16. ↩︎

  14. Blumenberg, 80. Corsivo mio. ↩︎

  15. Cfr. il recente lavoro di F. D’Agostini, **Analitici e continentali*. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni*, Cortina, 1997, p. 343. ↩︎

  16. «Si deve soprattutto far attenzione al fatto che i materiali ellenistici della prima cristianizzazione sono nuovamente a disposizione un millennio e mezzo più tardi, per produrre immediatamente e senza passare attraverso il Cristianesimo ciò che poi appare come secolarizzazione.» (Blumenberg, p. 44. Sottolineatura mia). ↩︎

  17. Blumenberg, p.54. ↩︎

  18. Blumenberg, p. 71. ↩︎

  19. La seconda e la terza parte del volume, rispettivamente intitolate Assolutismo teologico e autoaffermazione umana e Il processo della curiosità teoretica, si occupano in effetti di ricostruire il tessuto storico e culturale da cui si origina l’epoca moderna, tanto nei suoi fattori di discontinuità rispetto all’evidenza teologica medievale quanto nel suo germinare dalla riabilitazione dello stimolo alla curiosità della conoscenza. In queste pagine, però, il ragionamento muove precisamente dallo schema della surroga per alternatività degli ambienti assiologici. Un esempio per tutti:«l’autoaffermazione della ragione richiede l’uscita dalla tranquillizzazione teologica, dall’illusione antropocentrica.» (p.163). Dove ciò che è da notare è che la proposizione non appartiene ai registri descrittivi dell’analisi storiografica, peraltro difficilmente controvertibile, ma possiede tutti i caratteri di una dichiarazione metodologica di principio che dispone il materiale storico secondo i filtri della polarizzazione oppositiva. Blumenberg però, come abbiamo già notato in precedenza, non si perita di discutere teoreticamente siffatta opposizione, risultando l’inconciliabilità delle posizioni logicamente dedotta dal loro contenuto sostanziale, e fruttuosamente evidente nella forza dell’autoaffermazione della ragione. Si può allora notare a margine che con il concetto di «nuova occupazione» Blumenberg non si è di molto allontanato dalla tesi di Löwith. Molto acutamente ha osservato Odo Marquard che«la loro controversia sulla secolarizzazione sembra essere stata messa in scena esclusivamente per celare come essi siano concordi nel loro fronte comune contro la tradizione dogmatica di provenienza biblica, nonché nel loro sospetto contro la filosofia della storia.» (O. Marquard, Mythos und Dogma, cit. da G. Carchia, “Nota alla controversia sulla secolarizzazione”, Aut Aut, 222 (1987), p. 68. ↩︎

  20. Non solo natura, ma anche historia non facit saltus. Come Leibniz e Marx, due pensatori ben presenti nelle riflessioni blumenberghiane hanno affermato: il presente avanza gravido del futuro. ↩︎

  21. Blumenberg, p. 14. ↩︎

  22. Non si dimentichi che così recita il titolo del volume. Si può avere conferma che questo sia il cuore della posizione di Blumenberg, riportando quanto scrive Löwith nella chiusa della sua replica al lavoro di Blumenberg: «In senso traslato, applicato alle epoche storiche, non ci può essere alcun discorso vero e proprio di legittimità o di illegittimità, dal momento che nella storia delle rappresentazioni, delle idee e dei pensieri esso si estende in forma così ampia come lo è la forza di appropriarsi e di alterare una effettiva consistenza della tradizione. Gli esiti di volta in volta prodotti da una tale appropriazione alterante non si lasciano calcolare positivamente o negativamente in ragione di una autentica proprietà.» E poi polemicamente conclude: «I parti della vita storica sono tutti ‘illegittimi’.» (K. Löwith, Besprechung des Buches “Die Legittimität der Neuzeit” (1968), in Sämtliche Schriften, vol. 2, Metzler, Stuttgart, 1983, pp. 459. Tr. it., Recensione del libro di Hans Blumenberg *’Die Legittimität der Neuzeit’**, *Aut Aut, 222 (1987), p. 66). ↩︎

  23. Blumenberg, p. 123. La frase termina nel seguente modo: «laddove è indifferente che questa discontinuità sia fittizia o reale. Essa l’ha pretesa nei confronti del Medioevo.» Blumenberg confonde tra la coscienza della novità delle posizioni soggettive e l’impossibile — perché astorica — interruzione effettiva della tradizione culturale, entro cui solo tale coscienza riesce a svilupparsi. Dogmatismo della razionalità moderna che non accetta antagonisti né concorrenti. ↩︎

  24. Blumenberg, p. 122. ↩︎

  25. Blumenberg, p. 122. ↩︎

  26. Blumenberg, p. 80. Corsivo mio. ↩︎

  27. Blumenberg, P. 151. Per questo motivo la fondazione cartesiana dell’epoca moderna non può essere accettata «L’inizio assoluto nel tempo è atemporale anche nella sua intenzione.» E di tale carattere è rivestita la ragione di Cartesio. Ma «dove fosse la ragione prima di Cartesio e cosa le facesse preferire questo intermediario e questo momento — ecco domande che non possono essere poste nel contesto sistematico dei loro concetti fondamentali.»(ivi). ↩︎

  28. Blumenberg, p. 80. ↩︎

  29. Blumenberg, P. 80. Corsivo mio. Deve trattarsi di un lapsus sintomatico, se solo si pensi che tale confessione è contenuta nella sezione del volume dedicata alla «critica di una categoria dell’ingiustizia storica». ↩︎

  30. «Il punto debole della razionalità moderna è che la rivelazione del passato medievale dei suoi protagonisti può rimettere in causa la mancanza di presupposti che essa mostrava di aver percepito come quintessenza della propria libertà.» (Blumenberg, 194). ↩︎

  31. Cfr. Blumenberg, pp. 144-146. ↩︎

  32. «L’espressione possesso della verità […] consente ormai soltanto un uso ironico». L’evoluzione storica ha avuto in effetti un esito irreversibile. «L’implicazione tecnica inserisce la teoria e l’atteggiamento teoretico nell’ambito funzionale dell’adeguatezza immanente dell’autoaffermazione e neutralizza la sua pretesa, fino a quel momento ineliminabile, di verità.» (Blumenberg, p. 252. 271). ↩︎

  33. Blumenberg, p.148. Cfr. anche p. 41. Blumenberg senz’altro non si accoda alla moda della negazione tipologica della tecnica ed alla sua piena rimozione quale epocale fuorviamento — cosa che è senza dubbio un merito, in tempi di conformismo del pensare. In questo elogio della tecnica egli tuttavia si presta a far da grancassa ad antiche enfatizzazioni della tecnica stessa, ingenuamente illusorie nel presentarla quale panacea dei mali del mondo. Il che, però, onestamente, è forse troppo. ↩︎

  34. Blumenberg, p. 79. ↩︎

  35. Blumenberg, p. 103 e ss. Corsivo mio. ↩︎

  36. «Il progetto della legittimità dell’età moderna non viene dedotto dalle prestazioni della ragione, ma dalla sua necessità.» (Blumenberg, p. 105). ↩︎

  37. Blumenberg, p. 37. Sottolineatura mia. ↩︎

  38. Blumenberg, p. 139. ↩︎

  39. Per una più articolata argomentazione della tesi qui appena enunciata, mi sia consentito il rimando al mio saggio Il silenzio dell’intelligenza che ascolta, in E. Baccarini (cur.), Il pensiero nomade, Cittadella editrice, Assisi, 1994, pp. 49-75. ↩︎

  40. Forse non è un caso che il fallimento del tentativo di derivazione dei saperi dalla pura formalità logica dell’ars combinatoria stia alla base dell’esigenza moderna di trovare pratica conferma dei contenuti conoscitivi nella capacità mostrata da questi nel manipolare la realtà. ↩︎

  41. «La grandezza del tanto screditato Ottocento» sta nell’aver esso fatto sorgere «il processo della tecnicizzazione nella forma dell’industrializzazione come autoaffermazione di chi si oppone alla disumanità della natura.» (Blumenberg, p. 239). ↩︎

  42. Per evitare ogni equivoco: non si sta chiedendo l’abdicazione della ragione a favore di non meglio precisati appelli all’immediatezza del sentire e del volere, o, peggio ancora, della loro potenza. Il ragionamento vuole solo riflettere sulla questione decisiva dei limiti immanenti della razionalità calcolante umana e della necessità di una sua relazione a quella forma di sapere sapienziale, da cui pure la ragione dell’epistème filosofica è storicamente derivata. In quest’ottica, un’ottica pur sempre razionale e non fideistica, Kant scriveva nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura: «Io ho dunque dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la fede» (Tr. it., Laterza, Bari, 1977, vol. I, p. 28). ↩︎

  43. Blumenberg, p. 136. ↩︎

  44. Cfr. Blumenberg, pp. 134-136. Si noti come ciò che, ad avviso di Blumenberg, rese «grande» Marcione fu il rifiuto della contraddizione logica di un dio creatore, che si lasci limitare nell’esercizio della sua onnipotenza e che debba perciò redimere la sua creazione; ovvero, in altri termini, la logicizzazione del pensiero biblico in nome dell’universalità del lògos greco. «Perciò la gnosi deve essere nel vero senso della parola conoscenza.» (p. 135). ↩︎

  45. Blumenberg, p. 144. ↩︎

  46. Blumenberg, pp. 144-145. ↩︎