1. Introduzione
C’è un duplice motivo di interesse, storiografico e teoretico, a rendere stimolante un confronto critico con l’opera di Karl Löwith. La sua riflessione, che ha attraversato le stagioni filosofiche più ricche del nostro secolo, si è conquistata un posto sicuro nel panorama della cultura filosofica contemporanea. I suoi saggi critici sulla «frattura rivoluzionaria del pensiero del secolo XIX»,1 su Nietzsche2 e su Heidegger3 (per citare solo i più importanti), nonché la nota e spesso saccheggiata ricostruzione-interpretazione della filosofia moderna, quale secolarizzazione dell’escatologia biblica culminante nella fede “atea” nella storia dello storicismo ottocentesco,4 sono passaggi obbligati di uno studio non scolastico delle vicende filosofiche dell’età moderna.
Se queste sono annotazioni oramai familiari al mondo filosofico italiano e non, certamente meno noto è invece l’aspetto più propriamente teoretico delle riflessioni che Löwith è andato sviluppando nel corso della sua avventurosa ma limpida esistenza;5 un aspetto che, peraltro, innerva dalla radice e consegna in un progetto armonico le analisi più propriamente storiografiche dell’autore, per la cui piena comprensione l’attenzione alla intenzionalità teoretica ad esse sottesa si rivela indispensabile, benché spesso disatteso, fondamento.6
A questa prospettiva di lavoro se ne affianca poi una seconda, non meno feconda, che val la pena di seguire. Essa ci conduce infatti nel pieno del dibattito sugli esiti del nichilismo e sugli sforzi del pensiero filosofico contemporaneo di superare, vuoi nel senso dell’«oltrepassamento» vuoi nel senso del «congedo», la metafisica della soggettività.7 Dopo Nietzsche e Heidegger, una cruciale domanda che deve esser posta sembra essere quella relativa allo statuto teorico — e quindi logico, ontologico, etico — del soggetto, ai fini di una comprensione di questi libera da residui e resistenze di matrice soggettivistica. «La questione è la seguente: dopo la fine delle filosofie della riflessione (o della coscienza), come possiamo riproporre in altri termini (plurali, narrativi, non veritativi in senso forte) la questione del “chi”?»8
E la questione del «chi» incontra, in una maniera non obliqua, anche Löwith nelle sue riflessioni. Anzi, da questo punto di vista, il suo può dirsi un osservatorio privilegiato. La sua ricerca muove infatti i suoi primi passi a stretto contatto con la elaborazione fenomenologica husserliana e la gestazione del programma heideggeriano, nel «periodo incomparabilmente ricco e fertile» dei primi anni ’20 a Friburgo.9 Ivi Löwith ha pieno accesso a quel libero laboratorio filosofico costituito dal «movimento fenomenologico» riunito attorno a Husserl e, mentre si avvicina a Heidegger,10 ha modo di constatare come la «distruzione» dell’ontologia tradizionale non potesse eludere il nodo teorico di una nuova comprensione della soggettività emancipata da ogni nostalgia soggettivistica. È il problema di una intuizione dell’uomo che sappia render conto della sua esistenza effettuale, senza però annegare in uno storico destino il nucleo di una soggettività libera ed eticamente responsabile.
Tra questi due limiti si muove la ricerca di Löwith, che tenta di individuare le linee di un pensiero egualmente distante dall’illusione speculativa di un puro soggetto assoluto e dal cortocircuito etico del livellamento spersonalizzante, in cui la volontà di decisione dissolve con la sua violenza ogni scettica prudenza.
Non è perciò privo di interesse cogliere nelle sue movenze iniziali l’avvio della ricerca löwithiana, come essa ci si presenta nel saggio teorico di più ampio respiro, che riproduce la dissertazione di libera docenza, Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen [L’individuo nel ruolo di uomo con gli uomini].11 Nel corso di questo lavoro, pubblicato solo un anno dopo l’apparizione di Essere e Tempo, Löwith guadagna una personale convinzione filosofica che, alla recezione dell’esigenza heideggeriana di concretezza e «fatticità», unisce l’individuazione precoce e il tentativo di correzione dei limiti teoretici entro cui si confinava l’analitica dell’Esserci di Heidegger.
2. La replica antropologica dell’ontologia heideggeriana
Il suo maestro M. Heidegger12 è dunque l’interlocutore diretto del lavoro del giovane Löwith; un interlocutore, ancorché presente sullo sfondo e per lo più citato in nota, cui va l’ossequio non formale del discepolo;13 un interlocutore però che, pur fornendo la struttura ontologica portante della ricerca, viene sin dall’inizio chiamato in causa in un vivace confronto capace di mettere in discussione e dilatare il modello teoretico di partenza, attraverso l’innesto di moduli antropologici originalmente maturati nel dialogo con altre linee di ricerca filosofica.14 È infatti quello di Löwith verso il suo maestro un rapporto ambivalente, fatto al tempo stesso di riconosciuta ammirazione e di insistito tentativo di resistenza al fascino del personaggio, nella ricerca di una via autonoma ed originale. Negli anni del suo apprendistato filosofico Löwith cerca di dar voce alla sua centrale intuizione antropologica, scoprendone i motivi di aggancio con la ricerca heideggeriana; ma insieme hanno modo di precisarsi i contorni della fondamentale riserva che giungerà ad articolata consapevolezza solo nel decennio successivo. Si tratta dunque di un atteggiamento di prudente attesa, non ancora pienamente risolto, che attraversa l’intera dissertazione condizionando — in maniera talora determinante — lo sviluppo delle analisi.
Non c’è dubbio infatti che Löwith sia spinto da un interesse teoretico solo apparentemente simile a quello di Heidegger. Pur inserendosi agilmente nell’ampio solco tracciato da Essere e Tempo, Löwith intende orientare diversamente la ricerca filosofica. Questa non può più essere una metaphysica generalis o una idealistica scienza dell’Assoluto — ma neanche, come vedremo, la heideggeriana «ontologia universale fenomenologica»;15 essa può essere solo, «detto con una massima di Feuerbach: “filosofia” — ma “dal punto di vista dell’antropologia”.»16
Si manifesta qui l’intenzione profonda che anima lo scritto. Il giovane Löwith, che ha già avuto modo di confrontarsi con il pensiero di Nietzsche,17 rimanendo soggiogato dall’influenza del radicalismo «fatale» emanante da questi,18 intuisce, sebbene ancora confusamente, l’impasse della filosofia e più in generale della cultura ottocentesca. L’esperienza diretta della Grande Guerra insieme allo spettacolo delle convulsioni politiche della Repubblica di Weimar,19 la constatazione dell’incapacità della cultura letteraria e filosofica tedesca di offrire un orientamento nella crisi postbellica, l’ascolto della nobile lezione di Max Weber e del suo alto «ammonimento a metterci al lavoro»,20 tutto ciò matura in Löwith, che non riesce a perdersi nel sogno di una palingenesi rivoluzionaria,21 la convinzione della necessità di un nuovo radicamento della riflessione filosofica. Nel suo personale percorso teoretico egli si muove alla ricerca di un solido ubi consistam della filosofia che tolga quest’ultima dal mutismo esistenziale e dal vuoto speculativo in cui essa si dibatte.
La filosofia classica tedesca non è infatti più capace di dire una parola significativa ed illuminante. Al di là delle pur rilevanti differenziazioni individuali, «i capiscuola dell’idealismo tedesco, a partire da Hegel fino a Feuerbach, Dilthey e Nietzsche sono determinati nel loro processo formativo esistenziale dalla teologia tedesca», la cui sorgente primaria è l’«indipendenza dell’individuo di fronte alla natura e alla società.»22 Il fatto è che tale filosofia vuole essere «una filosofia dal punto di vista della filosofia.»23 Per tal via però la comprensione dell’uomo in tutta la varietà delle sue manifestazioni vitali è andata perduta nell’illusione fascinante di una astratta speculazione intellettuale.
Si tratta invece proprio di ripensare la filosofia a partire dall’uomo. Con Feuerbach Löwith ripete:«Io penso non in quanto pensatore, ma in quanto uomo che pensa.»24 È dunque l’uomo nella concretezza della sua esistenza e nella ricchezza delle sue relazioni interpersonali che deve costituire il centro di una rinnovata riflessione filosofica: l’uomo come ci è dato nella ordinarietà sempre problematica delle «manifestazioni quotidiane» di vita.25 L’analisi teoretica, a partire da esse, deve poi assumersi il compito della fondazione di uno spazio autentico di convivenza umana.
La vecchia «filosofia dell’“Io”» deve lasciare dunque il posto ad una antropologia completa, che «apra la strada alla riscoperta della “persona” nella sua universalità.»26 «Questo mondo di persone coesistenti, questo mondo fatto di Io e Tu, nel quale ciascuno — come figlio rispetto ai genitori, come marito rispetto alla moglie, come amico del suo amico, come allievo del suo maestro e maestro di allievi — è determinato dal rapporto con l’altro; questo nostro comune mondo di uomini che ci costituisce anche come “individui” mi sembrava, allora, il mondo determinante perché ci riguarda direttamente e quotidianamente.»27 Al Löwith maturo, la struttura dei rapporti di Io e Tu sembra una limitante «singolarizzazione» rispetto alla «domanda radicale sul rapporto di uomo e mondo». Infatti «il mondo unico e totale, sussistente per natura, non è un mondo per l’uomo, né l’uomo caduco è il fine dell’intera e perenne creazione.»28 L’autocorrezione löwithiana sembra comunque riguardare la centratura antropocentrica della ricerca (il mondo umano come «mondo determinante») e non l’obiettivo formale della stessa («la domanda sull’uomo come Mitmensch»). L’antropologia dell’ultimo Löwith viene ricondotta alle sue «proporzioni» e subordinata alla cosmologia, ma non abbandonata né ripudiata a favore di una pura ricerca ontologica.
Così, oltre trent’anni dopo, Löwith spiega il senso della sua prima pubblicazione; la quale trova il suo perno, come recita anche il titolo dell’opera, nell’individuo colto nel contesto delle sue relazioni interpersonali. In quest’ultimo motivo si condensa anche la forza di attrazione esercitata dalla riflessione di Heidegger. Qui Löwith trovava infatti espressa con la massima forza proprio quell’esigenza di concretezza esistenziale che la filosofia, a suo avviso, deve anzitutto soddisfare per poter avanzare pretese culturali, e che il principio heideggeriano della «fatticità» dell’Esserci portava a tipica formulazione.29 Rispetto ad essa Löwith è preoccupato solo di allargare l’orizzonte di applicazione, fino ad introdurre in esso la sfera delle relazioni umane, in una sorta di replica antropologica dell’ontologia heideggeriana.
Per molti aspetti così Löwith si muove in piena sintonia e complementarietà di intenti con Heidegger. Sembra quasi che, nella giovanile meditazione del proprio tempo, egli abbia per così dire sospeso il personale confronto con le pretese della filosofia precedente30 e quasi rimandato il compito di delineazione di una prospettiva ontologica — costituendo Essere e Tempo di Heidegger una per ora sufficiente base di discussione —, per dedicarsi invece alla riequilibratura antropologica della nuova stagione che l’analitica dell’Esserci mostrava di annunciare. Al centro degli interessi di Löwith sta infatti, come detto, il mondo del Mitmensch nella sua concreta articolazione, più che la oscura-rilucente incombenza dell’Essere.
Certamente la direzione di ricerca è da ultimo confliggente con quella di Heidegger, e lo sviluppo della ricerca löwithiana lo dimostrerà ampiamente.31 Se Löwith sembra infatti imputare al suo maestro «un difetto di antropologismo»,32 è d’altro canto nota la reazione heideggeriana contro l’interpretazione umanistica della sua filosofia.33 Ma per il momento il nostro autore non dimostra di rendersene conto; o forse non osa ancora radicalizzare il contrasto latente.
Per il momento dunque è Heidegger a fornire l’intelaiatura concettuale. All’analitica dell’Esserci di Essere e Tempo Löwith rimanda esplicitamente34 e attraverso le categorie esistenziali heideggeriane egli costruisce l’ossatura del suo modello antropologico. L’uomo è «essere-nel-mondo» [In-der-Weltsein] che sente se stesso immerso in una «situazione emotiva» [Befindlichkeit] originaria, nella quale cerca di vivere in rapporti di «autenticità» [Eigentlichkeit]. Anche dalla terminologia si manifesta la meditazione della lezione heideggeriana; meditazione che però non significa affatto piatta e scontata ripetizione.
Possiamo rendercene conto facilmente sin dalle prime battute dello scritto. Presentando il lavoro, Löwith definisce il metodo di ricerca adottato come «fenomenologico», dichiarandosi contemporaneamente debitore di Heidegger per quanto riguarda l’accesso al metodo stesso.35 Ma subito dopo si affretta ad aggiungere che il suo approccio non assume la prospettiva heideggeriana nella sua integralità, dato che questa intende la fenomenologia «nel più ristretto significato di “ontologia universale fenomenologica”». Per lui invece la fenomenologia continua a valere quale «generale “concetto di metodo”», che innerva la riflessione antropologica.36
Löwith si svincola così dalla curvatura ontologica impressa da Heidegger alla fenomenologia, recuperando invece di questa l’originario significato di attenzione metodica alla manifestazione dei fenomeni originari della vita dell’uomo, colti nella loro semplicità libera da sovrastrutture concettuali di ogni tipo. È all’opera una sorta di pudore teorico che vincola la ricerca ai dati concreti, avanzando altresì il divieto di considerare questi ultimi alla stregua di qualcosa di ovvio; e che però, non avendo ancora la forza di esprimerla, non per questo misconosce l’esigenza di una ambientazione ontologica della ricerca.
L’antropologia fenomenologica, egli scrive, certamente «implica […] qualcosa del genere di “assunzioni ontologiche”, anche se di tipo particolare»; ma «le analisi seguenti non vogliono né possono tirare le loro conseguenze ontologiche.»37 Löwith insomma cerca di ottenere il massimo guadagno antropologico dall’analitica dell’Esserci, attraverso aggiustamenti che egli sembra ancora considerare interni e comunque compatibili con l’euristica heideggeriana degli anni ’20, ma che, in realtà, aprono orizzonti filosofici nuovi ed interessanti.
Ciò è visibile con evidenza nella maniera in cui Löwith riformula alcune categorie interpretative heideggeriane. L’applicazione diretta e privilegiata di queste al mondo degli uomini comporta infatti una loro revisione in funzione della sorgente antropologica della ricerca. Una lunga nota della «Annotazione preliminare alla prima edizione»38 precisa il senso dell’operazione.
Löwith vi dichiara che le espressioni linguistiche da lui utilizzate «non sono identiche, secondo il loro senso, alle omonime espressioni heideggeriane di Essere e Tempo.» Così, sulla linea del già ricordato disimpegno ontologico egli restringe il campo semantico del concetto di «Dasein». Alla forzatura etimologica heideggeriana, che fa di esso un indicatore ontologico dell’essere dell’uomo, Löwith contrappone il senso «popolare» di una espressione indicante solamente una realtà esistente in genere,39 che, per essere applicabile all’uomo, richiede ancora la specificante qualificazione di «umana». In termini heideggeriani si tratterebbe di una definizione solo ontica; scivolamento significativo, che rimanda nuovamente alla diversità di impianto teoretico già notata.
Ma dove la differenziazione da Heidegger si fa più netta è nella definizione del concetto di mondo [Welt]. «Mondo», osserva perentoriamente Löwith,«significa primariamente “mondo comune” [Mitwelt]», il mondo comune degli uomini, e non il mondo oggetto di un «comune prendersi cura [gemeinsames Besorgen]». Si potrebbe subito obiettare con ragione che Löwith fraintende il senso heideggeriano di mondo, che non è l’equivalente ontologico di natura — e quindi non è ente intramondano, oggetto di intervento umano —, ma, come l’«in-cui» dell’Esserci, è il luogo costitutivo, l’orizzonte ontologico dell’Esserci stesso.40 Solo che siffatta obiezione coglie solo marginalmente l’osservazione di Löwith, il quale in questa sede non sta sviluppando un’interpretazione di Essere e Tempo, ma ne sta solo proseguendo l’analisi in direzione antropologica. È una differenza di livello metodico ed euristico, rispettivamente ontologico ed antropologico, che separa i due; una differenza che allo stesso tempo è anche un implicito e latente legame. Ed è proprio nell’equilibrio incerto di tali differenza e legame che si gioca l’analisi di Löwith.
Lungo la linea di ricerca progettata dal nostro autore, la questione del mondo viene incontrata dunque nelle sue coordinate esistenziali ed antropologiche. Essa porta così in vista del legame originario che vincola gli uomini tra di loro, in cui e attraverso cui si dà quella comunicazione autenticamente personalizzante che costituisce propriamente e significativamente l’individuo umano.
Il mondo come mondo umano, comune ed accessibile agli uomini perché ad essi coesistente, è una struttura originaria, orientata a e dall’uomo; esso indica il circolo delle relazioni umane di vita nelle quali l’individuo si trova già collocato, ma che diventano per lui significative solo nella misura in cui egli le assume su di sé e contribuisce a crearle.41 Per tal modo, «il “mondo” non è né un oggetto dell’uomo, immutabile alla maniera delle cose [dingfest], né un vuoto in-cui del suo soggiorno, eterogeneo rispetto all’uomo stesso, ma il mondo comune degli uomini, determinante la vita del singolo ed a questi affine e congenere.»42
È questo, mi sembra, un esempio tipico della dilatazione antropologica operata da Löwith sull’analitica esistenziale heideggeriana. Egli adotta l’analisi di Heidegger, il quale del pari ritiene che «il mondo dell’Esserci è con-mondo [Mitwelt]»;43 su di essa però innesta una torsione antropologica che finisce per trasformare essenzialmente il dato di partenza. Mentre per Heidegger la Mitwelt, il mondo che io condivido con altri è «il mondo in cui l’Esserci prendente cura e preveggente ambientalmente si mantiene essenzialmente» e sul cui fondamento gli altri vengono incontrati,44 in Löwith le parti si rovesciano. «Gli uomini» — così inizia il secondo e centrale capitolo dell’opera — «si incontrano originariamente […] nel rapporto dell’uomo al mondo e, in quanto intramondani, come mondo comune [Mitwelt], in orientamento ambientale.»45
Come lasciava già intuire l’artifizio grafico del corsivo nella affermazione del primato del mondo comune, Löwith contesta a Heidegger la evidenza del passaggio attraverso la mediazione ambientale nel processo di comprensione ontologica dell’essere dell’uomo; non il mondo-ambiente (Umwelt) è il mondo più prossimo all’uomo,46 ma il mondo comune agli uomini (Mitwelt). Il fatto è che, come l’analisi del concetto di Miteinandersein renderà palese, «ontologicamente più originario di ogni prendersi cura di utilizzabili è l’aver cura degli altri, dato che quel prendersi cura sorge dalla cura per sé e per gli altri.»47
Secondo quanto già palesa il linguaggio ordinario e la tradizione storiografica conferma,48 si dà pertanto una fondamentale orientazione antropocentrica del mondo. Come ambiente sociale o come natura che nella sua coltivazione tradisce la presenza manipolativa dell’uomo, il mondo si presenta sempre nella sua costitutiva destinazione umana.49 In quanto il mondo è un mondo abitato dagli uomini, che così «ne determinano essenzialmente il suo carattere» (come, ad esempio, gli abitanti le loro case),50 si dà la possibilità di una articolazione dell’ambiente dato, articolazione che è pur sempre ottenuta a partire dal mondo comune degli uomini.
La concezione heideggeriana del mondo come ontologico «in-cui» dell’Esserci tradisce per contro «l’esistenziale [existentielle] inessenzialità del mondo come mondo comune degli uomini. Il mondo dell’essere-con-l’altro-in-reciprocità (Miteinandersein), di conseguenza, per quel concetto di esistenza che costituisce sin dall’inizio lo scopo della ricerca [di Heidegger], esistenzialmente è privo di significato.»51
Come in un ventaglio che pian piano venga aperto a mostrare l’originale suo disegno, la riflessione löwithiana sulla natura del mondo lascia apparire ora alla luce la remota intenzionalità dello scritto, il suo pivot antropologico. Quando Löwith dice che l’uomo conquista la sua indipendenza di individuo nella relazione al mondo, affrettandosi a precisare che il mondo è sempre anzitutto mondo umano, egli pone in realtà il problema della definizione concettuale dell’uomo, del suo stesso essere. L’uomo a suo avviso non è mai esserci singolo rinchiuso su se stesso, ma è individuo che si apre alla relazione costitutiva verso l’altro; è sempre Mitmensch, «e più precisamente: l’essere-nel-mondo come Miteinandersein, come essere-con-l’altro-in-reciprocità.»52
Con il concetto di «essere-con-l’altro-in-reciprocità» tocchiamo dunque uno degli snodi teoretici del discorso. Nell’economia dell’antropologia filosofica löwithiana, il concetto gioca in qualche modo un ruolo equivalente a quello heideggeriano di «essere-nel-mondo» di cui intende però valere quale correttore antropologico. È attorno ad esso che viene costruendosi tanto la posizione löwithiana quanto la sua presa di distanze dall’impostazione heideggeriana; ed è sempre ad esso che dovremo ritornare per valutare appieno l’incidenza speculativa della ricerca che qui stiamo seguendo.
L’individuo umano, sostiene Löwith, è sempre individuo in relazione con altri. Essere nel mondo perciò non può significare altro che essere con gli altri, dal momento che mondo significa eo ipso mondo comune degli uomini.53 Nella «“relazione” di uno all’altro», nel loro Miteinander, è pertanto racchiuso un «nesso strutturale della vita dell’uomo», che solo consente di raggiungere «una comprensione originaria o fondamentale per il “senso” dell’esistenza umana [menschliches Dasein] in generale.»54
La critica a Heidegger diventa così esplicita. Löwith contesta al suo maestro proprio quella formulazione che doveva consentire l’accesso all’interrogazione piena sull’Essere, vale a dire il tema dell’“autenticità” dell’esistenza. Secondo Heidegger infatti l’Esserci deve proteggersi dalla caduta nell’anonimia del «si» (Man) attraverso l’assunzione integrale del suo modo di essere più proprio. Nella decisione anticipatrice della propria morte, l’Esserci conquista la sua esistenza più autentica.55 Ma, come nota anche Heidegger, la morte è il vertice dell’estrema singolarizzazione; non «si» muore, ma io muoio per me la mia morte. L’Esserci, concepito in questo modo come essere-per-la-morte, innalza attorno alla sua esistenza una barriera che inibisce ogni relazione essenziale ad altri. Esso così si condanna ad un «solipsismo esistenziale», da cui si può fuoriuscire solo con un atto di decisione volontaristica56 che si affianca immotivatamente al processo della cura del proprio essere. Il fatto è che «il punto iniziale da cui egli [Heidegger] costantemente parte non è mai la comunanza ma la “Jeeigenheit” del singolo, la condizione “sempre propria di ciascuno”, ossia la situazione di radicale isolamento dell’individuo o della nazione.»57
Non è sufficiente pertanto, a consentire questa autentica comunicazione esistenziale, definire l’Esserci come «con-essere» (Mitsein). Anche infatti se l’Esserci, in quanto con-essere, è in costitutivo rapporto con l’altro, esso in realtà esce dalla cittadella fortificata del suo Sé solamente per catturare l’altro e ridurlo a suo possesso. L’altro infatti è semplicemente con me, in maniera non impegnativa e quindi sostanzialmente casuale; ed il mio stesso darmi da fare attorno alla sua esistenza in verità sta ad indicare il mio rifiuto di intrattenere con lui rapporti di autenticità.58 «Se la relazione tra due persone è fissata unilateralmente dal mio comportamento nei confronti della seconda persona come altra, allora l’Esserci, malgrado il suo con-essere, “incontra” sempre solo sé stesso.»59
«Questa unilateralità», continua Löwith nel saggio del 1942, «appartiene piuttosto all’unilateralità propria del fondamento filosofico di Heidegger.» Nel lavoro che qui stiamo discutendo, Löwith chiarisce con maggiore ampiezza le sue riserve, e lo fa alzando il tiro del discorso. Le affermazioni citate per ultimo mettono a fuoco distinte caratterizzazioni dell’essere dell’uomo. Löwith è così costretto, al di là delle sue intenzioni, a fare i conti con l’ontologia, da cui pure aveva cercato di tenersi distante. Riflettere sulle relazioni interpersonali implica infatti lo sforzo di operare una fondazione o almeno una collocazione dell’essere dell’uomo, la quale non può che porsi sul livello ontologico. Non basta cioè accertare il fatto del rapporto di uno all’altro, se poi l’essere dell’uno e dell’altro è pensato come monadico pur nel loro fattuale incontro. Dalla reclusione del Sé-proprio non si esce, neanche qualora questo Sé-proprio sia identico per ognuno. Nel rapporto con l’altro io non trovo un legame originario e costitutivo di me stesso, ma solo un passaggio che altro non è che dilatazione del mio essere-proprio verso un’alterità con la quale posso entrare in rapporto alla condizione di ridurla entro la sfera del mio esser-proprio. Non si dà insomma un esser-proprio di tutti; o meglio, in quanto di tutti, lo è anche di nessuno, ed è il Si (Man).
Bisogna dunque ripensare l’essere dell’uomo nella sua relazione ad altro, tenendo presente la condizione sopra esposta. La natura relazionale dell’individuo umano non può allora venir raggiunta per semplice composizione «a partire dal con-essere dell’esserci “suo proprio” e dal con-esserci dell’esserci “suo proprio” dell’altro». Esso è piuttosto «originario Essere-con-l’altro-in-reciprocità [ursprüngliches Miteinandersein], in cui all’uno ne va dell’altro e con l’altro, insieme, di sé.»60
La somiglianza terminologica nasconde una accentuata differenziazione. Quel «[l’un-]l’altro-in-reciprocità» (einander), che nella definizione dello statuto ontologico dell’uomo sembra essere solo ininfluente e superflua aggiunta ai determinanti «con» ed «essere» (mit-sein), in verità racchiude tutta la tonalità antropologica löwithiana. Essa dichiara infatti che l’uomo non esiste solo con un generico altro, verso cui occasionalmente può dirigersi, realizzando un incremento di natura esistentiva senza un autentico guadagno esistenziale. Ben al contrario, l’uomo si determina nella sua autenticità solo laddove riesce ad introdurre nel suo orizzonte ontologico di esistenza un’altra persona nella forma del Tu di un Io. Ciò sta a significare che siffatto Essere-con-l’altro-in-reciprocità va pensato come un esistenziale, che affetta e determina originariamente e costitutivamente il modo di essere di quell’ente che è l’uomo; il quale così è rimandato all’altro e quindi, in virtù di tale rimando, può rivolgersi a se stesso. Löwith rovescia la prospettiva heideggeriana. «Mentre in Heidegger l’autenticità […] richiede l’assoluto raccoglimento dell’esserci in se stesso, in Löwith […] l’autenticità si realizza originariamente nella dimensione dell’essere-assieme.»61 Lo sforzo teoretico di Löwith è pertanto totalmente rivolto a fondare nell’essere dell’uomo l’apertura verso l’alterità personale.
Bisogna dunque invertire la direzione di ricerca. Rimanendo ancorati all’«esserci proprio di ciascuno», «la possibilità autenticamente positiva dell’essere-con-l’altro-in-reciprocità, cioè l’essere nella reciprocità [das Sein im Einander] di prima e seconda persona, di tu ed io, viene con ciò oltrepassata.»62 Dato che l’altro non è solo un generico altro, un «alius», ma un «alter», un altro nella forma del Tu, con il quale si è già sempre con in un rapporto di corrispondenza reciproca.63 È qui evidente il tentativo löwithiano di pensare l’alterità non come opposizione dialettica (l’altro come estraneazione del Sé) né tanto meno come proiezione di coscienza del Sé proprio. In tal modo viene superato l’idealismo, tanto nella sua forma assoluta hegeliana quanto nella sua veste trascendentale husserliana, che resta comunque confinato entro la funzione costituente del Sé monadico.64
Questo sembra il vero problema di Löwith, per risolvere il quale egli adotta veramente i risultati dell’analitica esistenziale heideggeriana. La problematica filosofica che qui si affaccia è dunque quella relativa al rapporto Sé-Altro e del suo difficile equilibrio. Da un lato abbiamo la concentrazione esistenziale sull’essere proprio dell’esserci, cui corrisponde però una limitazione o almeno un recupero tardivo e forzoso dell’apertura verso l’altro; per un secondo verso, invece, l’attenzione viene catalizzata sulla comunanza ontologica dell’uomo come Mitmensch, la quale rimanda però alla questione altrettanto essenziale della indipendenza del Sé. Si tratta insomma di vedere come determinare l’individuo umano perché esso possa avere una relazione costitutiva al non-Io umano, all’altro, senza che questo altro si affianchi esternamente all’Io presentandosi come presupposto autonomo ed indipendente — la relazione all’altro non sarebbe costitutiva ed esistenziale, ma al più solo pragmatica ed esistentiva, con il risultato che l’Io poi non saprebbe come uscire da sé;65 e d’altro lato senza dover presupporre una struttura oggettiva di incontro, una sorta di Geist hegeliano al cui interno Io e Tu si configurino come mere articolazioni dialettiche dell’unità assoluta — in tal modo andrebbe persa l’autonomia del Sé.
A questo tentativo si accinge la ricerca di Löwith. Per poter valutare esattamente il tentativo, occorre però portare a termine l’analisi dell’antropologia löwithiana, attraverso l’approfondimento della determinazione dell’individuo umano come Mitmensch.
3. La deriva soggettivistica
Possiamo a tal fine ripartire dall’analisi del titolo dell’opera, ove si offre concentrata la fondamentale intuizione antro-pologica löwithiana. L’individuo nel ruolo del Mitmensch è l’individuo che raggiunge la sua piena maturità di persona nella relazione impegnativa e responsabile con l’altro uomo, e segnatamente con l’altro più prossimo, il Tu.
Da un punto di vista formale, l’enunciato del titolo è costruito sull’opposizione polare di individuo e Mitmensch, tra i quali esercita una funzione di mediazione, che è allo stesso tempo indicazione di percorso, il concetto di ruolo. Individuo e Mitmensch sono due differenti modalità esistenziali, dal diverso potenziale etico ed antropologico, dell’uomo. Tra le due si instaura una positiva tensione che viene a risoluzione solo con il conseguimento della piena consapevolezza della natura relazionale dell’uomo nel contesto dell’articolazione sociale della vita. Löwith disegna con ciò un itinerario che mira a tratteggiare fenomenologicamente lo statuto d’esistenza dell’uomo, fondando allo stesso tempo la possibilità di un recupero di autenticità della vita comunitaria. Sulla scorta dell’impostazione delineata, la problematica antropologica deve pertanto assumere la forma di un’analisi capace di mostrare «fino a che punto ed in quale maniera il Mitmensch costituisce la vita del cosiddetto “individuo”.»66
Si tratta, beninteso, di un itinerario ed analisi fenomeno-logica e non psico-sociologica ovvero di natura storico-pragmatica. Löwith non intende certo prospettare un passaggio dialettico o comunque temporale dall’essere nell’individualità all’essere nella relazione, quasi si desse nel curriculum vitae dell’uomo una fase dell’individualizzazione totale antecedente quella della relazionalità. L’uomo non esiste mai anzitutto come individuo per sé stante, isolato dal contesto delle relazioni vitali che lo definiscono come Mitmensch. Al contrario, «l’“individualità” umana è “umana” solo perché essa ha parte con altri e può comunicarsi nel senso più ampio.»67
La precedente affermazione löwithiana circa il valore antropologicamente derivato del fattore individualizzante precisa comunque il suo senso solo sul piano dell’ontologia implicita del Miteinandersein che, come si vede sempre meglio, è il vero cuore dell’antropologia di Löwith. All’interno di questa, la categoria di individuo rappresenta poi l’aggancio metodico e fenomenologico della ricerca, da cui conviene veramente partire.
Qui, nella definizione del concetto di individuo, scopriamo però con sorpresa che l’orizzonte ermeneutico heideggeriano — che, pur ristrutturato antropologicamente, continuava finora a valere come campo del lavoro filosofico — è silenziosamente abbandonato. Altri sono i termini ideali di riferimento di questo momento pur basilare del progetto antropologico löwithiano: anzitutto Feuerbach e poi, attraverso la mediazione diltheyana, Kant. Il fatto è che Löwith si sta accingendo ad una operazione che, se in sé non priva di notevole spessore teorico, si propone altresì come innovativa di nuovi percorsi storiografici, dai quali è pronta a cogliere stimolanti suggestioni; in ciò scontando però anche tutto il rischio di una difficoltosa compensazione di istanze così eterogeneamente coltivate.
La «filosofia del futuro» di Feuerbach offre ora a Löwith una preziosa base di avvio della ricerca. «Il significato inusuale che, nei Principi della filosofia dell’avvenire Feuerbach, e solo egli, riconosce al mondo comune, sotto la categoria del “Tu”, giustifica la sua presentazione circostanziata e separata.»68 A Feuerbach infatti Löwith dedica tutto il primo capitolo della dissertazione, un capitolo che viene a configurarsi così anche dal punto di vista tipografico69 come sostanziale introduzione all’analisi fenomenologica strutturale del mondo umano.
Sviluppando la riflessione feuerbachiana, Löwith conquista una posizione che egli sembra disposto a considerare quale punto di non ritorno del pensiero filosofico. L’uomo che deve essere oggetto di riflessione filosofica è l’individuo umano concreto, in «carne ed ossa», colto nel contesto delle sue relazioni sociali.
La tendenza all’oggettivazione, che giustamente Löwith individua come dominante nel pensiero di Feuerbach, libera dall’astrazione dell’Io puro le energie per una rinnovata comprensione esistenziale dell’uomo; questi è così «“esser-presso…” ciò che, quale oggetto, è fuori di lui, ovvero il mondo esterno all’uomo [Außenwelt] ed il mondo comune degli uomini [Mitwelt].»70
Il richiamo a Feuerbach assolve dunque alla funzione di trovare un avallo storiografico che segni una decisa presa di distanza da ogni idealistica filosofia del pensare astratto ed insieme consenta una motivata apertura di credito teorico alla esperienza problematizzata.71 La via verso l’incontro dell’Io e del Tu è così tracciata. La lezione kantiana poi vi apporterà la necessaria certificazione ontologica.
Il confronto con Kant si rivela ancor più prezioso. Si potrebbe quasi dire che attraverso Kant Löwith dia consistenza ad intuizioni che la lettura di Feuerbach aveva sì delineato, ma anche solo lasciato allo stato germinale. Viene così assicurato un contenuto forte alla analisi fenomenologica con la produzione di quel sostegno ontologico da tempo reclamato. «La ambiguità ontologica della costituzione d’essere dell’uomo e, in secondo luogo, la determinazione dell’esserci proprio di ciascuno, distinto da ogni altro, attraverso la sua unità con l’altro»: sono questi i perni di una fondazione dell’antropologia che Löwith rintraccia nel discorso kantiano.72
La condizione ontologica dell’uomo è caratterizzata dall’esser egli cosa, res corporalis del commercio mondano, ed insieme persona, soggettività autonoma capace di fini ed essa stessa finalità ultimativa, obbligante come tale al rispetto. Nel rispetto si fonda altresì il legame fondamentale del rapporto interumano.73 Le categorie della filosofia pratica kantiana servono dunque a definire la giusta impostazione del problema. Per tal via Löwith può giungere a precisare il corredo antropologico della sua ricerca, come si può vedere nel seguente passo, in cui risuonano tutti i motivi finora accennati:
Che l’uomo sia un «fine per sé» [Selbstzweck] per Kant non significa assolutamente che per l’esserci umano in quanto suo proprio ne vada di sé [um sich selbst gehe] — in maniera autentica o inautentica; perché il «mondo», in cui Kant vede posto l’uomo, non è un mondo in cui questi è gettato [geworfen] a sua sorpresa, ma è un mondo di suoi simili, cioè un mondo comune a lui pari, mediante il quale anche prima di tutto ciascuno giunge all’esserci [Dasein] e quindi a responsabile esistenza [Existenz]. Il senso primario della determinazione dell’uomo come un fine per sé da rispettare non è la fondazione dell’uomo come un individuo stabilito su se stesso, ma è la fondazione di rapporti per sé stanti di persone aventi parte l’un l’altro reciprocamente.74
L’importanza del passo giustifica la lunghezza della citazione. Ancora una volta in polemica indiretta con Heidegger, Löwith sottolinea che l’individuo umano ha con il mondo degli uomini un rapporto immediato, in virtù del quale si determina come persona in relazione ad altri. Come esempio di questa trama di relazioni interpersonali fondative l’esistenza umana, qualche pagina oltre Löwith richiama l’osservazione kantiana, già discussa da Hegel, circa il «deposito» di beni, alla cui base sta la «fiducia»che «presuppone l’esser-con-l’altro-in-reciprocità.»75
La medesima esemplificazione pragmatica, se da un lato chiarisce il senso della lettura löwithiana, dall’altro però ne mette anche a nudo gli aspetti problematici. Qui infatti il Miteinandersein è trasferito dal livello ontologico strutturale a quello ontico fattuale; esso non sta più ad indicare una fondamentale condizione esistenziale, ma, in tutta evidenza, è semplice rilevatore della presenza di «simili» attorno ad un soggetto individuale. La massima del deposito fiduciario dà di fatto espressione alla «comunità presupposta» dei rapporti umani. Il Miteinandersein, l’esser-con-l’altro-in-reciprocità si riassume allora nella comunità degli uomini, luogo storico ed ambiente concreto del rapportarsi reciproco degli individui come Mitmenschen tra di loro. L’oscillazione semantica del concetto anzidetto è significativa ed avrà bisogno del dovuto approfondimento. Già adesso però possiamo osservare che le implicazioni teoretiche delle scelte operate da Löwith risultano non così lineari come si vorrebbe.
Seguendo l’itinerario tematico dello scritto, finora abbiamo visto come Löwith, muovendo da istanze di natura fenomenologico-esistenziale, abbia ricercato una nuova articolazione della problematica antropologica capace di declinare la sfera dell’esperienza comunitaria dell’uomo. Egli pensa di dar risposta positiva a detta esigenza assumendo, nella ripetizione, le movenze di fondo della filosofia kantiana e feuerbachiana; l’apertura all’altro implicata nel rispetto kantiano e richiesta dall’Io «altruistico» di Feuerbach sembrano garantire la giusta direzione della ricerca.
Se però non ci si ferma a questo punto ma si continua con la problematizzazione della posizione or ora conquistata, si palesa un orizzonte teoretico niente affatto adeguato agli obiettivi proposti e suscettibile perfino, in qualche misura, di ipotecare lo sviluppo successivo dell’analisi. Di tal fatta è — per Kant e Feuerbach, ma parimenti anche per Löwith — l’orizzonte dell’uomo come individuo, totalità in sé armonica e compiuta, non solo come realtà naturale ma più ancora come soggetto morale autonomo. L’osservazione non è in contrasto con quanto, a più riprese, Löwith afferma a proposito dell’insostenibilità dell’indipendenza dell’individuo quando questa significhi il suo esser per sé socialmente isolato; giacché, appunto, non è di questa indipendenza che si parla. La questione da cui avevamo preso le mosse infatti era non tanto quella di vedere se l’uomo viva anche una dimensione di socialità nel corso della fattuale sua esistenza storica, quanto piuttosto quella di capire dove tale dimensione possa trovare il suo fondamento. Che non esista da nessuna parte un individuo del tutto isolato ed indipendente da altri; che la realizzazione compiuta dell’uomo sia il Mitmensch, ossia l’uomo che si rapporta all’altro uomo secondo un determinato ruolo sociale:76 questa parte dell’analisi di Löwith non fa problema. È però altrettanto chiaro che tale compiutezza antropologica — ovvero, come preferisce esprimersi Löwith, «autenticità» (Eigentlichkeit) — viene conquistata da un soggetto qualificato come individuo, esistenza indivisa e per sé autonoma, anche se di fatto esistente sempre con altri individui. Come dichiara il titolo dell’opera, a recitare il ruolo del Mitmensch è l’individuo.
Le considerazioni svolte non sono di poco conto. Come già aveva chiarito la critica di Löwith alla posizione heideggeriana, non è infatti la stessa cosa individuare il fondamento del rapporto interpersonale nell’orizzonte solipsistico del Sé o nella coappartenenza del Sé all’Altro. Non si tratta di capziosità concettuale o di mera distinzione nominalistica. L’intenzionalità del concetto di individuo vuole precisare infatti una realtà elementare e monadica, non ulteriormente scomponibile e pertanto autosufficiente; l’individuo è così, in maniera del tutto evidente, una realtà autoreferenziale. Il che non significa, si badi bene, che esso non possa lasciarsi interpellare da altri od anche costituire dei rimandi coinvolgenti verso l’alterità a lui omogenea; solo che tutto questo non intacca la sfera di proprietà vera e propria della sua esistenza.
Stando così le cose, e per questo aspetto particolare, non si dà una differenza sostanziale tra la posizione di Kant-Löwith — la quale fa riferimento ad una individualità moralmente autonoma che nel rispetto dell’umanità propria è indotta anche al rispetto dell’umanità altrui (senza essere però da quest’ultima determinata praticamente)77 — e le analisi di Heidegger da cui «risulta che dell’essere dell’Esserci, essere per cui per l’Esserci ne va del suo essere stesso, fa parte il con-essere con gli altri.»78 Comune ad entrambe le posizioni è l’assunto implicito di un proprium esclusivo di ogni alterità e tipicizzante quindi l’esistenza singola dell’individuo; un assunto da cui prendere propriamente le mosse per poi raggiungere in modo vario l’ambientazione relazionale dell’esistenza concreta.
Si intendano bene i termini della questione. Non è qui minimamente in gioco una presunta identità di orizzonte speculativo che apparenti tra di loro Kant, Heidegger e Löwith.79 Né, per altro verso, si tratta di contestare la possibilità del singolo di affermare la sua libera soggettività nel corso di un comportamento individualizzato, in virtù del quale venga a manifestazione la originaria e peculiare natura propria, non dipendente dal contesto sociale delle relazioni umane. Da questa prospettiva, anzi, l’intento di Löwith è senz’altro lodevole. Egli cerca di costruire una nicchia indistruttibile, una sorta di residuo inaccessibile che impedisca l’annegamento dell’individualità in una sopravanzante struttura oggettiva, superindividuale ed organicistica, di natura comunque totalitaria. La preoccupazione di evitare la trappola idealistica del soggetto assoluto fagocitatore di ogni individualità singola fa premio su ogni altra attenzione ed orienta la ricerca, impostandola su di un registro individualistico.
Il problema piuttosto è — se veramente, come ricordavamo all’inizio, uno dei nodi della riflessione filosofica contemporanea può riassumersi nel tentativo di conquistare una comprensione non soggettivistica dell’essere dell’uomo (senza che questo significhi comunque la rinuncia totale ad ogni soggettività) — quello di delineare i tratti di una differente strumentazione teorico-concettuale dell’antropologia filosofica, attraverso l’interrogazione radicale dei fenomeni dell’esistenza umana. Con siffatto problema si misura anche la ricerca di Löwith, in un tentativo che però non ottiene pieno successo proprio a causa del mancato avvertimento dell’inadeguatezza dell’apparato teorico di impianto.
Riesce infatti difficile pensare come in generale possa sorgere, dall’«incontrarsi di due “individui” contrapposti ed anzitutto [zunächst] ancora indipendenti [selbständig]»80 un rapporto che sia più che un puro e semplice fattuale essere-accanto di soggetti appunto autonomi ed in sé compiuti; resta cioè problematica, dato il punto di avvio, proprio la formazione di quel rapporto essenziale,«assoluto», capace di fondare la possibilità autentica dell’incontro degli uomini tra loro.
Dall’individuo al Mitmensch si compie perciò una vera e propria metamorfosi concettuale. Di questo scarto logico Löwith percepisce almeno lo squilibrio, allorché egli non identifica immediatamente l’individuo al Mitmensch, ma lascia operare la transizione dall’uno all’altro dal concetto di ruolo (Rolle).81 È in virtù del ruolo sociale giocato dell’individuo che questi può presentarsi come uomo in rapporto essenziale con l’altro uomo. Ascoltiamo la presentazione che Löwith stesso fa del suo lavoro:
Come risultato provvisorio delle analisi può essere indicato che l’individuo umano è un individuo nel modo di essere [Seinsart] della “persona”,82 ossia esiste essenzialmente in determinati “ruoli” sociali [mitweltlichen] (ad es.: come figlio dei suoi genitori; […]; come scrittore dei suoi possibili lettori, e così via); vale a dire è determinato in lui stesso fin dalla radice mediante gli altri che gli corrispondono, e, formalmente fissato: è determinato come Io di un Tu, come individuo in prima “persona” [Person], (si intende di una possibile seconda persona), e quindi come *Mitmensch, come uomo con gli uomini* — mediante questo principale ruolo.^[83]
L’articolato movimento del periodare löwithiano converge nella affermazione finale della funzione personalizzante, che l’esercizio del «principale ruolo» del Mitmensch conferisce all’individuo ancora isolato. È così ancora una volta delineata l’architrave speculativa che regge l’intera costruzione löwithiana. Accanto a quello di individuo, la categoria di ruolo e quella di Mitmensch ne sono i punti di forza.
A ben considerare però la dinamica di pensiero di Löwith, la categoria di ruolo, che è evidentemente un ruolo sociale, si rivela più che semplice elemento di fondazione antropologica. Ben al contrario, essa svolge una essenziale funzione di cerniera nella costruzione del nostro autore; essa è lo snodo attraverso il quale l’individuo viene costituito come Mitmensch, il passaggio obbligato che apre l’individuo alla relazione interpersonale. Il ruolo è difatti l’esercizio di una funzione in un contesto che è naturalmente polifonico. La sua determinazione avviene bensì nel e a partire dal contesto sociale: il che cosa, la tipologia dei ruoli si definisce infatti sempre solo nella concretezza della situazione reale. Ma questo per Löwith è secondario rispetto alla connotazione socializzante che l’esercizio di un ruolo comunque apporta alla definizione antropologica.
A Löwith insomma non interessa collocare la ricerca sul piano di una sociologia descrittiva, di una analisi cioè che fotografi una determinata società di fatto. L’accento cade piuttosto sull’esercizio di un ruolo, non sul ruolo esercitato. I ruoli sono tipicizzanti l’individualità umana, appartengono al mondo umano come tale, prima ancora che ad una concrezione particolare del vivere associato. Una società anzi si dà in quanto si dà originariamente un mondo comune degli uomini.
Ma, pur con tutte le cautele che l’analisi richiede, resta sempre che il concetto di ruolo è categoria eminentemente sociologica, la cui importazione in un progetto di antropologia filosofica richiederebbe una qualche mediazione. Si può certo sostenere che l’individuo che esercita un ruolo, non importa quale, fosse anche quello di Mitmensch, realizza un guadagno sul piano dell’esperienza di vita e così può anche riuscire a comprendere meglio se stesso; ma non si può certo dire che così la connotazione antropologica ottenga una intensificazione qualitativa in grado di fondare veramente la dinamica relazionale.
Il ruolo può infatti trovare collocazione solo in un contesto ermeneutico precedentemente già aperto dalla relazione. L’essere in un ruolo presuppone con ogni evidenza la possibilità originaria di essere in relazione;83 cosa che però l’attacco individualistico della ricerca löwithiana non consente affatto. I ruoli dell’individuo sono di necessità gestiti dall’individuo in maniera individualistica, atomisticamente. Essi possono solo sovrapporsi all’individuo, determinandolo estrinsecamente, senza cioè riuscire ad intaccare la scorza che circonda il nucleo di identità in cui esso fermamente si riconosce; di conseguenza il rapporto che lega fra di loro due individui non può che essere esteriore, puramente strumentale. Resta pertanto problematico capire in quale misura — non superficiale od esteriore, ma esistenzialmente rilevante — il ruolo sociale possa costituire l’individuo come persona in relazione. Delle due l’una: o l’individuo è veramente una totalità in sé chiusa perché completa, indivisibile e perciò autosufficiente — ed allora il ruolo sociale non aggiunge né toglie nulla alla realtà sostanziale cosi connotata; oppure, come in fondo ritiene anche Löwith e come pensiamo anche noi, l’uomo si caratterizza personalmente per il rimando costitutivo all’altro — ma allora è la categorizzazione individualistica a rivelarsi fondamentalmente impropria ed inadeguata, in quanto formalmente riduttiva.
L’incertezza analitica sopra rilevata non è però casuale. Essa consegue al già osservato scivolamento concettuale che patisce la centrale categoria del Miteinandersein nel momento in cui essa, da articolazione formale di un nesso strutturale fondamentale dell’esistenza umana, si orienta a richiamare la fattuale coesistenza di individui. Si dà così in Löwith una caratteristica oscillazione, spesso inconsapevole e non sempre controllata negli esiti, tra un livello implicitamente ontologico ed uno antropologico esplicito. L’essere-con-l’altro-in-reciprocità diventa allora solo semplice sinonimo della realtà più prossima agli uomini, del mondo comune al tempo stesso già dato e sempre riempito di significato dagli uomini. Esso si identifica con la Welt des Miteinandersein, con il mondo dell’ente che esiste insieme con l’altro, cioè il mondo dei Mitmenschen,84 al cui interno questi si incontrano in un orientamento che trova in un Io il vertice prospettico.
Nonostante tutti gli sforzi, così, Löwith non riesce ad evitare la deriva soggettivistica della sua riflessione. La riduzione sociologica del Miteinandersein ad orizzonte storico concreto di esistenza del Mitmensch porta inevitabilmente con sé la evidenziazione e distinzione del centro, a partire dal quale propriamente si costituisce detto orizzonte. La Mitwelt, osserva quindi Löwith, «è il mondo degli altri unificato attraverso me.»85 Esso diventa mondo comune solo in riferimento ad un soggetto unificante la totalità delle realtà presenti, che si offrono come date (per l’osservatore) solo nella misura in cui un soggetto (osservante), da quelle distinto, le porta ad unità. «In quanto esistenti-con-me, gli altri sono originariamente distinti nell’insieme, come mio mondo comune, da me, che solo non sono un “altro”.»86
Qui veramente l’Io è l’oculus mundi. Il centro del sistema è dunque saldamente occupato da un soggetto, che si distingue da quello idealistico solo per il fatto di essere «impuro» e relativo al micro-orizzonte che esso costituisce per sé; tale è l’Io di Löwith, attorno al quale ruotano, in cerchi concentrici, anzitutto il mondo comune degli uomini, e poi l’intera natura.87 Solo perché c’è un Io, solo perché ci sono io, gli altri e le cose naturali vengono ripresi dalla dispersione in cui li confina la loro semplice esistenza ed elevati a qualcosa di significativo ed ordinato. Moderno Dator formarum, l’Io acquista così un vero e sostanziale primato nella relazione verso l’alterità, in particolare l’alterità congenere dell’Io, l’altro uomo nella forma del Tu.88
La centratura del mondo degli uomini sull’Io si rivela pertanto funzionale alla complementare concentrazione dell’altro nel Tu;89 si apre perciò uno spazio per il rapporto autentico di Io e Tu, in cui è dato vedere, una volta depurata la zavorra di un soggettivismo di matrice individualistica, il vero contributo positivo dell’antropologia di Löwith.
4. I limiti teoretici dell’antropologia della persona di Löwith
Le considerazioni precedenti, pur nelle loro critiche conclusioni, non devono chiudere il confronto con la meditazione löwithiana. Obbedendo alla logica di una puntuale verifica degli assunti teoretici di fondo dell’antropologia filosofica del nostro autore, esse nondimeno sono state impostate sull’esigenza di una più rigorosa fondazione dei guadagni speculativi conquistati. L’ordinamento di questi ultimi è il passo che rimane pertanto ancora da muovere.
«A voler esprimere in forma sintetica quale sia stato il contributo del libro di Löwith al dibattito filosofico di quel tempo, si dovrebbe dire che esso fu la messa in luce di quello che il Tu, nella sua radicale singolarità, rappresenta per l’essere umano.»90 L’indicazione di Gadamer, ancora generica nella sua sostanziale pertinenza, richiede di essere precisata. Nel rimando al Tu si riassume infatti senz’altro uno dei contributi teoretici maggiormente significativi del pensiero di Löwith.91 L’incontro con l’altro nella forma del Tu dà pienezza ed effettiva concretezza all’essere relazionale dell’uomo. È in virtù della relazione impegnativa con te — impegnativa perché in essa io metto in gioco me stesso e rispondo di me — che io sono veramente io.92 «Esclusivamente “noi due”, “io e tu”, possiamo essere l’un con l’altro [Miteinander].»93
L’accenno al Miteinander, sia pure avanzato in forma solo avverbiale, tradisce la rilevanza ermeneutica del rapporto Io-Tu. Con esso Löwith si incammina su una strada sicuramente ricca di fecondi sviluppi; essa dà forma all’esigenza di maturare una efficace comprensione della modalità fondamentalmente personalizzata con cui l’essere umano si offre allo sguardo proprio ed altrui. Che l’essere-con-l’altro-in-reciprocità — in cui si condensa l’autentico e vero essere dell’uomo — possa costituirsi soltanto dal momento e nella misura in cui Io e Tu entriamo in rapporto reciproco, questo fatto sostanziale non serve perciò minimamente a registrare l’avvio di un processo comunicativo che, assegnando all’individuo un ruolo personale, perciò stesso lo inserisca in un circuito progressivamente socializzante. «L’essere a due non sta ad indicare alcuna restrizione quantitativa dell’essere a tre, a quattro, e così via; esso, al contrario, indica una intensificazione qualitativa del Miteinandersein, dell’essere-con-l’altro-in-reciprocità, la quale non può venire derivata da quella.» E poco oltre Löwith aggiunge: «Il rapporto di io e tu è quindi un rapporto unico nel suo genere.»94
Qui si manifesta, a mio avviso, una traccia che vale la pena di seguire ed approfondire; prende così corpo quell’orizzonte ermeneutico di un’antropologia della relazionalità che Löwith ha tentato a più riprese di definire. È notevole che in questi cruciali passaggi Löwith non parli più dell’Io e del Tu, come pure mostra di intendere Gadamer — vale a dire di un soggetto universale apparente nella forma-Io o nella forma-Tu95 —, ma di Io (che sono agisco parlo in prima persona) e Tu (che sei agisci parli in una persona che, rispetto a me, è seconda — così come io lo sono rispetto a te —, e che per sé è prima).96 Io e Tu richiedono perciò di essere coniugati in maniera personale: non l’Io (e il Tu) che è, ma io che sono, tu che sei. Io e Tu non valgono insomma quali idealistiche figure della coscienza, attraverso le quali lo spirito giunge a se stesso; così come il loro incontro non ha niente a che vedere con lo hegeliano movimento del riconoscimento reciproco di autocoscienze dapprima indipendenti.97 Nell’Io in prima persona Löwith vede invece affermata la natura dell’uomo, irriducibile ad ogni generalizzazione e nonostante questo — o forse, proprio per questo — degno argomento di considerazione filosofica; mentre in te, che mi sei non già di fronte — quale oggetto — ma insieme accanto, e con cui io entro in una relazione assoluta, cioè libera ed impegnativa, io trovo quel legame responsabile, nel quale Löwith può vedere la via d’uscita dalla capsula solipsistica.98
Questa prospettiva di ricerca, estremamente stimolante, dobbiamo comunque dire che resta palesemente marginale nell’orizzonte speculativo löwithiano. Essa viene, per così dire, catturata, e perciò anche depotenziata, da un quadro teorico viziato da una marcata impronta individualistica; sicché la prospettiva della antropologia della persona resta in Löwith meramente esigenziale, anche se non per questo meno interessante. Una strumentazione concettuale inadeguata fagocita, come abbiamo più volte notato, una intuizione non priva di vigore. E così il Tu, scoperto come «il più vicino» che mi fa apparire ogni altro come «diverso», «alius», «altro in “terza persona”», rimane confinato nella condizione di «alter ego», «altro di me stesso»;99 il che significa pur sempre un «Io» in forma d’altri, un soggetto altro che ripercorre le tracce — e le cadute — dell’io proprio.
L’Io, ritornato nascostamente al centro della discussione, fa sorgere di conseguenza la questione dell’indipendenza del Tu. «Come “Tu”, tu non sei indipendente di fronte a me perché puoi ritirarti in te stesso e determinarti così per te stesso come (altro) Io, ma, al contrario, tu puoi mostrare a mepositivamente la tua indipendenza soltanto perché tu come seconda persona ti fai valere allo stesso tempo in prima persona.»100 L’indipendenza dell’altro (Tu) si dà quindi solo per me, e solo nella misura in cui io certifico e riconosco nell’altro (Tu) una dialettica della soggettività simile a quella che io sperimento in me stesso. Il che, però, è pari pari la contestata dialettica del riconoscimento dell’autocoscienza della Fenomenologia dello spirito di Hegel.
5. Conclusioni
Anche il paragrafo precedente, che pure mirava all’ordinamento dei risultati positivi della ricerca di Löwith, si è dunque concluso con l’evidenziazione dei limiti teoretici che quella porta con sé a causa di una impostazione sostanzialmente riduttiva. L’antropologia löwithiana della persona non sembra resistere alle contestazioni decisive che abbiamo ad essa rivolto; e questo nel momento stesso in cui dobbiamo riconoscere la pregnanza e pertinenza delle esigenze teoretiche che attraverso di essa si affacciano. Il fatto però è che — per richiamarci di nuovo alla ampia problematica filosofica da cui avevamo preso le mosse — sembra come se lo strato profondo del terreno su cui Löwith ha innalzato il suo edificio abbia perso compattezza, o per lo meno non riesca più a sostenere nuove e più esigenti edificazioni. È forte cioè l’impressione che la matrice greca della tradizione filosofica occidentale si riveli bisognosa, anche senza scomodare poco credibili destini, di essere implementata con nuovi apporti. Forse è la richiesta di trovare un orizzonte di definizione per ciò che manifesta una ulteriorità di senso non-definibile — ma non per questo inaccessibile ad ogni ricerca umana — a rivelarsi inadeguata.101
Forse si tratta di restituire il logos alla sua originaria ambientazione acustica, fatta di parola ed ascolto, sottraendolo alla presa violenta di una ragione solo eidetica. Riconsiderata da questa prospettiva, l’antropologia löwithiana ha così certamente ancora qualcosa da dire.
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Così suona il sottotitolo della fondamentale opera Von Hegel zu Nietzsche, Europa Verlag, Zürich/New York, 1941. Ora in K. Löwith, Sämtliche Schriften, vol. IV, Von Hegel zu Nietzsche, Metzler, Stuttgart, 1988, pp. 1-490; tr. it. Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino, 1949. Per un primo esame degli scritti di Löwith si veda il saggio di F. Volpi, «Karl Löwith e il nichilismo. A proposito degli Scritti e dell’ Autobiografia», Aut Aut, NS, 222, nov.-dic. 1987, pp. 21-37. L’intero fascicolo, dedicato a Löwith, contiene inoltre altri saggi critici e materiali inediti o poco conosciuti in Italia. ↩︎
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Nietzsches Philosophie des ewigen Wiederkehr des Gleichen, Kohlhammer, Stuttgart, 1956. Ora in K. Löwith, Sämtliche Schriften, vol. VI, Nietzsche, Metzler, Stuttgart, 1987, pp. 101-384; tr. it. Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Bari, 1982. ↩︎
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Heidegger — Denker in dürftiger Zeit, Vanderhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1960. Ora in K. Löwith, Sämtliche Schriften, vol. VIII, Heidegger — Denker in dürftiger Zeit. Zur Stellung des Philosophie des 20. Jahrhunderts, Metzler, Stuttgart, 1984, pp. 124-234; tr. it. Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino, 1966. ↩︎
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Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie, Kohlhammer, Stuttgart, 1953. Ora in K. Löwith, Sämtliche Schriften, vol. II, Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Zur Kritik der Geschichtsphilosophie, Metzler, Stuttgart, 1983, pp. 7-239; tr. it. Significato e fine della storia, Comunità, Milano, 1979. L’edizione originaria, pubblicata negli Stati Uniti nel 1949, aveva per titolo Meaning in History. The Theological Implications of Philosophy of History. ↩︎
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Si veda il saggio autobiografico Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933. Ein Bericht, Metzler, Stuttgart, 1986; tr. it. La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano, 1988. ↩︎
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Pietro Rossi, nella «Prefazione» alla traduzione italiana di Weltgeschichte und Heilsgeschehen (cit., pp. 9-10), chiarisce molto bene i motivi che, almeno in Italia, hanno condizionato la recezione degli scritti löwithiani. ↩︎
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Non a caso il dibattito sulla modernità ha preso le mosse proprio dalla discussione della categoria löwithiana di secolarizzazione. Per una prima mappatura della problematica, cfr. il saggio di A. Villani, «Le chiavi del post-moderno», Il Mulino, 303, XXXV, n. 1, gen.-feb. 1986, pp. 15-31. Cfr. anche l’articolo di Löwith, la replica di Blumenberg e la nota di G. Carchia nel citato fascicolo di Aut Aut, pp. 51-70. ↩︎
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P.A. Rovatti, «Il post-moderno nella filosofia italiana, oggi», Il Contributo, NS, XV, n. 2, apr.-giu. 1991, p. 4. ↩︎
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«Curriculum vitae», in Sämtliche Schriften, vol. I, Mensch und Menschenwelt. Beiträge zur Anthropologie, hrsg. v. K. Stichweh, Metzler, Stuttgart, 1981, pp. 450-462; tr. it. in appendice a La mia vita…, cit., pp. 191-204 (qui p. 192). Si tratta del discorso inaugurale letto davanti all’Accademia delle scienze di Heidelberg nel 1959 (pubblicato in forma abbreviata in Jahresheft 1958/59. Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Heidelberg, 1960, pp. 23-27). Sugli anni di questo «apprendistato filosofico» di Löwith, cfr. La mia vita …, cit., pp. 34-96. ↩︎
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Seguendolo nel 1925 a Marburgo. Questa di Löwith fu esperienza comune a molti giovani studenti di filosofia; «andavano da Husserl a Friburgo ma venivano attratti da Heidegger su nuove vie» (O. Pöggeler, «Heideggers Auseinandersetzung mit Husserl»; tr. it. «Heidegger e Husserl a confronto», Aut Aut, NS, 223-224, gen.-apr. 1988, p. 54.). ↩︎
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DreiMaskenVerlag, München, 1928. Ora in Sämtliche Schriften, vol. I, cit., pp. 9-127. (A questa edizione delle Sämtliche Schriften farò per il resto riferimento, citandola come Das Individuum.) Il sottotitolo della pubblicazione, «Beiträge zur anthropologische Grundlegung der ethischen Probleme» [Contributi alla fondazione antropologica dei problemi etici] richiama il titolo del dattiloscritto presentato il 15 dicembre 1927 alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Marburgo come tesi di abilitazione. Il sottotitolo, in cui Löwith non si riconosceva e che egli introdusse solo su suggerimento di Heidegger, venne lasciato cadere (assieme alla «Annotazione preliminare») nella seconda edizione (Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1962). Ho scelto di tradurre la parola Mitmensch con «uomo con gli uomini», anziché con «con-simile» o «prossimo» in senso però non cristiano (come propone C. Cesa, «K. Löwith e la sinistra hegeliana», Introduzione a K. Löwith, La sinistra hegeliana, Laterza, Bari, 1982 (1ª ed. 1960), p. IX), in considerazione dell’intenzione teorica löwithiana. Il Mitmensch — termine di conio heideggeriano, che suona alla lettera «con-uomo» — indica l’uomo esistente con altri uomini, l’individuo avente in lui stesso un rapporto essenziale con l’altro esistente nella forma del Tu; un rapporto in virtù del quale egli si afferma come Io. Sebbene, come si vedrà più avanti, Löwith rifiuti di attribuire al termine valenze ontologiche, nondimeno in esso è racchiusa una ridondanza semantica che apre nel Mit (con) lo spazio per la comprensione della personalità autentica dell’uomo attraverso la sua radicale relazionalità interpersonale; ridondanza che verrebbe sacrificata o almeno circoscritta nel caso di altre traduzioni. Proprio per mantenere questa «complessità» di significato preferisco lasciare non tradotto il termine Mitmensch (e, al plurale, Mitmenschen). ↩︎
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Das Individuum, p. 11. ↩︎
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Un rinnovato e non sospetto riconoscimento del debito culturale nei confronti di Heidegger si trova anche in La mia vita, cit., p. 50. ↩︎
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Si tratta soprattutto di Kant, Feuerbach e Dilthey. Gli accenti critici löwithiani non sono sfuggiti a Heidegger, che comunque, nel presentare la dissertazione alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Marburgo, dà di essa un giudizio nel complesso positivo. (Lo si veda in K. L., Sämtliche Schriften., vol. I, cit., pp. 470-473.). ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, 1927, § 7; tr. it. Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1976, pp. 46-59. ↩︎
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Das Individuum, p. 12. ↩︎
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Il titolo della tesi, con la quale Löwith si era laureato a Monaco nel 1923, era Auslegung von Nietzsches Selbstinterpretation und von Nietzsches Interpretationen (Esposizione dell’autointerpretazione di Nietzsche e delle interpretazioni di Nietzsche). L’opera non è stata riprodotta nelle Sämtliche Schriften. ↩︎
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Va comunque detto che, nell’incontro giovanile con Nietzsche, Löwith era rimasto colpito più dagli aspetti eroicizzanti di una lettura pangermanista dello Zarathustra che dalla materia più autenticamente filosofica di questo che, a giudizio di Löwith, è «l’ultimo filosofo tedesco» (La mia vita, cit., pp. 24-25). Per capire l’affermazione occorre tener presente che, per il Löwith esule dal 1936 in Giappone, la Germania autentica ha cessato di vivere con lo scoppio della prima guerra mondiale. Contro l’influenza nietzscheana ha costituito valido antidoto, come riferisce lo stesso Löwith (cfr. ivi, p. 77), il confronto con Burkhardt, culminato nella pubblicazione del libro Jakob Burkhardt. Der Mensch inmitten der Geschichte (Vita Nova, Luzern, 1936. Ora in Sämtliche Schriften., vol. VII, Jakob Burkhardt, Metzler, Stuttgart, 1984, pp. 39-362; tr. it.: Jakob Burkhardt, Laterza, Bari, 1991.). ↩︎
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La mia vita, cit., pp. 19-37. ↩︎
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Ivi, pp. 37-48. La descrizione piena di pathos dell’incontro con Weber è alle pp. 37-39. ↩︎
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Ancora nel 1940, presentando le sue «annotazioni» autobiografiche, Löwith scrive che esse «restituiscono né più né meno l’immagine quotidiana di ciò che accadeva realmente nell’ambito ristretto di un singolo individuo che non si occupava di politica» (ivi, p. 17, corsivo mio). Di tali considerazioni «impolitiche» occorre ricordarsi al momento dell’analisi delle osservazioni critiche rivolte a Heidegger. ↩︎
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Das Individuum, p. 17 e nota 3. Si noti come Löwith leghi insieme Feuerbach, Dilthey e Nietzsche, e li inserisca nell’orizzonte comune dell’idealismo tedesco. Si tenga altresì presente che nel medesimo orizzonte, come è chiaro, insufficiente, Löwith collocherà esplicitamente anche Heidegger. (Cfr. «M. Heidegger and F. Rosenzweig, or Temporality and Eternity», Philosophy and Phenomenological Research, 3, 1942-43, pp. 53-77. Ora in Sämtliche Schriften., vol. VIII, cit., pp. 72-101, dove è riprodotta la versione tedesca, dal titolo meno adeguato, «M. Heidegger und F. Rosenzweig. Ein Nachtrag zu Sein und Zeit»; tr. it.: «M. Heidegger e F. Rosenzweig. Poscritto a Essere e Tempo», Aut Aut, NS, 222, cit., pp. 76-102. Vedi ivi le pp. 84-86.). ↩︎
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Das Individuum, p. 12. ↩︎
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Ivi, p. 23. ↩︎
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Ivi, p. 13. Cfr. anche p. 22. ↩︎
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C. Cesa, art. cit., p. X. ↩︎
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Curriculum vitae, cit., p. 194, corsivo mio. Si noti come Löwith parli al passato ricordando gli studi giovanili, a marcare un distacco della attuale (1959) dalla precedente (1928) posizione, distacco motivato nel saggio «Welt und Menschenwelt» (in Gesammelte Abhandlungen. Zur Kritik der geschichtlichen Existenz, Kohlhammer, Stuttgart, 1960, pp. 228-255. Ora in Sämtliche Schriften, vol. I, cit., pp. 295-328; tr. it.: «Mondo e mondo umano» in Critica dell’esistenza storica, Morano, Napoli, 1967, pp. 317-359) e poi ribadito nella prefazione alla seconda edizione di Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen (p. 14). ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. «M. Heidegger e F. Rosenzweig», cit., p. 84. ↩︎
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Va comunque sottolineato che l’opera di Löwith che qui stiamo analizzando individua già i riferimenti essenziali di quel lavoro interpretativo affidato agli scritti storiografici citati. ↩︎
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Cfr. i già citati Saggi su Heidegger. ↩︎
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R. Cristin, «Teoria e scepsi. Sul rapporto fra Löwith e la fenomenologia», Aut Aut, cit., p. 113. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, «Brief über den Humanismus» (1946), ora in Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a. M., 1976, pp. 313-364; tr. it. «Lettera sull’umanismo», in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, pp. 267-315. ↩︎
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«Alla sua opera Essere e Tempo si deve in tutto far riferimento.» (Das Individuum, p. 11). Numerosi altri rimandi, non sempre espliciti, possono essere ancora evidenziati. Cfr. M. Theunisse, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, De Gruyter & Co., Berlin, 1965, pp. 413-439. ↩︎
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Cfr. Das Individuum, p. 11. ↩︎
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Ibidem. Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 7. ↩︎
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Ivi, pp. 11 e 12. ↩︎
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Ivi, p. 12 nota 3. A questa nota fanno riferimento le citazioni seguenti. ↩︎
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Cfr. Da Hegel a Nietzsche (cit., p. 318), dove Löwith chiarisce che sotto il termine «Dasein» va compresa la concreta esistenza dell’uomo. «Contrariamente alla terminologia di Heidegger, Dasein significa nell’uso comune tedesco, e così anche in Hegel e Goethe, proprio il contrario che in Heidegger, cioè l’esistenza presente e attuale.» In ogni caso, nell’uso linguistico löwithiano il termine Dasein non caratterizza l’uomo nella sua tipicità ontologica. (Cfr. Das Individuum, p. 38, dove Löwith oppone un «esserci naturale [natürliches Dasein]» alla «esistenza spirituale [geistige Existenz]» dell’uomo.). ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., § 14, pp. 88-91. ↩︎
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Das Individuum, p. 29. ↩︎
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Ivi, p. 31. ↩︎
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M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 154. ↩︎
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Ibidem, corsivo mio. ↩︎
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Das Individuum, p. 29. ↩︎
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M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 91. ↩︎
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Das Individuum, p. 72. ↩︎
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Il rimando è a Dilthey (ivi, pp. 39-44); esso è particolarmente interessante in quanto svela un riferimento storiografico tra i più attivi, ancorché spesso sottaciuto. ↩︎
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Non si capirebbe bene però il senso del discorso di Löwith, che sarebbe allora da intendere come inconsapevole ricaduta nell’orizzonte della tradizione metafisica, se si pensasse che l’universo antropocentrico sia chiamato a celebrare l’apologia dell’individuo umano. Löwith non nutre senz’altro alcuna nostalgia per una improbabile assolutizzazione dell’uomo; egli sa bene che l’essere dell’uomo è un «essere-per-la-morte». Se, ciò nondimeno, egli mantiene la detta orientazione, è perché essa è funzionale ad una considerazione non obiettivizzante dell’uomo, che né l’impostazione metafisica tradizionale, né una derivazione teologica del concetto di uomo potrebbero a suo avviso garantire. ↩︎
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Ivi, p. 29. ↩︎
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Ivi, p. 96. Cfr. il già citato passaggio di p. 31, dove Löwith riafferma contro Heidegger che il mondo non è «un vuoto in-cui [Worin] del soggiorno umano […], ma il mondo comune, determinante la vita del singolo ed a lui affine e congenere». ↩︎
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Ivi, p. 12 nota 3. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 31. ↩︎
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Ivi, p. 11. ↩︎
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M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 371. ↩︎
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Cfr. A. Dal Lago, «L’autodistruzione della storia», Aut Aut, NS, 222, cit., p. 16. Non a caso è proprio all’enfasi sulla decisione «irresponsabile» — tale perché decisa a sottrarsi al confronto con l’altro — che Löwith fa risalire le motivazioni filosofiche delle scelte politiche operate da Heidegger durante il periodo di rettorato all’università di Friburgo (cfr. La mia vita, cit., pp. 54-68). ↩︎
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La mia vita, cit., p. 186 nota 15. ↩︎
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Cfr. la critica del concetto heideggeriano di «liberazione [Freigabe] dell’altro» nel § 21 di Das Individuum. Secondo Löwith questa «liberazione è ambigua in quanto essa, in primo luogo, libera [freigibt] l’altro nel senso della propria idea di indipendenza, e poi, appunto in questo modo, proprio così si mantiene libera da l’altro.» (p. 98). ↩︎
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«M. Heidegger e F. Rosenzweig», cit., p. 85. In nota Löwith rimanda alla sua dissertazione di libera docenza. ↩︎
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Das Individuum, p. 12 nota 3. ↩︎
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F. Volpi, art. cit., p. 23. ↩︎
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Das Individuum, p. 96. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 12 nota 3 e p. 71. Tale corrispondenza reciproca dell’uno con l’altro nella forma del Tu di un Io giustifica la non elegante espressione «Essere-con-l’altro-in-reciprocità» con cui ho reso lo stilema löwithiano di Miteinandersein. ↩︎
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Löwith stesso fa risalire alla «messa tra parentesi» del concetto di mondo la sua presa di distanze dal punto di vista husserliano dell’«idealismo dell’intenzionalità unilateralmente costituente», per il quale il fenomeno dell’alterità viene «negato alla radice attraverso una contrapposizione originaria.» (Das Individuum, p. 12 nota 3). Sulla difficoltà di Löwith di accettare l’epoché fenomenologica del mondo, si veda quanto dice lo stesso Löwith in La mia vita, cit., p. 49. Cfr. anche il citato saggio di R. Cristin, pp. 117-121. ↩︎
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È il problema che affatica Husserl sin dalle Ideen e che troverà una prima risposta positiva a partire dalle Cartesianische Meditationen (1931, cfr. §§ 44ss,; tr. it. Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano, 1960, pp. 142 ss.), ma è anche il motivo del rimprovero di Löwith a Heidegger. ↩︎
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Das Individuum, p. 16. ↩︎
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Ivi, p. 11. Questo secondo Löwith è vero a tal punto che anche lo stare in solitudine è da intendersi solo quale modo deficitario dell’essere assieme. Cfr. ivi, p. 73. ↩︎
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Ivi, p. 19. ↩︎
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In questo primo capitolo i paragrafi vengono individuati con le lettere a) b) c), mentre la numerazione dei paragrafi inizia solo con il secondo capitolo. ↩︎
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Ivi, p. 22. ↩︎
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«Il duplice principio della esteriorizzazione esistenziale è così in Feuerbach un “sensualismo” (“percezione sensibile” del pensiero) ed un “altruismo” (riferimento al Tu da parte del pensatore) da intendere metodicamente» (ibidem). Questi temi saranno più ampiamente sviluppati in Da Hegel a Nietzsche, cit., pp. 116-133. ↩︎
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Das Individuum, pp. 155-156. ↩︎
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Cfr. ivi, §§ 39-40. L’interpretazione löwithiana del rispetto [Achtung] come «rispetto umano» laddove in Kant esso è sentimento in cui si annuncia l’imperatività della legge morale, e quindi è rispetto del Sollen pone il problema di una verifica dell’interpretazione di Kant delineata nell’opera che stiamo discutendo. Il che però non è qui possibile prendere in considerazione. ↩︎
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Ivi, p. 169. ↩︎
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Ivi, p. 171. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it., Laterza, Bari, 1974, pp. 34-35; G.W.F. Hegel, «Le maniere di trattare scientificamente il diritto naturale», tr. it., in Scritti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1971, pp. 65ss. ↩︎
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«I Mitmenschen si incontrano non come una molteplicità di “individui” per sé esistenti, ma come “personae” che hanno un “ruolo”, ovviamente all’interno e per il loro mondo comune, a partire dal quale essi poi si determinano anche come persone [personhaft]» (Das Individuum, p. 67). ↩︎
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Il riferimento è alla seconda formula dell’imperativo categorico contenuta nella Fondazione della metafisica dei costumi di Kant: «Agisci in modo da trattare l’umanità tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre e ad un tempo come fine, e mai semplicemente come mezzo» (tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1973, p. 87). È altresì noto come Kant stesso, nella Critica della ragion pratica, abbia rinunciato a servirsi di questa come delle altre formulazioni degli imperativi pratici, a favore di una enunciazione dell’imperativo categorico maggiormente corrispondente all’esigenza di formalismo della ragione autonomamente legislatrice. ↩︎
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M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 159. ↩︎
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In merito ritengo l’approccio ermeneutico heideggeriano più fecondo di quello kantiano (ripreso da Löwith), ancora inserito nel solco di una metafisica sostanzialistica di derivazione cartesiana. Si veda ad esempio il richiamo löwithiano della distinzione kantiana di phainomenoni e noumenon, dove risuona pienamente il tema cartesiano della distinzione di res extensa e res cogitans. La cosa in sé, in relazione all’uomo, è «espressione per il poter essere libero» dell’«homo noumenon», che così è «cittadino del mondo [Weltbürger]» — si intenda, del mondo comune dell’uomo (Mitwelt) —; ad essa si oppone l’«homo phaenomenon, l’uomo cioè in quanto, come essere naturale, è nella dipendenza delle sue inclinazioni naturali», l’uomo considerato quindi come «essere mondano [naturale] [Weltwesen]» (Das Individuum, p. 167). ↩︎
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Ivi, p. 143, corsivo mio. Si noti che Löwith afferma qui esplicitamente quella clausura esistenziale che il concetto di individuo porta con sé. L’individuo si dà nella originaria condizione di indipendenza (Selbständigkeit), la quale è la capacità del Sé (Selbst) di mantenersi fermo, di stare in un certo stato (Ständigkeit). Il tedesco, a differenza dell’italiano, distingue l’aspetto positivo dell’indipendenza, lo star per sé (Selbständigkeit), da quello negativo, il non esser dipendente da altri (Unabhängigkeit). La Selbständigkeit dell’individuo afferma pertanto proprio quel porsi autosufficiente, senza interiore esigenza di apertura all’esterno, del Sé autonomo. ↩︎
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Ritornando trent’anni dopo a parlare delle sue convinzioni degli anni della dissertazione, Löwith mostra di intendere le difficoltà che qui veniamo esponendo. «La pubblicazione degli scritti giovanili di Marx (1927) mi offrì l’occasione di allargare questo orizzonte troppo umano del mondo e di includere entro la sfera dell’esistenza singola di ciascuno il potere obiettivo della struttura sociale della società quale è storicamente divenuta, e di riconoscere dunque, con Marx, che l’“individuo”, apparentemente indipendente perché isolato, è un componente della società borghese» (Curriculum vitae [1959], tr. cit., p. 194, corsivo mio). ↩︎
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In latino nel testo. ↩︎
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Io posso svolgere un ruolo, riconoscermi in un ruolo, immedesimarmi financo in un ruolo: resta sempre che ognuna di queste possibilità esistenziali richiede preliminarmente la capacità dell’entrare in un ruolo, la quale può essere esercitata solo sulla base di una originaria e costitutiva apertura dell’essere umano all’ulteriorità personale e comunitaria. Generando un figlio, io esercito il ruolo di padre. Non però che io possa generare un figlio perché sono padre, ma sono padre perché posso generare. ↩︎
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Das Individuum, p. 16. Nel modo sopra indicato ritengo vada inteso in questo caso il Miteinandersein. Cfr. anche le pp. 42, dove si parla di «rapporti di vita del Miteinandersein», e 171, dove è scritto che la fiducia «presuppone il Miteinandersein». La debolezza di riflessione ontologica intorno al Miteinandersein e la sua prevalente declinazione in termini ontici trova ulteriore conferma nell’eclisse del termine nei passaggi dedicati alla definizione dello spessore esistenziale dell’Io e del Tu all’interno del rapporto autentico; ivi il Miteinandersein è sostituito dall’«essere nella reciprocità [Sein im Einander]» (ivi, p. 154). ↩︎
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Das Individuum, p. 65, corsivo mio. ↩︎
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Ivi, p. 68. ↩︎
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A questa impostazione soggettivistica va fatta risalire, come sembra far intendere lo stesso Löwith, la successiva correzione antiumanistica della seconda edizione dell’opera (cfr. ivi, p. 14). ↩︎
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In tal modo, osserva Theunissen, Löwith finisce per ricadere nell’orbita della filosofia trascendentale, la fuoriuscita dalla quale costituiva invece uno dei grandi obiettivi della ricerca. «Quanto profondamente, nonostante tutti i tentativi di distacco e le contromosse del tutto riuscite, Löwith sia legato ad essa, lo tradisce la naturalezza con cui egli accosta il rapporto-Io-Tu, secondo la sua originaria direttrice di significato, come un rapportarsi dell’Io verso il Tu. Che Gogarten prenda le mosse dalla relazione Io-Tu appare a lui, in base a siffatta naturalezza, come un rovesciamento non fenomenologico e dogmatico dei rapporti naturali.» (op. cit., p. 438). ↩︎
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«Solo “Tu” puoi essere il “mio”» nel senso forte del termine (cfr. Das Individuum, p. 71). ↩︎
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H.-G. Gadamer, Maestri e compagni del cammino, tr. it., Queriniana, Brescia, 1980, p. 191. ↩︎
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Con Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, ha notato Caracciolo in quello che è uno degli scritti più organici dedicati al filosofo tedesco (A. Caracciolo, Karl Löwith, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, Napoli, 1974), «Löwith si colloca, con M. Buber, tra le maggiori figure di quella che è stata chiamata la “filosofia dell’incontro” (Begegnungsphilosophie) o “filosofia del rapporto io-tu” (Ich-Du-Beziehungsphilosophie) o “filosofia della comunicazione”» (ivi, p. 16 nota 14). ↩︎
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All’analisi fenomenologica del rapporto Io-Tu, vista però ancora come caso particolare della generale relazione uno-altro, Löwith dedica pagine interessanti, in cui ha modo di esercitarsi l’«incontestabile dono dell’Einfühlung» fenomenologica a lui universalmente riconosciuto. (L’espressione citata è di Eugen Fink, nell’appunto manoscritto inedito Karl Löwith e la fenomenologia [23 gennaio 1937]. Si veda la traduzione italiana in Aut Aut, 222, cit., pp. 103-105, qui p. 104.) In esse Löwith sottolinea la fondamentale e positiva ambiguità della relazione interpersonale, sempre biunivoca e mai solo unidirezionale, nel corso della quale il comportamento di ognuno non viene aprioristicamente fissato una volta per tutte, ma «si condetermina a partire dal suo rapporto verso un altro» (Das Individuum, p. 95). E giacché anche quest’ultimo, dal canto suo, soggiace alla medesima dialettica, «la ambiguità primaria del suo proprio comportarsi verso l’altro si riflette in quanto uno si comporta, nel suo comportamento (verso l’altro), in vista del rapporto» (ivi, p. 95; in tedesco c’è un gioco di parole, che in italiano può esser reso con difficoltà, tra sich verhalten [comportarsi], Verhalten [comportamento] e Verhältnis [rapporto, relazione]). Sul fondamento del rapporto Io-Tu si legittima anche l’indipendenza dell’Io. «Io posso avere verso me stesso un “rapporto” di natura tale da concernere esclusivamente me stesso e nessun altro» (ivi, p. 188). ↩︎
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Das Individuum, p. 71. ↩︎
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Ivi, pp. 70-71. ↩︎
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In questo caso Io e Tu sarebbero solo puri fenomeni, ovvero modi di apparire di una realtà essenziale unitaria, il Soggetto. ↩︎
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«Tu come seconda persona ti fai valere al tempo stesso in prima persona, come d’altra parte anche Io — la prima persona — al tempo stesso sono determinato come il Tuo — in seconda persona» (ivi, p. 144). ↩︎
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Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1960, pp. 153 ss. Al passaggio hegeliano Löwith fa riferimento, per osservare che «il motivo per questo “movimento del riconoscimento” (Hegel) dell’indipendenza incondizionata dell’uno e dell’altro è però l’assolutizzazione della significatività, determinata dal rapporto, di ognuno nella reciprocità» (Das Individuum, p. 87). ↩︎
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Il Miteinandersein trova quindi la sua autentica realizzazione nel «rapporto assoluto» di Io e Tu. ↩︎
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Ivi, p. 71. ↩︎
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Ivi, p. 144. ↩︎
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È interessante notare come nella struttura etimologica stessa della parola definizione sia contenuta l’indicazione della condizione di pensabilità dell’oggetto definito, che è condizione di circoscrivibilità dello stesso. Definizione (in greco: horismós) è determinazione del luogo (in greco: hóros), dell’orizzonte entro cui le cose stesse vanno collocate. È pertanto individuazione del finis, del confine che separando le cose le limita, rendendone possibile la com-prensione; consentendo, vale a dire, quell’atteggiamento che conferisce alla ragione umana il potere incondizionato e sovrano di attribuzione di significato al mondo. ↩︎