Le problème philosophique entendu comme celui du sens de l’humain, comme la recherche du fameux «sense de la vie»…
Emmanuel Levinas, Éthique et infini.
Il discorso sulla questione del senso dell’umano rappresenta l’istanza che attraversa tutta la riflessione di Emmanuel Levinas. Al contempo le analisi sulla centralità del «sapere totalizzante» della tradizione occidentale costituiscono un nodo problematico decisivo: questo «sapere» riduce le parti, e così ogni differenza, all’unità della riflessione oggettivante.1 Nella storia della filosofia lo spirito è significato nel sapere e il senso della trascendenza inglobato nell’identità del sé con se stesso.2 Le riflessioni sulla prossimità e la significazione toccano la ridefinizione del soggetto e il senso dell’umano. Pensare la prossimità significa pensare l’eccedenza di senso, poiché qui il pensiero pensa più di quanto possa pensare.3 Nella radicale messa in questione della soggettività, a partire dall’incontro con Altri, la significazione emerge proprio da una rottura, da un trauma, che si svolge dal di dentro e oltre il primato dell’essere: «Il problema del senso non è puramente logico. Sorge quando l’essere si oscura, da un disorientamento».4 Questa posizione del problema resta poi interamente nel rigore della riflessione filosofica: «Distinguendo atto oggettivante e metafisica, non intendiamo arrivare alla denuncia dell’intellettualismo, ma al suo sviluppo assolutamente rigoroso, se è vero però che l’intelletto desidera l’essere in sé».5 In questo contesto intendiamo ripercorrere alcuni momenti significativi della riflessione di Levinas, cercando di rileggere insieme la questione della prossimità e della significazione al di là del «sapere» e al di là dell’essere.
1. Un punto di partenza
Possiamo subito osservare che, come ha evidenziato H. G. Gadamer, la questione di senso trova una trasformazione significativa con la fenomenologia husserliana,6 che supera il paradigma conoscitivo soggetto-oggetto ed elabora il concetto di intenzionalità:
Il tema dell’intenzionalità costituiva una sempre ulteriormente approfondita critica all’«oggettivismo» della filosofia del passato […]. Secondo Husserl stesso, ciò che dominò tutta la sua opera a partire dalle Logische Untersuchungen fu il problema della correlazione a priori tra oggetto di esperienza e modi di presentarsi del dato. Già nella quinta ricerca logica egli aveva messo in luce la peculiarità dell’Erlebnis intenzionale e distinto la coscienza nel senso in cui egli l’assumeva a tema di ricerca come «Erlebnis intenzionale» […]. In questo senso già allora per lui la coscienza non era un «oggetto», ma una coordinazione essenziale.7
L’interesse filosofico di Levinas nasce a contatto con la fenomenologia e, in particolar modo, con le Ricerche logiche. La sua tesi del 1930 concentra l’attenzione sul problema dell’intuizione nella fenomenologia husserliana, che costituisce il costante orizzonte di riferimento dei suoi scritti. Nella raccolta di saggi dal titolo Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Levinas analizza e approfondisce lo stesso superamento dell’oggettivismo conoscitivo attraverso il tema dell’intenzionalità: l’originalità della fenomenologia consiste in questa scoperta della «transitività del pensiero»,[^8] dove l’atto del pensare coincide con la stessa esistenza e con l’esistenza cosciente.8 Possiamo allora domandarci: quale rapporto esiste tra la critica al primato ontologico della tradizione filosofica occidentale e il problema di senso? In che modo entrano in gioco le questioni che riguardano la possibilità di una valida teoria della conoscenza, il problema di una fondazione metafisica e il suo rapporto con l’etica? Nella prospettiva di levinasiana si tratta anzitutto di mettere in questione il primato ontologico. Nell’opera «Dell’evasione» del 1935 possiamo già rintracciare in maniera evidente la necessità di uscire dal «pensiero dell’essere» e di affrancarsi da esso, cogliendo nel bisogno di evasione un’aspirazione verso un «oltre-essere». Levinas chiarisce che l’evasione è un termine che prende a prestito dal linguaggio della critica letteraria contemporanea, ma che «non è solamente una parola di moda; è un male del secolo».9 L’evasione diventa la spinta a cercare, attraverso la pesantezza dell’essere, una nuova via da percorrere oltre l’empirismo e l’idealismo, oltre il problema di Dio come mero problema della sua esistenza.10 Dell’evasione, dunque, si conclude aprendo un’istanza:
La sola via che si apre per soddisfare le legittime esigenze dell’idealismo senza condividerne gli errori, è di misurare senza paura tutto il peso dell’essere e la sua universalità, riconoscere l’inanità dell’atto e del pensiero che non possono sostituire un evento che, nel compimento stesso dell’esistenza, spezza questa esistenza, atto e pensiero che non devono, perciò, nasconderci l’originalità dell’evasione. Si tratta di uscire dall’essere per una nuova via a rischio di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni sembrano le più evidenti.11
Questo rovesciamento prosegue attraverso un confronto costante con la nozione di essere e con i contorni che essa assume nella filosofia contemporanea. L’essere è inteso come essenza e analizzato per così dire nel suo anonimato – come essere senza esistente – nell’opera degli anni della prigionia, Dall’esistenza all’esistente del 1947. Qui sembra interessante il confronto con M. Heidegger: le analisi «fenomenologico-esistenziali» sulla fatica e l’istante hanno l’obiettivo di sottolineare l’importanza di una soggettività che si costituisce come tempo presente, come ipostasi che emerge dal vuoto dell’essere impersonale, dal neutro «il y a». Nella prefazione alla seconda edizione di questo testo del ’47, è particolarmente significativa la contrapposizione tra «il y a» e «es gibt» heideggeriano.12 Il contrasto si evidenzia nel modo stesso di intendere l’essere. Levinas sottolinea che considerare l’essere senza l’essente significa affermare in modo anonimo e impersonale che «c’è qualcosa».13 In questa affermazione emerge una maniera di comprendere la questione dell’essere che, in assenza della sua relazione con l’essente, possiede una inumana neutralità.14 Sin dall’inizio, dunque, la confusione tra essere ed esistente si è imposta alla riflessione filosofica occidentale:
Il pensiero scivola impercettibilmente dalla nozione di essere in quanto essere, di ciò per cui un esistente esiste – all’idea di causa dell’esistenza, di un essere in generale, di un Dio, la cui essenza comprenderà, a rigore, solo l’esistenza, ma che non di meno sarà un essente, non già il fatto o l’azione, il puro evento o l’opera d’essere. Quest’ultima sarà intesa nella sua confusione con l’essente. La difficoltà di separare l’essere dall’essente e la tendenza a considerarli l’uno nell’altro, non sono certamente casuali […]. La relazione tra essente ed essere non collega due termini indipendenti. L’essente ha già fatto un patto con l’essere; non possiamo isolarlo. Esso è. Esercita già sull’essere lo stesso dominio che il soggetto esercita sull’attributo. E lo fa in quell’istante che per l’analisi fenomenologica è indivisibile.15
L’essere per Levinas non può precedere l’esistente e il senso dell’essente non si rivela a partire dalla comprensione del senso dell’essere. Piuttosto l’Io, come soggetto, costituisce il «cominciamento» assoluto nel tempo, la rottura dell’anonimato, l’istante in cui il tempo prende corpo. Il soggetto è in questo senso «trascendente», domina l’essere e diventa l’atto del cominciamento:
Il cominciamento non solo è, ma si possiede attraverso un ritorno su se stesso. […]. L’atto non è puro. Il suo essere si sdoppia in un avere che al tempo stesso è posseduto e possiede. Il cominciamento dell’atto è già un’appartenenza e una cura di ciò a cui esso appartiene e di ciò che gli appartiene. Può conservarsi, trasformarsi esso stesso in sostantivo, in un essere, solo in quanto appartiene a se stesso. E sempre per questo motivo è essenzialmente compito. È cura di se stesso. Diversamente da come la pensa Heidegger, la cura non è l’atto stesso di essere al limite del nulla, al contrario, è imposta dalla solidità dell’essere che comincia già ingombro dell’eccessiva pienezza di se stesso. […]. Cominciare veramente significa cominciare possedendosi in modo inalienabile.16
2. «La costituzione dell’Io»
Le analisi sulla soggettività e la temporalità, trattate nell’opera Dall’esistenza all’esistente, saranno ulteriormente sviluppate nella raccolta di conferenze del ’46-’47, tenute al Collège Philosophique, dal titolo Il tempo e l’altro. In Totalità e infinito, nella sezione «Interiorità e economia», ritroviamo riproposte, mediante una fenomenologia della sensibilità, le questioni degli studi degli anni ’40. Il rapporto con i contenuti della vita è qui espresso con l’analisi del bisogno, che non è descritto semplicemente come la dipendenza del soggetto dagli elementi vitali: «La struttura del bisogno – compimento che è proprio della relazione – è il fenomeno primo dell’esteriorità e dello spazio. È l’intervallo. […]. L’intenzione dà la luce in cui l’esteriore è interiore».17 Se dunque il bisogno non si esprime solo passivamente, non è cioè solo mancanza ma vive di ciò che lo soddisfa,18 allora la costituzione dell’Io come monade, ipostasi o ipseità, si apre a partire dal godimento, dalla capacità di uscire dal bisogno e di affrancarsi dalla vita nelle sue necessità, ponendo una distanza tra l’Io e l’alterità degli elementi vitali:
La felicità è un principio di individuazione, ma l’individuazione in sé è concepibile solo dall’interno, attraverso l’interiorità. Nella felicità del godimento è in gioco l’individuazione, l’auto-personificazione, la sostanzializzazione e l’indipendenza del sé, oblio delle profondità infinite del passato e dell’istinto che le riassume. Il godimento è appunto la produzione di un essere che nasce, che rompe la tranquilla eternità della sua esistenza seminale o uterina per rinchiudersi in una persona che, vivendo nel mondo, vive a casa propria.19
Questa felicità instaura dunque la prima libertà dall’essere – un’indipendenza della felicità diversa dall’indipendenza della sostanza20 – e annuncia la separazione dall’esteriorità. Essa avviene dall’interno, interiorità «chiusa in sé», e si dispiega come godimento, lavoro-economia, dimora e coscienza di sé.21 Si delinea così un soggetto che nel suo rapporto con le cose del mondo è se stesso o, meglio, realizza se stesso riducendo l’alterità delle cose all’identità dell’Io, diventando il Medesimo. Il soggetto è qui descritto come colui che riduce l’Altro allo Stesso. L’immersione nel mondo come suo elemento vitale si muta in distanza e separazione attraverso un inglobamento della differenza nella ipseità del sé. Dunque il processo che conduce alla «individualizzazione» si può così riassumere: «la costituzione dell’Io» ha inizio dal modo in cui si struttura il bisogno e il suo compimento, polarità che esprime la soddisfazione e il godimento su cui l’Io stesso si costruisce come libertà dall’essere; si separa dall’elemento vitale con il lavoro e l’economia, possibilità di interrompere l’alterità da cui dipende e, infine, si stacca dal mondo di cui si nutre.22 Ci sembra importante osservare questo processo: il cogito nasce in primis come «interiorità affettiva»:
L’Io non è unico come la Tour Eiffel o la Gioconda. L’unicità dell’io non consiste soltanto nell’esistere in un esemplare unico, ma nell’esistere senza avere genere, senza essere individuazione di un concetto. L’ipseità dell’io consiste nel restare al di fuori della distinzione dell’individuale e del generale […]. Questo rifiuto del concetto spinge l’essere che lo rifiuta nella dimensione dell’interiorità. Esso è a casa sua. L’io è così il modo in cui, concretamente si attua la rottura della totalità, che determina la presenza dell’assolutamente altro. È solitudine per eccellenza.23
La solitudine monadica dell’Io, ipseità, è costituita a partire dal «vivere di» e dal godimento. Non è concetto, ma vitalità che si espande attraverso il bisogno e che diviene coscienza inglobante. Da questo punto di vista, la costituzione o formazione del mondo attraverso il lavoro e l’economia rivela un sapere che si sviluppa come appropriazione e ricchezza.24 La ricerca della verità attraverso l’«autonomia del sapere» rappresenta l’andamento di una cultura che si è orientata alla conoscenza come possesso e potere.25 Conoscere significa «dare forma» a ciò che è individuale. In questa «forma» c’è tutta la resa delle cose al pensiero oggettivante. Il primato ontologico in filosofia appartiene a tale visione: l’ontologia contemporanea non è che analisi dell’esistenza e delle modalità in cui essa si articola. Il rapporto con l’Essere supera e abbraccia il rapporto con Altri, che acquista un senso soltanto nella luce e nell’orizzonte dell’Essere stesso.26 Che rapporto dunque esiste tra prossimità e sapere? È possibile ripensare la conoscenza a partire dall’alterità dell’altro uomo? Il pensiero della prossimità, al di là dell’essenza, dischiude una significazione che pone il conoscere costantemente di fronte a un Altro.
3. L’Io, il senso dell’umano e la prossimità
Il modo in cui si è modificato il concetto di ragione nella storia della nostra cultura occidentale lascia chiaramente intravedere una trasformazione progressiva del senso dell’umano. Come ha osservato Max Horkheimer, il processo di formalizzazione della ragione ha rinchiuso il soggetto su di sé, sciogliendolo gradualmente dal senso dell’umano in cui era in fin dei conti radicato: «Gli ideali e concetti della metafisica razionalistica avevano radice nel concetto di umanità; formalizzandosi, essi hanno perso questo contenuto umano».27 Senza soffermarci qui sulle analisi della Scuola di Francoforte osserviamo semplicemente che, in quest’ottica,
per dimostrare il proprio diritto ad essere concepito, ogni pensiero deve avere un alibi, presentare documenti che dimostrino la sua utilità pratica. Anche se il suo uso diretto è teoretico esso viene messo alla prova mediante l’applicazione pratica della teoria in cui è inquadrato. Il pensiero dev’essere dunque valutato in base a qualcosa che non è pensiero, in base cioè al suo effetto sulla produzione o sulla condotta sociale.28
Il nesso scienza-tecnica-industria (età post-industriale) costruisce una cultura nell’orizzonte dell’automazione dell’umano. Questo processo comincia ad affermarsi con l’età moderna attraverso una progressiva estromissione dall’ambito cosiddetto razionale delle domande di senso, le domande prime ed ultime. La ratio tecnico-scientifica sopprime forse «il naturale bisogno metafisico» della ragione umana? La questione, ci sembra, non consiste principalmente nel superamento dell’impianto metafisico classico, ma nella perdita del pensiero che domanda del senso delle cose. In questo modo l’idea di ragione non è solo un’idea formale o calcolante, ma «produttiva» e consumistica. Allora, al di là di una identificazione tra cogito e soggetto, ripensare l’Io pone in campo domande che ci conducono oltre: può quel sapere che costituisce il «senso» delle cose esprimere il significato dell’umano? Il bisogno, afferma Levinas, converte l’altro in Medesimo lavorando.29 L’alterità del mondo è a portata di mano, si trova nel dominio del soggetto che forma questo mondo attraverso il lavoro e l’economia. Questa formazione è quindi conoscenza, che riflette il dato in rappresentazione e concetto.
Il Medesimo – questo soggetto del primato ontologico – può allora essere compreso come l’Io della rappresentazione, poiché si trova in una relazione in cui proprio in quanto soggetto perde l’opposizione al proprio oggetto. In questa perdita di opposizione tutto è ridotto all’istante presente e l’Io, individuale, diventa il pensiero che si rappresenta «all’universale». È questa, secondo Levinas, l’opera dell’idealismo, ma anche il valore del metodo trascendentale: la riduzione del rappresentato al suo senso così posseduto e ridotto. Possedere nella conoscenza e nel sapere vuol dire spogliare dell’indipendenza una cosa mediante la donazione di una forma: mettere-in-idea. Dare un senso30 può significare quindi universalizzare, ridurre la singolarità, l’opposizione e l’alterità, ad una comprensione raggiunta mediante una conoscenza identificante. Il significato delle cose, del mondo, è il prodotto della riflessione, di una ratio oggettivante che trasforma i suoi «oggetti» e li comprende come parti di una totalità. Il sapere è così anche opera totalizzante; questa conoscenza, pur sempre conoscenza di un universale, accede all’alterità attraverso un medio, un orizzonte di comprensione in cui ciò che è altro si arrende al Medesimo e Altri «si dà nel concetto di totalità a cui è immanente».31
L’Io è, nell’atto del conoscere, simile al viaggio che compie Ulisse: un percorso a ostacoli, un ciclo di eventi, una storia in cui il lieto fine è superamento dell’imprevisto, come un’identità che ha ridotto e ricondotto a sé ogni differenza. L’alterità qui non è che ostacolo alla libertà di autocostituirsi come identità di sé con se stessi e di possedere il mondo come prodotto di questa riduzione. Se tuttavia proviamo a sottrarre il problema di senso alla conoscenza e al sapere, è forse possibile risalire dalla forma – il Detto – ad una significazione che sia invece origine e non produzione. In che modo l’alterità dell’altro uomo ci interroga e costituisce il ripensamento della libertà umana in altra luce? Forse è necessario domandare non semplicemente se l’inizio del senso sia da ricercarsi nel Cogito, ma se in una relazione con l’Altro non si possa scorgere l’idea paradossale che il principio sia in realtà passivo, sia non-inizio o iniziativa di Altri, e che questa passività abbia un senso altrimenti.
3.1. Sensibilità e contatto
Abbiamo osservato che Totalità e infinito presenta il costituirsi dell’Io e della sua individualità anzitutto attraverso la sensibilità e il godimento (jouissance). Il «vivere di», prima che la «coscienza di», descrive il soggetto che soddisfa i suoi bisogni e già si pone così al di sopra dell’essere. Questo soggetto è chiuso nel suo psichismo.32 Abbiamo anche considerato che, alla luce della «critica Levinasiana», la coscienza, il possesso, il lavoro, l’economia, sono l’espressione di un’interiorità raccolta in sé, che opera una necessaria separazione dal mondo elementale, attraverso cui il soggetto diviene individuo. Ora possiamo affermare che questa separazione dell’Io, un’autonomia rispetto alla materia che può sempre rovesciarsi in schiavitù, è il presupposto necessario della relazione con l’Infinito e della possibilità di aprirsi ad Altri.33 Se la separazione non va definita per opposizione ad una totalità o per contrasto, ma positivamente come un essere da qualche parte,34 allora il linguaggio, la messa in questione del mondo posseduto, in cui consiste la relazione con Altri,35 è il modo attraverso il quale l’Io può realmente instaurare un contatto con l’esteriorità altrui.
Più esattamente il linguaggio non è anzitutto «logos-ragione», ma contatto.36 La coscienza che dà forma alle cose è coscienza intenzionale che tematizza il molteplice, manifesta l’essere e ne proclama l’unità e identità.37 Di fronte all’Altro questa coscienza rappresenta l’«opera passiva del tempo»,38 è durata, inassumibile in un tema, e tempo irrecuperabile: il tempo della passività è il tempo della creaturalità. È passato immemorabile in cui l’Io non è principio ma inquietudine, non-riposo,39 creatura. Tale condizione è forse anche il tempo della sensibilità. Levinas attribuisce al sensibile un ruolo chiave, poiché esso è esattamente «l’evento di prossimità e non di sapere».40 La sensibilità è il luogo di un non sapere che significa altrimenti. Il sensibile non è così pensato in opposizione al razionale, non costituisce quella dimensione che la riflessione può arginare e dominare o il negativo che la conoscenza riordina nel sapere, ma, se così si può dire, un’originaria affezione, relazione con Altri, che è espressione e linguaggio. Pertanto la scelta di concentrare l’attenzione sulla sensazione ci conduce al di là del concetto di intenzionalità. Il riferimento è qui a Husserl: la sensazione per la fenomenologia è un vissuto di coscienza in cui il sentire accompagna il sentito. Per Levinas invece la sensazione ha un aspetto significante, originario, non possiede una funzione simile al «pensiero che pensa qualcosa».41 Si tratta di un avvenimento al di qua della struttura noesi-noema; la sensibilità è propriamente l’accadere di un contatto e, per questo, è pensata innanzitutto attraverso il senso del tatto.42 La prossimità si colloca in questo accadere «senza intenzione». «Senza intenzione» significa che l’evento dell’avvicinarsi ad Altri è originario, primario, rispetto a qualsiasi «coscienza di». Da questo punto di vista la prossimità costituisce la significazione che mette in questione «il pensiero come pensiero di qualcosa»: «Bisogna chiedersi se ogni trascendenza appartenga all’intelletto».43 Da questa domanda sulla trascendenza possiamo risalire alla prossimità come «origine» di senso.
3.2. «In principio è la prossimità»
Ripensare la prossimità come significazione non è semplicemente un percorso che procede dalla forma e dal concetto alla sensibilità, ma il riconoscimento, attraverso questa sensibilità, di un’alterità che abita «il non-intenzionale» e che significa altrimenti. La costituzione del senso delle cose è un modo di guardare il mondo: il mondo è sensato in rapporto ad una coscienza che lo intenziona. Il mondo è trasformato da una conoscenza che lo «idealizza, lo mette-in-idea» perché sia «a portata di mano» in una presa. Se la sensibilità significa prossimità, oltre l’idea di un legame ad un istinto al di qua del razionale, allora la significazione dell’umano è inscritta nel cuore della creazione. Qui avviene un incontro che è principio e origine e che si colloca in una dimensione che è altrove, immemorabile, come un tempo perduto e non recuperabile e che tuttavia significa. Il pensiero assume, se così si può dire, questa significazione nell’idea di Infinito, come Desiderio metafisico «con altra intenzione» rispetto alla «coscienza di». In questo contesto allora la prossimità rappresenta la significazione del sensibile,44 poiché «la sensazione, già elemento della coscienza, è fonte dell’idealismo e, al tempo stesso, ciò che mette fine all’idealismo».45 Se consideriamo quest’ultimo aspetto, possiamo osservare che questa fine è in realtà un inizio. In una prospettiva in cui l’evidenza della coscienza o sapere intenzionale è superato dalla significazione della sensibilità, al di là della «coscienza di», il residuo fenomenologico è la stessa inassumibile sensibilità significante. In questa condizione il soggetto è vulnerabilità, ha un senso oltre l’ontologia.46 Il sensibile si presenta così come il «dato» in cui è possibile ritrovare un’origine di senso. Questa significazione è creazione, è, in altri termini, soggetto e sostanza, «atto», significa kath’auto.
La significazione, non prodotta dalla ratio oggettivante, si offre come resistenza alla presa della com-prensione, come «logos primo», «etica prima». Per questo, afferma Levinas, «c’è ragione di pensare che questa significazione pre-originale comprenda i motivi dell’origine e dell’apparire».47 Da questo inizio si costituisce ogni altro significato. Esiste un motivo che sostiene «l’autoposizione» del cogito: nel Medesimo respira un Altro; l’Altro nel Medesimo è il senso pre-originario che abbiamo definito sensibilità. In questa passività si inscrive l’essere per l’altro48 e la prossimità deve intendersi come evento, accadimento, e non come una scelta volontaria, di carattere morale. Qui se intervenisse una volontà «buona», per dirla con Kant, realizzerebbe un senso già dato, non costituito: «La modificazione della sensibilità in intenzionalità è motivata dalla significazione stessa del sentire in quanto per-l’altro. Si può mostrare la nascita latente della giustizia nella significazione».49 La prossimità come «riduzione» alla sensibilità – impatto – restituisce un’identità incarnata50 di cui l’Altro in me è affezione originaria. Questo soggetto affetto da Altri, in questa condizione prima – tratto della sensibilità come vulnerabilità, pura durata – non può afferrarsi e costituirsi in un tema. Il Medesimo in questo punto non coincide con Sé, ma è al passivo del creato.
Scoprire un senso altrimenti significa trovare il punto di non coincidenza dell’Io, in cui l’Identità dello Stesso ritrova una ferita. Significa anche osare operare una riduzione più radicale dell’epoché trascendentale e risalire dalla mira intenzionale a questa ferita che l’incontro con Altri – volto – ha aperto. Incontrare un altro uomo allora è un evento non sincronico, è linguaggio, espressione e contatto: nell’immediatezza della relazione etica non si instaura una sintesi appercettiva, ma è suscitato un senso, una significazione che è già dentro l’accadere dell’incontro. Il soggetto come identità di sé con se stesso non può «dimenticare» tale significazione pre-originale, che è «pensata a partire dall’uno-per-l’altro della sensibilità».51 In essa sopisce il senso dell’umano. «Dimenticare» la ferita originaria da cui questa significazione insorge può forse pacificare una coscienza che si rappresenta come origine, iniziativa, libertà, presente.52 Probabilmente il compito della filosofia non è semplicemente risalire a un inizio inteso come «coscienza di sé» o «coscienza di», ma arginare nella significazione il rischio della disumanizzazione e della perdita di senso. Per questo «La soggettività di carne e di sangue nella materia […] è significanza pre-originale donatrice di ogni senso perché donatrice […]. L’identità non si produce qui attraverso la conferma di sé, ma attraverso la deposizione di sé, deposizione che è l’incarnazione del soggetto o la possibilità stessa di dare, di bailler signifiance».53 Il soggetto incarnato è così il soggetto deposto nella passività della sensibilità, nell’origine dell’«uno-per-l’altro» in cui l’evento dell’umano si scopre prossimità.
- Cf E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, tr. it. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998, pp. 11-114.
-
E. Levinas, Totalità e infinito, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 24 ↩︎
-
Cf E. Levinas A. Peperzak, Etica come filosofia prima, tr. it. di F. Ciaramelli, Guerini e Associati, Milano 1989, p. 32 ↩︎
-
Ibidem, p. 39. ↩︎
-
E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, a cura di S. Facioni, Bompiani, Milano 2011, p. 267. ↩︎
-
E. Levinas, Totalità e infinito, cit., pp. 109-110. ↩︎
-
H. G. Gadamer, Il movimento fenomenologico, tr. it. Di C. Sinigaglia, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 55-56. ↩︎
-
H. G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 2000, pp. 505-507. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
E. Levinas, Dell’evasione, tr. it. di D. Ceccon, Cronopio, Napoli 2008, p. 14. ↩︎
-
Cf Ib., p. 44. ↩︎
-
E. Levinas, De l’évasion, Fata Morgana, Paris 1982, p. 127. ↩︎
-
Cf E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, tr. it. di F. Sossi, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 5. ↩︎
-
Cf Ib., p. 55-57 ↩︎
-
Ib., p. 5. ↩︎
-
Ib., p. 11. ↩︎
-
Ib., p. 21. ↩︎
-
E. Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, cit., pp.128-129. ↩︎
-
E. Levinas, Totalità e infinto, cit., p. 148. ↩︎
-
Ib., pp. 149-150. ↩︎
-
Ib., p. 113. ↩︎
-
Cf Ib., pp. 166ss ↩︎
-
Cf Ib., p. 116. ↩︎
-
Ib., p. 118. ↩︎
-
Cfr E. Levinas, Etica come filosofia prima, cit., pp. 34-35. ↩︎
-
Cf Ib. ↩︎
-
Cf E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, tr. it. di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, pp. 31-33. ↩︎
-
M. Horkheimer, Eclisse della ragione, tr. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 1969 e 2000, p. 29. ↩︎
-
Ib., p. 49. ↩︎
-
E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 117. ↩︎
-
Husserl, ripreso costantemente da Levinas, parla di Sinngebung soprattutto in rapporto all’atto percettivo, sul quale si costruisce e ritorna ogni altro atto. Il problema della filosofia è il rischio di una egologia: la questione è affrontata dallo stesso Husserl quando tratta della costituzione di senso dell’alter ego (cf Quinta Meditazione cartesiana). ↩︎
-
E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, tr. it. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998, p. 223. ↩︎
-
Cf E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 117ss. ↩︎
-
Cf Ib., p. 171 ↩︎
-
Ib., p. 179. ↩︎
-
Cf Ib., p. 186. ↩︎
-
Cf E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 262. ↩︎
-
Ib., p. 267. ↩︎
-
Ib., p. 260. ↩︎
-
Ib. ↩︎
-
Ib., p. 263. ↩︎
-
Ib. ↩︎
-
Ib., p. 265. ↩︎
-
Ib., p. 264. ↩︎
-
E. Levinas, Altrimenti che essere, tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, p. 79. ↩︎
-
Ib., p. 80. ↩︎
-
Cf Ib. ↩︎
-
Ib., p. 82. ↩︎
-
Cf Ib., p. 90. ↩︎
-
Ib., p. 89. ↩︎
-
Ib., p. 88. ↩︎
-
Ib., p. 96. ↩︎
-
Ib., p. 97. ↩︎
-
Ib., p. 99. ↩︎