1. Appunti metodologici
La ricerca delle suggestioni provenienti a Levinas dall’ebraismo esegetico, talmudico e post-talmudico, non può certo dirsi di tipo «dimostrativo». È mia convinzione che la ricchezza semantica dei testi della tradizione ebraica costituisca una «fonte» alla quale non si attingerà mai abbastanza nell’individuazione dei punti di riferimento non ancora esplicitati dell’ispirazione levinasiana, ma non disponiamo a tale riguardo di attestazioni storiografiche che si riferiscano alle particolarissime fonti che tratterò, se non talmente deboli o generiche da valere semplicemente come indizi e non come «prove».
I prossimi paragrafi avranno come riferimento primo il substrato che precede — e insieme accompagna — l’accoglimento del materiale testuale, il piano di sfondo che ha prodotto le fonti stesse per come la critica le considera, e che vive e si ripropone nei testi e nella cultura che reggono la vita religiosa del popolo del Libro.
Certo, sarà un percorso che a tratti coinvolgerà le opere d’ispirazione e di sollecito del pensiero levinasiano nella maniera più classica del confronto stilistico e contenutistico, ma senza perdere di vista la radice prima della composizione scritturale ebraica: affrontare e vivere interpretativamente la parola e il reale.
E riguardo all’intimo legame tra testo, modalità genetiche del testo stesso e creazione filosofica, poco è permesso di cercare nella direzione della «verifica» storiografica. Nessuna intervista, o nessuno scritto autobiografico, ci restituisce la certezza che una tal nozione derivi, o sia condizionata nei suoi caratteri definitori, dal particolare modo «ebraico» di pensare il termine biblico o post-biblico che più gli assomiglia concettualmente (o sotto altri rispetti), ma che può non essere in sé né filosofico né teologico.
L’intento che mi propongo è dunque di verificare secondo quali modalità e obiettivi determinate unità semantiche subiscano, all’interno del pensiero levinasiano, delle trasformazioni in direzione critico-teorica, e di determinare quali nuclei fondamentali permangano all’interno di una globalità concettuale configurata ormai in veste spiccatamente filosofica.
Le modalità attraverso cui mi accingo a rinvenire e valutare tali elementi, sono fondamentalmente estranee allo stile critico che ha caratterizzato finora i commenti e le analisi riguardanti il pensiero di Levinas, e si indirizzano ad un piano d’indagine che è di rado frequentato dalla critica filosofica. Ma credo che il tentativo interpretativo che propongo possa essere sostenuto da corrette verifiche testuali e da opportune valutazioni critiche. Non perderò comunque di vista la razionalità filosofica che conduce Levinas in ogni sua espressione teoretica, né l’esigenza dell’autore di tener viva l’appartenenza al contesto culturale all’interno del quale si esprime e al quale, soprattutto, si rivolge.
2. Esistenza senza evento. Paradosso e metafora
L’opera da cui muoveremo per inoltrarci all’interno del percorso critico del quale ho appena tracciato il metodo è De l’existence à l’existant, prima opera interamente «propositiva» di Levinas. Soddisfa appieno i requisiti dello scritto filosofico-critico, e per quanto — per intenti e bagaglio terminologico — sia rivolta alle tematiche fenomenologico-esistenziali dalle quali trae alimento e si sviluppa, tuttavia, ritengo che sia possibile tentare di rintracciare all’interno di quest’opera dal linguaggio «occidentale», tracce di quello sfondo culturale che, pur rendendosi più evidente nella produzione più matura, sottende al pensiero levinasiano fin dagli esordi.
In particolare, applico l’indagine semantica al concetto cardine di De l’existence à l’existant, che in francese è indicato dall’espressione il y a, e che rivelerà, a seguito delle nostre verifiche, un contributo alla sua formazione che ne mitiga fortemente la filiazione dal dialogo con l’ontologia occidentale — heideggeriana in particolare — individuata dalla totalità della storiografia come principale referente.
Lo stesso Levinas non può fare a meno di convogliare la nozione di il y a all’interno di un’intenzione polemica che coinvolge l’intero percorso ontologico compiuto dalla Filosofia e di far riferimento, coerentemente alla linea anti-heideggeriana dichiarata in De l’existence à l’existant, al simile es gibt di Sein und Zeit. Occorre però non sovrapporre — attraverso un’ottica identificatrice — le finalità e le modalità d’utilizzo del concetto di il y a, con le matrici genetiche che hanno contribuito alla sua formazione. Per fare chiarezza sulla complessa concettualità che sostiene la definizione dell’il y a, è bene rivolgersi direttamente al testo levinasiano.
L’estremizzazione dei toni relativi al peso ontologico, all’egemonia opprimente dell’essere sul soggetto,1 caratterizza la produzione del 1946-7, biennio che vede la genesi di De l’existence à l’existant e Le Temps et l’Autre. Si fanno più evidenti, rispetto alle opere precedenti, le prese di posizione originali e si accentua il tono polemico nei confronti dei maestri tedeschi Husserl e Heidegger.2
De l’existence à l’existant eredita dallo scritto del ’35, De l’évasion, principalmente il tema dell’uscita dall’essere (ora estremizzato e ricondotto alle radici del discorso ontologico sull’il y a) e la sovrapposizione dei piani fenomenologico e teoretico nell’andamento espositivo.
Levinas, fin dall’Introduction dichiara che De l’existence à l’existant,
tenta di avvicinarsi all’idea dell’essere in generale nella sua impersonalità per analizzare poi la nozione di presente e la posizione in cui sorge, all’interno dell’essere impersonale, come per effetto di un’ipostasi, un essere, un soggetto, un esistente (EE 18).3
Permane in De l’existence à l’existant un’intenzione fenomenologica purificata, rivisitata, dalle critiche mosse ad Husserl negli scritti degli anni trenta. La via fenomenologica viene adesso utilizzata — nella consapevolezza di un pensiero filosofico autenticamente originale — per produrre una tematizzazione, già tentata in De l’évasion, delle fondamentali determinazioni esistenziali.
La ricerca del concreto di matrice husserliana e la necessità di ripensare il rapporto essere-tempo secondo prospettive che non possono più presentarsi come pre-heideggeriane, danno luogo ad un’indagine esistenziale che richiede una nozione di essere alternativa, legata ad un’esigenza di distacco dall’impostazione ontologica quale la si rinviene in Sein und Zeit.
Il cuore teoretico dell’inversione della differenza ontologica è l’il y a, l’essere privato di ogni determinazione, anonimo ed impersonale. Da esso si distacca — secondo una modalità soltanto apparentemente «temporale» — il soggetto, l’ipostasi.
La nozione di il y a è sì molto simile ad un risultato d’epoché, ma il suo estremo non è un ideale, ma un esistenziale. Non soltanto il principio dell’indagine fenomenologica è esperenziale, lo è anche il suo prodotto.4
Là dove il gioco incessante delle nostre relazioni con il mondo è interrotto, non si incontra, come a torto si potrebbe pensare, né la morte, né «l’io puro», ma il fatto anonimo dell’essere. La relazione con il mondo non è sinonimo dell’esistenza. Quest’ultima è anteriore al mondo. […] parlare di relazione, in questo caso, non è appropriato. Presuppone dei termini, e quindi dei sostantivi. E li presuppone coordinati ma anche indipendenti. La relazione con l’essere le assomiglia solo in modo molto vago. È una relazione per analogia. Infatti, l’essere verso il quale la scomparsa del mondo ci rende vigili non e né una persona, né una cosa, né la totalità delle persone e delle cose. È invece, il fatto che si è, il fatto che il y a. […] è già esistendo che [colui che è] assume proprio questa esistenza. Ma nonostante ciò, è vero che, nel fatto d’esistere […] si compie un evento diverso e preliminare di partecipazione all’esistenza, un evento di nascita (EE 26).
L’il y a, nel quale «si trovano ad essere confuse l’esistenza soggettiva di cui parla la filosofia esistenziale e l’esistenza oggettiva del vecchio idealismo» (EE 20-21), opprime e costringe in una «morsa soffocante come la notte». La sensazione che ne deriva «È il mal d’essere» (EE 28).
Levinas propone, attraverso questa nuova nozione di essere al neutro, una distinzione tra ciò che esiste ed esistenza, che trova fondamento nell’al di qua dalla separazione alternativa tra essere e nulla.
«L’il y a nous tient totalement» (EE 21). E questo possesso non diviene per il soggetto angoscia di fronte al nulla della morte, ma orrore dinanzi alla presenza assoluta dell’essere impersonale privo di ogni determinazione.
È del tutto originale la dialettica tra stasi e dinamicità, tra eternità, tempo e istante che sta alla base del rapporto tra il y a e ipostasi. Una dialettica che costituisce la condizione imprescindibile dell’indagine teoretica, e che è tale già dall’Introduzione ai termini stessi del problema filosofico affrontato da De l’existence à l’existant:
La difficoltà di separare essere ed «essente» e la tendenza a considerarli l’uno nell’altro, non sono di certo casuali. Derivano dall’abitudine di situare l’istante, atomo del tempo, al di là di ogni evento. La relazione tra «essente» e «essere» non pone in relazione due termini indipendenti. L’«essente» ha già fatto un patto con l’essere; non lo si può isolare. Esso è. Esercita già sull’essere lo stesso dominio che il soggetto esercita sull’attributo. E lo esercita in quell’istante che, per l’analisi fenomenologica, è indivisibile [indécomposable] (EE 16).
L’istante al quale Levinas si riferisce in queste righe non costituisce il tempo nel quale si realizza il cominciamento, in cui trova spazio l’inizio dell’esistente. La prospettiva dalla quale si pone l’autore oltrepassa la posizione della localizzazione cronologica e del dimensionamento temporale.
Continua Levinas nell’Introduction:
Ci si può chiedere se questa aderenza tra l’«essente» e l’essere sia semplicemente data nell’istante, e se non sia invece realizzata mediante lo stare [la stance] stesso dell’istante; se l’istante non sia l’evento stesso attraverso il quale nell’atto puro, nel puro verbo essere, nell’essere in generale, si pone un «essente», un sostantivo che se ne rende padrone; se l’istante non sia la «polarizzazione» dell’essere in generale. Il cominciamento, l’origine, la nascita, offrono proprio una dialettica in cui questo evento in seno all’istante diviene sensibile. […] L’istante non è un blocco, è articolato. È grazie a questa articolazione che si differenzia dall’eterno che è semplice e estraneo all’evento (EE 16-17).
Evento ed eterno si differenziano in virtù della capacità del primo — della quale è priva la dimensione dell’eternità — di «articolarsi», ovvero di accogliere in sé un’attività d’essere. Quest’ultima è intesa quale atto peculiare della creatura (ipostasi) sorta nella passività. L’istante impone — nella sua determinazione di evento — al soggetto sorto nell’istante stesso, di esercitare la propria «padronanza» sull’essere.
Tale costituzione del soggetto — insieme attiva e passiva — riflette il carattere stesso del cominciamento, il quale
non solo è, ma si possiede attraverso un ritorno su se stesso. Mentre si dirige verso la propria meta, contemporaneamente, il movimento dell’atto si ricurva verso il proprio punto di partenza; proprio per questo mentre è, si possiede. […] Il suo essere si sdoppia in un avere che al tempo stesso è posseduto e possiede. Il cominciamento dell’atto è già un’appartenenza e una cura di ciò a cui esso appartiene e di ciò che gli appartiene. In quanto si appartiene può conservarsi, trasformarsi esso stesso in un sostantivo, in un essere (EE 35-36).
La tangenza tra essente ed essere non si dà nell’istante, ma è lo stare dell’istante stesso. Esso non è evento all’interno del tempo infinito: nell’eternità non se ne produce alcuno, al modo in cui senza istante non ha luogo, nell’essere indefinito (indeterminato e senza accadimento come il tempo eterno) la concretizzazione, l’ipostatizzazione del soggetto.
Che l’istante possa essere definito come polarizzazione dell’essere in generale, non significa che l’evento che esso stesso costituisce ne derivi o ne venga prodotto. L’agente che è l’istante, al di là dell’essere stesso — inteso nella sua generalità —, deve a sé la polarizzazione dalla quale scaturisce, e non ad una contrazione, o ad una delimitazione, compiuta dall’essere impersonale.
L’istante realizza — transitivamente — «l’aderenza tra l’essente e l’essere», ma è una realizzazione che non va interpretata quale produzione oggettuale. La genesi dell’esistente avviene sia nel (all’interno del) presente che col presente. La realizzazione alla quale Levinas si riferisce è la «determinazione d’esistenza» effettuata in un presente capace di dare e possedere l’esistente stesso.
Dunque, la realizzazione è sia un compimento di che un’attribuzione di realtà a. La «semplicità» dell’eterno — identificata con la sua estraneità all’evento — ha il significato della incapacità ad assumere in sé la duplice valenza posseduta dall’istante: quest’ultimo può insieme costituire in sé e generare l’evento, «essere atto» e «stare» dando luogo all’esistente.5
Ecco allora che il verbo porre viene a perdere la carica oggettivante posseduta nell’idealismo per assumere il significato di produzione di un evento, l’effetto della cui «polarizzazione» non è da concepire come causato, ma come indistinguibile dalla sua sorgente.
Questo il sorgere dell’ipostasi dall’il y a nella sua difficoltà di venire da sé e insieme di procedere dall’essere impersonale, di prendere esistenza in quell’istante che non è ancora una determinazione temporale e nel farsi strada verso la coscienzialità con il peso ontologico sulle spalle. Il linguaggio di Levinas — lo abbiamo visto — è «difficile», intriso com’è di termini fenomenologici e insieme di concetti lontani tanto dalla fenomenologia quanto dal pensiero più autenticamente heideggeriano. È un dire filosofico complesso, che concretizza spesso in immagini o metafore quel che è impossibile comunicare nella lingua della filosofia senza che ne risulti una concettualità in sé contraddittoria, o senza che venga comunicata un’idea talmente rarefatta nei suoi contorni da sembrare più inafferrabile che nella sua espressione figurale.
Torniamo all’il y a. Cosa indicano, al di qua del soggetto ipostatico, le metafore visive che ci indirizzano al c’è?
La notte e l’indistinzione oggettuale che segnalano l’il y a sono antecedenti alla comparsa del «protagonista», l’ipostasi. È allora lecito chiedersi «che cosa è l’il y a»? Si può essere spettatori di quel che ci precede? Si, se siamo spettatori esistenziali: conosciamo l’il y a perché in qualche maniera, o in una certa misura, lo sperimentiamo.
Le «tracce» del nostro incontro o della nostra provenienza dall’il y a sono la pigrizia, lo sforzo, l’insonnia. Ovvero i sintomi della mescolanza dell’indole dinamica dell’io coscienziale con qualcosa di assolutamente immobile, indistinto e amorfo. L’il y a non è dotabile di definizione, appunto perché niente è in esso distinguibile. Immobilità e privazione di eventi. Stasi eppure esistenza.
Il paradosso di un’immobile permanenza d’essere, a fronte di una vitalità generata al suo interno, rappresenta la via per una comprensione non razionale, direi anzi istintuale, di quel che l’il y a costituisce nel pensiero levinasiano. È la necessità di scontrarsi con la difficoltà della comunicazione di un paradosso, che induce, quasi costringe, Levinas a ricorrere alle metafore uditive o visive.
Quel che c’è, che è esistenza senza evento, e che è tuttavia lontano dall’essere immobile dell’Ontologia quale classicamente lo conosciamo, rappresenta senza dubbio un paradosso tale da richiedere al linguaggio un nuovo termine che non sia esistenza o essere, e che insieme li contenga e li superi entrambi. Bisogna trovare il modo di dire che qualcosa c’è, ma cheè privo di determinazioni, che non è ancora qualcosa eppure — appunto — c’è. Serve un verbo… anzi non proprio un verbo, perché questo qualcosa che è non diviene. E non basta un nome, un sostantivo, perché questo «essere» è pur talmente assoluto e pesante che riesce a schiacciare l’agitarsi ipostatico, ed è tanto ingombrante da costituire un ostacolo tenace alla liberazione del soggetto.
Non siamo di fronte al fondo oscuro che sempre ci appartiene, al negativo che fa da contraltare all’esistere quotidiano. L’il y a è di più. La sua attività è solo implicita, tanto da apparire inespressa, è più «incombente» che effettivamente attualizzata. Il potere che deriva all’il y a dal suo stesso modo d’essere è il potere paralizzante della notte, non l’abisso della privazione d’essere, ma la presenza dell’oscurità che rende più angoscioso — esattamente «terribile» — il vuoto che è lì fuori dalla nicchia nella quale troviamo riparo. Notte non è che il nome trovato a quell’insieme di assenze, dalla luce alla vitalità, in cui nulla accade.
Abbiamo visto dunque come l’il y a entri a pieno titolo nel complesso dei termini che segnano, in Levinas, la contrapposizione ai fondamenti teorico-ontologici della Filosofia della Totalità: quanto di provenienza ebraica è presente nella forza mostrata da questo termine nel gioco demolitore dell’«essere occidentale»? Quanto ha contribuito l’esser ebreo di Levinas nel fargli «trovare» il termine che mancava, corrispondente a una nozione tanto distante da un verbo quanto da un nome. È servita l’esperienza di studioso talmudista?
3. La verbalità e l’essere nell’ebraico biblico
La verifica richiede, innanzitutto, un’analisi della natura della verbalità ebraica, costitutivamente differente da quella appartenente al nostro pensare «greco», e la cui peculiarità si riflette esemplarmente nelle forme del verbo essere. Trascuro qui il percorso filosofico ebraico che molto risente dell’influenza di questo particolare intendimento dell’essere, sia che lo consideriamo come verbo, sia che lo pensiamo ontologicamente. Un approfondimento simile ci condurrebbe molto lontano, e già le premesse fatte premono perché trattiamo l’argomento nella sua centralità. Tratteggio dunque quasi subito, dopo qualche accenno al verbo essere nella lingua ebraica, lo statuto terminologico dell’espressione yeš (c’è).
In via preliminare va chiarito come nella lingua dei Testi Sacri il verbo differisca da quello che caratterizza le lingue indœuropee. Difatti, esso deficia sia dei modi che dei tempi quali noi li concepiamo.6 Il verbo ebraico denota, fondamentalmente, la completezza o incompletezza dell’azione. Queste due caratteristiche vengono espresse, rispettivamente, dal perfetto e dall’imperfetto, i quali, possedendo principalmente tale carattere denotativo, mostrano soltanto secondariamente il proprio valore temporale. L’uso del participio, dell’infinito e dell’imperativo è simile a quello delle nostre lingue classiche.
Il verbo mira soprattutto ad indicare la qualità dell’azione. Quest’ultima si esprime attraverso sette differenti forme verbali che ne segnalano, ad esempio, la passività, l’intensità o la forza causativa.
Vale la pena di specificare che l’analisi della struttura testuale dell’ebraico biblico operata dalla storiografia critica ha spesso condotto a quelli che il Barr definisce i luoghi comuni della linguistica ebraica:7 la natura «dinamica» dell’ebraico, la centralità del verbo nell’espressione, il fondamentale contrasto tra una costitutiva predominanza del senso del movimento (anche in forme verbali che letteralmente indicano stasi) a fronte di un opposto pensiero «armonico», che apparterrebbe, invece, alla cultura greca.8 Tali aspetti non sarebbero in realtà talmente preponderanti da farne dei principi assoluti da applicare al mondo linguistico ebraico in maniera radicale.
La questione rilevante è se sia fondato il presupposto secondo il quale è «assolutamente certo che le lingue sono espressione del pensiero caratteristico dei popoli».9
È ad esempio convinzione di Boman che sia una peculiarità della lingua ebraica la caratteristica del verbo di esprimere sempre una qualche forma di movimento.10 L’attività sarebbe significata dal verbo anche quando questo indica uno stato d’immobilità o di quiete. Boman ne deduce che, all’interno della cultura rispecchiata dalla lingua semitica, la relazione tra quiete e movimento è intesa in maniera profondamente differente da quella espressa dalle lingue indœuropee: non esiste soggetto che sia del tutto privo di movimento. Anzi, «per gli ebrei un essere assolutamente privo di movimento è nulla; […] solo quell’essere che sia in intimo legame con qualcosa di attivo, con qualche cosa in movimento è per loro reale».11
Contro questa direzione interpretativa — secondo la quale nella mentalità ebraica «perfino il pensiero riguardante ciò che è immutabile era profondamente impregnato dal pensiero riguardante l’azione dinamica»12 — Barr definisce illegittima l’opposizione fra «il fatto linguistico del verbo ebraico che può indicare lo stato e/o il movimento e il fatto di natura logica o psicologica che noi facciamo fra le due categorie dello stato e del movimento».13 Inoltre, le sovrapposizioni semantiche tra stasi e attività sono presenti anche in altre lingue, per esempio nell’inglese, senza che la distinzione logica ne sia per questo indebolita.14
Ecco un esempio scelto dal Barr sulla base di un verbo (yašab: stare seduto, sedersi) eletto dal Boman a centro dimostrativo della propria teoria: allorché Dio viene definito come «yošeb hak-kerubim», ossia «seduto sui cherubini», il senso del verbo non possiede alcunché di dinamico: precisa Barr, Dio né «si sedeva», né «prendeva posto».
Ciò ci mostra che la possibilità di usare lo stesso verbo per indicare significati differenti «non costituisce alcuna prova che la mentalità ebraica fosse incapace di distinguere in qualche modo questi significati e che, di conseguenza, abbia un qualche valore il fatto che lo stesso verbo venga usato ad indicare sia lo stato che il movimento».15 Dunque, dedurre l’incapacità di pensare un essere assolutamente privo di movimento dall’utilizzo, nella lingua comune, di forme verbali di ambigua espressione semantica, significa effettuare una forzatura ed introdurre una categoria filosofica nell’ambito di un’indagine linguistica.
La questione è ulteriormente complicata dalla suddivisione, nella lingua ebraica, tra verbi stativi e verbi attivi. I primi segnalano uno stato (e non una passività), i secondi indicano un’azione, una mutazione, un evento.
Conformemente alle proprie posizioni critiche, Barr e Boman interpretano questa caratteristica in maniera opposta: per il primo la distinzione è grammatico-morfologica, per il secondo concettuale.
Ma quest’ultima differenziazione non è intesa nel senso classico al quale ci siamo riferiti poco sopra: il Boman effettua addirittura un capovolgimento delle caratteristiche distintive tra verbi stativi e verbi attivi. L’azione indicata dai verbi stativi non è «statica». È anzi una permanenza d’attività, uno stato di continuo divenire. Si tratta di un’attività «interna» al soggetto, potremmo dire «non operativa», ma comunque dinamica.
Ho ritenuto opportuno riportare, nei termini essenziali, la polemica Barr-Boman per mostrare, in maniera esemplificativa, attraverso quali presupposti teorici si possa affrontare la questione dell’essere — e del suo corrispettivo verbale — all’interno del linguaggio biblico.
Il Boman appartiene al complesso della teologia biblica moderna che considera il pensiero ebraico incapace di sviluppare e possedere un concetto di essere distinguibile da «questo qualcosa che esiste», ovvero di concepire l’astratto corrispettivo dell’esistente. Questo giudizio si basa, oltre che su indagini contenutistiche, sulla mancanza nella lingua di un termine che indichi, appunto, l’essere distinto da ciò che esiste.
Hâyâh è il verbo che più è simile al nostro essere. Non siamo però in presenza di una piena identificazione semantica: hâyâh viene utilizzato molto raramente come copula, più frequentemente significa «accadere», «divenire». In più, in ebraico, l’uso della frase nominale fa sì che non si ricorra alla copula, e dunque a una forma del verbo essere, per porre in relazione soggetto e predicato.16
Quanto esposto finora, riguardo alle diverse modalità di interpretazione del verbo ebraico e alle caratteristiche di hâyâh, ci è utile per poter meglio comprendere il nucleo di interesse principale, la particella yeš con le sue particolarità semantiche, termine ebraico che permette di impiantare un approfondimento di ricerca riguardo al discorso «ontologico» di De l’existence à l’existant.
4. L’il y a letto alla luce delle potenzialità semantiche di yeš. Impersonalità e a-verbalità
Quelle che da un punto di vista «occidentale» potrebbero essere definite le deficienze del verbo essere (es. la rarità nell’espressione della copula), vengono supportate, all’interno del sistema linguistico ebraico, dall’uso preponderante delle frasi nominali e dalle particelle yeš e ’ain (o ’ìn).
L’espressione indeclinabile yeš, che ha il significato di c’è,17 è di difficile definizione: «certamente non è un verbo, ha alcune caratteristiche del nome e può essere resa in una traduzione estremamente letterale con ‘essere’, ‘esistenza’».18 Nel linguaggio concreto, il significato più frequente è quello espresso da frasi del tipo «c’è un Dio in cielo»",19 nelle quali indica un’«esistenza di», un «esserci» ma anche un «essere presente» nel senso opposto all’espressione «essere assente».
Può segnalare anche la semplice localizzazione, come in «c’è un piatto sulla tavola»20 o — quest’esempio appartiene al Barr come i precedenti — «in questo luogo c’è Yahweh».21 Le frasi che ho appena riportato non permettono la traduzione di yeš con «esiste», come invece accade in «c’è un Dio in cielo», proposizione in cui è evidente l’indicazione di esistenza.22
Ora, se la particella yeš non è esattamente un’espressione verbale, né tantomeno un sostantivo, né un avverbio di luogo, è perché riunisce in sé le sfumature appartenenti a tutte queste componenti grammaticali. Indica un’«esistenza di» senza che questa esistenza possa essere identificata con la forma d’essere espressa dal verbo, e il cui corrispondente negativo ’ain ha il significato di «non esiste».
L’indeclinabilità e l’invariabilità di yeš possono autorizzarne una lettura in chiave impersonale e, contemporaneamente, «esistenziale» come accade nel caso dell’il y a levinasiano? Credo di sì. Ed ecco di seguito le motivazioni per le quali propendo per una soluzione affermativa.
È vero che una corretta analisi semantica di yeš deve tener presente la sua distanza dalla verbalità vera e propria. E tuttavia è pur vero che la traduzione con c’è, alla quale siamo costretti per approssimarci il più possibile al concetto che yeš indica in ebraico, esprime palesemente la componente verbale. D’altronde, l’uso che ne viene fatto all’interno del Testo Biblico non può non imporre una traduzione siffatta.
Quali implicazioni comporta, a livello concettuale ed in relazione alle problematiche già esposte relative al rapporto verbalità-essere, questa intersecazione tra espressione d’esistenza e non-verbalità nella particella yeš?
Il fatto che esista una comune parola ebraica per «c’è», e che, anche se non è proprio un nome, tuttavia non è nemmeno con ogni certezza un «verbo dinamico», dovrebbe costituire una seria difficoltà per coloro i quali hanno pensato, fondandosi sul primato e sul dinamismo del verbo nella lingua ebraica a un senso dinamico dell’«essere» presso gli Ebrei; e quelli che così pensano hanno, comunque, l’obbligo di prendere debitamente nota dell’esistenza di questa parola.23
Non ritengo opportuna l’estremizzazione che afferma «che il problema se gli Ebrei avessero il senso di un ‘puro’ essere come distinto dall’esistenza attiva, non ha niente a che vedere col problema se la loro lingua abbia o meno le parole per poter esprimere questo ‘puro’ essere!».24 Ma, tuttavia, segnalo — pur con cautela — la posizione critica per la quale non esistono fondate motivazioni per affermare che dalla sfera semantica di yeš si debba escludere il significato di «esistenza».25
Nei contesti frasali in cui non viene indicata da yeš alcuna affermazione di esistenza, ciò avviene in virtù dell’originale elemento dimostrativo che inerisce geneticamente alla particella, e che «rende naturalissima la sua connessione con determinazioni locali».26
Se «non esiste alcun motivo linguisticamente valido perché esse [yeš e ’ain] non dovrebbero avvicinarsi ad indicare l’esistenza e la non esistenza assolute almeno in certi contesti»,27 risulta una sorta di ambiguità semantica per la quale un non-verbo esprime un’esistenza che «si trova» e, contemporaneamente, «è». Ma trovarsi ed essere, come esistere, sono nella nostra lingua delle forme verbali, e non delle particelle indeclinabili. Una volta effettuata la traduzione dalla lingua biblica, l’ambiguità alla quale abbiamo fatto cenno sparisce e la peculiarità del testo ebraico diviene invisibile.
È il caso di notare poi come, in virtù dell’indeclinabilità della particella, non si possa attribuire ad essa quel dinamismo che frequentemente — come abbiamo avuto modo di verificare — si attribuisce alle forme verbali ebraiche anche qualora queste appartengano alla forma «stativa».
In sintesi, per affermare che qualcosa «c’è», o «esiste», l’ebraico non ricorre ad un verbo, ma ad un’espressione la cui verbalità (ma non dinamicità) è soltanto implicita.
Siamo in presenza, dunque, di un’affermazione d’esistenza privata della verbalità attribuibile a ciò di cui si sta predicando l’esistenza. Contemporaneamente, yeš possiede una marcata componente «locale». Ecco allora le sfumature semantiche di yeš: esiste, esiste qui, si trova, è presente, c’è. Quest’ultima espressione comprende, sinonimicamente, tutte le altre.
Yeš non coniuga un esistente, né unisce un soggetto ad un predicato. Ciò perché in nessun caso la particella si utilizza direttamente in riferimento ad una modificazione del soggetto o per indicare un mutamento di luogo o di stato.
L’esser-ci indicato da yeš convoglia la sfumatura semantica della localizzazione nel senso dello stare-esistere, ma senza che tale essere o esistere ne significhi una qual forma di divenire o di trasformazione. Non a caso ho utilizzato la polemica di Barr contro Boman per incanalare un dibattito di stampo prevalentemente linguistico all’interno di una più ampia riflessione sulla presunta, ineliminabile, componete «dinamica» della verbalità ebraica. La disputa fa sorgere il dubbio che l’affermazione di una sorta di dinamicità assoluta, attribuibile indistintamente a tutte le forma verbali ebraiche, sia in realtà l’estremizzazione di una tendenza che è sì presente all’interno della lingua ebraica, ma che non è preponderante come spesso si è sostenuto. È più corretto credo, senza per questo introdurre nel nostro discorso delle affermazioni di principio, pensare la lingua nella sua evidente elasticità e concretezza.
Se la struttura linguistica ebraica permette di indicare un concetto «verbale» con una particella indeclinabile che non è un verbo, ciò può darci delle indicazioni di massima sul modo ebraico di concepire la dinamicità e l’essere, ma di certo non possiamo dedurre da ciò né che «l’ebreo» pensasse per nozioni statiche né che non fosse in grado di pensare se non per concetti dinamici. Quel che a noi interessa è cercare le sfumature che la particella in questione possiede allo scopo di verificare se è possibile applicare ad essa una «lettura di tipo talmudico», e fare della potenzialità semantiche di una parola ebraica lo spunto per un pensiero filosofico anti-greco.
Torniamo agli aspetti semantici di yeš cercando di tirare le somme di quanto detto finora. Se pur è corretto che indichi l’esistenza,28 non è da trascurare che questa differisca da quella espressa dal nostro «essere» per un’assoluta privazione di dinamicità e per un difetto di declinabilità. La componente statica di yeš è poi accentuata dalla sfumatura «locale» in essa implicita,29 il che la rende grammaticalmente più vicina ad un avverbio che ad un verbo.
Volgendoci a Levinas cercando di rintracciare segni dell’elaborazione di yeš nell’il y a, e in relazione alla staticità «locativa» dalla quale deriva, in yeš, la coniugazione dello stare-esistere con l’esser-ci, è il caso di segnalare che già in De l’évasion, in cui viene proposto un accostamento singolare al «problema dell’essere in quanto essere», Levinas si esprime — prima ancora che apparisse il concetto di il y a — in questi termini: «La verità elementare che c’è dell’essere (il y a de l’être) — dell’essere che vale e che pesa — si rivela in una profondità che misura la sua brutalità e la sua serietà» (DE 365).
Quel che qui rende interessante questa espressione di De l’évasion è che l’uso di il y a mostra di possedere una funzione non semplicemente frasale: l’espressione impersonale viene utilizzata per sottolineare la presenza assoluta e il gravame ontologico, per affermare l’esistenza di un essere «esperito», il cui peso è oltre che disagio interiore anche certezza ontologica.30
Che, nella frase citata, «il y a» faccia parte integrante di un’espressione teoretica è testimoniato dall’uso del corsivo, che non si limita a être, né viene esteso a tutta la frase, ma che riguarda la concentrazione dei termini che significano la presenza ingombrante e «certa» dell’essere.31 Questa stessa assoluta presenza verrà poi concentrata nella sintesi del semplice il y a di De l’existence à l’existant, che ha meno «compromissione con l’essere» e vede invece potenziata l’insita omogeneità statica e impersonale.32
L’il y a non soltanto è a-verbale, ma contagia con la sua inamovibilità l’esistente che da esso non ha évasion.
E se verbalità significa attività, è proprio nell’agire nel tempo che il soggetto ipostatico è indebolito.33 Si tratta dell’estinzione del soggetto che non deriva dal subire un’attività esterna, ma dall’essere assorbiti, inglobati nella irremissibile negatività dell’anonimicità.
Scrive Jean-Luc Lannoy a proposito:
L’il y a è determinato come la gravità stessa dell’esistenza che ricorda al soggetto la sua artificiosità (facticité) senza nome e la sua inassumibile contingenza. È il punto limite — non fenomenico e al di fuori del linguaggio — di un esistere senza esistente, di un mormorio anonimo che si afferma e si impone al di là del potere della negazione e che assorbe i tentativi d’evasione che suscita.
Il soggetto è relato all’il y a secondo una passività che è anteriore (non solo temporalmente) alla responsabilità della sua assunzione.
Questa passività è la traduzione di una esposizione all’essere anonimo che vira in un intrico con esso, di una aderenza all’essere […] che investe il soggetto e immobilizza la sua intimità più propria.34
Ripercorrendo e confrontando i significati di yeš e la pregnanza concettuale di il y a, potremmo definire quest’ultimo come «l’evoluzione filosofica» del primo termine. L’il y a possiede difatti i caratteri della particella ebraica trasformati in nozioni teoretiche.
Nel complesso della speculazione di De l’existence à l’existant, la nozione di il y a è il cardine del successivo discorso sull’uomo e la base della polemica anti-ontologica che sarà una costante del pensiero levinasiano. Azzardare l’ipotesi che un elemento teorico così sfaccettato possa provenire da un’amplificazione concettuale di un termine ebraico con infinite potenzialità, ma in concreto estremamente semplice e di uso frequente in una lingua «povera» e immediata, può destare qualche perplessità. E ciò soprattutto nella mentalità critica che vuole la filiazione del teoretico dal teoretico, e che non guarda di buon occhio supposizioni concernenti l’influenza di elementi e strutture di pensiero non filosofici sul pensare prettamente speculativo.
Una severa interpretazione del testo filosofico vuole, a ragione, che una nozione filosofica venga trattata per quel che è: un originale che va confrontato con i precedenti ispiratori e integrato criticamente con la visione globale del sistema filosofico in esame. La formazione culturale dell’autore è, in una prospettiva siffatta, importante; ma non bisogna mai dimenticare che si tratta innanzi tutto di un filosofo, e che se stiamo leggendo e criticando un pensiero speculativo rischiamo di fare un torto al pensiero stesso cercando di rinvenirvi tracce di elementi appartenenti ad altre sfere del sapere, sia pure rivisitati e ricontestualizzati all’interno di un sistema filosofico.
Nel caso di Levinas la critica filosofica ha ritenuto necessario, opportunamente, di cercare molte delle matrici genetiche nell’Ebraismo. Spingersi però ad affermare che anche i nuclei teoretici espressi con terminologia fenomenologica o metafisica possano essere definiti — secondo ottiche evidentemente alternative — anch’essi di filiazione ebraica è di certo diverso dal far derivare, ad esempio, dal cosiddetto rigorismo della Torah la primarietà dell’etica nel pensiero dell’alterità.
Nel particolare del rapporto yeš/il y a, sarebbe superficiale affermare che il secondo è semplicemente la traduzione del primo. Si tratta in realtà di un’evoluzione in direzione filosofica: dalla parola nella sua essenzialità originaria alla sua connotazione in nozione complessa. Il processo si avvia mediante la scomposizione delle caratteristiche prime del termine e la successiva conduzione degli elementi che ne derivano in ambito teoretico.
La lettera, il significato primo, è «c’è». Dalla lettera ricaviamo gli elementi secondari, o meglio, ulteriori: impersonalità, inamovibilità, congiunzione di affermazione d’esistenza e di localizzazione, a-verbalità. Alcuni aspetti sono legati alla semplice funzione grammaticale, altri all’approfondimento semantico. Ma sono caratteristiche che appartengono anche all’il y a dell’opera levinasiana del ’47. Appaiono elaborate in un linguaggio che è di certo quanto di più lontano dal dire ebraico, sia nella struttura che nella terminologia; ma le peculiarità del corrispondente ebraico sembrano trasferirsi alla versione francese in forma di definitori teoretici, di connotazioni filosofiche. È come se — non dico ancora che così è — l’analisi scompositiva applicata alla minuta parola ebraica avesse generato le caratteristiche prime e irrinunciabili dell’il y a di De l’existence à l’existant. Ma perché ciò possa ritenersi plausibile occorre pensare il testo ebraico non come un semplice spunto, né come una limpida fonte di suggerimenti.
È invece necessario concepire la parola come fa un talmudista, un esegeta che da un singolo vocabolo sa far fuoriuscire i significati che la lettera a prima vista non possiede. Il talmudista non traduce semplicemente, ma osserva il termine che esamina da più punti di vista, attraverso le ottiche offerte da più livelli interpretativi, e ciò soprattutto quando (come nel caso di yeš) un vocabolo è talmente poliedrico e versatile da suggerire al commentatore più di una lezione al di là di quella letterale.
Così yeš non solo significa il y a, ma può divenire, sotto il martello interpretativo del talmudista/filosofo, la sintesi dei suoi aspetti secondari e mostrare così, in sé, tutte quelle caratteristiche che, divenendo contorni definitori, disegneranno l’esistenza impersonale teorizzata in De l’existence à l’existant.
Lo sviluppo delle analisi qui anticipate si trova in Tiziana Portera, Radici ebraiche del pensiero di E. Levinas, nella collana «Machina Philosophorum. Testi e studi dalle culture euromediterranee», Officina di Studi Medievali, Palermo, 2003 (in corso di pubblicazione).
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La terminologia levinasiana è, in De l’existence à l’existant, ancora condizionata dalla prevalenza — se non concettuale, certamente semantica — del termine essere. Nelle opere successive l’uso delle espressioni ontologiche sarà più prudente e, comunque, teoreticamente giustificato. ↩︎
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Come opportunamente nota Giuliano Sansonetti, «Nella fase che stiamo analizzando, il pensiero di Lévinas, perlomeno dal punto di vista formale e di approccio alle questioni, appare ancora fortemente influenzato da Heidegger, anche se già l’ontologia sviluppata in EE si propone come un’esplicita presa di distanza dal pensatore tedesco. […] Tuttavia è più di un semplice schema formale ad indurre Lévinas a riproporre la tematica della temporalità in stretta connessione con il problema ontologico. Si tratta piuttosto della consapevolezza del punto di non-ritorno rappresentato, per questo aspetto, da SuZ; dell’impossibilità, in altre parole, di pensare l’essere ed il tempo in forma separata per raggiungere solo in seguito a porsi il problema delle loro rapporto. […] La necessità di pensare unitariamente l’essere ed il tempo e di concepire i due termini all’interno di questa connessione scaturisce, per il filosofo francese, direttamente dall’esigenza di pensare il tempo in modo originario e non come ‘degradazione dell’eternità’. […] non devono tuttavia essere minimizzate le conclusioni in buona parte originali a cui EE perviene. Per di più sono esse a costituire la base su cui poggia il discorso in ordine alla temporalità di TA» (Giuliano Sansonetti, L’altro e il tempo. La temporalità nel pensiero di Emmanuel Lévinas, Bologna, Cappelli, 1985, pp. 24-25). ↩︎
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«Del resto il principio essenziale del metodo che adottiamo è proprio quello di analizzare a fondo l’istante, di cercarne la dialettica che si inoltra in una dimensione ancora insospettata» (De l’existence à l’existant [EE], Paris, Vrin, 1984, p. 42). ↩︎
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Trattando dell’il y a Levinas presenta metaforicamente come notte, buio e altre figure d’indeterminatezza e impersonalità, e attraverso le realtà fenomenico-esistenziali di fatica e pigrizia, un’assolutezza d’essere che è in realtà ante-fenomenica: l’il y a è, in tal senso — come si esprime Lawton — il frutto di un’esperienza pre-personale: «Levinas vuole descrivere in termini fenomenologici un avvenimento, un’esperienza in qualche misura pre-personale […] che è dedotta piuttosto che vissuta» (Philip Lawton, Levinas’ Notion of the ‘There Is’, «Tijdschrift voor Filosofie», 3 1975, p. 481). ↩︎
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D’altronde, «Il fatto di esistere […] è dualità. L’esistenza manca essenzialmente di semplicità» (EE 37). ↩︎
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Intendo tale mancanza non come una privazione, ma quale componente strutturale propria della lingua ebraica. Il confronto con le lingue indœuropee ha il solo scopo di rendere più agevole la comprensione delle funzioni verbali. ↩︎
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James Barr, Semantica del linguaggio biblico, Bologna, Il Mulino, 1961. ↩︎
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Il Boman viene indicato dal Barr come il massimo rappresentante di questa corrente critica, con la sola eccezione di un’attenuazione conciliativa dell’antitesi radicale ebraismo/grecità. Cfr. Thorleif Boman, Den semitiske enknings egenart, «Norsk Teologisk Tidskrift», XXXIV 1933, pp. 1-34; id. Das Hebräische Denken im Vergkeit mit dem Griechischen, Göttingen, 1952. ↩︎
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Barr, op. cit., p. 24. ↩︎
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Non è mia intenzione prendere alcuna posizione in merito a questioni di critica linguistica, ma evidenziare in quali sensi il sistema verbale ebraico possa essere interpretato più o meno conformemente all’universo concettuale che gli è proprio: espongo, a proposito, le tesi contrarie del Boman e del Barr quali semplici esempi storiografici. La scelta degli autori ha scopi esplicativi e non presuppone alcuna preferenza all’interno del vasto panorama critico. Va tuttavia segnalato che l’opera del Boman, inizialmente favorevolmente accolta, è fortemente influenzata da una concezione del linguaggio spiccatamente idealistica, oltre che da un taglio psicologistico. Cfr. Mauro Perani, La concezione ebraica del tempo: appunti per una storia del problema, «Rivista Biblica», 26 1978, p. 408. ↩︎
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Boman, op. cit., pp. 27-31. ↩︎
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Barr, op. cit., p. 76. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ma «l’illustrazione linguistica del contrasto esistente fra pensiero ebraico e pensiero greco è ottenuta non attraverso un esame documentato e accurato della lingua ebraica, ma attraverso l’uso errato di categorie logiche che non possono essere applicate al greco (o ad altra lingua europea) come a nessun’altra lingua» (ivi, p. 96). ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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La frase così costruita sarà di per sé indipendente da precisi riferimenti cronologici. ↩︎
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Yeš viene tradotto con there is in inglese e con es gibt in tedesco. ↩︎
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Barr, op. cit., p. 89. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 91 ↩︎
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Ricordo che in nessun caso yeš viene usato con funzione di copula. ↩︎
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Ivi, p. 90. ↩︎
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Ivi, pp. 90-91. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 91. ↩︎
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Ivi, p. 92. ↩︎
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Ivi, p. 93. ↩︎
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Ivi, p. 89. ↩︎
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Con ciò non intendo sovvertire il principio di una preponderante componente «dinamica» tipica della lingua ebraica, ma fare dell’eccezione costituita da yeš il punto d’appoggio di una riflessione sull’assolutezza di tale principio e sulla capacità di alcune forme semantiche di esprimere quel che si presume concettualmente assente dalla mentalità ebraica. ↩︎
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Così in EE: «Le fait essentiel de la spiritualité humaine ne réside pas dans notre relation avec les choses qui composent le monde, mais est déterminée par une relation qui, de par notre existence, nous entretenons d’ores et déjà avec le fait même qu’il y a de l’être, avec la nudité de ce simple fait» (EE 19). ↩︎
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Nelle pagine di «Recherches Philosophiques», 5 1935-36, fascicolo che accoglie De L’évasion, l’espressione il y a appare spesso, ed assume i connotati di una vera e propria espressione filosofica. Ma il senso è, in ogni caso, quello «letterale» del semplice c’è, e non assume in alcun luogo la radicalità levinasiana caratteristica di EE. È il caso di ricordare all’interno della pubblicazione del ’35 sono presenti, quali autori, R. Poirier, H. Lévy-Bruhl, X. Zubiri e G. Bataille. Le sezioni tematiche che accolgono gli articoli sono le seguenti: Méditations sur le temps, De l’être et du savoir, De l’existence et de l’être. ↩︎
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Riguardo alla privazione della verbalità nell’il y a, lo stesso Levinas specifica che la corrispondenza con la forma tedesca è formale e non sostanziale. Il senso del verbo geben è sottratto all’il y a, che non significa «la gioia di ciò che esiste, l’abbondanza, un po’ come l’’es gibt’ heideggeriano», «Al contrario ‘il y a’ per me — afferma Levinas — è il fenomeno dell’essere impersonale: ‘il’» (Éthique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Librairie Arthème Fayard et Radio-France, 1982, p. 37). Cfr. Edouard Pontremoli, Sur l’«il y a» qui n’est pas «Es gibt», «Etudes Phénoménologiques», 13-14 1991, pp. 165-187. ↩︎
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Questa passività, che è profondamente differente alla futura passività assolutamente passiva dell’etica levinasiana, è radicale, nel senso che non è tramutabile, come nell’esistenzialismo, in alcuna forma di attività. ↩︎
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Jean-Luc Lannoy, «Il y a» e phénoménologie dans la pensée du jeune Lévinas, «Revue philosophique de Louvain», 1990, p. 372. ↩︎