1. Due aspetti del trascendentale: etica ed estetica
L’intento di questo breve studio è quello di porre l’attenzione su un aspetto della filosofia di Ludwig Wittgenstein che, solitamente, non viene molto approfondito: l’etica. Eppure, sebbene il capolavoro del filosofo austriaco, il Tractatus logico-philosophicus (1921), nasca con l’intento di indagare i fondamenti della logica e del linguaggio, è possibile trovare in esso (e nei Quaderni1 che lo precedono) diversi spunti di riflessione in merito ad altre questioni, come l’etica, l’estetica o, più in generale, il Mistico, ossia «Dio, la morte ed il senso della vita»2.
Per poter affrontare questi aspetti si deve partire innanzitutto da uno dei presupposti teorizzati dal Tractatus, ossia che «tutte le proposizioni sono di pari valore»3. Con questa espressione Wittgenstein sta escludendo prima di tutto la possibilità che, «dal punto di vista del valore, si possano fare distinzioni tra il sussistere di questo stato di cose o di quell’altro»4. Considerata la teoria dell’immagine, secondo la quale tra linguaggio e mondo si dà una perfetta corrispondenza strutturale e logica, ne deriva che se tra le proposizioni elementari non esiste una scala di valore, allora non deve esserci nemmeno tra i fatti (raffigurati dalle proposizioni stesse). Questa perfetta parità deriva dall’idea che gli eventi, in virtù della loro contingenza, sono tutti privi di valore, dato che per Wittgenstein «nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore - né, se vi fosse, avrebbe valore» (TLP 6.41). Non esistono fatti portatori di un valore assoluto e, di conseguenza, non esistono fatti che possiedono valore etico e coercitivo. L’accidentalità che caratterizza gli stati di cose nella loro essenza è incompatibile con l’idea stessa di valore, dato che questo concetto viene utilizzato per esprimere l’assolutezza e la superiorità di qualcosa (su qualcos’altro): se un qualcosa possiede un valore, questo qualcosa non può essere, per definizione, contingente. Scrive, a tale proposito, Pasquale Frascolla ne Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein. Introduzione alla lettura:
è impensabile che a colui al quale, ad esempio, una certa cosa appare buona, essa possa anche non apparirgli tale (e se può concepire questa alternativa, allora vuol dire che non si tratta davvero per lui, di una cosa dotata di valore). La proprietà di essere buona, cioè, non inerisce «dall’esterno» ad una cosa, così come la proprietà di essere bianca inerisce ad una scrivania. Quella cosa non sarebbe più la stessa se perdesse il suo valore, e ciò equivale a riconoscere appunto che il possedere tale valore non è una sua caratteristica contingente.5
Benché Wittgenstein non riconosca alla sfera del valore nessun aspetto contingente, il filosofo è consapevole del fatto che l’uomo, nel corso della sua esistenza, è portato a trovarsi di fronte ad eventi che suscitano inevitabilmente un senso di meraviglia o di ammirazione e che, per tale ragione, vengono riconosciuti come portatori di un valore. Come si vedrà più avanti, nella Conferenza sull’etica Wittgenstein sosterrà che i giudizi di valore assoluto non rappresentano altro che «tentativi di dire qualcosa che non può realmente essere detto»6. Ma
questa tendenza a esprimere ciò che non può essere detto non è considerata il prodotto di una confusione logica, com’era invece il caso del solipsismo; tant’è vero che essa non può essere soppressa da un’analisi logica corretta. Anzi, nella sua conferenza, Wittgenstein ne parla come di una tendenza da rispettare e difendere; perché quando qualcuno tenta, in questa maniera, di esprimere qualcosa che non si può dire, viene mostrato (anche se non asserito) qualcosa di veramente importante.7
Il fatto che all’uomo, nel corso della sua esistenza, possano presentarsi eventi che per lui possiedono un valore è un aspetto di cui Wittgenstein discuteva già nel suoi Quaderni, principalmente nelle annotazioni del 1916. E’ difatti in una riflessione del 7 Ottobre del 1916 che il filosofo austriaco argomenta riguardo un legame, o meglio una somiglianza, tra etica ed estetica. In questi passi, egli sostiene che
L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternetatis; e la vita buona è il mondo visto sub specie aeternetatis. Questa è la connessione tra arte ed etica. Il consueto modo di vedere vede gli oggetti quasi dal di dentro; il vederli sub specie aeteritatis, dal di fuori. Così che per sfondo hanno il mondo intiero.8
«Sub specie aeternitatis», letteralmente «sotto l’aspetto dell’eternità», è un’espressione latina con la quale Wittgenstein si riferisce alla possibilità di vedere la realtà oggettiva dal di fuori, nella sua massima compiutezza e universalità; tanto che «La cosa vista sub specie aeternitatus è la cosa vista con tutto lo spazio logico»9. Lo stretto legame tra etica ed estetica si esplicita, quindi, in uno specifico modo di guardare le cose esistenti. Ad esempio, nel caso dell’estetica, l’aggettivo «bello» non riguarda una proprietà intrinseca dell’oggetto (ossia l’oggetto non è bello in sé stesso), ma viene impiegato per esprimere una forma di interesse originato da un coinvolgimento visivo o uditivo. «Bello», di conseguenza, è un concetto utile all’esternazione di un sentimento. Contemplare qualcosa «sotto l’aspetto dell’eternità» significa guardarla come se essa vivesse in un mondo a sé stante, come se fosse posta fuori dalla dimensione materiale, slegata dal tempo e dallo spazio. Per questa ragione, il valore etico, o estetico, non è da intendere in senso relativo, ma assoluto. Tuttavia, dato che gli unici enunciati sensati per Wittgenstein sono quelli che raffigurano uno stato di cose (o un possibile stato di cose), ne consegue che, come ripeterà anche nella Conferenza sull’etica, i giudizi di valore assoluto mancano di senso e per questo non possono trovare la loro corretta espressione attraverso il linguaggio. Secondo il filosofo austriaco l’unica cosa che gli enunciati in questione possono comunicare è il sentimento, o meglio, il senso di stupore derivante dal fatto che le cose vengono viste, appunto, «sotto l’aspetto dell’eternità». La fonte del valore assoluto «dovrà essere», quindi, «fuori del regno dei fatti contingenti, fuori del mondo»10. In conclusione non possono darsi asserzioni sensate di valore, dunque nemmeno di etica, in quanto «Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto». (TLP 6.42)
Coerentemente con quanto appena detto, nelle annotazioni dei Quaderni dove Wittgenstein si sforza di dare una spiegazione a cosa si intenda per «vita buona» o «vita felice», traspare tutta l’incapacità del filosofo di trovare le parole adatte a parlare di etica, tanto che questa verrà definita, negli anni successivi al Tractatus, come «il tentativo di dire qualcosa che non riguarda e non potrà mai riguardare l’essenza della cosa»11:
la vita felice è buona; la infelice, cattiva. E se adesso mi domando: ma perché è proprio felicemente che dovrei vivere? questa si rivela interrogazione retorica: appare che la vita felice si giustifica da sé, che essa è l’unica vita giusta.
Tutto questo, in un certo senso, è davvero profondamente misterioso! E’ chiaro che l’etica non si lascia formulare!
Ma si potrebbe dir così: La vita felice sembra in qualche senso più armonica che la vita infelice. Ma in quale senso??
Che è il carattere obiettivo della vita felice, armonica? Anche qui è chiaro che non può esservi un tale carattere, che si possa descrivere.
Questo non può essere un carattere fisico, ma solo un carattere metafisico, trascendente.12
Se è vero che il senso di una proposizione risiede nella sua capacità di raffigurare i fatti sussistenti/possibili allora etica ed estetica, dato che sono condizioni del mondo, sono inesprimibili in virtù della loro natura trascendentale. Ciò che è condizione del mondo dunque, per via del suo carattere universale, può solamente mostrarsi e non giustificarsi. Questo, tuttavia, non trasporta l’etica totalmente fuori dalla realtà fattuale in quanto essa è, comunque sia, connessa al mondo. Lo stesso accade per la logica: quest’ultima, in conformità della sua natura trascendentale, pone le condizioni di significanza del linguaggio. Le tautologie, ad esempio, vengono classificate da Wittgenstein come prive di senso in quanto non sono in grado di descrivere nessun tipo di fatto, ma possiedono la particolare funzione di mostrare «le proprietà formali del mondo, ossia le caratteristiche che esso condivide con ogni monto concepibile»13. Logica, etica ed estetica hanno in comune il fatto di non aggiungere niente sul mondo e sulla configurazione degli stati di cose. Tuttavia, questa comunanza ha un limite: nonostante tutte e tre possiedano una natura «sovrannaturale», le prime due appartengono al medesimo dominio del trascendentale e, per questo, si mostrano in maniera differente dalla logica. Soprattutto l’etica, nella quale niente «è paragonabile al metodo che mostra la necessità di un principio logico tramite la notazione V(ero)/F(also)»14. Quando c’è un giudizio di valore etico, quindi assoluto, è inutile chiedersi se esso sia vero oppure falso: «non avrebbe senso chiedere se un giudizio di valore assoluto sia stato corroborato da un accaduto o da una scoperta»15. Dato che nel Tractatus il senso di un enunciato corrisponde alle condizioni di verità, ne consegue che le proposizioni di etica o di estetica non hanno senso, poiché in esse non si verifica nessun riscontro logico col mondo (ovvero non è possibile affermare la verità o la falsità di tali enunciati). In conclusione, «Il carattere etico non si rivela nel simbolismo»16, ma anzi
riguarda il modo in cui il mondo come un tutto o, il che è lo stesso, la vita, si presenta al soggetto, inteso come il portatore della volontà: la sfera dei valori morali, quindi, come quella delle leggi logiche, è anch’essa una condizione del mondo, considerato nella sua totalità.17
Il soggetto etico possiede una volontà. A tal proposito, in una riflessione del 2 Agosto del 1916, Wittgenstein afferma che non è il mondo della rappresentazione ad essere buono o cattivo, ma l’individuo, ovvero colui che possiede in sé una volontà e, con ciò, dei valori. Sempre nei Quaderni troviamo lunghe riflessioni su cosa il filosofo intenda per volontà e come questa debba essere, prima di tutto, contraddistinta dal desiderio. La volontà, infatti,
Non è la causa dell’azione, ma l’azione stessa. Non si può volere senza fare, Se la volontà deve avere un oggetto nel mondo, l’oggetto può anche essere l’azione stessa. E la volontà deve avere un oggetto. Altrimenti non avremmo alcun appoggio, né potremmo sapere che cosa vogliamo. Né potremmo volere cose diverse. […] La mia volontà si fissa da qualche parte nel mondo, e non si fissa su altro. […] Che io voglia un atto consiste nel farlo, non nel far altro che causi l’atto.18
Giusto e ingiusto, buono e cattivo, non sono proprietà del mondo e perciò indipendenti dal soggetto, ma sono predicati dell’io che intervengono unicamente attraverso di esso. Predicati che, tuttavia, non vanno ricercati nei fatti contingenti. La volontà, che guida l’individuo nelle scelte della sua esistenza, è indipendente dal mondo. Conseguentemente, non esiste nessun legame di necessità tra ciò che l’individuo vuole e ciò che accade nella realtà dei fatti, in quanto «io non posso guidare gli eventi del mondo secondo la mia volontà; al contrario, sono affatto impotente»19. Se il soggetto vuole che accada qualcosa, ciò vuol dire che se ciò succederà allora sarà soltanto un evento fortuito. Tuttavia, nonostante questa indipendenza, la volontà (non psicologica) àltera ciò che Wittgenstein definisce «i limiti del mondo» (TLP 6.43), ovvero ciò che non può essere raffigurato dal linguaggio ma solo mostrato nel linguaggio:
al variare dell’atteggiamento etico del soggetto metafisico, il mondo nel suo complesso acquista un nuovo aspetto, una nuova fisionomia: così, se il soggetto si sente in armonia col mondo, ossia felice, e se quest’armonia raggiunta consiste per lui il bene, il mondo gli apparirà buono, mentre, ad un soggetto che non si senta in armonia col mondo e sia perciò infelice, quella stessa configurazione dei fatti gli apparirà cattiva.20
Da questa impostazione consegue una sorta di relativismo: ogni soggetto possiederà il proprio mondo e, di conseguenza, una propria etica: «sono i mondi, quello del felice e quello dell’infelice, a essere diversi e non i fatti»21. Di fronte al medesimo stato di cose, quindi, si configurano atteggiamenti e prospettive differenti attraverso le quali il mondo diviene «un altro mondo»: «Se il volere buono o cattivo àltera il mondo, esso può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti, non ciò che può essere espresso dal linguaggio» (TLP 6.43). È doveroso sottolineare che questo «altro mondo» a cui Wittgenstein fa riferimento non è quello fattuale. Attraverso la volontà l’uomo reagisce e prende posizione nei confronti della realtà concreta che, appunto, diviene «un altro mondo»; un mondo considerato nella sua totalità e non nella sua contingenza. La felicità e l’infelicità non corrisponderanno, quindi, a stati di cose ma a modi diversi di vedere la medesima realtà.
I fatti non risolvono i problemi etici; possono solamente farli sorgere. Le soluzioni le troviamo negli atteggiamenti che adottiamo nei confronti dei fatti. E Wittgenstein qui intende tutti i fatti, sia quelli psichici che quelli fisici. La volontà, quale portatrice del bene e del male, è indipendente dalla totalità dei fatti, cioè, in un certo senso, è indipendente dal mondo.22
2. Il Mistico e il senso del mondo
Nelle sezioni finali del Tractatus prende posto il concetto linguistico di «Mistico». Esso è «l’ineffabile» o «l’inesprimibile», ovverosia ciò che non può dirsi, ma soltanto mostrarsi. Nella Introduzione dell’opera, Bertrand Russell scriveva che l’atteggiamento di Wittgenstein nei confronti del Mistico è assai interessante quanto particolare. Il fatto che la dottrina logica del filosofo austriaco sia fondata specialmente sulla teoria raffigurativa, «secondo la quale la proposizione logica è immagine (vera, o falsa) del fatto»23, comporta che tutto ciò
che è implicito nell’idea stessa dell’espressività del linguaggio, è fatalmente insuscettibile d’espressione nel linguaggio: è, letteralmente, inesprimibile. Questo inesprimibile include, secondo Wittgenstein, la totalità della logica e della filosofia. […] Wittgenstein, nonostante tutto, riesce a dire molte cose intorno a ciò che non può essere detto.24
Il Mistico esiste pur non risiedendo fisicamente nei fatti; per questa ragione esso rappresenta i problemi più vitali, ossia quelli inerenti l’esistenza del mondo nella sua totalità, e il senso della vita in generale. Secondo Wittgenstein, in virtù della loro natura inaccessibile e misteriosa, questi problemi non possono trovare un’espressione sensata attraverso il linguaggio; la stessa etica viene posta nella regione dell’inesprimibile e del mistico. Già nei Quaderni, precisamente in una riflessione del 25 Maggio del 1915, il filosofo austriaco utilizzava il concetto di «mistico» per definire l’oggetto di quell’impulso e tendenza «di tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere o di parlare di etica o di religione»25. Questa naturale propensione che accomuna molti pensatori ha, secondo Wittgenstein, origine
Dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza. Noi sentiamo che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppur toccato. Certo non resta allora più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.26
Wittgenstein, con queste asserzioni, non sta negando l’esistenza dei valori etici, religiosi ed estetici, né tanto mento li sta riponendo a un piano inferiore del linguaggio, ma li sta anzi elevando e custodendo in un luogo superiore. La scienza, essendo confinata allo studio di «come il mondo è» (TLP 6.44), alle sue leggi e alla sua struttura, non è in grado di fornire risposta alle questioni relative ciò che è «più alto» e l’uomo, nel momento in cui diviene consapevole di ciò, percepisce un un senso di insoddisfazione e di frustrazione. Il concetto di «mistico», sia nei Quaderni che nel Tractatus logico-philosophicus, fa riferimento, dunque, a quei problemi esistenziali che non avranno mai una vera e propria risposta in quanto si pongono oltre il dominio delle possibili domande.
L’esperienza stessa dell’arte è una delle tante espressioni del Mistico: contemplare in maniera assoluta un oggetto artistico permette di vedere in quest’ultimo una superiorità e un valore rispetto agli altri oggetti. E’ per tale ragione che l’arte è capace di suscitare un senso di meraviglia e di stupore: il modo di vedere estetico è un vedere «con occhio felice», non importa infatti come un certo oggetto d’arte è, ma come lo si guarda e quali sentimenti esso suscita (si pensi, ad esempio, alla sindrome di Stendhal). L’etica, allo stesso modo, non può essere ridotta a un insieme di definizioni su ciò che è giusto o buono, poiché trova la sua manifestazione in un atteggiamento interiore, in una «presa di posizione del soggetto verso il mondo»27 e verso la vita. Il Mistico, in virtù del suo essere assoluto e ineffabile, raccoglie in sé tutti quegli aspetti che sfuggono al linguaggio significante, tanto che il suo carattere universale verrebbe meno se si tentasse di parlarne. Per Wittgenstein la verità etica, estetica e religiosa si manifestano in un solo modo: nel loro essere vissute. Linguisticamente parlando, il silenzio è l’unica strada percorribile per non precipitare nel nonsenso. Il valore, e con esso il senso del mondo, viene posto in una dimensione elevata e fuori dal mondo stesso. Ma, come si è appena accennato, ciò che non è dicibile non è, tuttavia, anche invivibile. Paradossalmente sono proprio questi gli aspetti che nell’esistenza di ciascuno contano davvero. L’uomo percepisce, sente e intuisce questi valori, ma non riesce a parlarne. Si deve allora tacere.
Decisiva è, a questo proposito, la posizione del filosofo nei confronti dello scetticismo il quale «non è inconfutabile, ma apertamente insensato» (TLP 6.51). E’ naturale che l’esperienza del meravigliarsi conduca l’uomo a volersi interrogare sul senso della vita, ma laddove non si può formulare una risposta non può nemmeno darsi una domanda né, di conseguenza, un dubbio. Il senso della vita, che il Wittgenstein dei Quaderni chiama «Dio», non troverà mai una spiegazione perché la nostra conoscenza è confinata a ciò che è finito, al mondo concreto e fattuale. E così come non si può parlare di etica non si può parlare nemmeno di Dio, in quanto anche la dimensione religiosa trova il suo posto nel trascendentale. Per Wittgenstein credere nell’esistenza di Dio equivale a «comprendere la questione del senso della vita»28; vedere che la vita possiede un senso. Tuttavia il problema sul senso del mondo, che «equivale a porsi domande sulle ragioni dell’esistenza del mondo nel suo complesso»29, è fuori dalla portata della scienza. Essa, difatti, fornendo spiegazioni su come il mondo è, è distaccata da tutto ciò che concerne la sfera del valore. Quando si pongono delle domande sul senso della vita non ci si chiede se uno stato di cose sussista oppure no. Conseguentemente, la consapevolezza che «la risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo» (TLP 6.4312) porta a pensare che molte questioni resteranno irrisolte. Questo suscita nell’individuo, come si è già fatto presente, un senso di insoddisfazione:
Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta. (TLP 6.52)
Dato che «se una domanda può porsi, può anche avere una risposta» (TLP 6.5) e che «le domande che possono essere formulate sensatamente sono soltanto quelle le cui risposte sono, con perfetta simmetria, suscettibili di espressione significante»30, ne consegue che il problema riguardante il senso della vita resta aperto come tanti alti problemi, «poiché nessuna descrizione di un fatto e, dunque, nessuna proposizione sensata, può rispondere»31. Il fatto che non ci siano più domande da porre è già di per sé una risposta: in questo risiede la conseguenza più significativa della teoria dell’immagine.
In ultima istanza, sul concludersi del Tractatus Wittgenstein ricorda come gli uomini che, dopo lunghe riflessioni, furono in grado di trovare la risposta alla questione sul senso della vita successivamente non furono capaci di trovare le giuste parole per comunicarla propriamente, dato che con «la risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso» (TLP 6.521). Ciò significa che il mistero concernente «il Mistico» svanisce nel momento in cui il soggetto non percepisce più l’esistenza come ricolma di problemi a cui dare urgente risposta. Concludendo, dal momento in cui per Wittgenstein la persona felice è colei capace di rinunciare ai piaceri del mondo, è possibile azzardare una estensione teorica: distaccarsi dal mondo e dai suoi piaceri garantisce non solo una vita serena, ma impedisce anche di struggersi nel tentativo di fornire una risposta ai dilemmi esistenziali che, per loro stessa natura, sono destinati a rimanere irrisolti.
3. La Conferenza sull’etica: meraviglia e totalità
Gli anni immediatamente successivi la pubblicazione del Tractatus logico-philosophicus sono segnati da un lungo silenzio; atteggiamento che segna l’inizio di una pausa di Wittgenstein dalla pratica filosofica. Questa interruzione è dovuta, molto probabilmente, al fatto che il filosofo austriaco pensò di aver dato risposta ai problemi fondamentali della filosofia (i quali altro non sono che problemi linguistici). Le stesse parole presenti nella Prefazione del Tractatus danno testimonianza di questo pensiero:
La verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile ed irreversibile. Io ritengo, dunque, d’avere definitivamente risolto nell’essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’essere questi problemi risolti.32
Tuttavia questo silenzio, durato all’incirca otto anni, viene a spezzarsi con la Conferenza sull’etica. Svoltasi a Cambridge presso un’associazione denominata «The Heretics», presumibilmente tra il 1929 e il 1930, la Conferenza consacra la ripresa di un’attività filosofica che non vedrà più pause. Il contributo di questo intervento pubblico è essenziale per l’approfondimento di alcune nozioni inerenti il discorso sull’etica e sui giudizi di valore assoluto. Per questa ragione l’esposizione non è immune dalle difficoltà: prima fra tutte, la natura dell’argomento affrontato.
Rifiutando la proposta di George Edward Moore, per il quale l’etica è una ricerca su cosa è bene, Wittgenstein propone un ampliamento concettuale: l’etica non riguarda soltanto il bene, ma ciò che ha importanza e significato nella vita. Lontano dal fornire teorie concernenti verità morali, il filosofo austriaco tenta di descrivere l’etica facendo principalmente uso di esempi pratici. Gli esempi, difatti, sono l’unico modo efficiente che egli possiede per esporre al meglio l’argomento posto in esame. Tuttavia, è bene sottolineare che le dimostrazioni a cui egli fa riferimento sono uno speciale tipo di esperienze, ossia a quelle che aspirano ad essere riconosciute come assolute: lo stupirsi per l’esistenza del creato, il sentirsi al sicuro (nelle braccia di Dio) e il sentirsi in colpa in maniera assoluta (in riferimento al peccato originale). Èinteressante inoltre notare come questi esempi etici siano espressi attraverso un linguaggio metaforico, quasi religioso. Un linguaggio che, tuttavia, viene tacciato di essere insensato dal filosofo stesso.
L’esperienza della meraviglia per l’esistenza del mondo veniva già accennata da Wittgenstein in alcune annotazioni dei Quaderni, ma nella Conferenza questo esempio viene ripreso per rendere meglio l’idea di valore assoluto. Lo stupore per la creazione del mondo, che Wittgenstein definisce «la mia esperienza per eccellenza»33, non è
qualcosa di straordinario, nel senso comune di questa parola; […] Meravigliarsi dell’esistenza del mondo non è meravigliarsi del fatto che il mondo sia in un modo piuttosto che in un altro; è meravigliarsi del fatto che in assoluto ci sia qualcosa - dove lo straordinario non è più significativo del banale e quotidiano.34
Questa esperienza è ciò che porta l’uomo a pensare quanto sia straordinario il fatto che ogni cosa esista, o meglio, che il mondo esista (nella sua totalità). È un sentimento di meraviglia non dettato da specifici fatti contingenti; non è stupore per il fatto che le cose stiano in un certo modo, ma per il fatto che esse siano e basta. Non a caso, Wittgenstein specificherà poco più avanti che l’espressione verbale «mi meraviglio per l’esistenza del mondo» non possiede un vero senso in quanto, in questa circostanza, si fa un cattivo uso del linguaggio. Queste riflessioni ricordano molto quelle riguardanti l’etica e l’estetica che troviamo nei Quaderni. Quest’ultime, nel pensiero di Wittgenstein, non devono venir intese come discipline o dottrine, ma come sentimenti. Sentimenti nati sì dal sentirsi in armonia con ciò che esiste, ma che hanno anche a che vedere con l’insoddisfazione della limitatezza conoscitiva dell’uomo: possiamo dire sensatamente, e conoscere, solamente ciò che riguarda il mondo nella sua effettività e contingenza. Per questa ragione, come viene anche riportato nel Tractatus, ci sono problemi specifici come quelli etici, religiosi ed esistenziali che non otterranno mai delle risposte; lo stesso porsi delle domande è sbagliato.
Al meravigliarsi dell’esistenza del mondo viene ad aggiungersi un’altra esperienza, ossia quella «di sentirsi assolutamente al sicuro»35. Con questa espressione, Wittgenstein si riferisce a quello «stato d’animo in cui si è portati a dire “Sono al sicuro, nulla può recarmi danno, qualsiasi cosa accada”»36. Anche questa asserzione deve intendersi in senso assoluto: niente può minacciare questo status di sicurezza. Ma, nuovamente, queste espressioni per Wittgenstein non possiedono un senso. Ci si può infatti meravigliare, ad esempio, per l’esistenza di una casa che, non avendo visto per tanto tempo, credevamo fosse stata demolita, ma il tipo di meraviglia di cui parla Wittgenstein è assoluto: meravigliarsi per l’esistenza del mondo o per l’esperienza di sentirsi al sicuro in maniera assoluta, infatti, riflettono una sorta necessità. Non a caso il filosofo, poco più avanti nel suo discorso, affermerà che «si potrebbe essere tentati di dire che mi sto meravigliando di una tautologia»37 in virtù del fatto che la forma degli enunciati che tentano di dar voce alle esperienze assolute è molto simile a quella delle tautologie. È possibile notare questa somiglianza linguistica guardando, ad esempio, all’asserzione tatuologica «p o non p»: essa risulta vera in ogni mondo possibile (dato che, secondo Wittgenstein, il mondo possiede una forma logica). Allo stesso modo, se si afferma che ci si meraviglia per il mondo, stiamo dicendo che lo facciamo in maniera assoluta, qualsiasi essa sia la sua configurazione. Sentirsi al sicuro (in particolar modo nelle mani di Dio) significa che, comunque stiano le cose e qualsiasi cosa accada, non può capitarmi niente.
A queste due esperienze appena menzionate se ne aggiunge, infine, una terza: l’esperienza di sentirsi assolutamente colpevoli (di fronte a Dio), qualsiasi cosa noi facciamo. Ma queste espressioni, come si è già menzionato, nascono da un cattivo uso del nostro linguaggio: chi tenta di parlare della meraviglia per l’esistenza del mondo, dell’assoluta sicurezza e dell’assoluto senso di colpa si propone di andare «al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante»38, e per questo precipita nel nonsenso. Ecco spiegato perché l’etica rappresenta un tentativo di dire qualcosa che, in realtà, non si può dire.
L’uomo ha l’impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio. Pensate per esempio alla meraviglia che qualcosa esista. La meraviglia non può essere espressa nella forma di una domanda, e non vi è neppure alcuna risposta. Tutto ciò che vorremmo dire può, a priori, essere solo nonsenso. Tuttavia, noi ci avventiamo contro i limiti del linguaggio. Questo urto l’ha visto anche Kierkegaard e l’ha scritto in modo del tutto analogo (come urto contro il paradosso). Quest’avventarsi contro i limiti è l’etica. Ritengo davvero importante por fine a tutte le chiacchiere sull’etica – se si sia una conoscenza, se si diano valori, se si possa definire il Bene, ecc.39
Il discorso sull’etica che troviamo nella Conferenza non deve essere, tuttavia, inteso come un controsenso di Wittgenstein. È importante notare, a questo proposito, cosa egli scrisse alla chiusura del Tractatus logico-philosophicus:
Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse - su esse - oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su essa.) Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo. (TLP 6.54)
Vedere «rettamente il mondo» fa riferimento al fatto che la filosofia, secondo Wittgenstein, non ha più il compito di fornire nuove conoscenze in forma proposizionale: da questo momento il suo dovere è quello di correggere gli errori di chi vuole varcare i limiti del senso, cosicché tutti i parlanti sono «costretti a restare entro quei limiti o a tacere, pena la caduta nell’assurdo»40. La nuova filosofia allora «delimiterà il pensabile e, con ciò, l’impensabile» (TLP 4.114), e l’invito (che è più che altro un imperativo) al silenzio posto alla fine del Tractatus porta con sé delle conseguenze importanti: molti problemi rimangono aperti. Ad esempio, come si è già fatto presente, non possiamo esprimerci sul senso del mondo e della vita. Chi «vede rettamente il mondo», attraverso quella scala che poi viene buttata, sa bene che parlare di problemi esistenziali, etici e religiosi «avrebbe solo l’effetto mistificante di conferire loro l’ingannevole apparenza di genuini problemi»41. L’insensatezza delle espressioni presenti nel Tractatus, esattamente come l’insensatezza delle espressioni di etica proposte nella Conferenza, è tuttavia differente dall’insensatezza della metafisica tanto criticata da Wittgenstein; esse difatti non vogliono fornire nessuna autentica conoscenza, ma suggeriscono una nuova prospettiva, un nuovo modo di intendere i limiti del linguaggio: solo a questo punto «la scala» potrà essere usata, per poi essere gettata. Nella Conferenza sull’etica Wittgenstein, nonostante parli di etica, è consapevole di ciò che può essere detto e ciò che, invece, nel linguaggio può solamente mostrarsi; si può dire il filosofo rispetti, dunque, il silenzio imposto alla fine del Tractatus logico-philosophicus.
Infine, per quanto concerne il concetto di «Mistico», che nella Conferenza non viene nominato, è possibile trovare un termine particolarmente somigliante, ossia quello di «miracolo». «Miracolo», nel linguaggio comune, è quell’evento a cui la scienza non ha ancora fornito una spiegazione (anche confutabile). Ma, dato che il miracolo a cui si riferisce Wittgenstein non è che un’esperienza totale e assoluta (non esistono fatti miracolosi in quanto tali), allora «tutto ciò che diciamo sul miracoloso assoluto rimane privo di senso»42.
E ora descriverò l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo, dicendo: è l’esperienza di vedere il mondo come un miracolo. Sono ora tentato di dire che l’espressione giusta nella lingua per il miracolo dell’esistenza del mondo, benché non sia alcuna proposizione nella lingua, è l’esistenza del linguaggio stesso.43
Essere consapevoli di questo miracolo significa sapere che quando siamo tentati ad attribuire a determinate esperienze un valore assoluto si cade nell’insensato. Tuttavia, pur essendo per Wittgenstein ogni discorso teorico sulla morale inutile e infondato, egli non può negare che l’uomo ha comunque esperienza di una dimensione trascendentale. Nella Conferenza viene ribadito il fatto che l’etica non può trovare una espressione sensata, che non può formularsi. Ma, come viene riportato nel Tractatus logico-philosophicus, il «Mistico» si mostra, manifestando sé stesso nel linguaggio. L’esperienza mistica si lega al sentimento etico, estetico e religioso che ogni individuo sperimenta in sé e, malgrado questo inevitabile scontro col nonsenso, essa riesce a trovare la sua espressione nell’atteggiamento che ogni uomo sceglie di adottare confronti della vita. La verità etica, allora, non starà alla base di nessuna teoria morale, ma si mostrerà nel suo essere vissuta: nelle molteplici visioni del mondo e nelle scelte che contraddistinguono l’esistenza di ognuno.
4. Conclusione
L’impossibilità di poter parlare di etica rimane, come si è visto, un presupposto fondamentale, sia nel Tractatus che nella Conferenza sull’etica. Tuttavia, nell’intervento pubblico (pur mantenendo pressoché invariato lo schema nozionistico della sua prima opera), Wittgenstein sembra voler lasciare per un attimo da parte le argomentazioni di logica per porre principalmente l’attenzione sul contesto nel quale si fa uso delle espressioni etiche (o sul «bene assoluto»). Queste, infatti, nonostante la loro insensatezza, divengono una testimonianza espressiva di un sentimento, tant’è vero che la maggior parte del contenuto di questa conferenza si concentra sullo «stupore». Vengono proposti tre esempi etici, riconducibili a tre esperienze differenti: il meravigliarsi per l’esistenza del mondo (nella sua totalità), il sentirsi assolutamente al sicuro e assolutamente colpevoli. Queste tre situazioni non possono semplicemente fungere da esempi per sottolineare quanto sia infondato ogni discorso sull’etica o sul valore in generale, ma esprimono qualcos’altro: esse sono la testimonianza della capacità di intrattenere un rapporto assoluto col mondo e di una tendenza imprescindibile dell’animo umano, ossia quella «di avventarsi contro i limiti del linguaggio»44. «Un avventarsi» che Wittgenstein descrive come «perfettamente, assolutamente disperato» e che non vorrebbe «davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo»45. La Conferenza sull’etica, dunque, non poteva limitarsi a ribadire semplicemente le posizioni già esposte del Tractatus, ossia che la sfera del valore assoluto non può formularsi. Al contrario, la tesi secondo la quale il linguaggio possiede la sola funzione referenziale, già dalla Conferenza, sembra iniziare a mostrare i primi segni di cedimento.
È noto, infatti, come il filosofo austriaco nella sua attività più matura, spostando l’attenzione al linguaggio ordinario, rinnegherà il principio secondo il quale esiste un solo linguaggio per accedere al mondo. E, pur continuando a considerare la filosofia come un’attività, Wittgenstein si ritroverà costretto a sconfessare parte delle idee contenute nel Tractatus. Conferendo maggiore importanza ai contesti e all’uso delle parole, e superando quella concezione generalizzante secondo la quale il linguaggio svolge la sola funzione denominativa - raffigurativa, il secondo Wittgenstein vedrà nel linguaggio quella «forma di vita» capace di molteplici funzioni; e il descrivere i fatti del mondo sarà soltanto uno degli innumerevoli «giochi linguistici».
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Ludwig Wittgenstein*, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916*, a cura di Amedeo G. Conte, 2° edizione, Einaudi, Torino (2009). ↩︎
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Paquale Frascolla, Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein. Introduzione alla lettura, 1° edizione, Carocci editore, Roma (2006), p. 279. ↩︎
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L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in op. cit., p. 106. ↩︎
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P. Frascolla, Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, in op. cit., p. 279. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Howard O. Mounce, Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, traduzione di M. Andronico, 1° edizione, Marietti, Genova (2000), p. 109. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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L. Wittgenstein*, Tractatus logico-philosophicus*, in op. cit., p. 229. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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P. Frascolla, Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, op. cit., p. 280. ↩︎
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Ludwig Wittgenstein, Conferenza sull’etica, in Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di M. Ranchetti, Milano, 12° ed., Adelphi (1976), p. 24. ↩︎
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Ludwig Wittgenstein*, Tractatus logico-philosophicus*, op. cit., pp. 223-224. ↩︎
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P. Frascolla, Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, op. cit., p. 282. ↩︎
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H.O. Mounce, Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, op. cit., p. 109. ↩︎
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L. Wittgenstein, Conferenza sull’etica, in Lezioni e conversazioni sull’etica, op. cit., p. 33. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Pasquale Frascolla, Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, op. cit., p. 282. ↩︎
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Ludwig Wittgenstein*, Tractatus logico-philosophicus*, op. cit., pp. 234-235. ↩︎
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Ivi, p. 217. ↩︎
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Frascolla, Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, op. cit., p. 283. ↩︎
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H.O. Mounce, Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, op. cit., p. 110. ↩︎
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Ivi, p. 111. ↩︎
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Ludwig Wittgenstein*, Tractatus logico-philosophicus,* op. cit., p. 18. ↩︎
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Ibidem.. ↩︎
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L. Wittgenstein, Conferenza sull’etica, op. cit., p. 18. ↩︎
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L. Wittgenstein*, Tractatus logico-philosophicus,* op. cit., pp. 190-191. ↩︎
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Ivi, p. 234. ↩︎
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Ivi, p. 218. ↩︎
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P. Frascolla, Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, op. cit., p. 284. ↩︎
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P. Frascolla, Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, op. cit., p. 284. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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L. Wittgenstein*, Tractatus logico-philosophicus,* op. cit., p. 24. ↩︎
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L. Wittgenstein, Conferenza sull’etica, op. cit., p. 12. ↩︎
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H.O. Mounce, Introduzione al «Tractatus» di Wittgenstein, op. cit., p. 114. ↩︎
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L. Wittgenstein, Conferenza sull’etica, op. cit., p. 13. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 14. ↩︎
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Ivi, p. 18. ↩︎
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Ivi, pp. 23-24. ↩︎
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P. Frascolla, Il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein, op. cit., p. 297. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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L. Wittgenstein, Conferenza sull’etica, op. cit., 17. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 18. ↩︎
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Ivi, p. 19. ↩︎