I diritti dei bambini, lo ius culturae, la comunità di tutti i giorni. Questioni di cittadinanza

Il tema della concessione della cittadinanza ai minori coinvolge entrambi gli aspetti in essa evidenziati da Thomas H. Marshall: la membership «a pieno diritto» di una comunità e l’uguaglianza «rispetto ai diritti e ai doveri» conferiti dallo status che viene così riconosciuto.1 La prospettiva è tuttavia particolare e per questo più sfidante. Si tratta infatti di soggetti che sono giuridicamente ancora privi della capacità di agire e che non esercitano il diritto di voto. Resta così sullo sfondo l’interpretazione in senso specificamente politico delle «due anime» di questa nozione polisemica, che penetra in profondità nella storia del pensiero non solo filosofico: quella che, a partire dalle poleis greche, la fa risalire «all’idea di una comune partecipazione, di appartenenza “orizzontale” a una comunità» e quella della cittadinanza appunto come status, «che lega in un rapporto di tipo “verticale” l’individuo e l’autorità» e può sottolineare ora l’aspetto meramente passivo della soggezione del primo alla seconda, ora quello biunivoco che a questo potere fa corrispondere i diritti dell’individuo.2 La stessa idea dell’acquisizione della cittadinanza come risultato di un processo, che ne intende il significato formale o “legale” «non più (soltanto) come presupposto di riconoscimento dei diritti, quanto piuttosto (e insieme) quale tappa conclusiva di tale riconoscimento e massimo obiettivo di integrazione della persona nella società»,3 appare disallineata rispetto alla condizione di chi in questa comunità non è arrivato a un certo punto della sua vita, ma – come è il caso di tanti bambini “stranieri” – vi è semplicemente nato. Collegare la cittadinanza dei minori a quello che si è ormai convenuto di definire ius culturae implica a nostro avviso alcune opzioni di fondo sia per quanto riguarda la questione della piena appartenenza a una comunità sia per quanto riguarda la questione dei diritti. Con riflessi importanti sulle modalità della sua acquisizione.

Modello “francese” e modello “tedesco”. Una contrapposizione da superare

Ernst-Wolfgang Böckenförde, sulla scia di una lunga e autorevole tradizione, definiva la cittadinanza come «appartenenza allo Stato», alla «comunità politica del popolo», indicando in questa appartenenza la premessa dell’uguaglianza democratica come uguaglianza specifica, distinta dall’uguaglianza universale del genere umano, che è «principio e punto di partenza dei diritti umani universali», ma non di quelli specificamente politici.4 Questo carattere specifico dell’uguaglianza democratica non si esaurirebbe nel profilo giuridico e formale che rende possibile la cittadinanza e rinvierebbe a un elemento sostanziale «cui la stessa cittadinanza di uno Stato si richiama». Böckenförde introduce a questo punto il concetto di nazione, distinguendo il modello francese (che caratterizzerebbe, in buona parte, anche i paesi anglosassoni) da quello tedesco. Il primo fonda la nazione sulla «comune professione politica (politische Bekenntnis) di voler vivere in uno specifico ordinamento statale». Il secondo ha un fondamento etnico-culturale, che è quello di «un linguaggio, una storia e una cultura comuni. Nella nazione politica si può entrare e ci si può assimilare, in quella etnico-culturale, invece, si nasce».5

Il primo modello è quello di una circolarità fra idea di nazione e idea di cittadinanza che si attiva e si irrobustisce attraverso un meccanismo di elezione. Fustel de Coulanges, polemizzando con Mommsen sull’appartenenza dell’Alsazia alla Francia o alla Germania in una lettera datata 27 ottobre 1870, concedeva che questa regione potesse essere tedesca «per la razza e per la lingua», ma la rivendicava alla Francia per il suo sentimento della patria. I «destini» si sono intrecciati a partire dalla Rivoluzione del 1789, ma non si tratta di etnia e neppure di lingua, perché la patria non è semplicemente un’eredità del passato ma «ciò che si ama» e diventa per questo «attuale e vivente». Un popolo «non può essere governato se non dalle istituzioni che accetta liberamente e non deve far parte di uno Stato se non per sua volontà e libero consenso».6 L’idea di un ethos del popolo radicato in una storia e in una cultura comuni come vero e proprio «principio di sostentamento» (erhaltendes Prinzip) dello Stato rinvia all’idea di Wir-Gefühl teorizzata da Hermann Heller, giurista dell’epoca weimeriana apprezzato da Böckenförde.7 È la prospettiva che si ritrova nella sentenza della Corte costituzionale tedesca del 31 ottobre 1990 con la quale venne bocciata una legge dello Schleswig-Holstein che aveva concesso il voto nelle elezioni locali e distrettuali agli stranieri residenti in possesso di alcuni requisiti. Una decisione motivata con il richiamo alla «comunità politica di destino alla quale i singoli cittadini sono vincolati» e che è quella del proprio paese d’origine. È questa origine a generare un vincolo di solidarietà al quale i cittadini non possono sottrarsi.8

La polarizzazione di questi due modelli, significativamente accomunati dal riferimento all’idea di destino, rischia in realtà di risultare astratta e fuorviante. Si deve a Ernest Renan la celebre, citatissima affermazione che l’esistenza di una nazione è «un plebiscito di tutti i giorni, come l’esistenza di un individuo è una affermazione perpetua di vita». Il riconoscimento della necessità di «una volontà comune nel presente» non sopprime tuttavia la storia, dalla quale provengono le «glorie comuni» che sono condizioni altrettanto essenziali «per essere un popolo».9 E si può sostenere che non comprendere che la propria vita individuale è inserita nella storia del proprio paese equivale a perdere «una dimensione centrale della vita morale» senza per questo rinunciare alla prospettiva appunto individuale della narrazione di una vita, così come all’idea della nazione come progetto, come un modo particolare di legare il passato che conferisce «una identità morale e politica distinta» con un futuro che l’individuo sente come sua responsabilità e oggetto di una fedeltà incondizionata. Nella consapevolezza che per il “patriota” potrebbe anche arrivare il momento della scelta «fra le esigenze del progetto che costituisce la sua nazione e le esigenze della moralità che ha appreso in quanto membro della comunità, la cui vita è informata da quel progetto».10 È in ogni caso la sfida “polietnica” quella che la comunità di destino radicata nel passato non può sostenere, se non al prezzo di sistematiche esclusioni e chiusure: l’immigrazione di individui e famiglie erode l’omogeneità delle culture “territorializzate”, sollecitando il riconoscimento di identità diverse ma senza che ciò escluda il desiderio di «integrarsi nella società dominante e di esservi accettati quali membri a pieno titolo».11 La stessa sentenza del 1990 della Corte costituzionale tedesca è stata definita «il canto del cigno di una morente ideologia»: già nel 1993 il Trattato di Maastricht avrebbe introdotto l’elettorato attivo e passivo per «tutti i cittadini dei quindici paesi firmatari residenti nel territorio di altri Stati membri».12 Un passaggio importante, che deve però – è bene precisarlo – essere inteso correttamente. Indubbiamente il Trattato ha esteso il concetto di cittadinanza, attribuendo a tutti i cittadini europei, per i limitati scopi che ciò comporta, uno status duale di cittadini dei singoli stati e di cittadini dell’Unione, ma ciò non significa sancire il venir meno di quel concetto nazionale di cittadinanza. Si conferma piuttosto l’idea che la cittadinanza inerisce alla dimensione soprattutto politica della partecipazione a una comunità.

I dati relativi ai minori evidenziano la portata della sfida polietnica anche in Italia, paese al quale limitiamo le nostre considerazioni. Al 1° gennaio 2018, secondo i dati riportati nella pubblicazione dell’Istat su Identità e percorsi di integrazione delle seconde generazioni in Italia (2020), i ragazzi stranieri sotto i 18 anni residenti erano poco più di 1 milione, con un’incidenza pari a quasi l’11 per cento sul totale della popolazione in quella classe di età (una quota cresciuta di circa 3 punti percentuali negli ultimi dieci anni). Quasi tre quarti di questi giovani erano nati in Italia, con una quota che superava il 90% nella classe di età 0-5 e si riduceva al 37,5% nella classe 14-17 anni (per spiegare questa differenza occorre anche tenere conto degli ingressi per ricongiungimento familiare).13 Il 14,8% di tutti i nati in Italia nel 2020, sempre secondo l’Istat, hanno entrambi i genitori stranieri.14

L’idea dell’acquisizione della cittadinanza per ius culturae sottende una duplice consapevolezza. La prima è quella della inadeguatezza delle norme attualmente in vigore, che prevedono che i figli di genitori stranieri nati in Italia che non acquisiscano la cittadinanza per trasmissione, cioè dopo che l’ha ottenuta uno dei genitori (sul presupposto di 10 anni di residenza regolare15 e il possesso di alcuni requisiti, come un’adeguata conoscenza della lingua italiana e un reddito non inferiore a circa 8.000 euro negli ultimi 3 anni), la possano ottenere per elezione (presentando cioè domanda al ministero dell’Interno16 e sempre a condizione di essere stati ininterrottamente residenti in Italia) al raggiungimento della maggiore età (acquisto della cittadinanza per c.d. beneficio di legge).17 La legge 5 febbraio 1992, n. 91 prevede lo ius soli per circostanze eccezionali, in particolare per persona nata nel territorio della Repubblica da genitori entrambi ignoti o apolidi.18 Si tratta di situazioni nelle quali non ci sono altre soluzioni per evitare che la condizione di apolidia lasci il soggetto esposto a tutti i rischi di una estrema vulnerabilità. Il problema che rimane così aperto è chiaro: come evitare che giovani che sono cresciuti e in gran parte nati “italiani” a tutti gli effetti vadano ben oltre l’età che consente di votare prima di essere riconosciuti cittadini come tutti gli altri?

Nell’opzione per lo ius culturae c’è tuttavia un secondo elemento che merita di essere sottolineato, che è l’idea che la cittadinanza, che nel caso dei bambini non può evidentemente ancora essere questione di volontà, resti comunque una questione di comunità e che un semplice automatismo come quello dello ius soli non sia sufficiente, da solo, per riconoscere questa appartenenza. Non è questa la sede per discutere, sempre in questa prospettiva, anche i limiti dello ius sanguinis, attraverso il quale possono diventare cittadini italiani persone che non sono mai state parte di quella “comunità di tutti i giorni” che, prima di essere comunità politica, è comunità di giochi, di classe, di vita. Lo richiamiamo però proprio per sottolineare come l’accettazione dell’automatismo in esso implicito poggi, almeno in parte, sull’idea che esso rappresenti comunque, nella gran parte dei casi, una sorta di proxy sufficientemente affidabile di quella appartenenza.

Per Kant il contenuto fondamentale del diritto cosmopolitico era il diritto di ospitalità, il diritto di ogni essere umano di visitare tutte le regioni della terra per cercare e sperimentare una comunità universale che affonda le sue radici nelle caratteristiche e nei limiti che la natura ha posto per noi. Ciò non comportava però, a suo avviso, un automatico diritto di insediamento sul suolo di un altro popolo. Kant non affermava che questo diritto non esiste, ma semplicemente che richiede «un contratto particolare».19 Si può forse dire che con lo ius culturae questa richiesta viene assolta nell’esperienza di vita della comunità di tutti i giorni. Raccogliendo uno spunto di Albert Bastenier e Felice Dassetto, Maurizio Ambrosini parla di «processi di cittadinizzazione» che «hanno una componente routinaria, informale e persino inconsapevole», come l’accompagnare i figli a scuola o lo scambio di piccoli servizi con i vicini. Questi processi dal basso non costituiscono un’alternativa all’accesso formale alla cittadinanza, ma sono normalmente, di fatto, «parte del percorso che sfocia nella naturalizzazione».20

Il fatto che alcuni si riferiscano allo ius scholae anziché allo ius culturae non rappresenta, in questa logica, un restringimento di prospettiva e rafforza anzi la consapevolezza che quella dell’istruzione, della formazione e dell’educazione è una comunità plurale, nella quale i principi e i valori che bambini e adolescenti sono invitati a condividere aprono all’esercizio della libertà e al rifiuto dell’omologazione. Per questo si va a scuola. Ma non solo. «La scuola – dice la Costituzione - è aperta a tutti» e tale apertura è coerente anche con la previsione, sempre costituzionale, che «l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria» (art. 34 Cost.). Il punto di vista dell’obbligo, in questo caso funzionale alla stessa garanzia del diritto, è importante e non dovrebbe essere censurato da un linguaggio asfissiante dei diritti intesi come libertà irrelate. Esso andrebbe piuttosto recuperato e ripensato in una cultura giuridica solidale alla luce della quale si rivela per quello che è, ossia una forma della partecipazione alla vita sociale (art. 3 Cost.). In quest’ottica, solo se la scuola obbligatoria prima di tutto sa essere luogo di formazione nella capacità di comunicazione con gli altri (e con se stessi) diviene apertura all’esercizio delle libertà e al rifiuto dell’omologazione.

C’è un punto d’arrivo, che è però semplicemente quello della «cittadinanza attiva che consente al singolo individuo d’influenzare, modificandola, la propria posizione», in una prassi quotidiana nella quale il sottosistema “giuridico” si riproduce «solo insieme alle altre due componenti della “cultura” e delle “strutture della personalità”».21 Al tempo stesso, lo ius culturae rinvia all’idea (e la rafforza) che «è ragionevole attendersi da chiunque chieda uno status legale permanente di esprimere la propria disponibilità a vivere in uno stato di diritto e in accordo con i principi fondamentali della nazione».22 Per i bambini stranieri, come per tutti gli altri, questa disponibilità si genera per immersione nel contesto di vita che a quei principi è ispirato. E si potrebbe forse collocare qui anche il tema della cittadinanza compresa in senso “societario”, centrata su un ideale partecipativo rispetto al quale «la teoria e l’attività politica assumono rilievo scenografico-sussidiario rispetto alle capacità dell’ambiente umano-sociale».23

Cittadinanza e diritti

C’è un modo sbagliato, o semplicemente esagerato, di sostenere la necessità di concedere la cittadinanza ai minori. È l’idea che senza cittadinanza diminuiscano i diritti, tutti i diritti. Il saggio di Marshall che abbiamo ricordato all’inizio può contribuire a questo malinteso. La tesi in esso sviluppata è che i diritti civili, quelli politici e quelli sociali corrispondono ai tre elementi della cittadinanza e che questi elementi sono come «tre viandanti» che solo nel ventesimo secolo «si sono ritrovati uno accanto all’altro».24 Questa concezione allargata dei diritti di cittadinanza ne rafforza senz’altro l’orientamento al principio di uguaglianza, in quanto abbraccia i diversi ambiti, peraltro interconnessi, nei quali esso può risultare compromesso, sotto il profilo sostanziale non meno che formale, ma è proprio su questo punto che si sono concentrate alcune delle critiche più pungenti: i diritti di cittadinanza sono essenzialmente diritti di partecipazione, che i diritti sociali facilitano, ma appunto come mezzi e non come elemento costitutivo; i diritti sociali hanno senso solo quando non sono semplicemente formali, in quanto «devono soddisfare bisogni individualmente diversi», ma questo implica il riferimento a una dimensione particolare e non universale; essi, infine, hanno bisogno di una infrastruttura amministrativa e di una base fiscale dalle quali dipende la capacità dello Stato di erogare i servizi corrispondenti e dunque andrebbero piuttosto definiti come opportunità condizionate.25 La risposta a queste obiezioni rinvia naturalmente alla verifica della possibilità di considerare anche quelli “sociali” come veri e propri diritti.26 Si tratta però, in primo luogo, di esprimersi sull’idea che l’acquisizione della cittadinanza intesa nel suo significato giuridico-formale sia la premessa necessaria per la tutela dei diritti fondamentali.

In Italia – c’è una consolidata giurisprudenza costituzionale a ribadirlo – non è così. Titolari di tali diritti e in particolare dei diritti sociali sono le persone e non i cittadini27: «I diritti che la Costituzione proclama inviolabili – si legge nella sentenza n. 105 del 2001 della Corte Costituzionale – spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani».28 Questo significa – senza possibilità di equivoco – che l’essere o no cittadini è in linea di principio irrilevante ai fini del godimento di determinati diritti e dell’accesso ai relativi servizi, così come rispetto alla garanzia della protezione da pratiche discriminatorie.

Il legislatore non può che uniformarsi a questa indicazione, ovviamente anche per quanto riguarda i minori. E non è difficile raccogliere esempi. Il comma 1 dell’art. 41 della legge 6 maggio 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), definisce discriminatorio «ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza […] e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica». La legge elenca poi alcuni atti che sono da intendersi in ogni caso di discriminazione nei confronti di stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, come l’imposizione di condizioni più svantaggiose o il deciso rifiuto di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali. L’art. 14 della legge 7 aprile 2017, n. 47 ha integrato l’art. 34, co. 1 t.u. immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) estendendo l’obbligo di iscrizione al servizio sanitario nazionale nonché «parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene all’obbligo contributivo, all’assistenza erogata in Italia dal servizio sanitario nazionale e alla sua validità temporale» ai «minori stranieri non accompagnati, anche nelle more del rilascio del permesso di soggiorno, a seguito delle segnalazioni di legge dopo il loro ritrovamento nel territorio nazionale». Di conseguenza, per fare solo un esempio, la legge 31 luglio 2017, n. 119, con la quale è stato convertito il decreto legge 7 giugno 2017, n. 73, ha introdotto l’obbligatorietà e gratuità di alcune vaccinazioni includendo appunto, con tutti i minori di età compresa tra zero e 16 anni, anche i minori stranieri non accompagnati. Tutte le persone che vivono sul territorio italiano sono incluse nel perimetro di garanzia dei diritti fondamentali29 e tale garanzia non dipende dalla concessione della cittadinanza a 4, 6 o 10 anni anziché 18. Il “passaporto” – lo abbiamo appena ricordato – non conta per ricevere l’assistenza sanitaria. E non conta per poter frequentare la scuola che «è aperta a tutti» (art. 34 Cost.)30 (da qualche anno neppure per partecipare a competizioni sportive nazionali).

La cittadinanza conta – e continuerà a contare – quando si tratta dei diritti politici. Secondo Luigi Ferrajoli essa si sarebbe addirittura trasformata «nell’ultimo privilegio di status, nell’ultimo fattore di esclusione e discriminazione per nascita, nell’ultima contraddizione irrisolta con l’universalità dei diritti fondamentali».31 Anche se è lo stesso Ferrajoli a non escludere radicalmente una differenziazione, limitandosi piuttosto a sostituire lo status con la residenza. Egli propone infatti di superare quella che considera una «aporia gravissima» rimuovendo una volta per tutte la distinzione fra persone e cittadini e assumendo la semplice residenza quale presupposto dei diritti politici, ma senza fare a meno di precisare che quest’ultima dev’essere «ovviamente ancorata a criteri quanto più stabili e oggettivi»32, con le ovvie difficoltà e incongruenze che accompagnano lo scivolamento dal diritto (lo status) alla presunta stabilità di un fatto.33 Parlando della cittadinanza dei minori non è però questo, in ogni caso, il tema, perché il voto non è un diritto dei bambini. E una considerazione analoga si può fare guardando agli altri importanti diritti dei quali, nel contesto europeo che “aggiunge” la cittadinanza dell’Unione a quella dei singoli stati membri, ma la presuppone, gli “stranieri”34 non godono nello stesso modo, come quelli legati alla libertà di movimento delle persone e al lavoro. L’art. 32 della Carta di Nizza stabilisce che «l’età minima per l’ammissione al lavoro non può essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo» e per quanto riguarda i viaggi, almeno fino a una certa età, la norma è che il minore sia accompagnato, cosicché il problema del suo visto si intreccia a quello del visto dei suoi accompagnatori, in primo luogo i genitori.

Su questa consapevolezza si innestano due riflessioni. La prima è la necessità di non abbassare la guardia di fronte al rischio che la concessione della cittadinanza ai minori stranieri possa apparire la soluzione immediata ed efficace per i problemi di svantaggio ed emarginazione con i quali si trovano troppo spesso a convivere. L’assistenza sanitaria e l’istruzione sono vere e proprie cartine di tornasole di queste difficoltà. Già nel momento in cui vengono al mondo, molti bambini stranieri risultano, di fatto, diversi dagli altri e affrontano, con le loro madri, rischi più grandi. Nel triennio 2014-2016, per esempio, i dati sulla mortalità infantile in Italia in relazione alla nazionalità della madre evidenziavano un tasso più che doppio per i paesi dell’Africa subsahariana rispetto a quelli dell’Unione Europea.35 Ma non è la cittadinanza a fare la differenza, come dimostra il fatto che essa si attenua o scompare nel caso di altri paesi. La differenza la fanno le condizioni di partenza economiche, sociali, culturali.

Una considerazione analoga può essere fatta per la scuola. La Country Note sull’Italia dell’indagine Pisa 2018 dedica un paragrafo all’equità in relazione al background migratorio, che segue quello dedicato al genere. Nel 2018, questa era la condizione di circa il 10% degli studenti delle scuole italiane, rispetto al 6% del 2009. La differenza media nella performance di lettura tra studenti con o senza background migratorio è stata di 43 punti a svantaggio dei primi (scendendo a 22 punti dopo aver tenuto conto del profilo socio-economico) ed è anche significativo notare come in media, a livello OCSE, il 17% degli studenti con questo background si collochi nel quartile più alto della performance, mentre in Italia questa percentuale si ferma al 14%.36 Il secondo Rapporto nazionale della Fondazione ISMU sugli alunni con background migratorio in Italia, del 2020, evidenzia differenze che restano macroscopiche. Già nella fascia di età 3-5 anni il tasso di scolarità è pari al 79%, rispetto al 93,6% dei bambini italiani. All’età di 14 anni il 40,7% degli studenti non cittadini italiani è in ritardo, rispetto al 6,6% degli italiani.37 Il Rapporto riconosce che la situazione è molto migliorata nell’ultimo decennio, anche grazie all’aumento del numero dei nati in Italia, ma è evidente che molto lavoro resta da fare. Questi studenti «sono, al pari di altre fasce deboli, quali i disabili o gli studenti italiani provenienti da contesti socioeconomici svantaggiati, a più forte rischio di abbandono del percorso scolastico».38 La scelta di inserirli nelle “scuole comuni” per evitare forme di emarginazione e separazione è tanto doverosa quanto, evidentemente, insufficiente per evitare che i bambini stranieri vengano più facilmente risucchiati in una condizione di speciale vulnerabilità rispetto ai loro coetanei. E anche in questo caso è illusorio immaginare che sia la cittadinanza, da sola, la soluzione del problema.

La via della cittadinanza come strumento essenziale e imprescindibile di protezione dei diritti fondamentali potrebbe risultare addirittura “regressiva” rispetto alla storia della promozione dei diritti umani, finendo inopinatamente per ripristinare una discriminazione fra coloro che sono cittadini e coloro che non lo sono la quale, come si è detto, è invece considerata da tempo superata. Questa tutela dei diritti è costituzionalmente riconosciuta a favore di ogni uomo in quanto tale, a maggior ragione se è un bambino. In altre parole, proporre la cittadinanza, sia essa rifondata sul criterio della nascita in Italia o altrimenti, quale roccaforte per i diritti civili o sociali potrebbe paradossalmente renderla, anziché un fattore di promozione dell’inclusione, un fattore di ritorno a una drastica gradazione nella condizione giuridica delle persone, separando chi è o è divenuto cittadino da chi non possiede tale status. O potrebbe comunque allentare la responsabilità per l’integrazione e l’equità che vale nei confronti degli stranieri come di tutti gli italiani, in particolare per quanto riguarda l’uniforme e sostanziale garanzia dei diritti sociali, condizionata dalle differenze economiche ma anche territoriali.

La seconda riflessione riguarda il rapporto fra cittadinanza e rispetto e si innesta sulla differenza fra quest’ultimo e la garanzia dei diritti, che ne è l’insostituibile premessa ma non ne assicura l’offerta, perché potrebbe essere semplicemente imposta dall’esterno e non corrispondere a un autentico Wir-Gefühl. Il rispetto è appunto la profondità di uno sguardo e «può essere un sorriso, possono essere delle ragioni col tono di voce giusto, possono essere diritti attribuiti con il giusto atteggiamento».39 Non c’è dubbio che la concessione della cittadinanza possa rappresentare un forte segnale di impegno della comunità nazionale nella direzione dell’integrazione, anche perché, se la cittadinanza è uno status di appartenenza che comporta diritti (e doveri), il rifiuto dello status in presenza di una appartenenza che ha l’evidenza della vita di tutti i giorni sarà probabilmente sofferto come un’umiliazione, come permanenza in una condizione di seconda classe. Quest’ultima, infatti, può esprimersi in due forme: «negazione dei diritti di piena cittadinanza a qualcuno che è cittadino, e negazione della cittadinanza a qualcuno che avrebbe titolo per possederla».40 I bambini divenuti adolescenti potranno sentire questa umiliazione in prima persona (fermo restando che ciò vale per l’aspetto giuridico-formale, mentre capiranno molto prima se sono accettati o no come uguali). È chiaro però che fino a quel momento tale disagio sarà sempre il disagio delle loro famiglie, dei genitori che non possono ancora partecipare a pieno titolo alla vita e alle responsabilità del popolo sovrano. Questa precisazione, unita a quanto si è detto sull’importanza della scuola, suggerisce alcune concrete linee di intervento.

Conclusioni

Non è una cittadinanza concessa iure soli che risolverà il problema dell’integrazione dei bambini che nascono da genitori stranieri, in Italia come in altri paesi. Occorre rafforzare in primo luogo l’impegno affinché tutti i diritti che già ci sono vengano garantiti. Per i bambini che non sono ancora formalmente italiani. E per tutti coloro che vedono la pienezza dei loro diritti compromessa dalle difficoltà economiche e di altre condizioni di vita, che moltiplicano ovviamente i loro effetti quando si sovrappongono. Servono dunque interventi più decisi e incisivi sui fattori che preparano e amplificano le disuguaglianze. Fra quelli che riguardano specificamente le famiglie di immigrati c’è senz’altro il fattore linguistico. E sono ancora la sanità e l’istruzione i banchi di prova più significativi.

I pediatri, quando la comunicazione è ostacolata perché i genitori, semplicemente, fanno fatica a capire, si misurano con la difficoltà di garantire l’informazione comprensibile, oltre che completa e aggiornata, prevista dalla legge come dovere di tutti i medici. Anche se è importante sottolineare come a ostacolare la comunicazione possano essere spesso barriere di ordine culturale e non meramente linguistico, per superare le quali è necessario un supplemento di attenzione, conoscenze, competenze. La percentuale ancora insoddisfacente dei bambini stranieri che frequentano la scuola dell’infanzia non contribuisce certamente ad assicurare che tutti inizino il percorso formativo con una padronanza della lingua italiana davvero adeguata. Far crescere questa percentuale è un primo, fondamentale obiettivo e qualsiasi percorso previsto per lo ius culturae deve partire almeno da qui e non dalla scuola primaria. Anche perché, considerando la straordinaria recettività dei bambini fin dai primi anni di vita, è bene anticipare il più possibile l’avvio dell’interazione con gli altri che alimenta e sostiene la sensibilità per regole e valori condivisi, così come per tradizioni e abitudini (anche alimentari) diverse. Occorrono investimenti e progetti che puntino a un bilinguismo che trasformi – almeno da questo punto di vista – il background migratorio in un’opportunità e in un vantaggio. E occorrono strategie e risorse per i minori che non sono nati in Italia e si sono trovati inseriti in classi dove si parla una lingua che non è quella con la quale sono cresciuti fino a quel momento.

È dunque essenziale che i bambini vadano a scuola il prima possibile, non solo per imparare bene la lingua. Ed è ovviamente essenziale che il riconoscimento formale della cittadinanza arrivi prima che la sua mancanza si traduca in una esclusione dal perimetro di diritti rilevanti. Ma è ugualmente importante che le famiglie possano sentirsi pienamente coinvolte in questo processo. Ciò potrebbe significare, in concreto, abbassare la soglia di età per l’acquisizione della cittadinanza a 12-14 anni, sul presupposto di una regolare frequenza scolastica per un periodo di 8 anni che includa la scuola dell’infanzia e con gli opportuni aggiustamenti per chi fosse arrivato in Italia dopo i 3 anni. A quel punto, la cittadinanza dovrebbe essere automaticamente concessa anche ai genitori, ovviamente a condizione che siano stati ininterrottamente residenti in Italia per lo stesso periodo e abbiano gli altri requisiti attualmente richiesti. Per “trasmettere” subito a loro la cittadinanza dei figli si tratterebbe di ridurre di 2-3 anni la durata della permanenza in Italia prevista dalle attuali norme. E questo riconoscimento potrebbe funzionare, per tutta la famiglia, come acceleratore del processo di integrazione, anche attraverso un accresciuto senso di responsabilità. È difficile immaginare che un giovane possa davvero sentirsi riconosciuto e trattato da cittadino di serie A se i suoi genitori rimangono in serie B.

Abstract

T.H. Marshall’s essay on Citizenship and social class is the point of reference for the model of citizenship conceived of as a status based on full membership of a community, which confers a set of civil, political, and social rights, while requiring at the same time the fulfillment of specific duties. The debate on the possibility for minors to acquire citizenship of the country in which they were born and grew up helps focus on two decisive issues. On the one hand, the idea of the everyday community sharing the fundamental principles and values that social and political participation is predicated on, which is the premise of the so-called ius culturae approach. On the other hand, the uncoupling of fundamental rights from the status of citizen, which emphasizes in the first place the responsibility to guarantee the rights that minors already have. In the conclusions, some proposals consistent with these two lines of reflections are presented.

Il saggio di T.H. Marshall su Cittadinanza e classe sociale è il punto di riferimento per il modello di cittadinanza concepito come uno status basato sull’appartenenza a pieno titolo a una comunità, che conferisce un insieme di diritti civili, politici e sociali, richiedendo al tempo stesso l’adempimento di specifici doveri. Il dibattito sulla possibilità per i minori di acquisire la cittadinanza del Paese in cui sono nati e cresciuti aiuta a focalizzare l’attenzione su due questioni decisive. Da un lato, l’idea della comunità di tutti i giorni che condivide i principi e i valori fondamentali su cui si fonda la partecipazione sociale e politica, che è il presupposto del cosiddetto approccio dello ius culturae. Dall’altro, lo sganciamento dei diritti fondamentali dallo status di cittadino, che sottolinea in primo luogo la responsabilità di garantire i diritti che i minori già hanno. Nelle conclusioni vengono presentate alcune proposte coerenti con queste due linee di riflessione.

Ringraziamo Fabio Macioce e Massimo Papa per aver letto il nostro testo e per i preziosi suggerimenti ricevuti.


  1. T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, UTET, Torino 1976, p. 24. ↩︎

  2. E. Grosso, Le vie della cittadinanza. Le grandi radici. I modelli storici di riferimento, CEDAM, Padova 1997, p. 295. Seyla Benhabib sottolinea, insieme all’elemento dell’identità collettiva, i privilegi dell’appartenenza politica e i vantaggi del conseguente titolo a fruire dei diritti sociali (S. Benhabib, Cittadini globali, il Mulino, Bologna 2008, p. 59). Privilegi e vantaggi possono essere diversi e si parla infatti abitualmente di cittadinanze più o meno pregiate. Rinviamo al volume di Grosso per la “storia” del concetto. Per una rapida sintesi si veda D. Zolo, Cittadinanza. Storia di un concetto teorico-politico, in «Filosofia politica», XIV (2000), n. 1, pp. 5-18. ↩︎

  3. E. Rossi e F. Biondi Dal Monte, Ospitalità, diritti e immigrazione, in Il dovere dell’ospitalità, in C. Vigna (a cura di), Orthotes, Napoli-Salerno 2018, p. 68. ↩︎

  4. E.-W. Böckenförde, Stato, costituzione, democrazia, Giuffrè, Milano 2006, p. 435. ↩︎

  5. Ivi, pp. 436-438. ↩︎

  6. N.D. Fustel de Coulanges, Réponse à M. Mommsen, 27 octobre 1870. Disponibile su: http://agora.qc.ca/documents/Theodor_Mommsen–Reponse_de_Fustel_de_Coulanges_a_Mommsen_sur_la_question_alsacienne_par_Numa-Denys_Fustel_de_Coulanges. Ultimo accesso: 17 marzo 2022. ↩︎

  7. M. Nicoletti e O. Brino, Presentazione, in E.-W. Böckenförde, op. cit., p. XXXIV. ↩︎

  8. Il testo è citato da S. Benhabib, op. cit., pp. 94-95. ↩︎

  9. E. Renan, Che cos’è una Nazione? e altri saggi, Donzelli, Roma 1993, pp. 19-20. Per Renan occorre insomma avere «un’eredità di gloria e di rimpianti da condividere» nel passato e «uno stesso programma da realizzare» per l’avvenire: «aver sofferto, gioito, sperato insieme, ecco ciò che vale più delle dogane in comune […]» (ivi, p. 20). In questa tensione sono state tuttavie evidenziate alcune «vistose contraddizioni» e non soltanto perché Renan parla allo stesso tempo dell’oblio come fattore essenziale per la creazione delle nazioni: «se l’adesione alla nazione ha natura elettiva, se cioè la cittadinanza è frutto di un patto, o quantomeno di un consentement, come è possibile che la nazionalità si formi lentamente, sulla base del consolidamento di una lunga tradizione storica […]?» (E. Grosso, op. cit., pp. 290-291). Insomma: anche la nazione-plebiscito «si fonda essenzialmente sul tempo», sui «segni di una esperienza storico-etica» che l’individuo condivide con i suoi concittadini (ibidem). ↩︎

  10. A. MacIntyre, Il patriottismo è una virtù?, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 20002, pp. 72, 69 e 71. MacIntyre ammette l’impossibilità di refutare con successo la tesi del patriottismo come «fonte permanente di pericolo morale», ma sottolinea come anche la moralità liberale dell’impersonalità si riveli, «in una maniera istruttivamente corrispondente, un fenomeno moralmente pericoloso» (ivi, p. 71). ↩︎

  11. W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, il Mulino, Bologna 1999, p. 22. ↩︎

  12. S. Benhabib, op. cit., p. 100. ↩︎

  13. Istat, Identità e percorsi di integrazione delle seconde generazioni in Italia, Istituto nazionale di statistica, Roma 2020, p. 12. ↩︎

  14. Id., Natalità e fecondità della popolazione residente – anno 2020. Report 14 dicembre 2021, p. 3. ↩︎

  15. Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione (art. 9, co. 1 lett. f) l. 5 febbraio 1992, n. 91 – Nuove norme sulla cittadinanza). ↩︎

  16. A rendere effettiva la conoscenza di tale possibile forma di acquisto della cittadinanza e del relativo onere a carico dell’interessato mira l’art. 33, co. 2 d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito nella l. 9 agosto 2013, n. 98, disponendo che «gli ufficiali di stato civile sono tenuti, nel corso dei sei mesi precedenti il compimento del diciottesimo anno di età, a comunicare all’interessato, nella sede di residenza quale risulta all’ufficio, la possibilità di esercitare il diritto di cui al comma 2 del citato art. 4 della legge n. 91 del 1992 entro il compimento del diciannovesimo anno di età. In mancanza, il diritto può essere esercitato anche oltre tale data». ↩︎

  17. Art. 4, co. 2 l. n. 91/92. Vale la pena di ricordare come il percorso che così si avvia nei meandri della burocrazia italiana possa essere in alcuni casi particolarmente lungo e accidentato. ↩︎

  18. Art. 1, co. 1 lett. b). ↩︎

  19. I. Kant, Metafisica dei costumi, Bompiani, Milano 2006, p. 317. ↩︎

  20. M. Ambrosini, Cittadinanza formale e cittadinanza dal basso. Un rapporto dinamico, in «SocietàMutamentoPolitica», VII (2016), n. 13, pp. 92-94. Il riferimento è a A. Bastenier e F. Dassetto, Nodi conflittuali conseguenti all’insediamento definitivo delle popolazioni immigrate nei paesi europei, in A. Bastenier et. al. (a cura di), Italia, Europa e altre immigrazioni, Fondazione Agnelli, Torino 1990. ↩︎

  21. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 93 e 96. ↩︎

  22. M.C. Nussbaum, La tradizione cosmopolitica. Un ideale nobile ma imperfetto, Università Bocconi Editore, Milano 2020, p. 204. Lo stato liberale non è un circolo privato, ma chi entra ne deve accettare i presupposti, a tutela dei diritti di tutti i cittadini (cfr. B.A. Ackerman, La giustizia sociale nello stato liberale, il Mulino, Bologna 1984, pp. 150 e 152). ↩︎

  23. M. Burgalassi, Sul concetto di cittadinanza nella riflessione sociologica, in «Studi di sociologia», XXXII (1994), n. 1, pp. 82-83. ↩︎

  24. T.H. Marshall, op. cit., p. 11. Nel diciottesimo secolo si afferma per Marshall la cittadinanza civile. Segue, nel secolo successivo, quella politica e il percorso si completa con il superamento del «divorzio dei diritti sociali dallo status della cittadinanza», del quale vengono citate come esempio le prime leggi sulle fabbriche e la legge sui poveri con la quale si imponeva fra l’altro la rinuncia a qualsiasi diritto politico: le pretese del povero venivano considerate «non come parte integrante dei diritti del cittadino, ma come un’alternativa ad essi: come una pretesa cui si poteva venire incontro solo se i postulanti cessavano di essere cittadini in qualsiasi significato genuino della parola» (ivi, p. 20). ↩︎

  25. Cfr. J.M. Barbalet, Cittadinanza, Liviana, Padova 1992, pp. 104-109. La posizione di Marshall è stata criticata, rispettivamente da Anthony Giddens e David Held, anche per la sua presentazione troppo “ottimistica” del processo graduale di sviluppo dei diritti di cittadinanza e per la sua restricted conception, sia dal punto di vista delle questioni affrontate sia guardando alla necessità di superare i confini dello Stato-nazione. Cfr. D. Zolo, La strategia della cittadinanza, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità diritti, Laterza, Roma-Bari 19992, pp. 9-13. I contributi raccolti in questo volume offrono un’ampia panoramica sulla cittadinanza pensata “a partire” da Marshall. ↩︎

  26. Si veda, per un primo orientamento su questo tema, L. Baccelli, Diritti sociali e obblighi giuridici, in M. Cossutta (a cura di), Diritti fondamentali e diritti sociali, EUT-Edizioni Università di Trieste, Trieste 2012, pp. 13-32. ↩︎

  27. Nella giurisprudenza di merito un esempio è dato da Tribunale di Milano, 2-12-2016, che, sulla base del diritto comunitario, ha reputato discriminatoria la previsione che escludeva l’assegno di natalità alla cittadina straniera titolare di permesso di soggiorno per motivi di lavoro, mentre la norma in questione limitava il beneficio ai soli stranieri titolari di permesso di soggiorno lungo periodo. ↩︎

  28. Il medesimo principio è stato di recente riaffermato dalla Corte di Cassazione, sez. III civile, 10 maggio 2021, n. 12226, contribuendo a chiarire la portata dell’art. 16, co. 1 delle c.d preleggi al codice civile, che subordina in generale il godimento dei diritti civili da parte dello straniero al principio di reciprocità. Tale previsione già da tempo è stata invero relativizzata, reputandosi sufficiente che al cittadino italiano sia garantita nell’ordinamento straniero una tutela simile e non necessariamente uguale (Corte di Cassazione, sez. III civile, 19/06/1995, n. 6918). ↩︎

  29. Con specifico riferimento al diritto alla salute, v. A. Nicolussi e C. Rusconi, Volti e risvolti della dignità umana. A settant’anni dall’art. 1 della Costituzione tedesca, in «Jus», 2019, p. 37 testo e nota 113 s. ↩︎

  30. Prevede infatti l’art. 38 d.lgs. 286/1998 che «i minori stranieri presenti sul territorio sono soggetti all’obbligo scolastico», senza dunque far dipendere l’obbligo (e il diritto) all’istruzione dallo stato di cittadinanza o di regolarità del soggiorno. La tutela, in via giurisprudenziale, precede in realtà la scuola dell’obbligo. Il Tribunale di Milano, 11-2-2008 ha affermato che «in tema di diritti fondamentali, costituisce atto discriminatorio la previsione, contenuta in una circolare amministrativa, secondo la quale l’iscrizione del minore extracomunitario alla scuola dell’infanzia è subordinata all’ottenimento, da parte della famiglia del minore, del permesso di soggiorno, a pena di non formalizzazione della domanda di iscrizione». ↩︎

  31. L. Ferrajoli, La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Laterza, Bari-Roma 2021, p. 281. ↩︎

  32. Ivi, pp. 281-282. ↩︎

  33. Anche sulle modalità di inclusione dei diritti politici fra i diritti fondamentali universali una più approfondita riflessione sarebbe probabilmente opportuna. L’art. 21 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 parla del diritto di ogni individuo «di partecipare al governo del proprio paese», introducendo in questo contesto il riferimento al «suffragio universale ed eguale», ma appunto in rapporto al concetto di proprio paese. Più precisamente il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 afferma significativamente che è ogni cittadino (e non ogni individuo) ad avere il diritto «di votare e di essere eletto». ↩︎

  34. Intendendosi per tali propriamente i cittadini di paesi non appartenenti all’Unione Europea (art. 1, co. 1 d.lgs. 286/1998). ↩︎

  35. Cfr. M. De Curtis e S. Simeoni, I bambini non nascono uguali, in S. Semplici e Comitato per la Bioetica della Società Italiana di Pediatria (a cura di), Pediatria e bioetica, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2019, p. 157. ↩︎

  36. OECD, Programme for International Students Assessment (PISA). Results from PISA 2018. Country Note – Italia, p. 7. Disponibile su: https://www.oecd.org/pisa/publications/PISA2018_CN_ITA_IT.pdf. Ultimo accesso: 16 marzo 2022. ↩︎

  37. M. Santagati e E. Colussi (a cura di), Alunni con background migratorio in Italia. Le opportunità oltre gli ostacoli. Report ISMU 2/2020, Fondazione Ismu, Milano 2020, pp. 47 e 50 ↩︎

  38. Ivi, p. 47. ↩︎

  39. E. Galeotti, La politica del rispetto. I fondamenti etici della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 104. ↩︎

  40. A. Margalit, La società decente, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 178. Margalit distingue così il caso degli arabi israeliani da quello degli arabi palestinesi ai quali è negata la cittadinanza del Kuwait, pur avendo essi sempre vissuto e lavorato in quel paese. Il caso degli arabi israeliani, così come descritto da Margalit, è interessante proprio perché sottolinea come questioni di diritti e questioni di Wir-Gefühl non coincidano necessariamente: la maggioranza degli arabi israeliani «non percepisce Israele come un gruppo inclusivo di cui essi abbiano bisogno per la propria auto-definizione», ma la discriminazione nella distribuzione di beni e servizi, la negazione di alcuni diritti civili, sono comunque percepiti come una umiliazione: «Voi non volete essere membri della loro società, ma neppure volete che essi dicano che voi non meritate di appartenerle». Ed è per questo che, per non essere umiliante, «la cittadinanza, in una società decente, deve essere ugualitaria» (ivi, pp. 179-180). ↩︎