L’interesse di Emmanuel Levinas per la filosofia in senso rigoroso nasce da un incontro con la fenomenologia husserliana. Più precisamente è la lettura delle Ricerche logiche che apre al filosofo francese un nuovo modo di comprendere la filosofia stessa. Con Husserl, infatti, egli scopre il senso concreto della possibilità di un lavoro filosofico senza trovarsi imbrigliato in un sistema di dogmi e senza correre il rischio di procedere per intuizioni caotiche.1
In questo contesto non intendiamo fermarci a ricostruire l’itinerario fenomenologico di Levinas, il continuo abbandono e la continua ripresa della filosofia di Husserl, ma ci chiediamo che cosa significhi la sua fedeltà alla fenomenologia come metodo di ogni filosofia e come l’«analisi intenzionale» possa coniugarsi con la radicale esigenza di ritrovare il senso della trascendenza e dell’umano al di là dell’essere.
1. Intenzionalità e riduzione trascendentale. Dalla fenomenologia husserliana a Levinas
Nella seconda metà del XIX secolo, nel contesto della progressiva affermazione delle scienze positive,2 di contro alla «conoscenza ingenua» delle scienze stesse e della psicologia, la fenomenologia husserliana, agli inizi del ’900, reagisce ponendosi un obiettivo chiaro e definito: la ricerca di un principio che fondi legittimamente i saperi e le scienze «dei dati di fatto». La filosofia è intesa come una scienza universale «che ha alla sua base una giustificazione assoluta».3 In questo modo, la fenomenologia ci immette subito oltre il paradigma conoscitivo soggetto-oggetto, in una ricerca di «senso»^[4] che mira a ritrovare al di là del dato ciò che è «essenziale».
Per sgomberare il campo da possibili equivoci semantici, notiamo che alla fine dell’introduzione al primo libro delle Idee, Husserl pone «una piccola notazione terminologica» sulla maniera in cui si debba intendere il termine «senso». Egli sceglie di utilizzare le parole eidos e Wesen,4 allo scopo di allontanare il significato di cui la tradizione filosofica occidentale ha caricato invece termini come «idea» e idealità.
Attraverso questa precisazione, che apre la «Introduzione generale alla fenomenologia pura», siamo condotti verso il primo passo del metodo: cogliere il nostro modo di conoscere il mondo e la realtà attraverso un nuovo «inizio», il vedere eidetico. Si delinea allora già il riconoscimento di un «atto fondante»,5 nel senso di un principio da cui dipendono le stesse scienze dei dati di fatto. Le Idee I, sottolineando che il nuovo principio di tutti i principi è l’intuizione offerente, aprono così il campo alla riduzione trascendentale per arrivare a formulare più chiaramente la nozione centrale dell’impianto fenomenologico: l’intenzionalità.
Per comprendere questo dato, possiamo partire dalla conclusione delle Meditazioni cartesiane, dove Husserl, citando la nota espressione di Agostino — noli foras ire, in te redi, in interiore homine habitat veritas — indica il significato autentico in cui la riduzione trascendentale va intesa: «La scienza positiva è scienza nell’abbandono al mondo. Si deve prima perdere il mondo mediante l’epoché per riottenerlo poi con l’autoriflessione universale».6 La riduzione trascendentale crea uno spazio di riflessione universale; la funzione metodologica dell’epoché è dunque evidente, essa ci immette in un campo ancora inesplorato, quello dei vissuti di coscienza, quello degli atti che soggiacciono alla costituzione del nostro mondo così come esso è. Mediante la «messa fuori circuito» della tesi naturale dell’esistenza del mondo, ritroviamo la peculiare modalità di essere della coscienza. Innervata di atti, come un polo da cui scaturiscono i vissuti, la coscienza è sempre diretta su «qualche oggetto», sia esso immanente o trascendente.
Attraverso questo significato primo e fondamentale della coscienza, l’interpretazione levinasiana dell’intenzionalità segue una linea che tende a recuperare la dimensione più originaria del metodo: la «passività» dei vissuti intenzionali. Cerchiamo di ricostruire allora la modalità attraverso cui Levinas giunge ad utilizzare l’analisi intenzionale.
In un testo del 1940 dal titolo L’opera di Edmund Husserl7 leggiamo: «Il pensato è idealmente presente nel pensiero. Questo modo del pensiero di contenere idealmente qualcosa d’altro da se stesso costituisce l’intenzionalità. Non si tratta del fatto che un oggetto esterno entri in relazione con la coscienza e nemmeno del fatto che nella coscienza stessa si stabilisca un rapporto tra due contenuti psichici, incastrati l’uno nell’altro. Il rapporto dell’intenzionalità non ha nulla a che vedere con i rapporti tra oggetti reali. È essenzialmente l’atto di dare un senso (la Sinngebung)». L’intenzionalità nel suo livello desto e attivo è così subito individuata come quell’atto che costituisce di senso la realtà, il modo stesso in cui noi abbiamo accesso alla conoscenza del reale. Allo stesso tempo, essa è «un modo del pensiero» e il contenuto, il «pensato», un’alterità ideale. Va precisato che per ideale in ambito fenomenologico non si intende semplicemente qualcosa di contrapposto a materiale e fisico. L’idealità — essenzialità — si riferisce nella sua radice all’atto offerente, ad una datità non «reale», ma concreta, come già osservato più sopra in riferimento all’utilizzo del termine eidos nel primo libro delle Idee.
Abbiamo in questo modo individuato l’intenzionalità come atto oggettivante, la Sinngebung: «Nella sua filosofia, l’oggetto appare come determinato dalla struttura stessa del pensiero che ha un senso e che si orienta attorno a un polo di identità che esso pone. Per elaborare l’idea di trascendenza, Husserl non parte dalla realtà dell’oggetto, ma dalla nozione di senso».8 Ma la stessa filosofia di Husserl va oltre questo dato: «Tuttavia, noi pensiamo che malgrado la sua espressione gnoseologica — ontica e ontologica — la fenomenologia richiami l’attenzione su un senso della filosofia in cui essa non si riduce alla riflessione sul rapporto del pensiero con il mondo».9 Lo studio attento delle Ricerche logiche e del primo e secondo libro delle Idee, permette a Levinas di cogliere l’ampiezza di significato con cui è intesa l’intenzionalità. Il «primato» della Sinngebung nella sintesi conoscitiva è il punto di partenza per ricostruire la genesi dei vissuti, attraverso un itinerario che va dal presente della rap-presentazione alla vita soggiacente la coscienza oggettivante: «Bisogna risalire al mondo della vita già tradita dal sapere […]. Attraverso un movimento contro-natura — poiché contro il mondo — bisogna risalire a uno psichismo diverso da quello del sapere del mondo. È questa la rivoluzione della Riduzione fenomenologica — rivoluzione permanente. La Riduzione rianimerà o riattiverà questa vita dimenticata».10
La stessa fenomenologia husserliana contiene allora in se stessa un elemento di esplosione. Il metodo fenomenologico non si limita ad un’analisi descrittiva dei vissuti di coscienza e va al di là dell’identificazione e descrizione delle «essenze», del senso inteso come eidos e Wesen: «L’intenzionalità non è quindi appannaggio del pensiero rappresentativo… ciò a cui si mira non è un oggetto contemplato. Il sentito, il voluto, il desiderato non sono delle cose».11 Levinas muove da questa prospettiva per ricostruire e rielaborare la nozione di senso. Infatti, all’interno della riflessione levinasiana emerge chiaramente che la nozione di senso non si riferisce all’essenza, all’eidos, ma si colloca nell’ottica etica di un «significare» al di là dell’essere e dell’essenza. Questa «trasfigurazione» del senso avviene mediante un ribaltamento della coscienza oggettivante, uno scavo attraverso il concetto di intenzionalità: «L’intenzionalità è dunque ben più profonda di quanto lo sia la «relazione tra il soggetto e l’oggetto» che si attua in essa. L’interiorità del pensiero e l’esteriorità dell’oggetto sono delle astrazioni derivate da quel fatto concreto della spiritualità in cui consiste il senso».12
Esiste, dunque, la possibilità di definire l’intenzionalità in una direzione che comprenda un livello più originario della Sinngebung: i vissuti sono stratificazioni complesse e la coscienza un flusso inarrestabile, una corrente di vissuti. L’idea di un’intenzionalità prima13 si affaccia immediatamente nel discorso fenomenologico sottoforma di coscienza impressionale che costituisce il presente in cui sorge lo spirito.14 La Urimpression è un presente non «rap-presentante», non oggettivante, un’ora, genesi spontanea e «fenomeno» irriducibile in quanto datità originaria. Si tratta di un passaggio «da un senso all’altro», dall’essenza alla significazione di Altri, come direbbe Levinas, per scoprire nella coscienza una passività «radicale»; qui l’analisi intenzionale è spinta a scavare nella «proto-origine» del senso. È necessario, in questa ricerca della condizione delle condizioni, operare un salto, un capovolgimento, possibile in primo luogo grazie a quest’opera di rivoluzione permanente che è la fenomenologia: rintracciare in ogni sapere l’esperienza viva, il fenomeno che lo rende possibile, il vissuto di coscienza in cui esso si radica. Alla radice del «fenomeno» Levinas scopre la presenza di Altri, una socialità anarchica che ha già preceduto la luce dello spirito come sapere.
2. Il significato del «residuo fenomenologico» nell’analisi intenzionale
Con le nozioni di dato, di intenzione e di luce, ci avviciniamo alla nozione di sapere con cui, in ultima istanza, il pensiero occidentale interpreta la coscienza. Il sapere viene qui inteso in senso molto largo la filosofia occidentale conosce certamente altre forme di coscienza oltre all’intelletto, ma anche nell’ambito delle sue peripezie meno intellettuali, lo spirito è sempre ciò che sa. È perché sono coscienti, perché sono esperienze, perché sono pensieri in senso cartesiano, che gli atti del sentire, del soffrire, del desiderare o del volere appartengono alla vita dello spirito.15
È possibile interpretare la coscienza altrimenti che all’interno di nozioni quali l’intenzionalità diretta e oggettivante, la «luce» della conoscenza e il sapere?16 E ancora, come delineare l’idea che il «senso» — vita dello spirito — possa essere in realtà pensato al di là dell’essenza e del concetto? L’avventura dello spirito si dispiega attraverso la storia come quel sapere che giunge ad autoconsapevolezza assoluta: «Nel sapere assoluto, dunque, lo Spirito ha concluso il movimento delle sue figurazioni; adesso è ormai superata quella differenza della coscienza che contrassegnava tale movimento. Lo Spirito ha raggiunto l’elemento puro della sua esistenza, il Concetto. […] Poiché ha raggiunto il Concetto dunque, lo Spirito dispiega l’esistenza e il movimento in questo etere della propria vita, ed è scienza».17 Spirito e scienza arrivano qui ad identificarsi attraverso il superamento della «differenza della coscienza» — coscienza infelice perché divisa — e a ricondurre la realtà e la storia al sapere assoluto. Pensare la coscienza come intenzionalità spinge a riflettere proprio su questa identificazione (o collusione?) tra spirito e sapere, l’analisi intenzionale significa infatti una «ricerca del concreto» .18
Se facciamo un passo avanti, possiamo proiettarci sul modo in cui avviene questa ricerca partendo dalla domanda di Levinas: «Il sapere della coscienza pre-riflessiva di sé, sa, propriamente parlando?».19 La riflessione del filosofo francese si concentra su questa dimensione della coscienza, scorgendo in essa non l’origine del senso ma la sua in-condizione anarchica. A questo livello infatti la coscienza non è semplicemente un momento della intenzionalità desta e attiva, ciò che precede la luce del pensiero. La coscienza pre-riflessiva o non-intenzionale è piuttosto la presenza che accompagna il «presente» della coscienza oggettivante o rappresentativa. La fenomenologia husserliana spiega tale «presenza» e la definisce — fenomeno «originario» — attraverso la nozione di Io puro: «Dopo aver eseguito tale riduzione… se percorriamo i molteplici vissuti del flusso che rimane come residuo trascendentale, non incontreremo mai l’io puro; esso non è un vissuto tra gli altri vissuti […]. L’io appartiene a ogni vissuto… e il suo sguardo va all’oggetto attraverso ogni attuale cogito […]. Se dunque, dopo aver messo fuori circuito il mondo e la soggettività empirica che appartiene al mondo stesso, ci rimane come residuo un io puro… con lui ci si presenta una specie singolarissima di trascendenza — non costituita — una trascendenza nell’immanenza».20 Lo stesso Levinas descrive l’Io puro come una fuoriuscita dall’essenza e dal concetto:
L’io puro, soggetto della coscienza trascendentale entro cui si costituisce il mondo, è a sua volta fuori dal soggetto [hors sujet]: sé senza riflessione — unicità che si identifica come risveglio incessante […]. A partire dalle implicazioni della Critica della ragion pratica, l’Io trascendentale sarà postulato come una realtà situata al di là della sua funzione di forma nell’ambito della conoscenza. E Husserl, nella sua Critica del Cogito cartesiano… rimprovera alla Meditazioni di Descartes l’Io scoperto e certo, nell’orizzonte del mondo. L’io puro nel quale si trasforma l’io cartesiano nella Riduzione fenomenologica, avrà perciò lo statuto eccezionale di un io trascendente nell’immanenza stessa dell’intenzionalità.21
La nozione di residuo fenomenologico, dato irriducibile non costituito, rappresenta allora già un modo nuovo di pensare la trascendenza. L’idea di una coscienza non-intenzionale si radica in questo dato e la trascendenza è pensata come il punto fuori dal soggetto, soggetto inteso come cogito attuale.
Possiamo ora comprendere meglio il significato dell’analisi intenzionale a partire da questa prospettiva di senso alla ricerca del passivo e del non-intenzionale. Come abbiamo sottolineato, l’analisi intenzionale significa qui una ricerca del concreto. In primo luogo, questo emerge dall’idea stessa di Io puro come fenomeno originario e irriducibile. Esattamente allo stesso modo della coscienza assoluta descritta nel paragrafo 49 del primo libro delle Idee, esso resta come una sporgenza al di qua della riduzione trascendentale. In termini fenomenologici è cioè definito, per l’appunto, come un residuo di coscienza. Questo significa che non è possibile operare un’epoché, una messa tra parentesi dell’Io puro, il quale come Husserl stesso scrive è «qualcosa di necessario per principio».22 Ci troviamo allora, evidentemente, di fronte ad una datità prima, o fenomeno primo, che in modo significativo è descritto come una «specie singolarissima di trascendenza».23 In altri termini, il residuo fenomenologico che sporge dalla riduzione trascendentale costituisce il punto di partenza per un discorso sulla trascendenza. Levinas non ha, in questo modo, semplicemente rivendicato la ricchezza della nozione di intenzionalità, né semplicemente descritto una coscienza che intenzionando un oggetto apre un’eccedenza di senso all’interno di ogni vissuto esplicito; pensiero che pensa più di quanto non pensi, parafrasando una delle sue espressioni più ricorrenti. Ma, di più, egli ha considerato la fenomenologia come un metodo che «non si deduce […]. I fatti della coscienza non conducono ad alcun principio che li spieghi».24 Proprio in questo senso l’analisi intenzionale ricerca concretamente quei dati della coscienza che costituiscono la condizione stessa dell’analisi fenomenologica. Tale prospettiva richiede uno scavo profondo nei vissuti cosiddetti passivi. Da questo punto di vista, Levinas è debitore dell’analisi genetica e delle sintesi passive.25
Per Husserl infatti il metodo genetico si comprende sempre all’interno del discorso sulla possibilità di una fondazione radicale di una teoria della conoscenza. Il mondo della vita fluisce in ogni operazione di sintesi conoscitiva e, nelle Lezioni sulle sintesi passive, è posto chiaramente in evidenza l’itinerario attraverso il quale egli giunge a definire questa realtà26: un’analisi che risalga dal logos alla vita. La riflessione levinasiana intende cogliere esattamente questa risalita per mutare la prospettiva husserliana, ancora prevalentemente teoretica, in una prospettiva etico-metafisica. L’origine di tutte le nozioni nell’esperienza dei fatti della coscienza27 diventa la condizione della manifestazione di un senso (eidos) e la dimensione da riconsiderare per riformulare il problema nell’ottica della trascendenza e dell’idea dell’Infinito. Perciò, l’utilizzo dell’analisi intenzionale per Levinas si spinge molto oltre. La condizione che origina il fenomeno, i fatti della coscienza, sorge da una situazione, la relazione metafisica, il rapporto con Altri. Il punto che collega questo passaggio è esattamente il residuo fenomenologico in quanto fenomeno primo. Nel caso dell’Io puro il residuo, infatti, si presenta come una trascendenza nell’immanenza, dunque si tratta dell’impossibilità di ridurre ulteriormente un dato e, ancor più, si tratta di considerare il residuo fenomenologico come la vera chiave di volta per comprendere il discorso sulla trascendenza.
Si può pensare allora che la nuova ottica assunta dalla riflessione di Levinas intenda l’analisi intenzionale come ricerca del concreto proprio in questa direzione. La difficoltà, anche dal punto di vista terminologico, del discorso levinasiano sta proprio nel tentativo di dire il modo in cui la condizione delle condizioni — una in-condizione pre-originaria, già esilio dall’essere — significhi un senso che rappresenta l’esplosione della sintesi appercettiva. Ma tale esplosione — residuo — costituisce anch’essa un punto di partenza. Il pensiero ha così il suo inizio in un’eccedenza di senso che sfugge alla sintesi conoscitiva per definirsi altrimenti una «razionalità della trascendenza». Questo inizio è paradossalmente un non-inizio, la presenza di un Assente, un principio anarchico, che rovescia la coscienza — di colpo — nella situazione di una radicale messa in questione. In realtà, il residuo è una traccia, traccia di un’idea messa-in-noi, idea dell’Infinito, «passaggio al passato dell’Altro, in cui si delinea l’eternità, passato assoluto che riunisce tutti i tempi».28
3. Coscienza non-intenzionale e senso della trascendenza
La questione del senso della trascendenza può dunque essere considerata il vero centro attorno a cui ruota la riflessione filosofica di Levinas, come egli stesso sottolinea nel dialogo con Philippe Nemo, pubblicato sotto il titolo di Ethique et infini.
Ponendo l’attenzione sull’irriducibilità dell’Io puro, fenomeno originario, abbiamo individuato quella dimensione che sfugge alla riduzione trascendentale e costituisce così lo spazio per elaborare l’idea di una trascendenza fuori e dentro la storia. Totalità e infinito rappresenta precisamente la ricerca di un passaggio all’esteriorità metafisica resa possibile dalla fenomenologia husserliana.29 In quest’opera Levinas matura in modo chiaro la riflessione sull’alterità dell’altro uomo e sul senso della trascendenza intesa fondamentalmente come problema etico. Qui la metafisica è descritta come una relazione con Altri, essa infatti «non è atto, ma relazione sociale».30 Questa affermazione ci permette di ricostruire il significato della trascendenza come esteriorità. Se, infatti, la riduzione fenomenologica mantiene il residuo al di fuori della riduzione stessa in quanto datità prima e trascendenza, la questione di senso diventa, per il filosofo francese, l’ottica in cui comprendere il mondo e la cultura. Il primato di quest’ottica etico-metafisica sull’ontologia non rappresenta, tuttavia, la problematica intorno al fondamento dell’essere, ma piuttosto la questione del suo non-fondamento. Tale non-fondamento infatti costituisce un’ulteriore riduzione sui generis, questa volta non semplicemente all’Io puro, ma all’alterità di Altri. L’al di là della coscienza è l’altro uomo in quanto esteriorità radicale.
Possiamo dunque chiederci: attraverso quale via questa esteriorità di Altri entra in una coscienza tematica? Husserl ha sollevato questa questione: «Ma come ora va la cosa per gli altri ego che non sono pur mere rappresentazioni o meri oggetti rappresentati esistenti in me, ma che, per il loro stesso senso, sono ben altri? […]. Questo potrebbe mancare di fondamenta fenomenologiche, ma in linea di principio avrebbe ragione in quanto ricerca una via che va dall’immanenza dell’ego alla trascendenza dell’altro».31 Il problema della costituzione dell’alter ego non è già più, in questo modo, un problema fenomenologico puro,32 ma attraverso il vissuto dell’empatia si delinea come un atto presentificante al di là di ogni percezione diretta e di ogni datità evidente.33 Questo significa che Altri non «ri-entra» nella coscienza oggettivante, non si immanentizza, ma in qualche modo «si presenta».
La fenomenologia husserliana descrive questa presentificazione similmente ad una co-percezione, ad un «co-sapere». Levinas cerca di cogliere, nel suo discorso, proprio questi modi della presenza di Altri e lo fa attraverso l’idea di un’esteriorità irriducibile e non tematizzabile. È possibile pensare allora una «riduzione» che si spinga ancora oltre: l’ultima riduzione e forse anche la più radicale è quella di una coscienza, originariamente affetta da Altri, rovesciata dall’attivo al passivo, dall’intenzione oggettivante al non-intenzionale, e che sorge sul fondamento di questa relazione con il prossimo.34 Nulla può in questo senso precedere Altri, il quale rappresenta qui non il principio dei principi, ma la fonte stessa del senso, fonte rintracciata attraverso la riduzione del Detto al «Chi» — non al «che cosa» — del Dire: «Ma ecco la riduzione del Detto al Dire — al di là del Logos… ecco la riduzione alla significazione, all’uno-per-l’altro della responsabilità […]. Il soggettivo e il suo Bene non potrebbero essere compresi a partire dall’ontologia».35 La prossimità dunque, l’uno-per-l’altro, rappresenta il pre-originale «dato» non riducibile che capovolge l’intenzionalità oggettivante nella condizione di una passività anarchica, nella condizione o meglio nella in-condizione di dover «rispondere di»: la «coscienza di» — mira intenzionale — diventa pre-originariamente, al suo rovescio, un «rispondere di» ad Altri ad infinitum, estrema passività in cui si annida la significazione stessa del soggetto in quanto tale. La relazione con Altri — relazione etica, relazione metafisica — rappresenta in questo modo un «al di là» che non appare, non si svela al modo di una datità offerente, ma conosce altri modi di dirsi. Il modo e la significazione della prossimità sono un’alterazione dell’Io, il residuo non-assorbibile36 che continuamente disfa la forma del Detto in una «estrema tensione del linguaggio».37
Possiamo allora concludere questo breve confronto tra la fenomenologia e Levinas osservando che analisi intenzionale e senso della trascendenza sono coniugate in un discorso che intende la riflessione filosofica a partire da un’eccedenza di senso, eccedenza che la attraversa come una continua esplosione e ricomposizione del concetto e dell’essenza. È questo il senso dunque della fenomenologia come analisi intenzionale, essa si presenta a Levinas come un metodo che riesce a tenere insieme il rigore autentico di una riflessione intellettuale e la possibilità di pensare la trascendenza in un’ottica etica, dove l’etica costituisce già il «residuo irriducibile» della relazione con Altri e quindi «un punto di vista» e, in un certo senso, forse, una vera e propria Welthanschauung:
Le nostre analisi rivendicano lo spirito della filosofia husserliana di cui la lettura è stata il richiamo, nella nostra epoca, della fenomenologia permanente come metodo di ogni filosofia. La nostra presentazione… resta fedele all’analisi intenzionale […]; conviene ridurre il Detto alla significazione del Dire, liberandolo al Detto filosofico sempre ancora da ridurre. Verità in più tempi, ancora come la respirazione, di una diacronia senza sintesi […]. L’enfasi dell’esteriorità è eccellenza. Altezza, cielo. Il regno dei cieli è etico […]. È questo che cercava di dire lo strano discorso qui tenuto sulla significazione dell’uno-per-l’altro del soggetto.38
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Cf. E. Levinas, Ethique et infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Arthème Fayard, Paris 1982, p. 19. ↩︎
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Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 35. ↩︎
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E. Husserl, Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, tr. it. di A. Staiti, Rubettino, Catanzaro 2007, p. 7. ↩︎
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Cf. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, tr. it. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 8. ↩︎
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Ibidem, p. 24. ↩︎
-
E. Husserl, Meditazioni cartesiane, tr. it. di F. Costa, Bompiani, Milano 1994, p. 172. ↩︎
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Cf. «L’opera di Edmund Husserl» in: Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, tr. it. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998, pp. 3-57. ↩︎
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Ibid., p. 21. ↩︎
-
E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, tr. it. di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, p.113. ↩︎
-
Ibid., p. 115. ↩︎
-
E. Levinas, Scoprire l’esistenza…, cit., p. 22. ↩︎
-
Ibid., p. 26. ↩︎
-
Ibid., p. 44. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, tr. it. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983, p. 42. ↩︎
-
«L’intenzionalità come atto e transitività, come unione dell’animo con il corpo…significa il radicale superamento dell’intenzionalità oggettivante che anima l’idealismo». E. Levinas, Scoprire l’esistenza…, cit.,p. 162. ↩︎
-
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. Di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000, p. 1059. ↩︎
-
Cf. E. Levinas, Totalità e infinito, Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dall’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 26. ↩︎
-
E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 201. ↩︎
-
E. Husserl, Idee…, I, cit., pp. 143-144. ↩︎
-
E. Levinas, Fuori dal soggetto, tr. it. di F. P. Ciglia, Marietti, Genova 1992, p. 167. ↩︎
-
E. Husserl, Idee…, I, cit., p. 143. ↩︎
-
Ibid., p. 144. ↩︎
-
E. Levinas, «Riflessioni sulla tecnica fenomenologica» in: Scoprire l’esistenza…, cit., p. 127. ↩︎
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Cf. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, tr. it. di A. Moscato, Il Melangolo, Genova 1985, pp. 19-29. ↩︎
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«Così, il fatto di risalire alla coscienza trascendentale non è un ulteriore idealismo, ma il rotorno al Fenomeno, a ciò che fa risplendere un senso». E. Levinas, Scoprire l’esistenza…, cit., p. 185. ↩︎
-
Ibid., p. 127. ↩︎
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Ibid., p. 232. ↩︎
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Cf. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 27. ↩︎
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Ibid., p. 109. ↩︎
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E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 113. ↩︎
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Ibid., p. 114. ↩︎
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«L’espressione del volto sconvolto dal dolore…posso considerarlo da ciascun lato che voglio, per principio però non pervengo mai ad un orientamento in cui, anziché quell’espressione, mi venga a datità il dolore stesso». E. Stein, Il problema dell’empatia, tr. it. di E. Costantini e E. Schulze Costantini, Studium, Roma 1998, p. 73. ↩︎
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Cf. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, p. 110. ↩︎
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Ibid., p. 57. ↩︎
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Cf. Ibid., p. 179. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Ibid., pp. 226-227. ↩︎