Amore e rivelazione in Franz Rosenzweig

1. Il Cantico dei Cantici

Forte come la morte è l’amore.1

Questa frase segna il passaggio dalla morte, con cui si chiude la sezione della creazione ne La stella della redenzione, all’amore che apre alla rivelazione.2 La morte e l’amore sono forti allo stesso modo.

La morte chiude, completa, la creazione, e l’uomo, ultima delle creature di Dio, ne è il sigillo. E se qualcosa finisce, si conclude, qualcos’altro inizia: la rivelazione. Forte come la morte è l’amore. La morte, forza implacabile, distruttiva, che mette fine alla vita ma al tempo stesso la completa, ha un avversario altrettanto forte, altrettanto dirompente: l’amore. L’amore afferra l’amante e l’amata. Loro due sono i protagonisti dell’amore, di un amore talmente bello, talmente santo e avvincente, da essere cantato, lodato bel Libro Sacro: la Bibbia o Tanach.

Quando un sentimento è forte, bello, vitale, incredibile, prorompe dall’anima, dall’intimo di una persona e si fa canto. In questo caso, non si tratta di un semplice canto, bensì del Canto: il Cantico dei Cantici.3

Perché Rosenzweig ha scelto il Cantico dei Cantici?

Perché il Cantico dei Cantici4 è «Qodesh qodashim»,5 è il santo dei santi. È il canto d’amore per eccellenza. È il canto d’amore tra il Creatore e la sua creatura prediletta, Israele. È il canto di gioia che solo chi ama può dedicare a chi gli ha rapito e portato via il cuore Il cercarsi, l’incontrarsi, l’allontanarsi sono scene e momenti che danno ritmo all’intero Canto. L’unico modo per cogliere, per capire, gli elementi che caratterizzano la Rivelazione di Dio e il rapporto con Israele è confrontarsi con il Cantico stesso.

Mi baci con i baci della sua bocca. Le tue tenerezze sono più dolci del vino.6

Dietro una innocente descrizione di un bacio si cela un’interpretazione che segna l’avvio della rivelazione. Baciare nella tradizione ebraica è sinonimo di parlare faccia a faccia. L’inizio del Cantico dei Cantici, del secondo verso del canto, è un faccia a faccia tra Dio e Israele. Dio si rivela, Dio rivela il suo volto.7 Un semplice bacio tra innamorati rappresenta due visi che si sfiorano e che si guardano. Dio e Israele sono faccia a faccia. È un momento unico. «Mi baci» è un’azione presente. Il faccia a faccia è presente. L’amore è presente non solo temporalmente ma anche spazialmente.

Il volto di Dio, del Dio creatore, compare, irrompe nella rivelazione. E le tenerezze più dolci del vino rappresentano l’elezione di Israele rispetto alle altre nazioni.8

Già nel secondo verso del Cantico il volto di Dio si rivolge al popolo eletto. Si può guardare faccia a faccia solo un volto. E questo è il volto di Israele. Oltre al viso, il bacio, un altro elemento scuote l’animo di una amata: il tu. L’amato si rivolge direttamente alla sua amata che ha scelto tra le altre. Il volto, il faccia a faccia, non bastano. C’è dialogo. L’amata e l’amato si danno del tu, parlano tra di loro. Non c’è solo e semplice visione da occhio a occhio, ma c’è anche la parola. L’amata ha bisogno di un segno della presenza dell’amato che a sua volta si rivolge a lei. Il dare del tu all’amata significa riconoscerne la presenza nel proprio cuore.

Sei bella, mia diletta, sei bella, i tuoi occhi sono come colombe.9

L’amato si rivolge all’amata e le rivolge parole d’amore. Nella similitudine sono gli occhi che vengono paragonati alle colombe. È lo sguardo che viene messo in risalto Gli occhi dell’amata sono belli. Gli occhi sono considerati le parti «tra le più importanti del corpo umano Il modo di guardare fisso di un uomo, assieme al suo punto di vista e prospettiva, è considerato il barometro del suo carattere».10 Gli occhi sono la parte del corpo che rimane fissa sulle pagine della Torah o del Talmud. Gli occhi di Israele sono stati scelti per leggere il Testo di Dio, la parola di Dio inscritta nel Libro. Tramite gli occhi belli come le colombe, Israele apprende con lavoro, studio assiduo, la Legge di Dio. È un lavoro impegnativo che comincia da quando si è piccoli. Le colombe giovani infatti, sono anche volatili da sacrificare a Dio .11 La bellezza dello sguardo sottolinea ancora una volta la scelta di Dio su di Israele, il popolo del libro. E questo rivolgersi di Dio ad Israele non è solo un fattore visivo. Il faccia a faccia tra l’amato e l’amata si fa sentire nelle parole. Il miracolo più grande, l’emozione più grande per due amati e potersi dare del tu, dire tu. Il tu colpisce al cuore, arriva fino in fondo all’anima. E questa lode per Israele non è detta impersonalmente, non è un pensiero solitario di Dio. Il Creatore, faccia a faccia con la sua creatura prediletta, le dice tu. Il tu è il tu di un dialogo d’amore, del dialogo che avviene tra Dio e Israele. Il tu, il rivolgersi all’amata, il parlarsi è il brivido più grande d’amore. Non c’è più silenzio, non ci sono più solo sguardi, ma c’è dialogo, c’è parola, c’è voce, c’è suono.

E anche dal posto più remoto, dal posto più lontano, la sua voce giunge alla sua amata.

Una voce. È il mio amato. Eccolo, arriva, balzando sulle montagne, saltando sulle colline.12

La gioia di udire anche se solo flebile la voce dell’amato è talmente grande che semplici passi diventano balzi, salti. È la gioia dell’amore che riecheggia in questi versi. È quella gioia che rende vivo l’amore stesso e la vita. È la gioia dell’attesa premiata.

Il miracolo più grande dopo la rivelazione del volto è la voce. Israele sente la voce di Dio che da lontano si avvicina a lei. E la voce è il suono che segnala la presenza che si avvicina, è un suono in movimento, un suono in avvicinamento. E la voce del proprio amato la si distingue, la si riconosce, nonostante la distanza da dove è emessa. Il più flebile suono, se è dell’amato del proprio amato, viene riconosciuto a qualsiasi distanza. Ed è l’amato che ancora rivolge la parola all’amata.

Ma dietro a semplici parola di amore si nascondono, si celano promesse importanti, promesse di stringere un legame solido, duraturo.

Hai conquistato il mio cuore, sorella, o sposa; hai conquistato il mio cuore con un solo tuo sguardo, con una sola perla della tua collana.13

Israele ha conquistato con un solo sguardo il cuore di Dio. Lo sguardo, gli occhi rivolti a Dio, sono gli occhi, lo sguardo, di chi adempie i suoi dettami, ai suoi comandamenti. Ed Israele è sorella di Dio, ha un legame con Dio particolare, speciale. È sorella di Dio per i suoi meriti, per il suo valore per il quale «Dio mostra il suo amore su di noi».14 Un’altra parola compare nel testo, parola che vale una promessa importante: sposa, in ebraico callà. Se fino ad ora Israele era stata sorella di Dio, ora il Signore promette a Israele di renderla veramente la sua unica amata con una promessa: renderla sposa. La promessa si rivolge al futuro. Israele è stata eletta da Dio tra le altre nazioni, è stata prescelta ma non ha ancora il vincolo, il legame stretto che sancisce il patto di questo amore. Non c’è ancora nulla che attesti, confermi, questo patto. Solo le parole d’amore. E nella parola ‘sposa’, nella promessa di matrimonio, si trova il vincolo eterno dell’amore. Il patto d’amore toglie i dubbi, le incertezze che l’amore, quel sentimento così grande da dare gioia immensa possa nel tempo scemare, venire meno, finire. Serve un segno, un segno evidente, una prova che attesti l’unicità di quell’amore, l’evidenza di quell’amore tra due amati. Le parole non servono. Come i suoni possono squarciare il silenzio ma dopo poco finire, così le parole d’amore hanno bisogno di una prova, di un gesto che renda l’amore saldo, forte, duraturo. E, se vogliamo, eterno. La gioia di amare e di essere amati nasconde sempre la paura grande che questo sentimento possa essere effimero. Se la paura della morte colpisce l’uomo da solo, nella solitudine, l’amore, invece, avviene mai da solo ma sempre grazie a un’altra persona. E se la morte, il pensiero della morte porta paura, angoscia, timore, l’amore, al contrario, porta gioia, forza, e gioia di vivere. L’amore è l’inno, canto alla vita. E proprio per questo, è altrettanto forte il desiderio di non disperdere, perdere, l’amore. La promessa di santificare l’amore con l’unione. Ma questa unione va meritata. E dopo questa promessa, l’amata chiede, all’amato di realizzare questa promessa. Solo l’amore che si rinnova ogni attimo, ogni presente, permette di allontanare le più grandi paure.

Ponimi come sigillo sul tuo cuore. come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore.15

Serve il sigillo. L’amata chiede il sigillo, il segno d’amore. Questo segno si stampa, si imprime, sul cuore del Signore. Non c’è luogo al mondo, nell’universo, che sia più duraturo e infrangibile del cuore di Dio. Imprimendosi sul cuore del Creatore Israele guadagna amore e memoria eterna;16 ma non solo nel cuore Israele vuole essere sigillata. Anche sul braccio di Dio. Perché? L’amore deve essere anche dimostrato nei fatti, nell’azione. L’amore di Israele è grande e altrettanto grande è l’amore di Dio per lei. La promessa di Dio di rendere il suo popolo sposa sfocia nella richiesta di Israele di mettere al sicuro questo amor dalla dissoluzione del tempo e di sancirlo per l’eternità. Il sigillo nel cuore e nel braccio di Dio è il segno dell’eternità, il patto che non sarà mai cancellato. L’amore di oggi non ha paura del domani con il sigillo. Sigillo, che attesta l’essere uno per l’altro sempre. Questo è il legame che dura in eterno, il legame che rende l’amore vivo in ogni presente, presente. L’amore che dà gioia agli amati di vivere la vita insieme permette di contrastare la paura della morte. Forte come la morte è l’amore.17 Se l’amore è il punto limite, la fine dell’individualità umana, la fine della vita dell’individuo, l’amore è forte allo stesso modo perché pone fine alla vita individuale, solitaria, del singolo e apre alla vita costituita, formata, e ancora da costruire, di due amati.18 Il sigillo non è una trappola, non è una chiusura, una rete da cui ci si sente imprigionati. Il sigillo, in ebraico חותם (chottam), ha come somma delle sue lettere costitutive, alla fine, il numero 4. Il 4 in ebraico corrisponde alla lettera ד (dalet) che ha la forma di una porta aperta. Una porta aperta a che cosa? Solo se si decide di oltrepassare, di andare oltre quella porta, di attraversare, di varcare la soglia, ci si trova di fronte alla vita. Vita o חיים (chaiim) ha infatti come valore costitutivo finale il numero 5, consecutivo al 4. Il sigillo che lega due amati apre le porte alla vita. Proprio per questo, il sigillo non è un punto di arresto, di fine di una libertà, ma è la porta aperta alla vita. L’amata desidera ardentemente il sigillo, la realizzazione dell’amore, il patto con Dio. Il Creatore rivela amore alla sua creatura e lo concretizza nel vincolo che non chiude ma dischiude alla vita. Forte come la morte è l’amore.

2. L’amante: Dio

Forte come la morte? Ma contro chi la morte dimostra la sua forza? Contro colui che essa ghermisce. E l’amore? Certo esso afferra entrambi, l’amante e l’amata. Ma afferra l’amata in modo diverso dall’amante. Nell’amante l’amore ha la sua origine. L’amata invece è afferrata, il suo amore è già risposta all’essere-afferrata, Anteros fratello minore di Eros. Per l’amata anzitutto è vero che l’amore è forte come la morte.19

Il silenzio della morte mette punto all’intero atto della creazione, la morte è la conclusione di un atto, seppur meraviglioso quanto quello della creazione. E l’amore? E Come fa ad essere altrettanto forte? Come può un sentimento contrastare il momento ultimo della vita? È solo un sentimento? Quello che si sa è che l’amore è forte.

L’amore ha origine nell’amante, e nell’amata è diverso. L’amata è afferrata, è colta dall’amore, che la stringe dolcemente a sé.

Alla morte, chiave di volta della creazione, che imprime, lei sola, a tutto il creato il marchio incancellabile della creaturalità: la parola «(è) stato» a lei l’amore dichiara battaglia, l’amore che conosce unicamente il presente, vive del presente, ardentemente desidera il presente. La chiave di volta dell’oscura voluta della creazione diviene la pietra di fondamento della luminosa dimora della rivelazione.20

L’amore dichiara battaglia, guerra, alla morte. L’amore chiede, pretende, il presente. L’amore si lega al presente, non vuole essere legato al passato, perché il passato indica che l’amore è finito, che l’amore non c’è più. Ogni amante desidera che l’amore sia un continuo presente, per questo lotta con il passato che indica ciò che è trascorso e concluso. L’amore non vuole morire, l’amore vuole vivere, sempre, vuole essere per sempre. Ogni momento, ogni istante, che due amanti vivono sono attimi di un presente che entrambi vogliono mantenere vivo.

Per l’anima la rivelazione è l’esperienza vissuta di un presente il quale certo riposa sull’esserci del passato, ma non dimora in esso, bensì cammina nella luce del volto di Dio.21

Il presente non dimora nel passato, riposa, si poggia su di esso. Nel presente dell’amore, grazie all’amore che è forte, che lotta per il presente, avviene la rivelazione. L’oscurità della morte viene diradata dalla luce del presente che rivela il volto di Dio. Dio rivela il suo volto. Dio esce allo scoperto dal suo nascondimento. Dire, scrivere, del volto di Dio significa dire che prima questo volto non era manifesto. L’anima dell’uomo cammina nella luce del volto divino. Potevamo parlare durante la creazione, prima della creazione dell’uomo di voto di Dio? Chi poteva vederlo? Chi poteva coglierlo? Chi poteva ammirare il suo operato e mantenerlo tale?

Dio agisce come chi prepara il tavolo per il suo ospite.22

Dio lavora, crea il mondo per l’uomo. Ma durante l’azione, l’atto della creazione, Dio non si è manifestato completamente. Ogni creatura, ogni albero, è un divenir- manifesto di Dio nel mondo. Il Creatore lascia il suo segno in ogni cosa, ma nessuna di questa creatura ha la capacità, la facoltà, di vedere il volto del Creatore.

Dio si svela per l’uomo, si rivela23 a lui. E una domanda sorge da questa rivelazione.

Dove è finita la fattualità di Dio? Dov’è finita la sua vittoria sul nulla? La sua concretezza? È solo un semplice Dio nascosto? Un Dio cioè che non aspira ad entrare in contatto con la realtà, con la concretezza, che la sfugge? Ma soprattutto se è nascosto, a chi è nascosto? È questa la domanda. Dio si nasconde da qualcuno, da quel qualcuno che solo può testimoniarlo vivamente, che può riconoscerlo, che può lodarlo.

Per Dio la creazione non è semplicemente creazione del mondo, bensì è anche qualcosa che accade in lui stesso in quanto è nascosto. In questo senso noi abbiamo dovuto già designare la creazione come un divenir-manifesto di Dio.24

La creazione è questo movimento di Dio, questo suo venir, divenir manifesto25 da una situazione di nascondimento. Ed è un avvenimento in lui stesso, un divenire nel suo interno, nel suo essere ancora nascosto, e non completamente manifesto. Nell’oscurità della sua condizione, di essere un Dio ancora nascosto, il Creatore si muove, agisce per non rimanere nascosto. La creazione scandisce ogni passaggio dal buio alla luce, dall’invisibile al visibile, dal non creato al creato, dal nulla al qualcosa, dal non essere riconosciuto allo splendore dello sguardo, allo splendore del faccia a faccia. Dio si es-pone ma non ancora completamente, perché se anche lo facesse, chi potrebbe dire o raccontare che Lui si è completamente rivelato? Ci si rivela solo a chi è in grado di sopportare la forza di quello sguardo, di riconoscerne la maestà, la verità. Solo in questo riconoscere in Dio il creatore, come colui che ha preparato tutto il mondo per l’uomo, come colui che ha creato per l’uomo, si può comprendere l’importanza, il miracolo, l’evento della rivelazione. Ci si rivela a chi ci capisce, a chi pensiamo possa riconoscerci, sentirci. Il rivelare l’essenza di sé è un dono e al tempo stesso un impegno. È l’impegno di custodire, di preservare, e di mantenere intatto questo dono, come un dono, appunto divino. Accogliere la rivelazione richiede la responsabilità della sua testimonianza.

L’intima «natura» di Dio, l’infinito mare silenzioso del suo essere si era addensato e appesantito in destino sotto l’urto della libertà di azione intradivina; ma anche il destino era sempre stato qualcosa di durevole, la Moira non mutava il suo verdetto; questo poteva anche svelarsi solo nel corso del tempo, ma era valido fino dal principio. Il destino è legge originaria, le sue messaggere sono le più vecchie della schiatta degli Dei e non a caso sono per lo più femmine; infatti il materno è sempre ciò che è sempre ciò che è già prima, il paterno viene ad unirsi in seguito; la donna per l’uomo è sempre madre. Questo permanere e questa primordialità devono però andare perduti per il destino ora che esso, dall’oscurità del nascondimento divino, irrompe alla luce.26

All’infinito mare silenzioso di Dio si mescola il destino, il destino di essere infinito, il destino di essere Dio. Il destino, primigenio, prima di ogni nascita, prima di ogni legge, legge originaria e madre di ogni dopo, è il dove in cui l’intima natura Dio si era adagiata sotto l’urto della libertà divina. Ma ora questa primordialità del destino deve essere messa da parte, per un destino che diviene evento. È un destino che accade all’improvviso. Può il destino avvenire all’improvviso? Non è contraddittorio? Non è proprio del destino essere invece certo nella sua scrittura primordiale? Il destino non è infatti scritto? Già scritto?

Un destino, che in forma di evento irrompa con tutto l’impeto dell’attimo, non decretato fin dai primordi, ma proprio come negazione di tutto ciò che fin dai primordi vale, anzi come negazione già dell’attimo che precede immediatamente questo.27

Quale destino mai può avere un simile potere? Un destino che nega il destino primordiale?

È un destino che deve solo sbocciare, che deve irrompere nella notte e portare la luce. È un destino che nega l’attimo prima del suo evento. È l’attimo che prorompe nel presente, che forma il presente, che ne permette la vitalità: l’attimo del destino.

Uno sguardo alla creatura creata ad immagine e somiglianza di Dio ci insegna l’unico modo in cui possiamo chiamare questo fato interno a Dio ora divenuto affetto.28

L’attimo irrompe in quello sguardo, nello sguardo di chi vede venire alla vita la creatura simile a sé. È uno sguardo ineffabile, muto, come tutti gli sguardi di chi vede nell’altro la meraviglia della creazione. E questo sguardo rivolto alla a propria immagine e somiglianza rivela il nome di questo destino di Dio, di questo destino che sconvolge tutto ciò che era scritto prima di ogni cosa. Come lo sguardo commosso di chi ammira la vita vivere oltre a lui ma anche grazie a lui, così Dio rivolge lo sguardo all’uomo.

Come l’arbitrio di Dio, nato nell’attimo, si era convertito in potenza durevole, così la sua essenza eterna si è tramutata in amore ridestato nuovamente ad ogni istante, sempre giovane, sempre primo. Infatti l’amore soltanto è così, al tempo stesso una violenza del destino sopra il cuore in cui si ridesta e tuttavia così neonato, così, a tutta prima, privo di passato, così scaturito dall’attimo che esso colma, e solo da quell’attimo stesso.29

L’amore avviluppa il cuore di Dio in uno sguardo d’amore per l’uomo. L’amore non si può decidere quando piò avvenire. Può essere una volta o dieci o mille, ma coglie all’improvviso, e all’improvviso il tempo presente30 irrompe.

3. Il presente: l’evento dell’amore

L’amore irrompe in un momento inaspettato, è l’imprevedibile che diventa presente, che è presente e non ha passato. Non c’è passato prima di amore, l’amore non sa cosa sia il tempo passato. Sa solo che è ora, che è presente. L’amore è presente e in Dio l’amore si rinnova costantemente. L’amore nasce unico. L’amore inizia in quella irruzione nella realtà, in quell’irruzione nel cuore di Dio alla vista dell’uomo. Il passato non appartiene all’amore. Non esiste un tempo prima dell’amore. L’amore segna l’avvio del presente, big bang di ogni nascita, di ogni inizio, di ogni vita. Dire che l’amore ha un passato significa privarlo della sua unicità, del suo essere evento non scritto, non preannunciato. Il passato dell’amore indicherebbe solo e solamente che l’amore è finito. Se finisce l’amore non c’è più presente, non c’è più attimo da esso ricolmato. Questo è l’amore, l’unicità del presente che non ha passato ma che chiede solo di essere rinnovato, rinvigorito, di essere sempre e solo primo. L’amore è puro presente, puro ora, puro oggi, pura concretezza, pura realtà.

Per riguadagnare la «fattualità» di Dio, che nel suo nascondimento minacciava di andare perduta, esso non può rimanere fermo al suo primo manifestarsi in una infinità piena di atti creatori; qui Dio minacciava di perdersi nuovamente dietro l’infinità della creazione, sembrava divenire la semplice «origine» della creazione e così tornare ad essere nuovamente il Dio nascosto, ossia ciò che egli, proprio mediante la creazione, aveva cessato di essere.31

Dio è fattuale. La creazione non può la sua unica e sola manifestazione. Dio così diventerebbe solo l’origine della creazione. La creazione, che avviene con le parole divine, non basta non è sufficiente a manifestare Dio nella sua fattualità. La potenza divina di creare non basta a rendere manifesto Dio. C’è bisogno di più. C’è bisogno di altro.

Il manifestarsi che noi cerchiamo qui deve essere nella sua intera essenza rivelazione e nulla più¸ ma ciò vuol dire che non può essere null’altro che l’aprirsi di qualcosa di chiuso, nulla più che l’autonegazione di una semplice essenza muta mediante una sonora parola, l’autonegazione di una perennità silenziosamente immota mediante un attimo mosso. Nel balenare di un tale attimo / colpo d’occhio dimora la forza di trascolorare l’essere creato che ne sia colpito, tramutandolo da cosa creata, in testimonianza di una rivelazione avvenuta.32

Anche nella creazione Dio si mostra, ma non è ancora rivelazione in senso pieno. La rivelazione apre qualcosa di chiuso, interrompe di netto la solitudine di una chiusura, permette l’entrata di qualcosa di altro e al tempo stesso l’uscita verso l’altro. Non vengono completamente abbattute le barriere che chiudevano la creatura singola in se stessa, ma quest’ultima riesce ad aprire gli occhi verso tutto ciò che à appunto altro, esterno, differente. In un semplice attimo, in un colpo d’occhio, la creatura amata da Dio si accorge di non essere più sola, di non essere solo lei il centro della sua esistenza ma che la sua esistenza concreta è dovuta a Dio, è di fronte a Dio. Questa è la rivelazione: trovarsi faccia a faccia con Dio. Ed intorno, il mondo fiorisce di vita. La rivelazione rompe la chiusura dell’uomo e di quel momento, dal momento in cui l’uomo non è più solo ma è amato da Dio, inizia il tempo presente, il tempo di amore, il tempo. E nell’accorgersi dell’Altro, ci si accorge anche dalle altre cose del creato che non sono semplici creature anche esse, bensì sono la testimonianza di quella precedente rivelazione avvenuta durante la creazione. Le cose create testimoniano l’atto creatore di Dio. Dio si rivela all’uomo e l’uomo scopre il mondo come creatura anche essa di Dio. «Ogni cosa è una tale testimonianza, già in quanto è cosa creata».

Ma è una testimonianza di un atto avvenuto nel passato. Ogni cosa creata testimonia la creazione che è avvenuta nel passato, è testimonianza di un atto concluso, finito, terminato.

Solo quando essa, in un momento qualunque del tempo, viene colpita dai raggi del bagliore, non già di un a rivelazione avvenuta una volta per tutte, ma di una rivelazione che accade proprio in quell’istante, soltanto allora per lei la circostanza di essere debitrice della propria esistenza ad una rivelazione diviene più che una circostanza / che sta tutt’intorno [Um-stand], diviene l’intimo nucleo della sua fattualità. Solo così, non essendo più testimonianza di una rivelazione avvenuta in generale, bensì espressione di una rivelazione che avviene nell’attimo «or ora», la cosa trapassa, dal passato, connesso all’essenza, al suo vivo presente.33

La cosa creata, colpita dal bagliore della rivelazione, sente di essere debitrice della propria esistenza. Non è più testimone di un tempo avvenuto e ormai perso nel passato, ma si sente ogni giorno testimone di una rivelazione che avviene ora, adesso, nel presente. La cosa non è più legata al passato ma si immerge nel presente. La cosa creata sfugge al nulla della creazione, al non più della creazione per vivere nell’adesso, nell’ora. Non più dunque testimone di un passato, ma espressione del presente. La rivelazione offre l’altra via alle cose create: non di vivere perché è il passato che permette l’esistenza stessa, ma di vivere alla luce dell’attimo che irrompe sempre nuovo, sempre unico, sempre il primo, e dona ogni giorno la vita stessa. Ogni giorno è la luce della vita che accade, la gioia dell’amore della vita che risplende. Vivere della luce del presente: questa è la testimonianza più grande, ringraziamento più grande da elevare a Dio. Il passato è non più, non può cambiare né lo si può rivivere. La vita è ora, è presente E il dono della vita deve essere rinnovato. Proprio perché il presente è nell’attimo, nel tempo infinitesimo che sfugge, che è veloce, che si dilegua, la creatura di Dio ha il compito di rinnovare l’attimo, di impegnarsi di far durare il presente. E nella rivelazione il dono di Dio è il segreto di questo rinnovamento.

È l’amore ciò in cui sono rispettate tutte le esigenze qui poste al concetto di un rivelatore: l’amore dell’amante, non quello dell’amata. Solo l’amore dell’amante è questa dedizione di sé, rinnovata a ogni istante; egli solo si dona nell’amore. L’amata accoglie il dono. Questo, il fatto che essa accolga il dono è il dono con cui contraccambia, ma nel ricevere ella rimane presso di sé e diviene quiete totale, e anima in se stessa beata.34

C’è differenza tra l’amore dell’amante e quello dell’amata. L’amante rinnova la sua dedizione, il suo amore costantemente. «L’amante si dona nell’amore». L’amante dona se stesso di volta in volta, sempre, dona se stesso. E l’amata accoglie, riceve questo dono del suo amato. L’accogliere, il ricevere, l’accettare questo dono è anche esso un dono. Che cosa vuol dire questo? Che accogliere un dono non è scontato. Accettare un dono, in questo caso il dono per eccellenza, equivale a riconoscere il gesto stesso e colui che lo compie. E soprattutto significa darne importanza. Non bisogna sottovalutare il gesto dell’accogliere il dono. Dio dona se stesso,35 ma se dall’altra parte non c’è chi riceve, chi accoglie questo dono, non si può neanche parlare di dono. Dare e ricevere sono due atti di grande importanza. A volte l’attenzione cade più sull’atto del dare, che non su quello di accettare il dono avuto. Lo stupore e la riconoscenza di chi accetta il dono e se ne rallegra sono il dono più grande per chi dona.

E qui però la differenza tra l’amante e l’amata. L’amante dona sé, dono qualcosa che gli appartiene costitutivamente. L’amata, invece riceve, ma rimane quieta in se stessa. «Rimane presso di sé». Rimanere presso di sé significa appunto non muoversi, rimanere stabile, fermo.

Ma l’amante — egli strappa il suo amore dal tronco del suo sé, come l’albero si libera dai suoi rami e ogni ramo si distacca dal tronco e non se ne sa più nulla, negandolo […] ogni ramo è un suo ramo e tuttavia è, totalmente, un ramo a se stante, spuntato in un punto che è soltanto suo e stabilmente legato a quel punto. Così l’amore dell’amante è piantato nell’attimo della sua origine e, poiché esso è quell’attimo, deve negare tutti gli altri attimi, deve negare la totalità della vita; esso è, nella sua essenza stessa, privo di fedeltà perché sua essenza è l’attimo e, per essere fedele, esso deve rinnovarsi ad ogni istante, ogni istante deve divenire per lui, il primo sguardo d’amore.36

L’amore non è un attributo di Dio. È parte di lui che viene tolta e donata. Una volta tolto, il ramo è un essere a se stante. Si sa da dove proviene, si sa da quale linfa vitale è nutrito, ma è unico nel suo genere. Come il ramo è piantato nel tronco dell’albero così l’amore è piantato nell’attimo della sua origine in Dio. L’amore pone le sue radici nell’attimo, nel momento stesso in cui nasce. E proprio perché è legato all’attimo, a quello preciso attimo in cui la sua scintilla scocca, nega tutti gli altri attimi. Quello è l’attimo dell’amore, non gli altri. Se parliamo dell’attimo in cui il presente irrompe nella vita, in cui il presente dischiude, libera, una creatura alla vita, quello e solo quello è l’attimo, è l’evento. L’evento è legato all’attimo, il momento che fugge perché unico. Dove si pone quindi la parola ‘fedeltà’all’interno di questo contesto? Se vogliamo che esista questa parola e se vogliamo che il presente dell’amore, o anche l’amore per il presente, sia sempre duraturo e forte come il primo sguardo, allora questo amore deve rinnovarsi ad ogni istante. L’amore può erompere in un attimo come può dissolversi improvvisamente. La vita non è una totalità chiusa in cui i giorni, il tempo, avvengono uno di seguito all’altro consecutivamente, come se fossero parte di un tutto. La vita non è qualcosa di totalmente chiuso, non si chiude al Destino provvidenziale. Il cerchio della vita è aperto, squarciato dal bagliore, dalla luce della rivelazione che avviene in un attimo di amore. In un solo attimo la vita inizia a battere. Come ogni singolo battito cardiaco è vitale e dà veramente il ritmo alla vita, così l’amore dà il via a questo ritmo che si rinnova ad ogni singolo battito. È in gioco la vita, il presente è la vita che fluisce nella creatura di Dio. Il presente è vita, la vita pulsa grazie all’evento d’amore, dono di Dio. La vita quindi non si può mai racchiudere in una previsione futura. Gli attimi sono unici, e la vita è unica anche per questo. Quello che è visibile e certo ai nostri occhi è il momento che stiamo vivendo, sentirlo nostro e vivo, pulsante in noi. Come potrebbe essere tutto deciso, prestabilito, segnato, se l’amore entra nella vita della creatura amata di Dio improvvisamente? L’amore avviene senza preavviso, come un fulmine, come una scintilla. Non c’è pre, non c’è avviso, non può essere controllato. Questa à la rivelazione, questo è il presente, questa à la forza dell’amore, che è sì scintilla ma non vuole rimanere solo scintilla. Vuole crescere e soprattutto vuole durare.

L’amore si accresce perché vuole essere sempre nuovo, e vuole essere sempre nuovo per poter essere stabile; ma può essere stabile soltanto vivendo totalmente l’instabilità, nell’istante, e deve essere stabile così che l’amante non sia soltanto il vuoto portatore di un fuggevole moto del cuore, bensì anima vivente. In tal modo ama anche Dio.37

L’amore vuole rinnovarsi, vuole accrescere, vuole diventare sempre più grande e più forte. L’amore cerca stabilità ma la può costruire solo grazie all’instabilità di fondo che costituisce l’unicità del presente, dell’ora. Perché l’instabilità permette o dà la possibilità di costruire la stabilità? Proprio come nel caos primordiale prima della creazione, prima ancora che venisse pronunciata la parola luce, vi erano le tenebre e il caos. La luce della creazione ha permesso di diradare le tenebre e di dare vita al mondo.

Allo stesso modo, l’amore ha le sue radici nel momento fulmineo dell’ora. Non vi è cosa di più instabile dell’evento improvviso dell’amore. La volontà di questo stesso amore che vuole essere sempre nuovo, che vuole accrescersi ed essere duraturo, fa sì che l’instabilità che lo costituisce sia il motivo stesso del suo rinnovamento.38 Se l’amore è un dono e dura l’attimo di un evento, perché lasciarlo sfuggire? Perché perdere il presente? Perché renderlo passato? In Dio l’amore si rinnova costantemente. Dio è l’amante che è anima vivente. Perché anima vivente? Anima vivente perché non vuole perdere l’amore, non vuole che questo sentimento sia solo un semplice e fuggevole moto del cuore. L’anima diventa vivente quando l’amante ama ogni istante. Solo così, solo in questo caso possiamo parlare di anima vivente. L’anima vive quando ama, ama in ogni momento, istante attimo che le è dato.

L’amore di Dio è sempre tutto nell’istante e nel punto in cui egli ama, e solo nell’infinità di tempo, passo passo, esso raggiunge un punto dopo l’altro e anima il Tutto. L’amore di Dio ama chi ama là dove ama; nessuna domanda ha il diritto di accostarsi ad esso perché ad ogni domanda un giorno verrà la risposta, giacché Dio ama anche costui Dio, anche colui che pone la domanda, colui che si crede abbandonato dall’amore di Dio.39

L’amore di Dio quindi è onnipervasivo. Ama anche colui che crede che Dio lo abbia abbandonato. Dio ama. Dio ama chiunque e ovunque. Un giorno la risposta a quella domanda, a quel dubbio posto, arriverà. E anche colui che si crede escluso dal di Lui amore si ricrederà e riceverà il segno, come risposta. Cos’è importante in tutto ciò? «Ama», «vivente» sono tempi presenti che si riferiscono all’amore di Dio.

Esso è sempre nell’oggi e tutto nell’oggi, ma ogni morto «ieri», ogni morto «domani» viene a suo tempo inglobato in questo «oggi» vittorioso; questo amore è l’eterna vittoria sulla morte; la creazione, che la morte corona e conclude, non può tener testa all’amore, deve arrendersi ad esso ogni istante e perciò, alla fine, anche nella pienezza di tutti gli istanti, nell’eternità.40

Non è un semplice oggi. È di più. È l’oggi che ingloba il domani e lo ieri, è l’oggi che vive nel suo stesso essere oggi, presente, reale, concreto. È l’oggi vittorioso sulla morte. L’amore vince la morte.41 La paura della morte che alla fine della creazione si insinuava nell’uomo, adesso è completamente battuta. Basta un solo istante di eternità a vincere la morte. E questo istante di eternità, questo attimo di luce che fende l’oscurità della morte è l’amore. L’amore annienta le paure, scaccia la morte e la pone alle spalle della vita, non alla fine. Se solo un istante può scacciare per un istante la paura della morte, allora per questo motivo è necessario che l’amore sia rinnovato, sia voluto ogni giorno, sempre. Come la vita può cambiare in un momento, così la paura della morte può scomparire in un attimo. L’amore è quella forza prodigiosa che impedisce alla fine per antonomasia di regnare sovrana. È vero che tutto finisce, tutto perisce, ma prima di allora, prima di questa fine della vita c’è la vita stessa da vivere. Proprio perché si ama, proprio perché nell’amore e grazie all’amore ci si apre all’esterno, alla vita, che la morte è allontanata definitivamente. Amare significa vincere la morte. L’anima che ama è vivente. E gli attimi in cui è radicato questo evento forte. L’amore permette ad ogni individuo, ad ogni creatura di accorgersi che la vita palpita intorno ad ogni cosa. E il Dio creatore ama, ama costantemente. Ed infatti è considerato il Dio vivente. Continuare ad amare diventa motivo di vita, continuare a vivere, sentirsi vivo, e rinnovare al tempo stesso la vita stessa.

L’evento dell’amore scardina ogni chiusura, ogni fortezza, rende manifesto ciò che prima era nascosto tenuto all’oscuro, porta la luce nelle zone di tenebra e rinvigorisce il mondo. La morte è battuta. La morte in un attimo arresta il corso della vita di un individuo, ma non potrà mai annullare la voglia di vivere che l’amore dà in vita. E questa voglia di amare è l’implicito desiderio, volontà, di continuare a vivere per questo amore. «Forte come la morte è l’amore».

E Dio, il Vivente, ama. Ama incessantemente, per questo è eterno. L’amore pone le sue radici nell’attimo, in quello stesso attimo contrasta la morte. In un attimo solo può accadere l’eternità nel presente. Chi o cosa ama Dio? A chi o a che cosa è rivolto il suo amore incessante? A chi si rivolge?

4. L’uomo: l’amata

All’uomo. Egli è l’altro polo della rivelazione. Su di lui si riversa l’amore divino. Come si prepara a riceverlo? Infatti egli deve prepararsi. L’uomo, che noi abbiamo conosciuto come «meta-etico», non è pronto; non sente, non vede; come farà ad accogliere così l’amore di Dio? Anche la sua chiusura deve aprirsi affinchè egli impari a udire la parola di Dio, a vedere lo splendore di Dio.42

L’uomo è l’altro polo della rivelazione, ne è il destinatario effettivo. Dio ama l’uomo, ama la creatura simile a lui La rivelazione ha due poli, due punti estremi. Ma l’uomo deve prepararsi a questo evento, deve uscire da questa chiusura, deve liberarsene, spezzarla. Se si è chiusi in sé, nel proprio sé, non si può accogliere l’altro. L’uomo chiuso in se stesso sente solo sé e vede solo ciò che lo riguarda all’interno della sua chiusura stessa. Come può sentire Dio che lo chiama, che gli parla? Come può se è muto? Come può anche solo sfiorare con gli occhi la sua vista se non vede oltre le sue barriere che lo chiudono?

Caparbietà e carattere, hybris e daimon erano confluiti in lui e lo avevano plasmato in un muto sé, chiuso in se stesso. Ora egli esce da sé e qui si svelano nuovamente le forze che gli avevano dato forma. […] L’orgoglio caparbio del libero volere, che con i suoi reiterati sommovimenti aveva rinchiuso in un sé il carattere esistente ora diviene la prima che esce dall’interno del sé ed essendo la prima a fare questo, diviene un primo uscire, un inizio dell’usicr fuori, ora di necessità, non più nella forma di sommovimenti appassionati, ciascuno dei quali nella sua istantaneità attinge di slancio la massima altezza, bensì nel modo di una tranquilla propagazione.43

Caparbietà44 e carattere avevano tenuto chiuso il sé dell’uomo, muto, silenzioso Ora, invece, l’uomo esce da sé. Lo stesso orgoglio caparbio che lo aveva tenuto chiuso come in catene, come un uomo in prigione, è invece il primo elemento ad uscire. L’orgoglio caparbio diventa il primo uscire, il primo passo verso l’apertura, verso il dischiudersi del sé ad Altro, al trascendente al divino. L’uscita fuori di sé, lo spezzare le catene che opprimono l’individuo, avvengono grazie al trascendente. La porta dell’uomo si deve aprire. La caparbietà, la tenacia, che aveva tenuto l’uomo in catene si tramuta in un qualcosa che gli permette di compiere il primo passo verso Dio. L’orgoglio caparbio, perché questo è caparbietà, non sfocia in moti dell’animo esagitati. Non almeno questo orgoglio caparbio; al contrario rimane tranquillo, in quiete Questo strano orgoglio, questa strana caparbietà, mantengono l’uomo tranquillo, in silenzio. È il silenzio della quiete di chi sa attendere. È la quiete dell’attesa, non il mutismo della chiusura. L’orgoglio caparbio cambia, si trasforma, subisce un mutamento radicale. Da fattore che incatena l’uomo al suo mutismo a quiete che dispone all’attesa. Si crea così nell’animo umano la predisposizione necessaria all’evento, una predisposizione di chi è pronto ad aprirsi, a rompere il proprio guscio e guardare in faccia la vita. L’orgoglio muta, e con lui anche il significato.

Un orgoglio di tal genere, che semplicemente è, nel quale quindi l’uomo è silenzioso e si lascia portare, è certo l’esatto contrario della caparbietà, la quale incessantemente si agita e si ribolle. È l’umiltà. Anche l’umiltà è orgoglio. Solo superbia e umiltà sono opposti. Ma l’umiltà, che è cosciente di essere ciò che è per grazia di un più Alto, è a tal punto orgoglio che quella coscienza stessa della grazia accordatale da Dio poté essere considerata a sua volta piena di superbia. L’umiltà riposa sul sentimento di essere-al-sicuro.45

Ecco in che cosa si trasforma l’orgoglio che si cela dietro la caparbietà. Si trasforma in pura umiltà . È l’umiltà di chi non vuole portare ma di chi si lascia portare, di chi non si chiude nella fortezza ma si lascia attraversare, sfiorare. È l’umiltà di chi si sente creato dall’Altissimo e al tempo stesso orgoglio di chi ha ricevuto una simile grazia. Sì, essere stati creati da Dio è una grazia. E l’esserne consapevole è al tempo stesso sinonimo di superbia. E questa sua umiltà, questa sua consapevolezza di essere creatura di un Alto, dell’Altissimo, di Dio, fa sì che l’uomo si senta al sicuro, si senta protetto. L’uomo non è solo. L’uomo sente la presenza di Dio, del Dio Creatore vicino a lui. La solitudine caparbia è completamente infranta dalla vicinanza del Trascendente. E questa vicinanza del trascendente rassicura l’uomo, lo rassicura di essere protetto, non solo. Lo rassicura di essere amato.

E questa umiltà, nella sua ovvietà orgoglioso-riverente tuttavia non è altro che la caparbietà che esce dalla muta chiusura del sé e si fa avanti. E come questa caparbietà, la dove assumeva forma visibile come hybris tragica, suscitava nella folla avida di spettacoli brividi di timore, senza però sentire mai lei stessa nulla del genere, ora, a capovolgimento avvenuto, si sente lei stessa squassata dai brividi di timore reverenziale e tuttavia portata da questi […] l’immagine senza vita viene ora riempita anch’essa di quella vita che fin qui risvegliava soltanto nello spettatore e diviene viva: ora può aprire la bocca e parlare.46

L’umiltà non è nient’altro che questo orgoglio caparbio che fuoriesce dalla chiusura del sé. Ma c’è di più. Questa caparbietà trema, ha timore del trascendente, paura di compiere il primo passo fuori dal cerchio, di andare avanti e di affrontare Chi è di fronte a lui. Il timore, la paura, di affrontare l’ignoto è grande. L’ignoto che non è in noi ma che è fuori di noi fa paura perché non possiamo prevederne le mosse, gli accadimenti. Non possiamo intuire niente. La caparbietà osa e al tempo stesso trema. Ma è proprio grazie a questo timore si sente viva, viva come non mai. Nel tremore si capisce che si sta vivendo e che c’è qualcosa o qualcuno che ti fa tremare. E grazie a questo timore che l’uomo sa di volere esternare le sue emozioni, la sua paura. E che trova, però, il coraggio di parlare. Sì, nel sentirsi vivo per timore l’uomo parla, l’uomo apre la bocca. È pronto. Caparbietà, umiltà e timore spingono l’uomo a volgere la propria anima a Dio. Dio lo rassicura e l’uomo trema di fronte all’amore immenso, forte, eterno di Dio.

Riverenza umile-orgogliosa, al tempo stesso sentimento di dipendenza e certezza di essere al sicuro, di trovare rifugio nelle eterne braccia: e dunque, questo non è forse ancora una volta amore?47

Essere al sicuro, sentirsi, protetti, significano consegnare la propria anima all’Eterno, affidarsi completamente al suo amore. L’amore di Dio rasserena l’uomo, lo rassicura e gli permette di aprirsi. Se la chiusura in sé permette di essere limitato in se stesso e al tempo stesso di conoscere solo sé come unico punto o baricentro di una vita, l’aprirsi verso il Trascendente invece comporta due momenti incredibili e forse apparentemente contraddittori il timore e la sicurezza. Solo l’umile teme il Creatore o sa che la propria nascita o creazione non dipende da lui stesso solo, e sente, prova la sicurezza di Chi costantemente gli offre l’amore, la vera energia della vita. Dio lo ama eternamente. Il presente è segnato dalle pulsazioni continue di questo amore che Dio prova per la sua creatura. Come non trovare rifugio in quelle braccia che lo hanno plasmato, forgiato? Quelle stesse braccia che l’hanno voluto? L’uomo si rifugia in quella sola eternità che gli è stata data, gli è stata donata: l’amore. Lui, mortale, uomo che nasce vive e muore, che appunto non è eterno, può rifugiarsi in un’eternità fattuale, che è presente, che è nell’oggi. L’amore di Dio, la vittoria sulla morte, sorregge l’uomo dalle sue fragilità da mortali. Nella vita umana soffia l’aria dell’eternità, quell’eternità che porta l’uomo ad ergere la testa e a guardare al cielo.

L’amore dell’amante è una luce che gli si accende nuova ogni volta, l’istante in cui si accende le conferisce attualità. L’amore dell’amato siede silenzioso ai piedi dell’amore dell’amante: attualità gli viene conferita non dal singolo istante, sempre nuovo, bensì dalla quiete durata; solo perché si sa amato «sempre» egli si sa amato ogni istante.48

L’amato si sa amato sempre dall’amante, e questo sempre è la quieta durata, è l’attualità. L’amore eterno di Dio dona quiete nella vita dell’uomo, e dura in una luce rassicurante. L’amore dell’amata siede invece silenzioso ai piedi di quello dell’amante. È il silenzio di chi rimane ammagliato alla vista di chi ama. L’attimo avviene, l’attualità è donata, e l’uomo può vivere di quell’attimo presente che è miracolo continuo, dono memorabile di Dio, che ama. La paura, il timore, il silenzio, sono segni inconfutabili dell’amore dell’amata che si apre a Dio.

Ma come ama l’amata?

Da parte dell’amante essa può solo lasciarsi amare, nulla più. E in questo modo l’anima accoglie l’amore di Dio. Anzi tutto questo vale in senso stretto per l’anima e per l’amore di Dio. Tra l’uomo e la donna, quanto più alti sono i germogli che la pianta dell’amore ha gettato tra di loro, quanto più l’amore di eleva dritto come un albero di palma e si allontana dalle proprie radici sotterranee, tanto più i ruoli di colui che dà e colui che riceve amore si scambiano, benché salendo dalle radici della sessualità49 l’inequivocabile rapporto voluto dalla natura si ricostituisce sempre nuovamente.50

L’amata corrisponde l’amore di Dio lasciandosi amare. Il suo riamare è un lasciarsi amare. È il contraccambio del dono, accettare, accogliere l’amore di Dio. L’anima non può amare con la stessa intensità, modo e grandezza di Dio. L’amore tra uomo e donna è diverso nel modo di essere vissuto. Entrambi amano, hanno delle radici di appartenenza dalle quali si distaccano per mettere poi al mondo nuova vita. La differenza fondamentale tra l’amore di Dio per l’anima e l’amore di uomo e donna si trova appunto nel modo in cui questo amore è condiviso, vissuto da entrambe le parti. Infatti, Dio ama l’anima dell’uomo che a sua volta riceve, accoglie l’amore divino. Invece in uomo e donna non ci sono c’è un amante e un’amata fissi. I ruoli si scambiano. Non c’è chi ama di più sempre e chi ama di meno. Nell’uomo e nella donna c’è un reciproco dare e ricevere.

Ma tra Dio e l’anima il rapporto rimane sempre identico. Dio non cessa mai di amare, l’anima non cessa di essere amata. All’anima viene donata la pace di Dio, e non Dio la pace dell’anima; Dio si dona all’anima, non già l’anima a Dio: infatti come potrebbe? Tuttavia solo nell’amore di Dio dalla roccia del sé incomincia a spuntare il fiore dell’anima; prima l’uomo era insensibile e muto, ripiegato su di sé, ora soltanto egli è anima amata.51

Il rapporto tra Dio e l’anima dell’uomo rimane lo stesso, identico, immutabile. Dio ama, si affida, si dona all’uomo. E un nuovo elemento nasce, sorge, da questo amore di Dio. Dall’uomo, tutto sé, tutto muto, chiuso nel suo sé, fiorisce, sboccia, si apre l’anima.52 L’amore di Dio risveglia l’anima dell’uomo. Non era stata menzionata nell’uomo meta-etico prima di questo punto, prima dell’evento della rivelazione. L’amore di Dio dona nel dono un altro elemento: l’anima. L’uomo ha un’anima che si rivolge a Dio, che riceve il suo amore. Nella Rivelazione l’anima si risveglia e viene alla luce. Questo fiore che spunta è pronto a ricevere la luce che lo farà crescere e germogliare al meglio. L’anima è quel fiore che spunta dalla roccia del sé grazie all’amore di Dio L’amore divino vince su ogni pietra, chiusura, egoismo che si trova nell’interiorità umana. E da questo amore niente di più vitale, niente di più delicato e recettivo, che un fiore può nascere. . Un dubbio, una domanda, sorgono dal rapporto tra Dio e l’anima. Se Dio, l’Eterno, ama sempre, può l’anima di un uomo essergli fedele sempre? Come può l’anima permettersi anche lei la parola «sempre»?

La risposta a tutti questi dubbi ci viene dalla preistoria del «sé». Certo, se l’anima fosse una cosa, mai potrebbe essere fedele. […] L’anima invece ne è in grado Infatti non è una cosa, né ha origine nel mondo delle cose. Essa scaturisce dal «sé» dell’uomo, ed in lei è la caparbietà ad uscire allo scoperto. La caparbietà che, in continui sommovimenti sostiene il carattere ne è l’origine segreta dell’anima; è lei che le dà la forza di tenere, di resistere […] . Senza la tenebrosa chiusura del sé non c’è alcuna luminosa rivelazione dell’anima, senza caparbietà nessuna fedeltà.53

Dal profondo dell’uomo, dalle viscere del suo sé, l’anima è sorretta dalla caparbietà. La forza di resistere, di non cedere, di continuare ad essere l’amata di Dio, è possibile solo grazie a questa forza caparbia nell’uomo. L’anima non è una cosa, un oggetto, stabili, immobili. L’anima ha la linfa della caparbietà, dell’ostinazione, della tenacia che la rinvigorisce, che le permette di vivere il presente dell’amore fino all’ultimo, amando come lei sa fare. Dio ama sempre l’anima, e l’anima ricambia grazie alla fedeltà caparbia. Dio si dona all’anima dell’uomo che lo accoglie nell’aprirsi profondamente a lui. Dio si dona sempre all’anima dell’uomo in ogni momento. Il dono è tale quando chi riceve il dono lo accoglie tra le mani e gioisce. La donazione può divenire dono solo se l’altro accetta. E l’anima accetta questo dono immenso eterno, costante, grazie alla determinazione di non dissipare, di disperdere e di perdere l’amore di Dio. Questo caparbio ricevere fedelmente da parte dell’anima accresce l’amore, lo rinforza, lo attesta.

Il corrispondere dell’amore all’amore è questo: la fede dell’amata nell’amante. La fede dell’anima attesta, nella sua fedeltà, l’amore di Dio e gli conferisce durevole essere. «Se voi mi date testimonianza, allora io sono Dio, e altrimenti no», così il maestro di cabbala fa dire al Dio dell’amore. L’amante che nell’amore si abbandona all’altro viene nuovamente creato nella fedeltà dell’amata, e questa volta per sempre.54

La fedeltà è avere anche fiducia in chi ti ama. Fedeltà e fiducia nel caso dell’anima e di Dio diventano fede. E la fede testimonia l’amore di Dio e gli conferisce durata. Dio ama, ma senza qualcuno che è amato, senza un altro polo della rivelazione, non c’è amore, non ci può essere. E non c’è neanche Dio. Quale altra creatura al mondo potrebbe accogliere il suo amore? Perché mai infatti avrebbe creato l’uomo simile a Lui? Solo una creatura a Lui simile, plasmata dal Lui, dal suo soffio vitale, può infatti essere capace di ricambiare l’amore. L’uomo è amato e rinnova l’amore di Dio testimoniando la sua esistenza. Solo se l’uomo ricambia l’amore afferma, attesta l’esistenza di un Dio che ama. L’amore non esiste da solo, è costituito da due poli di attrazione. L’amore non è mai solitario. Non sarebbe amore. Amore è andare l’uno incontro all’altro, amarsi l’un l’altro. Anche l’eterno, anche Dio, il creatore del cielo e della terra non può fare a meno dell’uomo. Senza l’amore dell’anima amata, il Dio vivente, che ama, non esisterebbe.

5. Amore e testimonianza: attraversare il presente

E i saggi dicono: Le membra dell’uomo gli sono testimoni, come è detto: Voi sì, siete i miei testimoni — oracolo del Signore — che Io sono Dio (Is. 43,12).55

Ricambiare l’amore ricevuto ha un valore di vitale importanza: ne vale dell’esistenza di Dio stesso. Se Dio aveva portato alla luce l’anima dell’uomo, se lo aveva dischiuso alla vita, ora è l’uomo che permette a Dio di essere continuamente vivente. È la testimonianza56 che mantiene in vita l’amante, colui che dona sé all’amata. Testimoniare è non dissipare, non essere indifferente, non perdere il dono ricevuto. Ne vale della vita stessa. Donare sé è un atto di fiducia cieca, totale nell’altro, è affidare la propria vita, la propria esistenza nelle mani di un altro. Dio affida la propria esistenza nelle mani dell’uomo. E sta all’uomo, alla creatura creata per ultima, dalla polvere della terra, a mantenere eterna l’esistenza divina. C’è qualcosa, che però ancora non è avvenuto. Dio e l’uomo rimangono in silenzio entrambi. Nella quiete sicurezza dell’anima, in cui ogni paura è messa a tacere dall’amore, anche l’amante e l’amata non proferiscono parola. Non ancora. In tutta questa descrizione dell’amore Dio e l’uomo hanno vissuto in silenzio. Ma questo non è il silenzio di chi non ha niente da dire, di chi non vuol parlare. È il silenzio dell’attesa che una parola arrivi, una semplice parola o frase che rafforzi ulteriormente il presente di questo amore. Dio in precedenza aveva usato le parole per creare il mondo. Nel proferire tali parole, Dio si era riconosciuto come «Io». «“Io” è sempre un “no” divenuto sonoro».57 È il «no» al nulla, no al mutismo assordante del niente infinito. Dio non era più semplice «nulla» ma era un «Io». Ma come può l’Io di Dio esistere senza un Tu? Non c’è Io senza Tu ma nessun Tu può essere proferito senza un Io. La sonorità dell’Io squarcia il mutismo del nulla. La sonorità è anch’essa presenza, presenza di chi parla. Ma questa presenza per essere tale deve essere udito da chi ha orecchi per sentire. Se il suono non viene udito, se non viene riconosciuto in quanto segno di presenza, da un altro, il suono stesso vale quanto la presenza stessa dell’esistenza. Le parole sono vitali solo se dall’altra parte di chi parla c’è un «tu»58 che ascolta.

All’«io» ri-sponde [ant-wortet] nell’intimo di Dio un «tu». È il duplice risuonare di «io» e «tu» nel monologo di Dio durante la creazione dell’uomo. Ma come il «tu» non è un autentico «Tu», poiché rimane ancora confinato nell’intimo di Dio, così anche l’»io» non è ancora un autentico «io», poiché non gli si è ancora contrapposto alcun «tu». Solo nel momento in cui l’»io» riconosce il «tu» come qualcosa fuori di sé, e quindi solo quando passa dal soliloquio al dialogo vero e proprio, diviene quell’»io» che pocanzi pretendevamo essere il «no» originario fatto sonoro.59

L’«Io» di Dio non è autentico, non è un concreto «io». Perché? Perché Dio deve aver di fronte un qualcosa che si contrappone, che gli sta di fronte, che è fuori di lui. Il «tu» di Dio deve essere fuori di lui. Durante la creazione, l’Io di Dio non è ancora autentico. Dio è in cerca del suo «tu», di quel «tu» che può renderlo «io». Non c’è ancora dialogo, ma solo un solitario monologo tra l’io e il tu di Dio dentro di lui. E Dio non si accontenta. Non c’è Dio, non c’è io, se prima non si incontra, non si a ha che fare con qualcuno che gli si pone di fronte. Anche Dio, il Creatore, colui che è eterno, grazie a cui ogni cosa è stata creata, non è autenticamente «Io». Non si basta a se stesso. Solo l’uomo è in grado di renderlo «io» autentico. Nessun io è mai realmente io se rimane impigliato nella propria interiorità. Solo di fronte a un tu, a un individuo che gli contrappone davanti e si rivolge a lui, l’io è reale, autentico. E Dio è pronto a rivolgersi all’uomo per avere la consacrazione a «io».

Ma dov’è un tale «tu» autonomo che stia libero di fronte al Dio nascosto e rispetto al quale egli possa scoprirsi come un «io»? Un mondo oggettivo c’è, c’è il sé chiuso in se stesso, ma dov’è un «tu»? Anzi dov’è il «tu» Così domanda anche Dio. «Dove sei tu?»60

La domanda sul tu è l’inizio della ricerca. Dio parla, ma stavolta non per creare, non per portare le cose alla vita., non per definirsi creatore. Sono parole diverse queste. Non ci troviamo più di fronte ad un imperativo presente creativo. Ci troviamo di fronte alla domanda. Dio domanda. È Dio ad attendere. Dio attende che le sue parole siano ascoltate, comprese, e nella risposta Dio attende61 le parole dell’altro, le parole di risposta . La domanda muta il presente. Gli attimi del presente diventano a attimi di attesa. Il presente si apre all’attesa, si apre alla risposta che dovrà arrivare dall’uomo. Lui, l’uomo, semplice creatura di Dio, mortale, finito, ha la capacità di attraversare62 il presente per giungere a Dio grazie alla forza della testimonianza.

Dio ama, quindi parla. Non dice, bensì parla. C’è una differenza sostanziale, di fondo, in questi due verbi. Anche in ebraico il verbo dire, lamor sottolinea l’azione singola del parlante. Invece il verbo parlare ledabber, indica un dialogo, indica cioè che ci si sta rivolgendo ad altri, a un’altra persona. Le stesse parole che Dio usa per creare il mondo e le cose, gli animali e le piante, non hanno più questo potere creativo,^[63] ma semplicemente un evocativo.63 Nessun atto creativo, solitario, seppur divino, potrà mai conferire a chi lo compie la convinzione di essere «io». Solo nel rendersi conto che c’è un «tu», un altro, e quindi un «oltre» fuori del sé, e nell’aprirsi a lui, che si diventa «io». È solo quando le parole diventano domanda, solo quando le parole attendono altre parole da un «tu», che le parole stesse compiono il più grande dei miracoli: una creatura si rivolge faccia a faccia con Dio. Domandare è amare, cercare il tu è andare oltre. Le parole che sono domanda sono le parole che squarciano la solitudine e viaggiano verso una terra mai vista, ma creduta esistente: il tu dell’uomo. Le parole di un dialogo, le parole di Dio rivolte all’uomo, alla ricerca dell’uomo, non creano, bensì chiamano l’uomo, l’anima dell’uomo, ad ascoltare Dio. La presenza di Dio è nelle mani dell’ascolto e della risposta dell’uomo. Neanche conferendo alle parole un valore creativo Dio si era sentito un «io». In una semplice domanda, permeata dall’amore divino, c’è il la scintilla che permette di accendere finalmente l’«io» di Dio.

Ma dov’è ora l’uomo? Dio lo cerca. E così la domanda iniziale, di ogni dialogo,^[65] di ogni incontro, è una domanda sul «dove».

Mentre chiede di colui e, mediante il «dove» incluso nella domanda, , attesta di credere all’esistenza di un «tu», anche senza che questo gli sia comparso davanti agli occhi, chiama ed esprime se stesso come «io». L’«io» scopre sé nell’attimo in cui afferma l’esistenza del tu attraverso la domanda circa il «dove» del «tu».64

Nel momento in cui Dio afferma e crede che esiste un «tu» al di là di se stesso, al di là del suo essere infinito, al di là della sua infinità, Dio scopre sé. È nel credere nell’altro nonostante questo ancora non sia di fronte ai suoi occhi, che l’io diventa tale. Dio diventa io non quando incontra il tu, ma quando lo cerca ancora prima di averlo visto, ancor prima di sapere, che forma abbia, ancor prima della sua risposta. C’è un «oltre»65 di Dio, un oltre a lui. La grandezza di Dio è nel riconoscere l’oltre a lui prima di ogni creatura, riconosce che anche lui nella sua infinità ama, e l’amore richiede sempre un duale, una dualità. Dio va oltre la sua infinita dimensione per arrivare di fronte a una sua creatura. Solo nel riconoscere che fuori di sé c’è un tu, c’è un altro, diverso, non identico, si può affermare il proprio io. Ma dov’è l’uomo?

L’uomo si nasconde, non risponde resta muto; egli resta il sé così come noi lo conosciamo. […] Il «sé» vuole essere evocato con una magia più potente della semplice domanda circa il «tu», perché la sua bocca si apra a pronunciare «io» In luogo dell’indeterminato «tu», che semplicemente rimanda a ed a cui quindi anche l’uomo risponde con un semplice rinvio-ad altro (alla donna al serpente), compare il vocativo, la chiamata diretta.66

L’uomo si nasconde, non risponde alla chiamata del Signore. Rimane muto. È ancora tutto «sé». Serve qualcosa di più potente per farlo smuovere, per farlo parlare, per smuoverlo a compiere quel passo che porta alla risposta. L’uomo può pronunciare l’»io» a sua volta solo se sa che è proprio lui il diretto interessato della chiamata, della domanda, della richiesta di Dio di essergli testimone. Non vuole essere un tu indeterminato, ma vuole essere un determinato «io», un unico «io». La magia del nome proprio è la magia di essere chiamati per nome da chi ti ama: l’unica magia che permette all’uomo di dire finalmente «io». Non c’è potenza, forza più grande del suono che proviene dall’amore che riempie e dà valore al proprio nome. L’uomo ha bisogno del vocativo, cioè di essere chiamato per nome. Chi pronuncia un nome proprio con amore ha il potere di far vibrare l’anima dell’uomo in ogni sua piccola parte. Il vocativo è la chiave di volta della risposta, dell’affermarsi io dell’uomo. Solo il nome, il nome proprio, può dare quella scintilla che gli permette di farsi avanti agli occhi di Dio.

L’uomo, il quale al «dove sei tu?» di Dio aveva ancora taciuto, come un «sé» caparbio ed ostinato, ora chiamato con il suo nome, due volte, con la pià grande determinazione quella che non si può fare a meno di ascoltare, risponde totalmente aperto, totalmente dispiegato, tutto pronto tutto… anima: «sono qui».67

Il nome dell’uomo, Adam, riecheggia due volte nel mondo e l’anima si sente chiamata in causa, si sente risvegliata dal potere, dalla forza evocativa del nome proprio. È un nome pronunciato da Dio con l’amore di chi si affida a chi ama. Il nome proprio individua Adam. Dio non si rivolge a un altro oltre a lui. Dio si rivolge solo ed esclusivamente a lui. Anche Adam vuole sentirsi unico, vuole che sia solo lui il destinatario di questo amore. L’indeterminatezza de «tu» che si trovava nella precedente domanda non gli dava la sicurezza dell’essere lui l’altro polo dell’amore divino.

Il nome proprio è il chiaro segno che è lui l’unico amato di Dio, ha la capacità di far vibrare l’anima, di farla tremare d’amore e di darle la felicità di chi si sente scelto perché amato. Il nome proprio appartiene al suo portatore. «Esso dice qualcosa sull’esenza stessa del nominato, ne racchiude almeno in parte la potenza, o addirittura si identifica con l’essenza stessa del nominato».68 È Dio che ha dato il nome all’uomo, ed è Dio stesso a chiamarlo per primo, due volte. Ed è il nome proprio, che chiama alla luce l’uomo, che lo pone allo scoperto, la chiave che permette di spalancare le porte della sua anima. L’uomo è pronto, ora, e la sua anima con lui. «Sono qui», risponde l’uomo. L’uomo si è scoperto completamente a Dio. Dietro la domanda e la risposta non c’è una sola e semplice ricerca dell’uomo da parte di Dio. Dio non impone subito l’amore. Dio chiede all’uomo se si sente pronto a quello che verrà dopo, pronto a quello che una reciprocità d’amore comporta. La domanda è piena libertà. Nella domanda si cela la libertà che Dio dà all’uomo di scegliere di essere pronto al patto di fedeltà con lui. Dio lo ha reso unico, ha chiamato l’uomo con il suo nome, Adam. Ed Adam ha accettato nella sua risposta, nel suo «sono qui» nel suo «eccomi», in ebraico hinneni.69 «Eccomi, sono qui» dice l’uomo. Lui è pronto ad accettare qualsiasi compito, qualsiasi dovere che Dio gli darà. L’uomo, Adam, ha scelto di affermare il patto d’amore con Dio, è pronto a ricevere, ad accogliere, tutto l’amore, tutto quello che questo amore comporterà. L’uomo poteva continuare a nascondersi, a rimanere in silenzio. Ma, sentitosi chiamare per nome, avuta la conferma che lui solo era colui che Dio ama, non avuto più dubbi. Di fronte a ciò, Adam si sente pronto ad accogliere ogni richiesta di Dio. Dio ha ottenuto la risposta dell’uomo, sa che Adam ha scelto, ha accettato la sua richiesta, ha accolto prima di tutto la sua parola, la sua apertura verso di lui. L’uomo ha ascoltato la parola di Dio, la sua domanda piena di amore. E ha accettato nella sua risposta.

Ecco qui l’«io». L’io umano singolo. Ancora totalmente recettivo, ancora soltanto aperto, ancora vuoto, senza contenuto, privo di essenza, pura disponibilità, pura obbedienza, tutt’orecchi. In questo obbediente udire [ge-hörsames Hören] cade, come primo contenuto, il comandamento. […] Tu devi amare… quale paradosso contiene questa espressione! Si può comandare l’amore? L’amore non è forse destino, un esser-presi. E là dove è libero, non è forse libero dono e nulla più? E qui viene comandato? Sì, certo, l’amore non può essere prescritto, nessuna terza persona può ordinarlo né ottenerlo con la forza. Nessuna terza persona, appunto, ma l’Uno può.70

L’uomo è recettivo, è pronto ad accogliere la richiesta di Dio. Cosa si celava dietro il «dove» della domanda? Dovunque l’uomo si fosse trovato, avrebbe accolto la parola di Dio? La sua richiesta? Nell’estensione spaziale del creato, in ogni angolo recondito del mondo, dal più solare a quello più tenebroso, è l’uomo disposta, pronto, aperto, alla domanda, richiesta di Dio? In una sola domanda due «io» si delineano, due esistenze vengono affermate e confermate. E Dio lascia un comandamento all’uomo, gli affida un compito importante, carico di responsabilità. Qual è questo compito? Amare. Amare, questo il dovere dell’uomo, l’unico e solo comandamento che Dio gli ha affidato. Si può comandare l’amore? Solo Dio, solo l’Uno può farlo, e nessun altro. Il dialogo tra l’umano e il divino contiene un comandamento importante.

Il comandamento dell’amore può venire soltanto dalla bocca dell’amante. Solo l’amante (ma l’amante lo può realmente) può dire e dice «amami». Sulla sua bocca il comandamento dell’amore non è un comandamento estraneo, ma non è altro che la voce stessa dell’amore. L’amore dell’amante non ha altra parola per esprimersi se non il comandamento. Tutto il resto già non è più espressione immediata bensì dichiarazione, dichiarazione d’amore.71

«Amami» è il comandamento presente che Dio chiede di osservare all’uomo. Non c’è altro comandamento che Dio chiede, altro ordine che impartisce, se non quello di amarlo. Dio richiede amore, vuole amore, dall’uomo, vuole essere amato e niente più Dio può ogni cosa, è il creatore di ogni cosa, ha un’essenza infinita, ma neanche Lui può vivere eternamente senza l’amore dell’uomo. Non c’è eternità se il comandamento non è sempre presente, non c’è amore se il comandamento non lo si attua. Questo il compito dell’uomo, questo il suo impegno con Dio: attuare sempre quel comandamento. L’eternità è nelle mani dell’uomo, nei suoi gesti quotidiani, nel presente. Il presente dell’amore spalanca le porte all’eternità. Ed è per questo che la voce dell’amore è nel comandamento, è il comandamento. È l’amore che spinge Dio a parlargli, a uscire dal suo nascondimento, dalla sua solitudine infinite, per rivelarsi Dio, per dire finalmente «io», per essere anche lui sentito, ascoltato, per essere riconosciuto come il Dio che ama, il Dio vivente. Per amore ci si scopre, per amore si fa il primo passo avanti a sé, per amore si vive e per la vita si ama. E per amore si parla. Le parole diventano dialogo quando sono aperte all’altro, quando le parole sono porte che conducono all’altro, quando ci si svela: in altre parole, quando si ama. L’amore è questo rischio, di affidarsi, donarsi, completamente all’altro. È il rischio di domandare, di chiedere, di dare all’altro la possibilità di essere «io», di dire «io», è la domanda che apre all’esistenza dell’altro. La domanda è dare libertà, riconoscere l’esistenza oltre la propria. L’amore dona libertà al sé e all’altro e li libera dalle catene che li imprigionano. E comandare amore all’uomo significa solo insegnargli, indicargli, il modo di essere libero.

Per questo, proprio perché libera, l’amore non attende tempo, non vuole aspettare altro tempo, deve essere ora.

Il comandamento sa solo l’istante, si attende il successo già nell’attimo stesso in cui risuona e se possiede l’incantesimo dell’autentico tono di comando è puro presente. Ma mentre ogni alto comandamento, anche se lo si considera soltanto dall’esterno e in certo modo a posteriori, potrebbe essere altrettanto bene anche una legge, quest’unico comandamento dell’amore è sommamente incapace di essere legge, può essere soltanto comandamento. […] il suo contenuto sopporta soltanto un’unica forma, quella del comandamento, della presenza immediata e dell’unità di coscienza, espressione e attesa del compimento.72

Perché il comandamento? Perché puro presente. Nel momento in cui Dio proferisce il comandamento esso è legato al presente, ha valore nel presente e richiede questo adempimento sempre. Non è momentaneo, non vale nel futuro, non è per il futuro. Il comandamento d’amore vale sempre, è per sempre. E attende il suo compimento. Se l’amore di Dio rimane perchè vive di presente, l’uomo costantemente, continuamente, quotidianamente deve adempiere questo comandamento d’amore. Dio richiede l’ora, l’adesso, l’attimo perché del presente si nutre l’amore.

Tutta la rivelazione sta sotto il segno del grande «oggi»; «oggi» Dio comanda ed «oggi» occorre prestare ascolto alla sua voce. Questo «oggi», all’imperativo, del comandamento è l’oggi in cui vive l’amore dell’amante.73

Oggi. Non domani, non ieri. Oggi. E non solo in un momento, in un frangente di quell’oggi. Sempre. Come sempre vogliamo che luce illumini i nostri gironi così non basta solo un momento, un attimo che si promette, ma Dio richiede all’uomo di essere costante, di essere fedele al patto preso, alla responsabilità assunta. Non è in ballo solo l’amore tra Dio e l’uomo, è in gioco il presente di cui entrambi l’uomo e Dio stessi vivono. L’amore è la forza del presente, la forza della vita. Solo grazie all’amore si rafforzano, si rinnovano e sconfiggono le tenebre e la notte della morte. Quell’imperativo, quel comandamento, non è solo una richiesta di amore, è una scelta. È la scelta di vivere, è scegliere la vita. «Amami» cioè vivi. Dare presente al presente, rendere l’oggi sempre un giorno vivo, viverlo con tutta l’anima, con tutto se stesso, grazie all’amore. Non lasciarsi vivere dal passato che è stato, non lasciarsi abbattere dal timore, dalla paura della morte, ma vivere oggi il presente che è qui. L’amore apre l’uomo all’oggi, all’ora, dovunque egli sia. Ogni giorno è un giorno di eternità se l’uomo ascolta e sceglie di adempiere il comandamento dell’amore.

6. Il linguaggio profetico e l’agire che redime

Questo «Io, l’Eterno» crea alla rivelazione,74 nel profeta, un proprio strumento e un proprio stile. Il profeta non è un mediatore tra Dio e gli uomini, egli non accoglie la rivelazione per poi comunicarla a sua volta, ma da lui direttamente risuona la voce di Dio, da lui direttamente lui parla come un «io». […] Egli non fa affatto parlare Dio, ma, nel momento in cui apre la bocca, già parla Dio. […] L’»io» diviene la parola-matrice che attraversa tutta la rivelazione come una nota di pedale d’organo; esso recalcitra contro ogni traduzione in terza persona, è l’»io» ed «io» deve rimanere . Soltanto un «io», e nessun ille, può pronunciare l’imperativo dell’amore, il quale deve sempre suonare: amami.75

La rivelazione, profezia di una promessa d’amore, non ha bisogno di intermediari, non ci sono intermediari. Solo coloro che sono i protagonisti del dialogo della rivelazione stessa. Dio non si nasconde dietro l’impersonale ille, non è alla terza persona, una terza persona lontana, distante di cui si può parlare, di cui si può chiedere, su cui si può domandare, ma che non interviene mai, che rimane nel suo essere terzo, nel suo essere oggetto di discussione, ma senza mai prendere parola. Dio è «io». Dio parla, interviene è presente, è l’altro interlocutore del dialogo, presente, vicino, che ama, e che di fronte all’uomo non si nasconde. Dio si mostra e parla con l’uomo faccia a faccia, lo cerca non si ritrae nel silenzio, bensì irrompe nella vita dell’uomo, nel cuore dell’uomo, e rompe le sue catene di schiavitù, donandogli la libertà dell’amore. È Dio che, pronunciando la parola «io», afferma la sua vicinanza, la sua presenza, all’uomo, la sua non-indifferenza nei confronti della sua creatura più simile a lui. Ed è affermando il proprio essere «io, rivelarsi, che rende l’uomo suo «tu», suo interlocutore. È nel dialogo, nella parole che il profeta fa risuonare la voce di Dio, senza mediazioni, senza sue interferenze interpretative. Nelle parole, nel linguaggio dio si rivela. L’amore di Dio per l’uomo lo spinge a parlare, a chiedere amore eterno. È l’amore che porta alla rivelazione di Dio nel linguaggio, nelle parole. La rivelazione è dialogo tra amanti, fatto di domande e risposte, promesse e responsabilità. Le parole, il dialogo, il linguaggio stesso permettono a Dio di rivelarsi all’uomo, e all’uomo di rispondere. E se i profeti parlano per bocca di Dio, se riportano testualmente le parole di Dio, allora il dialogo, il linguaggio che avvengono nella rivelazione divina hanno valore profetico. Nelle parole avviene la profezia.76

All’uomo, ad Adam, il compito di adempiere questa richiesta d’amore di Dio. Le parole contengono un messaggio d’amore, sono il modo con cui Dio si rivela all’uomo, e con cui l’uomo risponde alla chiamata.

Tutto ciò che ha pronunziato il Signore, eseguiremo e obbediremo.77

Eseguiremo, in ebraico na`asèh, e obbediremo (o ascolteremo), ve-nishma`.

Eseguire prima ancora di obbedire, di ascoltare. Questo è quello che l’uomo è impegnato a fare. Prima ancora di ascoltare, prima ancora di parlare, l’uomo è tenuto a fare, ad agire, a rendere reale, concreto, tangibile nella vita il comandamento di Dio con fatti. Questo comanda Dio, questo chiede all’uomo.

Alla richiesta d’amore dell’amante risponde la confessione d’amore dell’amata. […] Anche il suo amore è presente, ma in modo diverso da quello dell’amante; è presente e attuale solo perché durevole, perché è fedele. Nella confessione il suo amore viene dichiarato come qualcosa di presente che però ha durata, che vuole però avere durata. L’amata è consapevole di voler continuare ad essere in futuro unicamente ciò che è già: amata. Ma indietro, nel passato, c’è un tempo in cui non lo era ancora, e questo tempo in cui non era amata, tempo di assenza di amore, le appare coperto di una densa tenebra.78

L’amata confessa il suo amore all’amante. È una confessione flebile questa. L’amata, che vuole continuare in futuro ad essere amata da Dio, sa che il suo amore dipende dalla sua fedeltà al Signore. Ma sa anche che nella sua confessione d’amore c’è un cono d’ombra: il suo passato. In passato non era amata. L’assenza d’amore è come una grande tenebra che oscura la luminosità della vita. Il buio è nel passato, nell’assenza d’amore che è legata a un tempo non-presente. E quell’assenza d’amore l’amata la vede come un’onta imperdonabile, come un fatto che la opprime. Come si può dichiarare amore se prima non si era amati? Come si può non essere amati?

Nella confessione l’anima si denuda. È dolce confessare che a propria volta si ama e che per il futuro non si desidera altro che essere amata, ma è duro ammettere che nel passato si era privi di amore.79

Confessare il proprio amore all’amante significa trasfondere ogni parte di sé in una frase, in delle parole che giungono all’orecchio dell’altro. Confessare il proprio amore è mettersi a nudo di fronte all’altro. Non c’è niente che l’altro non debba sapere dell’amata. Tutto è chiaro, tutto è cristallino, l’amore, l’anima, sono manifesti. Ma il passato incombe sull’amore presente. L’assenza d’amore è l’oscurità in cui l’anima prima viveva. Senza amore c’è solo tenebra, notte, oscurità. Non si può venire alla luce senza l’amore, senza che qualcuno ti chiami alla luce. L’anima era imprigionata dall’oscurità, in catene che non le permettevano di essere libera, di essere amata, di essere viva.

E l’anima si vergogna del suo sé passato ed anche di non aver infranto lei stessa, con la sua forza, l’incantesimo in cui si trovava. […] infatti l’anima può confessare il suo amore soltanto confessando insieme la sua debolezza e al <tu devi amare di Dio» risponde: «io ho peccato».80

Come dichiarare amore a Dio, mettere a nudo la propria anima se c’è un ombra nel proprio passato? L’anima vorrebbe risultare candida ai suoi occhi, priva di ogni vergogna. Ma non è così. Il suo passato è una spina nel fianco, e anche quello lo deve mostrare al Signore. Nell’amore, nella confessione d’amore non si può tenere qualcosa all’oscuro. Serve lealtà, fedeltà. E il coraggio di ammettere una propria debolezza. E per l’anima non esiste debolezza più grande di non essere stata amata.

Essere privi d’amore significa peccare, per l’anima. E di fronte al suo amante ha confessato anche questa dura verità. Cosa mai potrebbe togliere dal cuore dell’amata questa vergogna incredibile, questo peccato? La confessione stessa. Perché?

Perché nel momento in cui ammette di «aver peccato» agli occhi dell’amante, di Dio, l’anima afferma implicitamente di essere amata ora. L’amore dell’amante vince su ogni ieri, su ogni passato. Il passato è alle spalle, è la sua condizione presente quella che conta. È il presente in cui l’anima vive, un presente ritmato dall’amore di Dio, che offusca di luce ogni tenebra. La vergogna è passata, l’amore è presente. La luce dell’amore cancella ogni oscurità. La propria confessione di vergogna ma al tempo stesso di amore, non fa che rafforzare l’amore tra lei e Dio. Cosa è più importante, il presente o il passato? Ora lei ama ed è amata. Ora lei è libera.

Mentre l’anima, in questo punto supremo della sua confessione di sé, libera da ogni vergogna, si dispiega totalmente davanti a Dio, il suo confessare è ormai più che un confessare, è più che la confessione della propria condizione di peccato; esso non soltanto diviene, ma è già immediatamente confessione e testimonianza di Dio.81

Non c’è più vergogna, non c’è più timore di quello che si è stati, o meglio di quello che non si è stati. L’anima non ha più paura, timore, fremiti, per il passato. Non prova più vergogna per una mancanza d’amore. La sua confessione è molto più che una semplice confessione di peccato. L’anima testimonia Dio. Ammettere i propri sbagli passati, dichiarare che nel passato si era privi di amore, privi dell’affetto di Dio, significa testimoniare che ora la propria condizione è cambiata, che la propria situazione è mutata, che l’amore di Dio ha trasformato completamente la situazione precedente dell’anima. In questa trasformazione, in questa totale rivoluzione interiore, il presente dell’amore porta l’anima allo scoperto, porta l’anima a vivere priva di catene. L’anima confessa che Dio la ama, che Dio è con lei, è vicino a lei, e che non ha niente di cui preoccuparsi adesso. L’amore è da vivere ogni momento, e non si può disperdere per temere il passato. Il passato è passato, l’amore di Dio è in questo istante, e non c’è niente di più grande, niente di più forte, di più imponente che essere amati, che essere amati da Dio. Amare porta a dichiararsi, a svelarsi, a mettersi a nudo, a rivelare ogni piccolo segreto, di fronte all’amante, e testimonia anche l’amore stesso. L’anima testimonia l’amore di Dio stesso, il calore che questo sentimento porta con sé, la sicurezza che dà. Confessare il proprio passato tenebroso testimonia la fedeltà all’amante, fiducia e apertura. Confessare è aprirsi. E l’anima si apre a Dio, e si fa portavoce della sua testimonianza.

Nel momento in cui l’anima fa la sua confessione davanti al volto di Dio e così confessa e d attesta l’essere di Dio, anche Dio, il Dio rivelato attinge per la prima volta l’essere: «quando voi mi confessate io sono».82

Testimoniare l’essere dell’amante, l’essere di Dio, richiede fedeltà. Essere testimoni richiede non nascondere nulla di sè nulla della propria condizione. Solo nella piena consapevolezza della propria fedeltà, della propria fiducia nell’amante, si può testimoniare l’esser di Dio. Confessare è testimoniare l’esistenza di un altro da sé. Testimoniare è di più che dare voce, constatare, un fatto. Testimoniare è tenere in vita chi di cui si testimonia, è mantenerlo in vita. Ecco la vergogna di un passato senza amore, senza amore di Dio. Di un passato senza l’esistenza di Dio. Ora sa che Dio la ama, che si è rivelato a lei. E a lei, che prova vergogna del suo passato, Dio affida il compito più grande di tutti, amarlo sempre, testimoniare la sua esistenza, rendere Dio veramente vivente, nell’amore. Dio si affida completamente alla testimonianza dell’uomo. L’uomo ha la responsabilità, l’impegno, di essere sempre testimone di Dio. Nella sua fedeltà, nella sua caparbia volontà, risiede la capacità di mantenere fede alla promessa fatta. Alla spazialità a cui è affidato l’uomo nella domanda «dove», corrisponde l’imperativo presente di Dio. Dovunque sia, l’uomo è testimone sempre di Dio. Non per pochi giorni, istanti o mesi. Sempre. E ovunque nel mondo. Ovunque e sempre: ecco l’Eterno. La vita dell’uomo vale non solo per la sua singola esistenza, ma vale anche per l’esistenza stessa di Dio. Per questo, testimoniare comporta una grande responsabilità. Non si tratta della verità delle proprie parole, dei propri gesti. È l’esistenza, di colui che ha liberato l’anima dalla sua schiavitù, di colui che ama costantemente, che è continuamente riflessa nella vita dell’uomo. L’amore dell’anima la spinge ad assumersi un onere difficile, ma al tempo stesso grande. Amare è dare vita alla vita, presente al presente, attimo all’attimo. Amare porta ad aprirsi, a confessarsi, amare testimonia l’amore tra due. È affidare la propria vita, la propria esistenza, all’altro e farsi carico dell’altro.

Nel chiamare l’amata a sé, nel renderla testimone, l’amante fa sua l’anima.

L’amante che dice all’amata: «tu sei mia» è consapevole di avere, nel suo amore, generato l’amata, e di averla partorita nel dolore. Egli sa di essere il creatore dell’amata. E con questa coscienza egli ora la circonda e l’avvolge con il suo amore, dentro al mondo:»tu sei mia». Ma giacché Dio agisce in questo modo, la sua rivelazione all’anima ora è entrata nel mondo è divenuta un pezzo di mondo. E non come se, con essa, entrasse nel mondo qualcosa di estraneo. Anzi la rivelazione, benché facendo ciò rimanga completamente al presente, si ricorda del suo passato e lo riconosce come un pezzo di mondo passato; ma così facendo essa dà anche alla propria presenza attuale il valore di qualcosa di reale nel mondo.83

L’anima è circondata e avvolta dall’amore di Dio. La rivelazione avviene, quindi, in una creatura dentro il mondo. L’anima stessa è reale e tutto ciò che avviene in lei è altrettanto concreto. La rivelazione diventa quindi parte del mondo, entra a far parte della realtà, è un evento che avviene nell’intimo di una creatura, e per questo ha tutta la forza della realtà. L’evento della rivelazione non è etereo, non è un sogno, non avviene in una realtà fittizia, bensì effettiva. La rivelazione entra a far parte del mondo, del creato, e acquista il valore della realtà sensibile. L’anima si gira intorno è vede il mondo intorno a sé e quello che lei ha vissuto, la rivelazione, l’ha vissuta realmente. Ma è anche in questa concretezza sensibile che l’anima aumenta, aggiunge sicurezza a quella già avuta dall’amore divino. «Tu sei mia»: Dio è sempre con lei, sempre presente, ovunque e comunque. Non l’abbandona.

L’anima può muoversi nel mondo ad occhi aperti e senza sognare, ora essa rimane sempre nella prossimità di Dio.84

L’anima conserva il segno di un evento di serenità e beatitudine. Parte della realtà del mondo, cioè l’anima che in esso vive, conserva il presente della rivelazione. E l’amata, l’anima, sente nel mondo la costante prossimità di Dio. Dio le è vicino più che mai, è la vicinanza è tangibile, visibile, nel mondo. E si sente protetta. La traccia della rivelazione rimane incastonata nel mondo che la circonda. I suoi passi sono sicuri, parte di quello che la rivelazione è vive, rimane, in lei. Dio si rivela, ma mentre ama sempre, la rivelazione non dura altrettanto. Nella rivelazione Dio manifesta il suo amore per l’anima e le affida la propria esistenza. È nel momento in cui la rivelazione ha termine nell’anima che essa deve adempiere il comandamento nel mondo.

La voce di Dio che ricolma il suo intimo colma solo in una parte assai piccola il suo mondo: abbastanza per poter essere certa, nella fede, della sua realtà mondana, ma insufficiente per poter vivere di questa . Il miracolo fondamentale della rivelazione avvenuto una volta nel passato, esige di essere completato in un ulteriore miracolo non ancora avvenuto. Il Dio che un giorno ha chiamato l’anima per nome […] quello stesso Dio dovrà farlo un giorno «ancora una volta», ma stavolta «davanti agli occhi di ogni «vita-vivente» [Leben-digen] L’anima deve dunque pregare per la venuta del regno.85

La voce di Dio colma solo una parte il suo mondo. L’anima vuole di più. Vuole la venuta del regno. La voce di Dio che nel suo intimo l’anima coltiva, voce che ricolma l’anima, non basta però per vivere di quella fede. Il suo agire, la sua presenza, il suo amore, però, sono solo circoscritti a lei stessa, nella sua interiorità. L’anima vive nella fede ma della stessa sola non può vivere. Se la concretezza dell’amore di Dio risplende in un pezzo di mondo, nell’anima dell’uomo, l’anima desidera che il miracolo della rivelazione sia completato, desidera che avvenga cio che ancora deve venire, av-venire: il regno di Dio. Perché?

7. Esilio e liberazione: l’amore dichiarato al mondo

L’anima desidera che in ogni parte del creato risuoni la eco dell’amore di Dio per lei. Non le basta che solo lei sia a conoscenza di questo amore. Ogni vivente lo deve sapere. Solo quando l’amore è dichiarato al cospetto del mondo intero di ogni vivente, esso è sigillato per l’eternità. Solo quando il «dovunque» del creato si incontra con il presente costantemente rinnovato, l’eternità av-viene.86 L’anima non vuole che l’amore di Dio sia custodito solo nel suo intimo. L’anima dell’uomo vuole essere chiamata per nome, vuole che quell’unico nome proprio che decreta la sua unicità stavolta risuoni di fronte ad ogni vivente. «Hai conquistato il mio cuore, sorella mia, o sposa

Di fonte al mondo intero questa rivelazione deve essere proclamata, questo amore dichiarato. Ogni vivente deve sapere, conoscere, che l’anima è amata da Dio, che l’anima dell’uomo, di Adam, è stata scelta per testimoniare l’amore e l’esistenza di Dio. E l’anima prega.

La preghiera per la venuta del regno è sempre è soltanto un grido ed un sospiro, solo una giaculatoria.87

È il sospiro di chi di fronte a tutti vuole dichiararsi amata. La rivelazione di Dio è rimasta nel suo intimo, è passata. La rivelazione è diventata passato, rimane nell’anima dell’uomo la consapevolezza della realtà che è stata e che continua ad essere solo in lei: la realtà dell’amore di Dio. La rivelazione è ristretta, circoscritta a lei sola, solo lei sa. E questa intima consapevolezza, sua e solo sua, che ancora non è avvenuto il miracolo più grande, la fa gridare. Non ancora è arrivato il regno. E questo non ancora, questa incompletezza che ancora vi è nel mondo, è una morsa, una giaculatoria. Lei sola sa, e nessun altro, nessun vivente sa. E questa sapere diventa solitario segreto che la stringe in una morsa, nell’afflizione, nella tribolazione che il regno ancora non c’è. È la lamentazione che diventa morsa88 in gola. È il singhiozzo dell’amata per l’avvento futuro del regno avvenire. Lei ancora non è nel regno, è fuori da esso. La rivelazione, il rivelarsi di Dio all’anima, la pone in esilio dal regno. Il regno deve venire, dovrà venire. Il regno è il coronamento dell’amore di Dio e l’amata, il tempo e il luogo in cui ogni forma di vita saprà, conoscerà e vedrà che lei è l’amata. Rivelare in ebraico è scritto allo stesso modo del verbo essere in esilio (golah). Perché la rivelazione porta all’esilio? Esilio da chi o da cosa?

L’anima dell’uomo si sente in esilio, esule, dal regno che ancora non c’è, e in esilio dal mondo stesso, mondo che ancora non sa. In esilio da ogni creatura perché solo lei detiene il sapere dell’amore, solo lei sa della rivelazione. Si sente esule dal futuro nel presente, e nel presente dal ogni creatura che ancora non sa di quell’amore di Dio per l’uomo. E vaga l’anima dell’uomo di terra in terra, pregando la sua venuta su questa terra, su questo mondo. Solo quando ogni vivente saprà del loro amore, solo quando a tutti sarà rivelato questa condizione unica dell’amata, sarà giunto il regno. Ma ora, ora che la rivelazione è custodita nel suo cuore come la più grande delle realtà viventi, si sente esule dal futuro atteso, e dalle creature ignare della sua condizione. E sente il futuro distante, lontano. Lei vuole il regno non distante, cioè futuro, ma lo vuole vicino, prossimo a lei, presente. Lei vuole entrare nel regno, l’anima dell’uomo vuole che il regno sia tale nel mondo adesso. Come?

Nel suo rivelarsi all’anima dell’uomo Dio le ha affidato un compito, un comandamento. È il comandamento dell’amore.

Solo se nella sua condizione di essere in esilio dal regno, di essere esule, adempirà sempre il comandamento affidatole, assegnatole da Dio, se testimonierà sempre nell’esilio il Signore (’adonai, אדני), il suo amore (’ahavà, אהבה) per l’Unico, l’Uno (’echad, אחד), nel suo essere non-ancora nel regno, solo e soltanto allora l’esilio (golah, גלה) finirà e ci sarà finalmente liberazione, redenzione (ge’ullà, גאלה). Signore, amore, uno: cosa hanno in comune queste parole? La lettera con cui iniziano in ebraico: alef, ℵ. Solo se l’anima esule, testimone tacita dell’amore, adempirà al comandamento di Dio «amami», potrà liberarsi dall’esilio. Solo se nella sua vita saranno sempre vivi, presenti, il Signore Dio unico e l’amore, otterrà la liberazione, la redenzione giungerà. Basta un’unica lettera, la alef, la prima delle lettere dell’alfabeto ebraico, quella che ha valore numerico uno, a cambiare la situazione dell’anima di esule da un regno che ancora non c’è a sposa del regno di Dio. Basta una sola lettera, la sola lettera alef a mutare l’esilio (golah, גלה) in redenzione, liberazione (ghe’ullà, גאלה). Sta a lei il compito di fare venire il regno. La rivelazione è passata, ma l’amore di Dio resta nel cuore dell’anima scolpito, indelebile. Che lei sia amata lo sa solo lei.

Infatti nel mondo non conta più esser-amato ed all’amato qui non è concesso di sapere altro, come se fosse rinviato a se stesso e non-amato, e tutto il suo amore non fosse esser-amato, ma eternamente amare. E l’anima, in questo suo uscire da questo miracolo dell’amore divino per addentrarsi nel mondo terreno, soltanto nel più profondo del cuore può conservare la parola degli antichi la quale mediante il ricordo di ciò che era stato esperito in quel cerchio magico, dà forza e consacrazione a ciò che le incombe di fare: «Come egli ti ama, così ama anche tu».

Questo il suo compito, questo quello che è chiamata a fare nel mondo. Come Dio l’ama e glielo ha mostrato nella rivelazione, così lei deve amare.

L’unico elemento, l’unico fattore che avvicina il regno dal futuro al presente, è l’amore.

Come?

Se dalla rivelazione il presente dell’amore, la fine di essa apre il presente stesso all’attesa. L’anima at-tende il regno, è protesa ad esso. L’attesa è la breccia che forma nel presente il passaggio per l’avvento del domani eterno, del regno di Dio. L’attesa è prepararsi a qualcosa che deve arrivare, qualcosa che deve giungere a momenti. Se l’attesa è rivolta verso un domani che deve venire, cosa porta il domani a farsi, rendersi oggi, ora, adesso? Quale forza mai spingerà il regno di Dio a farsi presente eterno? Solo l’anima dell’uomo, che aspetta solo di essere consacrata definitivamente a Dio di fronte ai viventi, di essere liberata dall’esilio in cui si trova, può accelerare, consentire, la venuta del regno. Dio le ha indicato l’unico modo possibile. Non solo indicato, glielo ha comandato. Quale forza mai può avvicinare, approssimare nell’adesso il regno? Un’unica forza: l’amore. Solo se è l’amore a guidare ogni azione dell’uomo, solo se per amore di Dio l’uomo agirà dentro il mondo, il regno sarà sempre più vicino. Dio ama, e l’anima è stata abbracciata fortemente da questo amore. La rivelazione ha aperto l’anima a Dio, l’attesa del regno al mondo. La rivelazione è passata, l’amore di Dio e per Dio resta, e un patto deve essere rinsaldato dentro al mondo per l’eternità. La rivelazione diviene passato proprio per aprire l’anima al mondo che la circonda. Ma come può l’anima guadagnarsi questo regno?

Solo se l’anima ama a sua volta Dio. E come si fa ad amare Dio?

Amando gli altri, amando il prossimo, chi ti è vicino nel mondo, ogni vivente. Solo l’amore libera dall’esilio della solitudine e spinge ad approssimarsi, verso l’altro, verso il tu. Amare il prossimo è testimoniare l’evento della rivelazione, del patto con Dio di un futuro da sposa dell’anima. Solo agendo come Dio ha comandato l’anima dimostra amore per l’amante e a sua volta che lui si è rivelato. L’amore chiude la rivelazione e apre alla redenzione «ama il tuo prossimo». È nel mondo, a contatto con gli altri viventi che l’uomo testimonia Dio, e permette al regno di farsi sempre più vicino, sempre più concreto. L’anima è pronta, è aperta grazie alla rivelazione di Dio. Ma su che cosa si affaccia l’anima adesso? A che cosa porta questa tensione, questa attesa, al regno di Dio? Se la rivelazione è passata, e quello che rimane è solo il mondo, su che cosa si aprono i battenti del cuore dell’anima?

Non lo sai? Sulla vita.


  1. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, IV rist. Marietti, Genova, 2000 p. 167. ↩︎

  2. Per Cohen, invece, la Rivelazione è «la creazione della ragione». Sulla differenze e analogie di pensiero tra Cohen e Rosenzweig cfr. R. Horwitz, Hermann Cohen and Franz Rosenzweig on creation and revelation, Archivio di Filosofia, 2003: «La teoria di Cohen è basata sull’etica razionale, sulla logica e il concetto di origine — Ursprung» (pp. 115-129). «L’uomo in quanto essere razionale, è il correlato del Dio della Rivelazione. Dio dà all’uomo la ragione». Al contrario, Rosenzweig costruisce il suo pensiero molto diversamente. La creazione è basata sulla ragione ma la rivelazione è dialogo d’amore. L’esperienza presente di amore tra Dio e l’essere umano è rivelazione, secondo Rosenzweig, ed è la parte più importante della sua intera filosofia» (p. 120). ↩︎

  3. Cfr. Shir ha Shirim, Cantico dei Cantici, a cura di Rav Shlomo Bekhor, Edizioni Mamash, Milano 2003. Il Cantico dei Cantici, secondo la tradizione, è stato scritto dal re Salomone. «Lo scopo di Shlomo era in realtà di suscitare l’interesse di Israel, ma anche quello delle nazioni pagane. Shlomo voleva che tutti fossero a conoscenza del profondo ed eterno amore che lega Israel al Creatore; del fatto che Hashem non aveva mai abbandonato il suo beneamato popolo; che questo amore è inespugnabile e durerà in eterno» (p. 4). È la storia, quella del Cantico dei Cantici, di due fidanzati, che si amano, si cercano, si trovano, si allontanano, si ritrovano e si allontanano. Tutti questi momenti sono scanditi dalla forza dell’amore che li lega. E poi «la particolarità di Shir Hashirim consiste inoltre nel fatto che contiene numeroso allusioni alla redenzione finale e al periodo che seguirà la rivelazione di Mashiakh. È quasi una profezia che descrive la pace, la beatitudine e la perfezione che regneranno nel mondo alla fine del nostro esilio» (p. 5). In questa opera, che è contenuta nella Bibbia, l’amore dei due fidanzati è metafora dell’amore tra Dio e Israele, e contiene allusioni alla redenzione finale, alla venuta del Messia. E cfr. Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, a cura di Umberto Neri, Città nuova, 1993. «Dieci cantici sono stati detti in questo mondo: ma questo è il più glorioso di tutti». Infatti il cantico dei cantici è questo decimo canto e «lo diranno i redenti quando saranno riscattati dall’esilio, come è scritto e spiegato dal profeta Isaia; come sta scritto: Quel cantico sarà per voi gioia, come la notte in cui si celebra la festa di Pasqua, e c’è gioia nel cuore del popolo che va ad apparire davanti al Signore tre volte all’anno con varie specie di strumenti e suono di timpano, sul monte del Signore, per rendere culto davanti al Signore, il forte di Israele» (p. 80). È il decimo canto, il canto di gioia, il canto per il Signore. ↩︎

  4. Sul Cantico dei Cantici all’interno della Stella della redenzione cfr. Y. K. Greenberg, «What does revelation in The Star of Redemption reveal?», in Franz Rosenzweigs neues Denken. Internationaler Kongress Kassel 2004, 2 B.de, W. Schmied Kowarzik (Hg), Freiburg/Muenchen, Karl Alber, 2006: «Nello scegliere il cantico dei cantici come “il libro centrale della rivelazione” Rosenzweig fa un’asserzione sul tipo di testo che considera privilegiato per essere identificato con la più elevata di tutte le esperienze umane, propriamente, un incontro con il trascendente» (p. 833). Cfr O. Fraisse, Die exegetische Form von Franz Rosenzweigs Stern der Erlösung — oder (Bild)Sprache und «performative Hermeneutik» (Teil 1), in Judaica, Heft 3, September 2005: «Per lui (Rosenzweig) il cantico racconta del cambiamento dell’Io silenzioso da prigioniero dietro le sbarre a un Tu che parla grazie all’amore». ↩︎

  5. Cfr. A. Luzzatto, Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, Giuntina, Firenze, 1997, a p. 21 la frase citata. ↩︎

  6. Il Cantico dei Cantici, Marco Valerio editore, Torino, 2003, 1, 2 e cfr. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, op. cit., p. 81. Il Cantico dei Cantici contiene metafore e riferimenti al passaggio dalla schiavitù in Egitto alla Terra promessa. A riguardo cfr. Shir haShirim, Song of the songs. An allegorical traslation based upon Rashi with a commentary anthologized from talmudic midrashic and rabbinic sources, published by Mesorah publications, ltd, Brooklyn, N.Y., 2002. Secondo il commento di quest’ultimo testo citato, chi parla nel secondo verso di questo primo capitolo è incerto. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che chi parla sia l’amata, quindi Israele. Israele si rivolge a Dio dicendo mi baci con i baci della sua bocca. «sua» potrebbe essere riferito a Mosè che per primo ebbe un faccia faccia con il Signore e quindi faceva da tramite tra il popolo e Dio. Ora, in questo canto, non c’è intermediario. C’è solo il popolo e l’amato. ↩︎

  7. Cfr. nota 4 de Il Cantico dei Cantici, op. cit., p. 81. ↩︎

  8. Cfr. Il cantico dei Cantici. Targum…, op. cit, p. 5. La parola «vino» in ebraico (yaiyin) ha valore numerico 70 come le 70 sono le nazioni del mondo. ↩︎

  9. Il cantico dei cantici, Marco Valerio Editore. 1, 15. ↩︎

  10. Shir Hashirim, op. cit., 1, 15-16, p. 92 in nota al verso 15. ↩︎

  11. Cfr. Il cantico dei cantici. Targum, op. cit., p. 95. ↩︎

  12. Il Cantico dei Cantici, Marco Valerio editore, op. cit., 2, 8 e cfr. Shir Hashirim, op. cit., commento alla nota 8, p. 105 2, 8-9. ↩︎

  13. Il Cantico dei Cantici, Valerio Massimo Editore, op. cit. 4, 10. ↩︎

  14. Shir Hashirim, p. 136 in nota al verso 9. ↩︎

  15. Il cantico dei cantici, Valerio Massimo editore, op. cit. 8, 6. ↩︎

  16. Shir Hashirim, op. cit., p. 195 in nota «Ponimi vicino il Tuo cuore così il Tuo amore per me non finirà mai, e ponimi come un sigillo sul Tuo braccio manifestando il Tuo amore pure nei fatti». ↩︎

  17. Shir Hashirim, op. cit., in nota a p. 195: «un amore così grande che persino la morte si rimpicciolisce a paragone con esso». ↩︎

  18. Ringrazio Yarona Pinhas per la riflessione sull’amore e la morte. ↩︎

  19. F. Rosenzweig, op. cit., p. 167. ↩︎

  20. F. Rosenzweig, op. cit., pp. 167-168. ↩︎

  21. F. Rosenzweig, op. cit., p. 168. ↩︎

  22. The midrash says. The book of Beraishis, by Rabbi Moshe Weissmann, Bnei YAKOV Publications, New York, 1999, p. 24. ↩︎

  23. «La rivelazione in tutte le opere, le lettere, saggi e nella stella stessa viene presa in considerazione fino in fondo e analizzata e rianalizzata», J. Tewes, Zum Ezistenzbegriff Franz Rosenzweig, Verlag Anton Hain — Meisenheim am Glan, 1970, p. 75. ↩︎

  24. F. Rosenzweig, op. cit., p. 170. ↩︎

  25. Cfr. E. Freund, Die Existenzphilosophie Franz Rosenzweigs. Ein Beitrag zur Analyse seines Werkes Der Stern der Erlösung, Felix Meiner, Hamburg 1959: «Nella rivelazione il relativo divenir manifesto si identifica con l’atto assoluto» e ancora «La disposizione dell’amore di Dio riceve un particolarissimo accento attraverso l’esatta collocazione della rivelazione nell’ordine ella sua assoluta azione» (p. 116). L’amore è «nur Tat» solo azione. L’amore non è solo un semplice sentimento, ma l’azione della Rivelazione di Dio. Amore e rivelazione sono reciproci. E soprattutto sono fattuali, l’amore è un fatto. La rivelazione quindi avviene come atto d’amore. Cfr. J. Tewes, op. cit., p. 76. Nella rivelazione, in quanto capacità di orientamento che si dischiude, Rosenzweig ha trovato finalmente il suo ‘punto di archimede da tempo cercato’, una verità dalla quale tutto gli si ordina in maniera nuova». ↩︎

  26. F. Rosenzweig, op. cit., p. 170. ↩︎

  27. Ibidem. ↩︎

  28. F. Rosenzweig, op. cit., p. 171. ↩︎

  29. Ibidem. ↩︎

  30. Cfr. G. Bonola, La vera struttura del futuro. Lo Heute di F. Rosenzweig, un antecedente per W. Benjamin, in Filosofia e teologia, Rivista quadrimestrale, Anno XVI — n°2 maggio-agosto 2000: «Nella Stella della redenzione una delle caratteristiche più fortemente sottolineate dell’atto d’amore (che è al tempo stesso figura emblematica dell’atto della rivelazione) è la sua immediatezza, la sua connessione con il momento di volta in volta presente. “’Dio ama’ è il più puro presente’”: Rosenzweig nega che l’amore di Dio sia un attributo alla stesa stregua dell’onniscienza o dell’onnipotenza. Essendo vivo esso è puntuale, non prevedibile ed ha la sua infinità nel fatto che, passo passo, raggiunge ogni singolo aspetto del creato e alla fine “anima il Tutto”» (p. 272). Bonola nella pagina precedente puntualizza il valore del presente, che è lo Heute: «Legato intrinsecamente alla dinamica della redenzione, l’Heute si presenta (e si struttura) connettendosi alla configurazione del futuro inteso come anticipazione» (p. 271). E ancora cfr. Lettera a Gertrud Oppenheim, 5.2.1917 in F. Rosenzweig, Gesammelte Schriften 1, Briefe und Tagebuecher, 1 Band 1900-1918, hrsg. v. Rachel Rosenzweig und Edith Rosenzweig — Scheinmann u Mitw. V. Bernhard Casper, Nijhoff, Haag 1979, p. 344ss. Questa lettera riporta un passo del Talmud Babilonese in cui Rosenzweig esprime il valore dello Heute, del presente e dell’anticipazione del presente come anticipazione della redenzione. Cfr Talmud babilonese, trattato Sanhedrin 98 b. Rabbi Joashua chiede al messia «Quando verrai, signore?» e il Messia gli risponde «Oggi» (in ebraico la parola oggi nel trattato Sanhedrin è Ha-yom: yom, in ebraico significa ‘giorno’. È interessante notare che r. Joshua pensava che il messia avesse mentito. Ed Elia, che era vicino a lui, gli fece notare che il messia non aveva affatto mentito: ‘oggi, se ascolterai la sua voce’. ↩︎

  31. F. Rosenzweig, **op. cit., pp. 171-172. ↩︎

  32. F. Rosenzweig, **op. cit., p. 172. ↩︎

  33. F. Rosenzweig, op cit., p. 173. ↩︎

  34. F. Rosenzweig, op. cit., p. 173 e cfr. A. Fabris, Il linguaggio della rivelazione, Marietti, Genova, 1991: «Al di là di ogni progetto conoscitivo, l’atto della rivelazione (il suo destino) coincide con il suo contenuto: rivelazione è amore. La fenomenologia dell’amore che Rosenzweig presenta in queste pagine mostra che nel caso di Dio questo termine non deve essere inteso, platonicamente come il segno di una indigenza, bensì deve configurarsi come un accadimento che è sempre e tutto nell’istante e che in quanto tale, realizza costantemente la relazione. A differenza della potenza creatrice, che ancorava nel suo passato essenziale la possibilità di un rapporto già sempre attuato, «l’amore non è un attributo di, bensì un evento», che nell’istante trova volta a volta la sua piena attualità e nel presente la sua autentica dimensione temporale» (p. 105). E cfr. Y. G. Greenberg, What does revelation…?, op. cit., Greenberg sottolinea il fatto che in Rosenzweig c’è una chiara differenza tra l’amante e l’amato, tra il maschile e il femminile, tra l’amante divino e l’amata umana, con riferimento alla storia del Cantico dei cantici, p. 839. ↩︎

  35. Cfr. S. Mosès, L’Eros e la Legge. Letture bibliche., Giuntina, Firenze, 2000: «E’ questa idea di uscire fuori di sé dell’infinito, di un’apertura all’alterità dell’uomo […]» (p. 75). Il dono di sé, la Rivelazione, è l’uscita dall’infinita essenza di Dio per aprirsi alla finitezza umana, terrena. ↩︎

  36. F. Rosenzweig, op. cit., p. 174. ↩︎

  37. F. Rosenzweig, op. cit., p. 174. ↩︎

  38. Cfr. Ellen T. Cherry, The view of God in the «Star of Redemption, in Der Philosoph Franz Rosenzweig, op. cit., Band II: La rivelazione «deve ricrearsi e rinnovarsi ogni giorno ogni momento raggiungendo ora uno ora l’altra creatura amata» (p. 592). ↩︎

  39. F. Rosenzweig, op. cit., p. 176. ↩︎

  40. F. Rosenzweig, op. cit., p. 176. ↩︎

  41. Cfr. F. Albertini, Die Dialektik Eros/Thanatos als phaenomenologische Aufgeschlossenheit zum Anderen in Franz Rosenzweigs Stern der Erloesung, in Judaica, Heft 1., 2002: «ma nella prospettiva ebraica la morte può essere trasformata dall’amore in una rinascita esistenziale dialetticamente: questa rinascita nasce dalla scoperta dell’altro come evento e come fenomeno nell’orizzonte della vita umana» (p. 51). ↩︎

  42. F. Rosenzweig, op. cit., p. 178. ↩︎

  43. F. Rosenzweig, op. cit., pp. 178-179. ↩︎

  44. Cfr. A. Fabris, op. cit.: « All’evento dell’amore come destino di Dio s’intreccia e corrisponde l’esperienza dell’uomo, l’amato. L’uomo chiuso nell’orgoglio della propria caparbietà, subisce a sua volta, in e per questo rapporto, un capovolgimento nei suoi atteggiamenti di vita , una vera e propria conversione: egli sperimenta nel suo lasciarsi amare una reverenza mista di umiltà e di orgoglio» (p. 106). ↩︎

  45. F. Rosenzweig, op. cit., pp. 179-180. ↩︎

  46. F. Rosenzweig, op. cit., p. 180. ↩︎

  47. F. Rosenzweig, op. cit, p. 180. ↩︎

  48. Ibidem. ↩︎

  49. Sull’importanza della sessualità nell’ebraismo cfr R. Della Rocca, La sessualità nella tradizione ebraica biblica e postbiblica, in AA.VV., Eros e Bibbia, a cura di P. Capelli, Morcelliana, Brescia 2003: «L’essere se stessi coincide con la capacità di trasmettere le proprie emozioni, di entrare in contatto con l’altro, quando non solo vive con qualcun altro, ma con-vive […] Questa unione tra maschio e femmina è la base per una una prospettiva pluralistica e dialogica […]» (p. 96). Cfr. S. Mosés, L’Eros e la Legge, Giuntina, Firenze, 2000. Mosés mette in risalto la tensione tra maschile e femminile nella Bibbia, il rapporto tra questi due generi e Adam stesso, che rappresenta l’ umanità in prima istanza e sottolinea infine come «la dualità dell’uomo e della donna è destianata ad essere superata nella loro fusione amorosa» (p. 29). Da questa unione, fusione, arriverà l’imprevedibile, l’unico per eccellenza: il neonato. Vedi p. 31 e cfr. G. Dreifuss, Maschio e femmina li creò. L’amore e i suoi simboli nelle scritture ebraiche, Giuntina, Firenze, 1996. ↩︎

  50. F. Ronsenzweig, op. cit., p. 181. ↩︎

  51. Ibidem. ↩︎

  52. L’anima nell’ebraismo non si identifica con una sola parola. Nello Zòhar ci sono tre anime nell’uomo con facoltà diverse. sul complesso concetto di anima cfr. G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993: «Lo Zohar […] conserva la distinzione trale anime dell’uomo Nefesh, o vita; Ruach, o spirito; e Neshamà, o anima; ma queste tre anime non sono più tre diverse facoltà , perché queste piuttosto sono già presenti nella prima, Nefesh; e i gradi dell’anima più alti sono invece nuove e più profonde forze che l’anima del devoto si guadagna grazie allo studio della Torah e alle buone azioni. Specialmente Neshamà, l’“anima santa”, può essere meritata solo dal perfetto devoto , e cioè — per l’autore dello Zoar — dal cabbalista, che l’ottiene grazie alla meditazione dei misteri della Torà, vale a dire attraverso la realizzazione mistica della sua facoltà conoscitiva» (p. 246). E in altri contesti, in altre interpretazioni cabbalistiche anche cinque cfr. Y. Pinhas, La saggezza velata, Giuntina, Firenze, 2004, p. 26. In ordine sono Nefesh, Ruach, Neshamà, Chayà e Yechidà. ↩︎

  53. F. Rosenzweig, op. cit., p. 182. ↩︎

  54. F. Rosenzweig, op. cit., pp. 182-183. ↩︎

  55. Talmud Babilonese. Trattato sull’offerta festiva, in Mistica Ebraica, a cura di G. Busi ed E. Loewenthal, Einaudi , Torino, 1999, p. 29. ↩︎

  56. Cfr. E. Ferrario, Testimoniare, a cura di F. M. Fontana, Lithos, Roma, 2006. Riprendendo il tema della testimonianza in Levinas, Ferrario dice/scrive in una sua lezione del 21 dicembre 2004: «Testimonianza, responsabilità, parola non fasica, parola senza fase e senza frase, dell’»eccomi» […] La responsabilità non è rispondere di sé ma, per intero, rispondere dell’altro e per l’altro. […] L’unica testimonianza è in fondo testimonianza dell’infinito, dell’infinito in me dell’altro in me prima di me» p. 143 e p. 145. ↩︎

  57. F. Rosenzweig, op. cit., p. 185. ↩︎

  58. Sul rapporto «io-tu» cfr. B. Casper, Franz Rosenzweigs Kritik an Bubers «Ich un Du», Philosophisches Jahrbuch, Verlag Karl Alber, Freibur/München, 1979, 2. Halband. Casper sottolinea la critica di Rosenzweig al pensiero dialogico di Buber. Rosenzweig in una lettera a Buber critica il fatto che nel rapporto dialogico Io-Tu si liquidi in maniera sbrigativa l’Es, l’esso, che non è un semplice esso, bensì Dio. ↩︎

  59. F. Rosenzweig, op. cit., p. 186. ↩︎

  60. F. Rosenzweig, op. cit., p. 187. ↩︎

  61. cfr. S. Mòses, op. cit.: «la Rivelazione si basa sempre sulla dialettica tra due poli, uno paragonabile a un emettitore e l’altro a un ricettore. Non c’è Rivelazione possibile senza la presenza di un tale ricettore […] che percepisce il messaggio emesso, lo decripta e lo interpreta» Mòses si riferisce alla rivelazione sinaitica. Ma il concetto di rivelazione è lo stesso. Sono due i poli della rivelazione come son due gli interlocutori in un dialogo» (p. 80). ↩︎

  62. Attraversare in ebraico si dice lavor, la cui radice è costituita dalle lettere ain, vet, resh, che sono alla base della parola ’ivri, ebreo. Cfr. Y. Pinhas, op. cit.: «essere ebreo significa vivere in un movimento continuo, errare da un paese all’altro, da uno stato di coscienza all’altro, per poi arrivare alla terra promessa. Questo concetto è stato introdotto dal primo ebreo, ivrì, Abramo cui stesso Dio comandò: “Va…”, in ebraico Lekh lekhà. […] Il viaggio veso l’esterno non è altro che un mezzo per conoscere se stessi: quando lo scopo è raggiunto l’individuo scopre la sua casa, il suo tempio» (p. 105). Cfr. A. Guccione, ‘Avram ha-’ivrì o della migrazione del tempo, https://mondodomani.org/dialegesthai/agostino-guccione-01. Nel suo allontanarsi dal luogo e dalla casa paterni, «Abramo recupera invece la sua distanza dalle cose dello spazio ed entra con la migrazione, in un altro tempo, che da»mero strumento cronologico-quantitativo diventa il luogo entro cui eternamente dimoriamo»» e ancora «Abramo è l’uomo dell’oltre, il cui tempo perpetuo e sempre nuovo che lo abilita ad abitare la storia con gli occhi rivolti al passaggio al di là delle sponde: oltre l’umana solitudine di un tempo riciclato senza storia verso uno, di attraversamento, in cui la propria stessa integrità e stabilità si apre continuamente al nuovo». ↩︎

  63. Cfr. E. Freund, op. cit.: «Per lui (Rosenzweig) la parola creatrice di Dio non è ancora parola, ma un’azione creativa del Creatore» (p. 145). ↩︎

  64. F. Rosenzweig, op. cit., p. 187. ↩︎

  65. Sulla tematica dell’oltre cfr. G. Bonagiuso, La dimensione dell’«oltre». Tentazione mistica e utopia della storia in F. Rosenzweig, Filosofia e teologia, Rivista quadrimestrale, n. 2, maggio-agosto 2001. Bonagiuso tematizza l’oltre come compito umano. Ma è anche un tema che coinvolge Dio stesso. ↩︎

  66. F. Rosenzweig, op. cit., pp. 187-188. ↩︎

  67. F. Rosenzweig, op. cit., p. 188. ↩︎

  68. G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, op. cit., p. 19. ↩︎

  69. Nella Torà è Abramo il primo ivri, il primo ebreo che risponde alla chiamata di Dio-sono qui — quella chiamata che lo porterà anche a legare il proprio figlio per un sacrificio a Dio. ↩︎

  70. F. Rosenzweig, op. cit., p. 188. ↩︎

  71. F. Rsoenzweig, op. cit., pp. 188-189. ↩︎

  72. F. Rosenzweig, op. cit, p. 189. ↩︎

  73. F. Rosenzweig, op. cit., p. 190. ↩︎

  74. «Profezia, ovvero rivelazione, è conoscenza sicura di un fatto comunicata agli uomini da Dio. Profeta è colui che interpreta le rivelazione divine per coloro che non sono in grado di avere una conoscenza sicura dei contenuti della divina rivelazione e che pertanto posso no accettarli come semplice atto di fede» (B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, Utet, Torino, 2005, cap. 1, p. 399); cfr. A. Heschel, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma, 1993: «l’atto profetico è l’incontro di una persona concreta con il Dio vivente. Il profeta risponde non riceve solamente. L’atto è spesso un dialogo in cui entrano in gioco coscienza del tempo, ricordo di eventi passati e sollecitudine per la condizione profetica. Dio come persona si confronta con il profeta in quanto persona» (p. 183). La profezia è la rivelazione di Dio a un uomo, a un profeta, e per mezzo della sua bocca parla. Cfr. I. Kajon, Profezia e filosofia nel Kuzari e nella stella della redenzione, Cedam, Padova, 1996: «Così per Rosenzweig, come per Ha-Lewi, la rivelazione è in primo luogo un incontro tra l’attività divina e la passività umana, e in secondo luogo una connessione tra l’uomo, che afferma la sua propria attiva esistenza nel tempo, e l’essere divino, che rimane oscuro, nonostante il suo manifestarsi. […] la vicinanza tra l’umano e il divino permette di stabilire il primato dell’eternità sul tempo e sulla morte, per quanto rimanga la separazione tra questi due momenti ed essa si accentui anzi quando l’umano, affermandosi nel suo proprio campo, si distanzia ulteriormente dal divino e rimane così maggiormente inserito nella sfera dell’esistenza» (p. 121). Yehuda ha-Lewi è un poeta ebreo vissuto a cavallo tra l’XI e il XII secolo. La sua opera più conosciuta il Kuzari, o il re dei Khazari, ha influenzato molto Rosenzweig. Dal punto di vista della rivelazione, Rosenzweig dà una svolta radicale all’interpretazione fino allora avuta. Colui che dialoga con Dio, che riceve la parola di Dio, non è un ebreo tout court, nella Stella della redenzione, bensì è Adam, l’uomo, il primo uomo, che rappresenta l’umanità. Rosenzweig forse influenzato dalla lettura della Religione della ragione di Cohen ammette che in ogni uomo c’è la possibilità di mettere in pratica quello che Dio ha detto ad Adamo. Il lascito di Adamo all’umanità è di adempiere il comandamento d’amore. Vi è quindi una responsabilità universale dell’uomo, non solo del popolo ebraico, a rispondere alla chiamata di Dio. E se la profezia è rivelazione, vuol dire questo che ogni uomo può essere profeta di Dio, dalle labbra di ogni uomo può scaturire l’«io» di Dio. Come al contrario fa dire Yehuda Ha-Lewi al saggio ebreo: «E noi non facciamo simili a noi tutti quelli che entrano nella nostra Legge con una sola parola, ma per opere che causano all’anima il travaglio della purificazione e dell’istruzione, con la circoncisione e con molte opere legali, col far loro seguire i nostri costumi e le nostre tradizioni; […] e con tutto questo non sarà uguale lo straniero che entra nella nostra religione, a colui che vi è nato, perché solo coloro che in essa sono nati sono capaci di profezia, mentre lo scopo più alto degli altri e di riceverla da loro, e di arrivare ad essere savi e pii, ma non però profeti» (Y. Ha-Lewi, Il re dei Khazari, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 63). ↩︎

  75. F. Rosenzweig, op. cit., p. 190. ↩︎

  76. Le parole della rivelazione permettono l’evento del dialogo tra uomo e Dio. Se la rivelazione è profezia, e se Dio si rivela all’uomo parlandogli, chiamandolo, allora il linguaggio ha una valenza profetica, mette in comunicazione Dio e l’uomo, ma non messianica. Cfr. D. Di Cesare, Die Messianität der Sprache, Franz Rosenzweigs neues Denken, op. cit.: «La messianicità del linguaggio non giace solo sull’anticipazione del futuro nell’eternità dell’attimo. Se il linguaggio può anticipare il tempo messianico, questo accade di fronte a tutti, perché esso è comune e rende comune» (p. 862); sempre di Di Cesare sullo stesso argomento ma di più ampio respiro cfr. Utopia del comprendere, Il melangolo, Genova, 2003. Sul tema del linguaggio e rivelazione cfr. A. Fabris, op. cit.: «Il linguaggio della rivelazione avrà così un decisivo primato rispetto alle forme linguistiche che strutturano astrattamente la creazione o che mettono in opera e accompagnano l’azione redentrice dell’uomo». Il dialogo tra uomo e Dio avviene nella rivelazione. Non ha eguali. Il compito successivo dell’uomo non è di adempiere il comandamento di Dio parlando, ma agendo. Il linguaggio è fondamentale per la rivelazione, ma l’azione redentrice dell’uomo avverrà mettendo in pratica quel che Dio ha detto nella rivelazione stessa. Per questo, la rivelazione, è la parte centrale della Stella» (p. 114). ↩︎

  77. Esodo 24,7. La parola obbediremo è sottolineata perché il verbo in ebraico può essere tradotto con ascolteremo↩︎

  78. F. Rosenzweig, op. cit., p. 191. ↩︎

  79. Ibidem. ↩︎

  80. F. Rosenzweig, op. cit., p. 192. ↩︎

  81. F. Rosenzweig, op. cit., p. 193. ↩︎

  82. F. Rosenzweig, op. cit., p. 194. ↩︎

  83. F. Rosenzweig, op. cit., p. 196. ↩︎

  84. Ibidem. ↩︎

  85. F. Rosenzweig, op. cit., p. 197. ↩︎

  86. Sulla importanza invece del solo tempo nella liturgia ebraica dello shabbat, sul giorno santo della settimana cfr. A.J. Heschel, Il sabato, Garzanti Elefanti, 2001, . ↩︎

  87. F. Rosenzweig, op. cit. ↩︎

  88. È interessante notare che la parola che significa angustia, pena, mazor in ebraico ha la stessa radice ella parola egitto mizraim, che a sua volta indica una morsa, la gola, una strettoia mizraimah↩︎