La Chiesa cattolica e la morte «naturale». La sacralità, il limite, la giustizia

L’ultimo capitolo della Evangelium vitae, la Lettera enciclica di Giovanni Paolo II del 1995 sul valore e l’inviolabilità della vita umana,1 è dedicato all’impegno «per una nuova cultura» a partire dalla famiglia, «chiamata in causa nell’intero arco di esistenza dei suoi membri, dalla nascita alla morte».2 Ed è sempre alle famiglie, nel paragrafo immediatamente successivo, che viene chiesto di adoperarsi «affinché le leggi e le istituzioni dello Stato non ledano in nessun modo il diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale, ma lo difendano e lo promuovano».3 Il confronto fra queste due espressioni, che ovviamente si richiamano e tuttavia non si sovrappongono, consente di evidenziare due elementi che caratterizzano la seconda e, con una diversa continuità e rilievo, la dottrina e l’insegnamento della Chiesa cattolica in ambito bioetico.

Il primo è ovviamente il riferimento al concepimento per definire il termine a quo dell’obbligo di un rispetto assoluto per la vita umana: l’embrione deve essere trattato «come una persona» e occorre dunque cercare di difenderlo nella sua integrità, curarlo e guarirlo, «per quanto è possibile, come ogni altro essere umano».4 Questa è la matrice normativa — esigente, chiara e da tempo consolidata — alla quale ispirare la valutazione delle questioni che si è soliti definire di inizio vita, che vedono la Chiesa cattolica collocata in una posizione di forte contrasto ad altre prospettive bioetiche e alle scelte operate dal legislatore in un numero via via crescente di paesi, a partire dal tema dell’interruzione volontaria della gravidanza. È però sull’altro aspetto che intendo soffermarmi e cioè sul fatto che, all’altro capo dell’esistenza, non ci si limiti ad indicare la morte come limite del dovere di difendere e promuovere il diritto alla vita e se ne specifichi il carattere naturale. Quali sono le ragioni di questa scelta e come vengono giustificate? Qual è la prospettiva sulle questioni di fine vita che si guadagna a partire da essa e quali i suoi vantaggi? A quali risultati può condurre una verifica di questa indicazione nell’orizzonte dello stesso Magistero della Chiesa cattolica? Rispondendo a queste domande, come cercherò di argomentare, è lecito porne un’altra: è davvero la morte naturale il criterio di valutazione più appropriato del rispetto della dignità degli esseri umani nell’ultima fase della loro vita?

1. Un aggettivo diventato segno di identità

La prima osservazione è che la fortuna di questa espressione è cresciuta, fino a farla apparire il pendant dottrinale del riferimento al concepimento, solo recentemente. Nella Donum vitae, l’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1987 sul rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, l’inviolabilità del diritto alla vita dell’essere umano innocente è affermata dal momento del concepimento alla morte, prima citando un Discorso di Giovanni Paolo II del 1983 e poi in apertura dell’elenco dei «valori e obblighi morali che la legislazione civile deve rispettare e sancire in questa materia».5 Di scopo, struttura e atto naturali si parla in relazione alla procreazione, in particolare come metro di paragone e giudizio per i casi «in cui il mezzo tecnico risulti non sostitutivo dell’atto coniugale, ma si configuri come una facilitazione e un aiuto», risultando di conseguenza moralmente accettabile.6 Il Catechismo cita proprio la Donum vitae per ribadire che il diritto inalienabile alla vita «dal concepimento alla morte» rappresenta un elemento costitutivo della società civile e della sua legislazione: la vita umana, dal primo all’ultimo momento così definiti, è sacra, perché la persona umana è stata voluta per se stessa ad immagine e somiglianza del Dio vivente e santo.7

Non mancano, nello stesso orizzonte temporale dei testi appena ricordati, i precedenti della scelta di sottolineare invece il carattere naturale della morte per affermare il diritto di ogni essere umano a vivere con dignità ed essere trattato con rispetto assoluto in ogni fase della sua esistenza. Nella Esortazione Apostolica Christifideles laici, del 1988, Giovanni Paolo II sostiene che titolare del diritto alla vita è «l’essere umano in ogni fase del suo sviluppo, dal concepimento sino alla morte naturale; e in ogni sua condizione, sia essa di salute o di malattia, di perfezione o di handicap, di ricchezza o di miseria».8 Proprio a questo passo, insieme ad altri, rinvierà la Carta degli operatori sanitari del 1994 parlando della vita come «bene fondamentale, originario e insopprimibile che è radice e condizione di ogni altro bene-diritto della persona».9 E sull’impegno della Chiesa a difendere «la vita umana dal suo primo inizio sino al suo termine naturale», facendosi «interprete di un obbligo che trova eco nella coscienza morale dell’umanità intera», Papa Wojtyla tornerà nel Discorso ai partecipanti al VII Simposio dei Vescovi europei nell’ottobre del 1989.10 La contiguità, nella Evangelium vitae, del riferimento prima semplicemente alla morte e poi alla morte naturale fa di questo documento un passaggio particolarmente significativo per l’affermazione progressivamente pervasiva dell’uso dell’aggettivo.

Negli anni successivi, attraverso testi e interventi di particolare rilievo dottrinale e istituzionale, l’espressione sembra quasi diventare un sigillo di identità e fedeltà alla tradizione. Essa è utilizzata a più riprese dalla Congregazione per la Dottrina della Fede: nel 2002, nella Nota Dottrinale sull’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, come esempio, insieme all’aborto, delle «esigenze etiche irrinunciabili» nelle quali è «in gioco l’essenza dell’ordine morale» e che per questo non ammettono «deroghe, eccezioni o compromesso alcuno»;11 nel 2008, già nella frase di apertura, nell’Istruzione su alcune questioni di bioetica Dignitas personae.12 La Caritas in veritate, parlando della tenuta morale della società come problema decisivo anche guardando alla complessiva responsabilità dell’uomo per il creato, afferma che «se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale», oltre al divieto di rendere artificiali il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo e di sacrificare embrioni umani alla ricerca, «la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale […] I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri».13 Questa consapevolezza deve caratterizzare la presenza e l’azione della Chiesa e in particolare degli organismi e associazioni più direttamente coinvolti in questo ambito. Ad essa, per indicare il «fondamento morale essenziale della scienza e dell’arte medica», rinvia lo Statuto della Pontificia Accademia per la Vita del 2016 (art. 6) .14 Nella Nuova Carta degli operatori sanitari, sempre del 2016, che pure utilizza anche il riferimento alla Donum vitae e dunque alla semplice indicazione della inviolabilità del diritto alla vita dal concepimento alla morte, resta la citazione della Christifideles, si aggiunge quella della Dignitas personae e si ricorda che servire la vita significa «rispettarla ed assisterla fino al compimento naturale».15 La promozione e la difesa del diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte naturale «come fondamento di tutti i diritti umani e della democrazia» sono lo scopo fissato nello Statuto della Associazione Scienza & Vita (art. 5) e tale difesa, rimanendo in Italia, costituisce la mission del Movimento per la Vita.16

2. Il «dono» della responsabilità e la sfida dell’eutanasia

La semantica del naturale si chiarisce spesso, anche in ambito bioetico, per contrapposizione: a ciò che è artificiale prodotto della tecnica e come tale viene definito quando si tratta, in particolare, di strumenti che sostituiscono o supportano parti o funzioni del «normale» organismo umano (la respirazione, la nutrizione, ma anche gli organi); a ciò che interviene ad interrompere dall’esterno e/o repentinamente il fisiologico, spontaneo processo di sviluppo e poi declino della vita (la morte procurata, violenta o comunque prematura), anche se proprio il fatto che l’esito di tale processo possa essere anticipato sia «per mano d’uomo» sia ad opera di forze esse stesse «naturali» (esterne come un fulmine, un terremoto o un agente patogeno o interne come un’anomalia genetica o una malformazione congenita) è già indice della difficoltà di realizzare una compartimentazione rigida dei piani.17 La normatività del naturale proposta dal Magistero — è questa la premessa fondamentale di ogni ulteriore approfondimento — non va in ogni caso confusa con il livello semplicemente fisico-biologico della vita. Rinvia a quest’ultimo, ma per includerlo in una prospettiva più ampia, che si vuole distinta e distante da semplificazioni e riduzionismi. L’unità inscindibile di anima e corpo fa sì che ciò che accade al secondo sia necessariamente incluso nella dimensione propriamente morale della vita personale, guardando tuttavia al telos di quest’ultima, nel quale il dinamismo intrinseco all’organizzazione e ai ritmi della fisiologia degli esseri umani viene assunto come l’elemento appunto corporeo (irrinunciabile) dell’ordine del Bene.

Fra i pilastri portanti di questo ordine c’è l’idea della vita come dono e dunque quella della sua sacralità. Essa rinvia al concetto di creazione piuttosto che al soprannaturale come ciò che è al di là del mondo appunto della natura e delle sue leggi, aprendo così non una via di fuga, ma un modo di vivere in esso. Caratteristica essenziale di questa sacralità, dalla quale derivano il rispetto assoluto per la vita e la sua inviolabilità, è una «relazione speciale con il Creatore», che si traduce nel riconoscimento che «solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente».18 Leggere la fine come morte naturale, seguendo l’interpretazione più immediata e corrente di questa espressione anche nel suo contesto medico-legale, dove le autopsie vengono disposte in primo luogo quando si hanno dubbi sulle cause appunto della morte, sottolinea quel che è già di per sé evidente: la prima e più grave violazione del rispetto della vita è l’omicidio. Vedere la vita come un dono implica tuttavia un’assunzione molto più esigente, che è stata interpretata come un vero e proprio paradigma: nella «visione sacrale e creazionistica dell’esistenza» proposta dal Magistero cattolico si esprimerebbe un’idea della vita che, in quanto proprietà19 di Dio, è «per principio sottratta alle scelte individuali, ovvero alla capacità di disporne a piacimento».20

È proprio questa precisazione ad aprire all’esercizio necessario della responsabilità. L’impossibilità di disporre a piacimento di qualcosa non è un’impossibilità assoluta, così come il rifiuto della pretesa di scegliere arbitrariamente se vivere o morire non vale l’esclusione di ogni intervento sui tempi e i modi del morire. A partire dal dono della vita mediante la generazione «una certa partecipazione dell’uomo alla signoria di Dio si manifesta anche nella specifica responsabilità che gli viene affidata nei confronti della vita propriamente umana».21 E questo vale anche all’altro capo dell’esistenza, con il risultato di una tensione tanto inevitabile quanto potenzialmente destabilizzante. Responsabilità significa libertà, dovere e diritto di operare scelte e quindi agire con lo scopo di non lasciare semplicemente che le cose accadano e anche di orientarle a un esito diverso da quello che avrebbero naturalmente avuto. Di converso, l’idea della sacralità della vita trasforma la bioetica in un campo «primario e cruciale», «delicatissimo e decisivo», proprio perché è in esso che emerge «con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio». Si tratterebbe qui di scegliere fra due forme di razionalità: «quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell’immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo». E la mens euthanasica sarebbe — rispetto alla diffusa e tragica piaga dell’aborto e alla pianificazione eugenetica delle nascite surrettiziamente in nuce — una «manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta».22 L’apertura alla trascendenza e il richiamo alla «legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice»,23 sembrano riproporre nelle ultime pagine dell’enciclica «sociale» di Benedetto XVI il presupposto di un «fondamento e di una regola trascendenti» che già Pio XII aveva posto a tutela delle basi immutabili della natura umana, della sua finalità, del carattere «assoluto e imprescrittibile delle sue esigenze essenziali».24

Il criterio della morte naturale può sembrare il più adatto per contrastare questa idea del dominio sulla vita, contrapponendo ad essa quella della dipendenza da Dio e la fedeltà a principi e norme che si fissano nell’aggettivo con la forza di ciò che non è in potere dell’uomo stravolgere secondo il suo arbitrio. Questa preoccupazione è sottesa alla definizione di eutanasia più volte riproposta dal Magistero: «un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore»25 e che resta dunque un «atto omicida, sempre da condannare e da escludere».26 In questa definizione sono peraltro due gli elementi da tenere in considerazione: la sovrapponibilità di azioni e omissioni rispetto all’intenzione appunto di procurare la morte e l’indicazione dell’obiettivo altruistico che, sul presupposto inderogabile dell’autodeterminazione, dovrebbe giustificare e in alcuni ordinamenti giustifica (ma non approfondirò la questione dell’eutanasia sotto il profilo delle leggi che la vietano o la regolano e della sua trasformazione in vero e proprio diritto) la sospensione del divieto di uccidere.27 È il tema della vita non più degna di essere vissuta, che muove dalla dimensione fisica della sofferenza, ma si estende rapidamente a quella psicologica per ritrovare anche in essa la soglia di quel che per il soggetto è divenuto insopportabile.28

È rispetto a questi due elementi che deve essere valutata la «tenuta» della morte naturale come criterio normativo. Il rifiuto dell’eutanasia e dell’idea che si possa stabilire che non vale più la pena di vivere, intesi come baluardo della sacralità della vita e della sua inviolabilità (da parte di altri) e indisponibilità (per lo stesso soggetto che ha ricevuto questo «dono»), implicano forse il dovere di soffrire? La Chiesa, fin dai citatissimi interventi di Pio XII su questo argomento, risponde negativamente a questa domanda. In un contesto nel quale la morte che si potrebbe procurare anticipandola (anche per omissione) passa comunque per la medicina, si impone di conseguenza una doppia questione: da una parte quella del limite degli atti medici finalizzati ad alleviare il dolore, posto che questa esigenza viene riconosciuta come pienamente legittima; dall’altra quella di individuare i trattamenti che, una volta omessi o interrotti, determinano il giudizio di una arbitraria anticipazione. Si tratta di una valutazione sovente difficilissima, anche perché può diventare arduo sostenere che è in nome appunto della morte naturale e del dovere di non colonizzare con la propria volontà quel che appartiene solo a Dio che vanno imposti e mantenuti il macchinario della ventilazione assistita o i tubi dell’alimentazione artificiale, mentre si dovrebbe di conseguenza considerare contro natura la richiesta di spegnere il primo o staccare i secondi. La contrapposizione fra naturale e artificiale può non essere decisiva, perché il secondo, una volta superata la tentazione del dominio, diventa strumento della specifica responsabilità assegnata all’uomo per la difesa della vita. E tuttavia possono essere infine percepite come forzature affermazioni come quella che «la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali», rappresenta «sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico». La si può considerare un mezzo in linea di principio «ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio», come prosegue in questo testo Giovanni Paolo II,29 ma sarebbe allora preferibile seguire senz’altro questa linea argomentativa: non crea problemi pensare come artificiale (come strumento reso disponibile dalla tecnica) ciò che è ordinario e proporzionato, mentre il meno che si può dire è che non è altrettanto immediato pensare l’artificiale come naturale.

Affermare che al dono della vita corrisponde un esercizio esigente di responsabilità implica la valutazione dei mezzi e delle situazioni che possono legittimare la libera rinuncia ad essa o addirittura trasformarla in gesto eroico, come accade quando la vita viene sacrificata in nome e a testimonianza di valori più alti. Almeno nella gran parte dei casi — e quasi sempre nei paesi che hanno il privilegio di poter godere dei benefici del progresso scientifico in ambito biomedico — non possiamo che riconoscere che «già non esistono più “morti naturali”, e tanto meno ne esisteranno in futuro, perché siamo ormai molto al di là della soglia della naturalità, e in ogni morte non c’è più “la natura che fa il suo lavoro”, ma solo un provvisorio fallimento terapeutico. La morte, insomma, in società tecnologicamente avanzate, è un’artificialità negoziata».30 Il problema diventa allora quello dei limiti di tale artificialità: si può rinunciare ad essa — e se sì per quali ragioni e a quali condizioni — anche semplicemente per rispetto dell’essere umano, senza che ciò comporti una deviazione dalla consapevolezza che siamo responsabili della nostra vita davanti a Dio e dunque «tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime»?31

3. La natura all’inizio, la natura alla fine

Ricevere e preservare la vita. Si può chiarire la differenza della responsabilità connessa a questi due doveri a partire dalla funzione normativa assegnata alla natura all’inizio della vita e in particolare in riferimento al tema della contraccezione. Tale normatività va verificata in relazione al metodo con il quale si realizza l’intenzione, la decisione (che deve essere comunque il risultato di una riflessione motivata e ponderata) di evitare un nuovo concepimento, «temporaneamente od anche a tempo indeterminato».32 Non si tratta, coerentemente con quel che si è detto sul significato della dimensione corporea per la vita personale, di utilizzare come argomento decisivo il semplice fatto del ciclo mestruale, ma di considerarlo all’interno della dinamica morale e spirituale, del telos della vita di coppia. La conoscenza dei ritmi naturali del corpo della donna deve essere accettata come limite e dunque declinata come dominio di sé e rinuncia, da vivere sotto il segno del rispetto reciproco e di una comune responsabilità. Si arricchisce così la comunione coniugale di quei valori di tenerezza e affettività che «costituiscono l’anima profonda della sessualità umana, anche nella sua dimensione fisica» ed è in questo modo che «la sessualità viene rispettata e promossa nella sua dimensione veramente e pienamente umana».33 Per questo, inoltre, la normatività del naturale non si esaurisce nel rifiuto di barriere artificiali opposte alla possibilità della fecondazione. Essa implica il dovere di conformarsi all’indicazione dell’inscindibilità del momento unitivo e di quello procreativo, che ci riporta al livello dell’intenzione: è intrinsecamente illecita ogni azione che, nel compimento dell’atto coniugale, oltre che in previsione di esso o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, «si proponga, come scopo o come mezzo, di rendere impossibile la procreazione».34 E dunque anche le tecniche naturali «volte ad impedire la fecondazione tramite un atto sessuale incompleto sono contraccettive».35

Questi vincoli furono ampiamente criticati, all’interno della stessa Chiesa cattolica, fin dalla pubblicazione della Humanae vitae. Essi, in ogni caso, precedono il concepimento e dunque non riguardano direttamente il rispetto del divieto di uccidere. Il Catechismo affronta il problema della contraccezione in relazione al sesto comandamento e non al quinto36 e l’aggettivo naturale, nell’esortazione a difendere la vita dal concepimento alla morte, non può evidentemente essere accostato al primo termine, perché si introdurrebbe una discriminazione basata appunto sulle modalità attraverso le quali il concepimento è avvenuto.37 Rispetto al tema che stiamo affrontando, la nitidezza della continuità fra la dimensione fisiologica e quella razionale-spirituale risulta rilevante per una precisa ragione e cioè proprio per evidenziare come essa non possa essere ritrovata negli stessi termini alla fine della vita e richieda perlomeno una serie di ulteriori specificazioni e chiarimenti.

Il linguaggio e la sensibilità ordinari, partendo dalla premessa che «le nostre vite terrene sono misurate dal tempo, nel corso del quale noi cambiamo, invecchiamo e, come per tutti gli esseri viventi della terra, la morte appare come la fine normale della vita»,38 sembrano in effetti in grado di dare una risposta ampiamente condivisibile alla domanda sulle caratteristiche di questa normalità: «In senso specifico e in riferimento all’esperienza quotidiana, il termine di “morte naturale”, che si contrappone a quello di “morte violenta”, ha dunque un uso riservato al decesso per vecchiaia. La morte naturale rimanda all’idea, secondo Max Scheler, del “lento esaurirsi di una forza vitale che agisce autonomamente”».39 Una vecchiaia avanzata, peraltro, è anche una delle condizioni (insieme a quelle, ben diverse, di una malattia prolungata o di una situazione di solitudine e abbandono) che possono facilitare l’accettazione della morte e dei distacchi «che sarebbero terribilmente dolorosi per un uomo in piena salute».40 Questo riferimento alla vecchiaia, tuttavia, comporta alcuni «ritagli» abbastanza onerosi dal punto di vista argomentativo, proprio perché riguardano aspetti intrinsecamente connessi allo svolgimento spontaneo della vita biologica, rispetto ai quali l’intervento dell’uomo, della sua scienza e della sua tecnica assume il significato di un dovere e al tempo stesso di un orientamento opposto all’unico che viene consentito all’inizio della vita: non la facilitazione ma la lotta, almeno fino a un certo punto.

L’esaurirsi della forza vitale può non essere lento e il passaggio dalla piena salute alla fine dell’esistenza terrena può avvenire anche molto prima del declino che inesorabilmente si accompagna all’avanzare dell’età: sono tante le patologie mortali che non risparmiano i giovani. La morte improvvisa e la morte prematura, come ho già ricordato, possono avere cause assolutamente naturali, che non per questo vanno assecondate. Neppure chi cerca e offre consolazione nella fiducia che le vie del Signore non sono le nostre vie ritiene che sia bene non fare nulla e il Magistero della Chiesa è da sempre coerente nel raccomandare ed elogiare l’impegno dei medici per la «salute naturale e fisica» dell’uomo, che accompagna quello per la sua salute religiosa e spirituale e con esso converge «verso il bene della vita umana».41 Questa consapevolezza, volendo conservare una continuità fra il dato biologico e quello propriamente normativo e dunque riconoscendo nel primo «un luogo di senso, da prendere in considerazione come modello da imitare» e non semplicemente «pura materia plasmabile dalla volontà e dal desiderio», implica comunque un’azione, uno sforzo che sembrano incuneare nel curare anche il significato di un «sottrarsi alla logica della sacralità».42 Aprendola così a una declinazione più complessa e articolata.

La morte — questo è il primo aspetto che si intende richiamare sottolineandone la naturalità — non deve essere arbitrariamente anticipata dalla mano dell’uomo, che proprio perché è chiamato da Dio a servire la vita si oppone allo stesso tempo a quella prematura. E quando non c’è un medico o non c’è il tempo per provare a «fare qualcosa», quando, davanti a una morte improvvisa, sentiamo la frustata del richiamo alla caducità dell’esistenza e alla necessità di essere sempre «pronti», perché nessuno può pretendere di conoscere il giorno e l’ora, non riconosciamo in questo evento indiscutibilmente naturale un fatto positivo, da assecondare o facilitare: «essere portato via all’improvviso senza essersi potuto preparare, senza sentirsi pronto, è considerato dal cristiano come il massimo dei pericoli da cui vorrebbe essere preservato». A subitanea morte, libera nos, Domine: è nella Litania di Ognissanti che si esprime «l’atteggiamento del cristiano credente di fronte alla morte», perché è in questo modo che si mantiene il suo significato di «problema che tocca l’essenza dell’uomo».43 C’è una «morte tecnica» che può diventare lo strumento dell’eutanasia come prodotto di una cultura che cerca di rimuovere questa dimensione, chiudendo per così dire «la porta in faccia alla metafisica prima che questa possa presentarsi».44 Ma la medicina che proprio resistendo alla natura aggiunge tempo alla vita realizza la consapevolezza che le cure necessarie «per conservare la vita e la salute» sono un diritto e un dovere per «la ragione naturale e la morale cristiana».45

La morte nella vecchiaia appare il candidato più accreditato a guadagnare il ruolo di paradigma della morte naturale perché arriva a conclusione di un percorso che si considera normale proprio in quanto non si è interrotto «prima del tempo» e ha dato tutti i suoi frutti. È il commiato di Abramo e di Giobbe, che muoiono vecchi e sazi di giorni.46 Ma questa normalità è il risultato di un’azione costante e invasiva dell’uomo. La morte di vecchiaia è stata un evento piuttosto raro fino a un secolo fa e «le persone molto anziane sono un fenomeno nuovo e “innaturale”»,47 almeno guardando al loro numero. Questa «transizione demografica», peraltro, non è avvenuta in tutte le parti del mondo nello stesso modo e in alcune situazioni e contesti particolari si sono avuti perfino dei regressi, anche se, «su una scala spazio-temporale maggiore, l’aspettativa di vita sta aumentando ovunque».48 Includere l’età avanzata come caratteristica indispensabile per poter definire una morte “naturale” soddisfa insomma il senso comune e anticipa un’esigenza di giustizia che sfida la teodicea oltre alla storia umana, ma costringe a circoscrivere il significato dell’espressione a una realtà dalla quale moltissimi individui sono stati e continuano ad essere esclusi e che varrà comunque sempre come una media, nonostante tutti gli sforzi e i progressi della medicina: quella di arrivare a invecchiare è una potenzialità inscritta nella base fisico-biologica, nel Dna degli esseri umani in modo casuale e non uniforme e questa potenzialità ha bisogno della scienza e della diffusione la più ampia possibile dei suoi benefici, in termini di strumenti di prevenzione, di diagnosi e di cura, per tradursi in una prospettiva concreta. La sporgenza dell’artificiale, del sociale, del politico è troppo marcata perché li si possa considerare semplicemente inclusi in una qualche interpretazione del naturale. Si tratta al contrario dei fattori determinanti per arrivare a saziare gli uomini di giorni e di giorni vissuti bene anziché di inquietudine. Senza dimenticare che la connessione fra vecchiaia e morte naturale come morte secondo il fine dell’uomo può implicare il rischio, che va sempre e comunque contrastato, di considerare la prima come una vita appunto ormai «esaurita» nelle sue potenzialità e per questo naturalmente destinata alla marginalità se non addirittura allo scarto, per usare un’espressione cara a Papa Francesco.

Ci sono dunque valide ragioni per orientarsi a un vocabolario diverso da quello ancorato al criterio della morte naturale, che per essere conservato richiede di essere trasformato da processo da rispettare in fine da realizzare, con l’obiettivo di garantire al maggior numero possibile di esseri umani una vita lunga e in buona salute. La «rivendicazione dell’uomo di disporre pienamente di sé, della propria vita e della propria morte» si presenta con volti diversi. Il tema è una questione di libertà e dunque di potere: quello di anticipare la morte (eutanasia) e quello di impedirne la conclusione «con una forma di tirannia biologica (accanimento terapeutico). È in quest’ottica che si traccia il confine tra “eutanasia” e “morte con dignità”».49 Potrebbe essere questa l’indicazione della quale abbiamo bisogno?

4. La questione della dignità e l’accanimento terapeutico

L’obiettivo del morire con dignità è ovviamente esposto a tutti i contraccolpi del confronto sul contenuto di un concetto la cui frastagliata polisemia può facilmente apparire sovrapponibile alla genericità e conseguentemente alla scarsa utilità del riferimento alla morte naturale. Questa opzione ha comunque il merito di affrancare la riflessione da ogni equivoco di stampo biologistico, agganciandola alla nozione di persona in tutta la ricchezza dei suoi orizzonti di significato. La stessa umanizzazione dell’istinto naturale «non consiste nel suo snaturamento ma nella sua cosciente integrazione in un complesso umano e sociale di vita», cosicché, in ogni caso, «naturalità e dignità dell’uomo sono indissolubilmente unite tra loro». Questa integrazione e questa unione chiariscono anche il rapporto fra «giusto di natura» o legge morale naturale e ragione: la natura giunge a sé «solo come ragione» e il giusto per natura «non consiste nell’imitazione della natura extraumana».50 Anche il rispetto per «la vita fisica degli esseri umani» poggia sulla consapevolezza che esso, in ogni caso, non va «in prima istanza al bene fondamentale della vita (e ad altri beni consimili), ma piuttosto alla persona».51 Alla sua dignità.

Assumendo questa prospettiva si guadagnano immediatamente due posizioni altrimenti più difficili da raggiungere. In primo luogo lo sguardo sulle diverse e complesse dimensioni della morte. Nel testo del 1979 che ho già citato, Joseph Ratzinger, a partire da una riflessione sullo sviluppo del problema nell’Antico Testamento, ne individuava tre: la morte «quale nulla di un’esistenza vuota che finisce per essere vita soltanto in apparenza»; la morte «quale processo biologico del dissolvimento che si protrae per tutta l’esistenza, si manifesta nella malattia e si conclude con la morte fisica»; la morte che «s’incontra nell’esperienza dell’amore che rinuncia a se stesso per donarsi all’altro» e che «incontriamo pure nella rinuncia al nostro vantaggio per amore di verità e giustizia».52 Non c’è dubbio che si debba partire dalla seconda. È anzitutto nella componente biologica dell’humanum che alberga la morte ed è nella situazione del dolore che «l’uomo è posto concretamente e inevitabilmente di fronte al dato di fatto di non poter disporre della propria vita, che la propria vita non gli appartiene»: la fede cristiana «afferma la vita in tutte le sue fasi quale dono e riflesso di Dio, il quale è Egli stesso la vita. Essa conferma il alla vita fin giù nelle tenebre della sofferenza. Anche in queste condizioni la vita rimane un dono di Dio, anche in queste condizioni si aprono all’uomo nuove possibilità di essere e nuovi significati. Motivo per cui la fede cristiana non ammette il concetto di una “vita non meritevole di essere vissuta”».53 È tuttavia ugualmente importante per il credente riconoscere sia che «il fatto puramente fisico dell’esistere o del perire passa in seconda linea di fronte al fenomeno umano, sociale e infine teologico di ciò che nel più intimo determina un’esistenza autenticamente umana»54 sia che «la giustizia di Dio vale più della propria esistenza fisica e che, morendo nella giustizia di Dio, non entrerà nel nulla, ma nella vera realtà, nella vita autentica».55

La centratura sul tema della dignità come cifra dell’autenticamente umano e la scelta di declinare in questa prospettiva anche il rispetto della sacralità della vita consentono al tempo stesso di chiarire il ruolo e i limiti della medicina di fronte alla morte e lavorare su una nozione condivisa anche da chi non riconosce nell’esistenza l’apertura alla trascendenza e la racchiude di conseguenza in uno spazio di responsabilità tutta terrena. Il Magistero, come ho già sottolineato, ha costantemente espresso apprezzamento e incoraggiamento per l’importanza dei progressi che consentono di curare con successo malattie prima inguaribili, di allungare la speranza di vita e migliorarne la qualità. Questa consapevolezza incrocia e sfida quella che «lascia da parte la pretesa che tutto possa essere risolto dalla Natura e rende più esplicite le aree di pertinenza delle responsabilità e delle scelte delle persone anche per quello che riguarda il modo del loro morire».56 Come interpretare, per esempio, la sopravvivenza garantita nei reparti di terapia intensiva degli ospedali, dove «esseri umani sopravvivono in condizioni rese possibili dall’utilizzazione di strumenti vicarianti messi a disposizione dalla medicina solo negli ultimi decenni»? È vero che essa può infine risultare solo «un artificiale pausa in un territorio che non è né vita né ancora morte».57 In molti casi, tuttavia, è proprio in questo modo che si guadagna la possibilità di restituire una persona alla sua vita, garantendone il rispetto e la dignità. La morte non deve essere né anticipata né rinviata sempre e con ogni mezzo.

A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, sono stati numerosi gli interventi che hanno tentato di tracciare una rotta fra queste due opposte tentazioni, affrontando, da diverse prospettive, il nodo del rapporto fra malattia, sofferenza e dignità. Già Pio XII, in un Discorso del 1957, aveva applicato il principio del doppio effetto all’ipotesi in cui si tratti di intervenire per alleviare «dolori insopportabili, per esempio nel caso di un cancro inoperabile o malattie inguaribili». Se fra la sedazione e l’abbreviazione della vita «non esiste alcun legame diretto, posto dalla volontà o dalla natura delle cose (come accadrebbe se la soppressione del dolore non potesse essere ottenuta in altro modo che con l’abbreviazione della vita)», se si tratta di due effetti distinti connessi all’uso di queste sostanze e si è verificata l’esistenza di «una proporzione ragionevole fra i due effetti», allora «essa è lecita». Si dovrà anche valutare, in ogni caso, «se lo stato attuale della scienza non consenta di ottenere il medesimo risultato utilizzando altri mezzi» ed evitare di superare, nella somministrazione, i limiti di ciò che è necessario.58 Il principio del doppio effetto, dunque, consente addirittura di fare qualcosa che può avvicinare il momento della morte (che sia o no questo il caso della sedazione palliativa profonda) senza superare la linea rossa dell’eutanasia. Nella consapevolezza — implicita nel riferimento alla ragionevole proporzione fra i due effetti e alla responsabilità che essa determina — che quello negativo, se dovesse verificarsi, sarà comunque collegato all’azione intrapresa.

L’uso di analgesici «per alleviare le sofferenze del moribondo» — si legge nel Catechismo — «può essere moralmente conforme alla dignità umana».59 E di una «vita che non è più pienamente umana» (e il cui prolungamento ad ogni costo potrebbe perciò essere ben definito non conforme almeno alla pienezza di tale dignità) si parlava per esempio nella lettera del Segretario di Stato Cardinale Villot con la quale Paolo VI fece pervenire il suo incoraggiamento ai partecipanti a un congresso di medici cattolici svoltosi a Washington nel 1970. Questo testo chiariva inequivocabilmente due punti: 1) è il carattere sacro della vita «ciò che proibisce al medico di uccidere e gli impone allo stesso tempo il dovere di impegnarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte», ma ciò non significa che egli sia obbligato a «utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice»; 2) quando una vita «va naturalmente verso il suo epilogo», il suo dovere può diventare quello «di impegnarsi per alleviare la sofferenza» anziché prolungarla il più a lungo possibile e con qualsiasi mezzo.60 Ma è proprio sul naturale procedere di una vita verso il suo epilogo che la medicina interviene cercando di curare una malattia potenzialmente mortale, spesso con successo. Ecco perché, restando sulla linea di questa indicazione, sono altri gli aggettivi che è indispensabile introdurre per non confondere la rinuncia all’accanimento terapeutico con l’eutanasia, illuminando allo stesso tempo uno dei criteri fondamentali anche per definire la ragionevole proporzione fra i possibili effetti di un trattamento medico: occorre che la morte sia imminente e inevitabile perché sia «lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita». Continuando comunque a garantire «le cure normali dovute all’ammalato in simili casi».61 Non è il naturale da solo, questa è la conclusione che si impone ancora una volta, che fa la differenza.

Un «tecnicismo che rischia di diventare abusivo» è dunque un rischio dal quale occorre «proteggere, nel momento della morte, la dignità della persona umana e la concezione cristiana della vita».62 La Dichiarazione del 1980 della Congregazione per la Dottrina della Fede è stata citata da Papa Francesco, insieme al «memorabile discorso» rivolto nel 1957 da Pio XII ad anestesisti e rianimatori, per ribadire che «non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e che, in casi ben determinati, è lecito astenersene». Oggi è possibile prolungare la vita «in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare»: gli interventi sul corpo umano dispiegano una potenza sempre più grande e «possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute», non giova necessariamente «al bene integrale della persona». E per questo occorre «un supplemento di saggezza».63

Arriviamo così al punto davvero decisivo. La funzione principale del riferimento alla morte naturale, come ho già sottolineato, appare essere quella di garantire un esercizio della libertà e della responsabilità che rimanga rispettoso della sacralità della vita come dono di Dio, che deve esserne riconosciuto come il solo Signore. Ci si trova tuttavia costretti a ricorrere ad altri concetti e termini per renderlo concretamente utilizzabile, che si tratti della imminenza e inevitabilità che impongono infine la morte come un limite da accettare o della dignità come criterio di controllo dell’uso appropriato, secondo saggezza, del potere della medicina e dei suoi strumenti. La realtà di situazioni complesse e spesso difficili da decifrare si sostituisce quasi sempre (e comunque in tutti i casi controversi) a quel che si vorrebbe semplice, immediatamente comprensibile e, appunto, sottratto all’esercizio di un’autodeterminazione che anticipi o ritardi a suo piacimento la conclusione dell’esistenza. Ed è significativo constatare come su questa conclusione possano convergere approcci e vocabolari di diversa ispirazione.

Dietro la constatazione della Dichiarazione del 1980 che possono spesso sorgere «dubbi sul modo di applicare i principi della morale» e che «prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici, alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del caso»,64 c’è la grande tradizione della teologia e della dottrina cristiane, nella quale si conserva la lezione di Tommaso d’Aquino: la ragione pratica, occupandosi di cose umane e dunque contingenti, va inevitabilmente incontro a difficoltà nel passare dai principi universali a norme d’azione sempre più particolari.65 Ma non è azzardato affermare che ad un analogo atteggiamento di prudenza e rispetto si può arrivare anche partendo dagli «oneri del giudizio» di John Rawls, cioè dalla consapevolezza che, «in una certa misura, tutti i nostri concetti (e non solo quelli morali e politici) sono vaghi, e per tutti si danno casi difficili […] fino a un certo punto (ma non possiamo dire fin dove), il modo in cui valutiamo i dati e il peso che diamo ai valori morali e politici sono determinati dalla nostra esperienza totale, dal nostro intero percorso di vita fino a oggi; e le nostre esperienze complessive non possono che essere diverse […] spesso esistono considerazioni normative di tipo diverso, e di diversa forza, da entrambi i lati di un problema, ed è difficile arrivare a una valutazione complessiva».66 E la decisione — volendo applicare l’indicazione della Congregazione per la Dottrina della Fede — spetta in primo luogo alla coscienza del malato: «è anzitutto lui — spiega Papa Francesco nel Messaggio che ho citato — che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta».

5. Il silenzio impossibile sulla giustizia

La Congregazione per la Dottrina della Fede, rispondendo nel 2007 a due quesiti posti dalla Conferenza episcopale statunitense, ribadì che la somministrazione di cibo e acqua ai pazienti in stato vegetativo, anche per vie artificiali, deve essere considerata «un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita» ed è dunque obbligatoria, «nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente».67 In una Nota di commento alle risposte pubblicata su «L’Osservatore Romano», tuttavia, venne precisato che possono esserci delle eccezioni a questa indicazione «moralmente obbligatoria in linea di principio». Possono sopraggiungere complicazioni che rendono impossibile l’assimilazione del cibo e dei liquidi e non si può nemmeno escludere che, in qualche raro caso, alimentazione e idratazione artificiali comportino per il paziente «un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali». Ma è la prima eccezione indicata a meritare attenzione: non si esclude che «in qualche regione molto isolata o di estrema povertà l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano non essere fisicamente possibili, e allora ad impossibilia nemo tenetur».68

L’isolamento e la povertà, dunque, come situazioni che determinano l’impossibilità di garantire quel che la Congregazione considera mezzo ordinario e proporzionato e che Giovanni Paolo II aveva definito un mezzo senz’altro naturale, anche quando la somministrazione avviene in modo artificiale. Il tema, in questo caso, non è l’opportunità di optare per aggettivi meno equivoci. Se è doveroso offrire agli esseri umani un determinato trattamento, in quanto si rispetta così la sacralità e la dignità della vita che all’uomo sono affidate perché le custodisca e non anticipi né ritardi la morte naturale, non si può che rifiutare la rassegnazione di fronte alle condizioni sociali che privano alcuni o addirittura molti di ciò a cui avrebbero diritto. Quella di cui si parla non è un’impossibilità assoluta, che violerebbe una legge della natura fisica come una sorta di miracolo alla rovescia, ma il risultato di una dinamica, di una storia e in molti casi di rapporti di potere sui quali gli uomini e le comunità a tutti i livelli, proprio per quanto si è detto, hanno un preciso obbligo di intervenire. Con un impegno pari almeno a quello che si chiede agli scienziati e la consapevolezza che gli esiti delle azioni e delle omissioni possono avere un impatto perfino maggiore.

Venne pubblicato nel 2008 il Rapporto con il quale si conclusero i lavori della Commissione costituita tre anni prima dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per analizzare i social determinants of health. Non contano solo i progressi della medicina. Contano le condizioni economiche, la qualità degli ambienti di vita e di lavoro, l’organizzazione dei servizi sanitari, l’educazione.69 Conta la capacità della comunità internazionale di realizzare concretamente il principio della condivisione dei benefici del progresso scientifico, da tempo riconosciuto nelle principali Dichiarazioni e Carte di diritti.70 La Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede riconosce che perfino un trattamento così ordinario come la somministrazione per vie artificiali di cibo e acqua resta un lusso inavvicinabile per tanti esseri umani, mentre in altre parti del mondo si aprono conflitti sulla possibilità di rifiutarla. E ciò non stupisce, se si pensa alle tante popolazioni che continuano a lottare contro la morte per fame o per mancanza di acqua potabile, ai paesi nei quali migliaia e talvolta milioni di vite sono andate e vanno perdute (si pensi alla tragedia dell’Aids nell’Africa subsahariana, ma anche alla malaria) semplicemente perché non ci sono i farmaci e tutti i mezzi diagnostici e terapeutici ai quali si ha facilmente accesso in altre e più fortunate regioni del mondo. La morte per cause naturali non chiama in causa solo la giustizia di Dio, ma anche quella degli uomini. E anche per evidenziare questa dimensione il riferimento alla dignità e alla dignità della vita fra la nascita (il concepimento) e la morte appare più appropriato di quello alla natura.

Il fatto di maggior rilievo nel mondo contemporaneo — scriveva Paolo VI nei primi paragrafi della Populorum progressio rinviando all’insegnamento di Giovanni XXIII e alla Gaudium et Spes — «è che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale» e richiede interventi urgenti: «i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza».71 Sono le «grandi parole» citate da Giovanni Paolo I in una delle poche udienze del suo brevissimo pontificato, il 27 settembre 1978.72 E ad esse rinvia anche la Caritas in veritate di Benedetto XVI, per affermare la circolarità di questione sociale e questione antropologica.73 Questa sfida è stata posta da Papa Francesco al centro del suo Magistero e due testi ne illustrano la portata per una riflessione bioetica orientata alla tutela della vita in tutta l’ampiezza del suo orizzonte e non solo ai suoi estremi.

Il primo è una riflessione proposta nel 2015 ai partecipanti a un incontro promosso dalla Associazione Scienza & Vita. Essa, come ho ricordato, riconosce nel suo Statuto la tutela del diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale come fondamento di tutti i diritti umani e della democrazia. Il Papa cita questa formula come esigenza prioritaria di «una società giusta», ma aggiungendo subito parole inequivocabili: «Vorrei, però, che andassimo oltre, e che pensassimo con attenzione al tempo che unisce l’inizio con la fine». Pensare a questo tempo, alla realtà di un dono che genera speranza e futuro se viene vivificato da legami fecondi e relazioni capaci di generare nuove prospettive, comporta la denuncia di tutti gli attentati alla sacralità della vita umana: «È attentato alla vita la piaga dell’aborto. È attentato alla vita lasciar morire i nostri fratelli sui barconi nel canale di Sicilia. È attentato alla vita la morte sul lavoro perché non si rispettano le minime condizioni di sicurezza. È attentato alla vita la morte per denutrizione. È attentato alla vita il terrorismo, la guerra, la violenza; ma anche l’eutanasia. Amare la vita è sempre prendersi cura dell’altro, volere il suo bene, coltivare e rispettare la sua dignità trascendente».74 Ritorna così, come un sigillo, il riferimento alla dignità. Non è possibile pensare la questione sociale come questione antropologica senza pensare allo stesso tempo la questione antropologica come questione sociale. E una «adeguata antropologia» viene indicata dalla Laudato si’ anche come la premessa dell’ecologia, perché viviamo in un sistema dove «tutto è connesso» ed è rispetto a questa totalità che si misura l’interpretazione dell’uomo come «amministratore responsabile» e non signore dell’universo: «quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità — per fare solo alcuni esempi -, difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa».75

Il secondo testo che vorrei ricordare è il già citato Messaggio ai partecipanti all’incontro internazionale sulle questioni del fine-vita che si è svolto in Vaticano nel mese di novembre del 2017. Francesco, dopo aver sottolineato i grandi benefici terapeutici resi disponibili dal progresso delle scienze biomediche, mette in parallelo due rischi: da una parte, come i suoi predecessori, l’accanimento che produce effetti sul corpo ma non giova al bene integrale della persona; dall’altra l’ineguaglianza terapeutica. La consapevolezza che la relazione fra medico e paziente si fa sempre più frammentata, anche per le molteplici mediazioni richieste dal contesto tecnologico e organizzativo, richiede processi valutativi complessi e difficili, che si misurano anche con un crescente divario di opportunità: «Trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitari. Una tendenza per così dire sistematica all’incremento dell’ineguaglianza terapeutica. Essa è ben visibile a livello globale, soprattutto comparando i diversi continenti. Ma è presente anche all’interno dei Paesi più ricchi, dove l’accesso alle cure rischia di dipendere più dalla disponibilità economica delle persone che dalle effettive esigenze di cura».76

Questa diagnosi si traduce immediatamente in impegno, nella sollecitazione condivisa con i partecipanti a un altro convegno ospitato negli stessi giorni in Vaticano. Mentre si registrano dati positivi riguardanti l’aspettativa di vita media e la lotta alle malattie a livello globale, è evidente «il grande divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri nell’accesso alle cure e ai trattamenti sanitari». Affrontare concretamente «il tema delle disparità e dei fattori sociali, economici, ambientali e culturali che le alimentano» è per la Chiesa un dovere, perché «la sua missione, orientata al servizio dell’essere umano creato a immagine di Dio, è tenuta a farsi carico anche della cura della sua dignità e dei suoi diritti inalienabili».77 La morte «naturale» non può coincidere con una condizione di esclusione, emarginazione, disuguaglianza che alimenta il circolo vizioso dell’ingiustizia (l’isolamento e l’estrema povertà della Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’alimentazione e l’idratazione artificiali). Per questo occorre considerare i modi e i limiti dell’intervento e dell’eventuale rinuncia che trattengono l’alleanza terapeutica fra medico e paziente al di qua della soglia dell’eutanasia come momento conclusivo di un percorso, intessuto di diritti e doveri, insieme negativi e positivi, che assicura in tutte le sue fasi la protezione e la promozione della dignità dell’uomo.

6. Conclusioni

Il riferimento alla «morte naturale» come termine ad quem dell’impegno al rispetto assoluto e alla protezione della vita che inizia con il concepimento è diventato una costante nel Magistero della Chiesa cattolica. Il suo obiettivo è quello di sottolineare la sacralità della vita come dono che Dio affida all’uomo e del quale l’uomo è dunque responsabile, ma non padrone. In questa prospettiva, il naturale che funge da criterio normativo non si riduce mai, anche nelle questioni bioetiche, al semplice livello fisico-biologico dell’esistenza ed è piuttosto il telos che integra quest’ultimo in un dimensione propriamente morale e spirituale. All’inizio della vita, questa integrazione si realizza per la Chiesa tracciando un limite rigoroso e severo della responsabilità umana: nella continuità fra il momento unitivo e procreativo, in particolare, la tecnica può entrare solo per aiutare e facilitare. Quello che si presenta alla fine della vita è invece un quadro molto più complesso. L’idea della morte naturale, che sembrerebbe dover rinviare all’esaurirsi dall’interno della forza vitale, viene corretta dalla stessa Chiesa cattolica con la sollecitazione all’impegno non solo contro la morte violenta, ma anche contro la morte prematura e quella improvvisa, che possono avere a loro volta cause del tutto naturali. Il limite della sacralità diventa almeno in qualche misura permeabile, in un processo che vede la medicina protagonista: servire e accompagnare la persona nell’alleanza terapeutica — e quindi rispettandone la libertà e l’autodeterminazione — implica evidentemente, finché è possibile, lottare contro la malattia (senza superare la soglia di un inutile accanimento) e non facilitarla. E quando questo non accade a causa della povertà o di altre condizioni di emarginazione si pone una vera e propria questione di giustizia. Continuare ad usare il vocabolario del «naturale» richiede insomma troppe precisazioni e chiarimenti, con il rischio di non superare comunque tutte le ambiguità. Per dire il senso cristiano della morte sono forse più utili le parole dell’amore (di Dio e degli uomini) e della dignità.


  1. Per i testi dei papi da Paolo VI a Benedetto XVI il riferimento indicato nelle note, dopo quello agli Acta Apostolicae Sedis (AAS) quando quest’ultimo è disponibile, è ai volumi degli Insegnamenti (Ins.), pubblicati dalla Tipografia Poliglotta Vaticana e poi, a partire dal 1977, dalla Libreria Editrice Vaticana (fra il 1965 e il 1979 per Paolo VI; nel 1979 per Giovanni Paolo I; fra il 1979 e il 2006 per Giovanni Paolo II; fra il 2006 e il 2013 per Benedetto XVI). ↩︎

  2. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 92: AAS LXXXVII (1995), p. 506; Ins. XVIII/1, p. 826. ↩︎

  3. Ivi, n. 93: AAS, p. 508; Ins., p. 828. Nel paragrafo 101 si ribadisce che «il rispetto incondizionato del diritto alla vita di ogni persona innocente - dal concepimento alla sua morte naturale - è uno dei pilastri su cui si regge ogni società civile» (AAS, p. 517; Ins., p. 835). Al requisito della innocenza si collega in particolare la valutazione della pena di morte. Il Catechismo della Chiesa cattolica, dopo aver sottolineato che la legittima difesa «non costituisce un’eccezione alla proibizione di uccidere l’innocente», perché «chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale» (fatto salvo il principio dell’uso proporzionato della forza, che si applica anche ai legittimi detentori dell’autorità che hanno il diritto di usare le armi, se necessario, per porre «l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere»), ricorda che, sul presupposto del «pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole», l’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude il ricorso ad essa (Catechismo della Chiesa Cattolica, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2003, nn. 2263, 2264, 2265, 2267, pp. 418-419). Deve trattarsi però della «unica via praticabile» e, come si legge ancora nella Evangelium vitae, l’organizzazione sempre più adeguata delle istituzioni penali rende questi casi «ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti» (Evangelium vitae, n. 56: AAS, p. 464; Ins., p. 791). Il Catechismo venne approvato e promulgato nel testo francese nel 1992 con la Costituzione Apostolica Fidei depositum e nell’edizione tipica latina (nella quale fu inserita quest’ultima citazione) nel 1997 con la Lettera Apostolica Laetamur magnopere. Nel suo Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione dell’11 ottobre 2017, Papa Francesco ha richiamato la necessità di «uno spazio più adeguato e coerente» per questo tema: «Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale […] A nessuno, quindi, può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità». È in questa prospettiva che si ribadisce che «la difesa della dignità della vita umana dal primo istante del concepimento fino alla morte naturale ha sempre trovato nell’insegnamento della Chiesa la sua voce coerente e autorevole» (il testo è disponibile su: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/october/documents/papa-francesco_20171011_convegno-nuova-evangelizzazione.html. Consultato il 15 dicembre 2017). ↩︎

  4. Catechismo, cit., n. 2274, p.421. ↩︎

  5. Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae (22 febbraio 1987), Introduzione, n. 4 e Parte III: AAS LXXX (1988), pp. 76 e 99. Il riferimento è a Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla XXXV Assemblea Generale dell’Associazione Medica Mondiale (29 ottobre 1983): AAS LXXVI (1984), p. 390; Ins. VI/2, p. 918. Anche nel Discorso ai partecipanti a un Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze del 23 ottobre 1982, citato nella Donum vitae a supporto della condanna delle manipolazioni sperimentali dell’embrione umano, Giovanni Paolo II aveva affermato che «l’essere umano dal suo concepimento alla morte non può mai essere strumentalizzato per nessuno scopo» (AAS LXXV [1983], p. 37; Ins. V/3, p. 897). ↩︎

  6. Donum vitae, Parte II, B, 6: AAS, p. 94. ↩︎

  7. Catechismo, cit., nn. 2273 e 2319, pp. 420 e 427. ↩︎

  8. Giovanni Paolo II, Esortaz. Apost. Christifideles laici (30 dicembre 1988), n. 38: AAS LXXXI (1989), p. 463; Ins. XI/4, p. 2133. Al «momento della morte fisiologica» si era riferito invece alcuni anni prima il Pontificio Consiglio «Cor Unum» nel documento Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti del 27 giugno 1981 (cfr. 6.2.1). Il documento è disponibile su: http://www.academyforlife.va/content/dam/pav/documents/papi/documentisantasede/fatally_ill_and_dying-it.pdf. Consultato il 16 dicembre 2017. ↩︎

  9. Cfr. Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari, Tipografia Vaticana, Città del Vaticano 1994, n. 46, p. 44. ↩︎

  10. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al VII Simposio dei Vescovi europei (17 ottobre 1989): Ins. XII/2, p. 947. ↩︎

  11. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica (24 novembre 2002), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, II, 4. In questo testo l’espressione usata è «termine naturale». ↩︎

  12. «Ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità di persona» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Dignitas personae (8 settembre 2008), n. 1: AAS C [2008], p. 858). L’espressione viene ripetuta al n. 12: AAS, p. 865. ↩︎

  13. Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), n. 51: AAS CI (2009), p. 688; Ins. V/1, pp. 1225-1226. ↩︎

  14. Lo Statuto, approvato dal Papa per cinque anni ed entrato in vigore il 1 gennaio del 2017, usa comunque l’espressione «dal concepimento alla morte naturale» solo in questo articolo, dedicato alle descrizione delle «attività ordinarie» dell’Accademia. In tutti gli altri il riferimento è semplicemente alla dignità, alla tutela, alla cultura della vita. Il testo è disponibile su http://www.academyforlife.va/content/dam/pav/documents/2132597657-Nuovo_Statuto_PAV.pdf . Consultato il 12 dicembre 2017. ↩︎

  15. Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova Carta degli Operatori Sanitari, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, nn. 165, 63, 23 e 144, pp. 133, 60, 30 e 119. ↩︎

  16. Cfr. i testi disponibili rispettivamente su http://www.scienzaevita.org/noi-siamo/statuto/ e su http://www.mpv.org/la-nostra-missione/. Consultati il 14 dicembre 2017. ↩︎

  17. La stessa conclusione si impone sovente di fronte a quella che, presentandosi come una tragica fatalità, si rivela essere in realtà il risultato di una catena di eventi nella quale la responsabilità umana si incrocia con la cecità del destino, con tutto ciò che ne consegue sul piano giudiziario (un incidente, ma anche le conseguenze di un disastro naturale in termini di distruzione e di numero di vittime). ↩︎

  18. Donum vitae, Introduzione, n. 5: AAS, pp. 76-77. Questa affermazione apre nel Catechismo il commento al comandamento “non uccidere” (n. 2258, pp. 417-418) e viene ripresa nella Evangelium vitae come espressione del «contenuto centrale della rivelazione di Dio» su questo tema (Evangelium vitae, n. 53: AAS, p. 461; Ins., p. 788). ↩︎

  19. Nessun uomo «può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17, 28)» (Evangelium vitae, n. 47: AAS, p. 453; Ins., p. 781). ↩︎

  20. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondadori, Editori, Milano 2005, p. 29. ↩︎

  21. Evangelium vitae, n. 43: AAS, p. 448; Ins., p. 776. ↩︎

  22. Caritas in veritate, nn. 74-75: AAS, pp. 705-706; Ins., p. 1242. Merita di essere sottolineata la differenza di tono fra la fermezza di questo aut aut e le «caratteristiche di flessibilità», i «criteri della progressione e dell’accompagnamento» indicati a proposito del rapporto fra etica ed economia e, più specificamente, degli interventi per lo sviluppo: qui «non ci sono ricette universalmente valide» (ivi, n. 47: AAS, p. 683; Ins., p. 1221). ↩︎

  23. Ivi, n. 75: AAS, p. 706; Ins., p. 1243. ↩︎

  24. Pio XII, Discours à la VIIIe Assemblée de l’Association Mèdicale Mondiale (30 septembre 1954): AAS XXXXVI (1954), pp. 596-597; Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XVI, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1955, pp. 177-178. ↩︎

  25. Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona (5 maggio 1980), II : AAS, LXXII (1980), p. 546. L’eutanasia si colloca dunque «al livello delle intenzioni e dei metodi usati» (ibidem). ↩︎

  26. Catechismo, cit., n. 2277, p. 421. ↩︎

  27. Il motivo della solidarietà di fronte al dolore è sottolineato nella definizione dell’eutanasia come «soppressione indolore o per pietà di chi soffre o si ritiene che soffra e che possa soffrire nel futuro in modo insopportabile» (V. Marcozzi, Il cristiano di fronte all’eutanasia, in «La Civiltà Cattolica», 1975, 4, p. 322. Cit. da E. Sgreccia, Manuale di bioetica. Volume I: Fondamenti ed etica bio-medica, Vita e Pensiero, Milano 20074, p. 876). ↩︎

  28. Questa eutanasia, proprio per il presupposto della richiesta pienamente libera e consapevole da parte di chi soffre, non può comunque in alcun modo essere confusa con pratiche alle quali il termine si è legato nel ventesimo secolo e che ne hanno pregiudicato comprensione e uso, a partire dal famigerato programma nazista Aktion T4. ↩︎

  29. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale «Life Sustaining Tretaments and Vegetative State: Scientific Advances and Ethical Dilemmas» (20 marzo 2004), n. 4: Ins. XXVII/1, p. 346. ↩︎

  30. A. Schiavone L’uomo e il suo destino, in D. Monti (a cura di), Che cosa vuol dire morire. Sei grandi filosofi di fronte all’ultima domanda, Einaudi, Torino 2010, p. 14. ↩︎

  31. Catechismo, cit., n. 2280, p. 422. È il primo dei paragrafi dedicati al suicidio. ↩︎

  32. Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), n. 10: AAS LX (1968), p. 487; Insegnamenti - Encicliche 1963-1970, p. 173. ↩︎

  33. Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 33: AAS LXXIV (1982), p. 120; Ins. IV/2, p. 1076. ↩︎

  34. Humanae vitae, n. 14: AAS, p. 490; Ins., p. 175. Cfr. Catechismo, cit., n. 2370, p. 435. ↩︎

  35. Nuova Carta degli Operatori Sanitari, cit., n. 17, nota 45, p. 26. ↩︎

  36. Anche se è vero che proprio la Evangelium vitae, pur riconoscendo la «diversa natura e peso morale» di aborto e contraccezione, sottolinea come la cultura abortista sia di fatto più sviluppata negli ambienti che rifiutano l’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione e li vede «molto spesso in intima relazione, come frutti di una medesima pianta» (Evangelium vitae, n. 13: AAS, pp. 414-415; Ins., p. 746). ↩︎

  37. Nella posizione del Magistero sulla procreazione medicalmente assistita viene decisamente in primo piano la contrapposizione fra naturale e artificiale e il secondo, con l’intervento esterno che esso comporta, guadagna un ridottissimo spazio di liceità solo nella misura in cui, come già ricordato, si configura come una facilitazione e un aiuto all’atto coniugale. Diversi e più gravi sono però, evidentemente, gli interrogativi posti da queste procedure, perché esse coinvolgono il destino di tutti gli embrioni prodotti, che per la Chiesa devono essere trattati come persone. ↩︎

  38. Catechismo, cit., n. 1007, p. 200. E dunque «la morte del corpo è naturale», anche se per la fede «essa in realtà è “salario del peccato” (Rm 6, 23)» (ivi, n. 1006, p. 200). ↩︎

  39. D. Sisto, Narrare la morte. Dal romanticismo al post-umano, Edizioni ETS, Pisa 2013, p. 103. Cfr. M. Scheler, Morte e sopravvivenza, Morcelliana, Brescia 2012, p. 71. «Il libero movimento di un essere - scrive Robert Spaemann -è, infatti, il movimento conforme alla sua natura. Esso si differenzia da quello violento che, contro la propria natura, è costretto ad accettare dall’esterno. Noi intendiamo la stessa cosa quando diciamo che qualcuno è morto di morte naturale, se la causa di questa morte è stata la debilitazione dovuta all’età e non una causa esterna e violenta» (R. Spaemann, Felicità e benevolenza, Vita e Pensiero, Milano 2007 [rist. ed. 1998], pp. 210-211). ↩︎

  40. Dichiarazione sull’eutanasia, III : 547. ↩︎

  41. Paolo VI, Discorso in occasione della III «Giornata del Medico» (19 ottobre 1970): Ins. VIII, p. 1045. ↩︎

  42. P. Sgreccia, La dinamica esistenziale dell’uomo. Lezioni di filosofia della salute, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 36-37. ↩︎

  43. J. Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella Editrice, Assisi 1979, p. 87. ↩︎

  44. Ivi, p. 88. ↩︎

  45. Pio XII, Discorso in risposta a tre quesiti di etica medica sulla rianimazione (24 novembre 1957): AAS XLIX (1957), p. 1030; Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIX, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1958, p. 617. ↩︎

  46. Cfr. rispettivamente Genesi 25, 8 e Giobbe 42, 17. La conclusione del Libro di Giobbe è tanto più significativa se la si confronta con un altro calcolo e un’altra “sazietà”, che sono il grido di angoscia con il quale in esso si chiude il Primo ciclo di discorsi: «L’uomo, nato di donna, / breve di giorni e sazio di inquietudine, / come un fiore spunta e avvizzisce, / fugge come l’ombra e mai si ferma (Giobbe 14, 1-2). ↩︎

  47. G. Brown, Una vita senza fine? Invecchiamento, morte, immortalità, Cortina, Milano 2009, p. 28. Questo progresso si è realizzato però al prezzo del dilagare delle malattie che sono appunto tipiche della vecchiaia: «Pochi sopravvivono fino alla morte senza qualche significativa disabilità fisica e/o mentale che perdura per decenni. La morte non è più un evento; diventa un lungo, estenuante processo» (ivi, p. 5). ↩︎

  48. Ivi, p. 29. ↩︎

  49. E. Sgreccia, op. cit., pp. 879 e 893. ↩︎

  50. R. Spaemann, op. cit., p. 216. ↩︎

  51. M. Reichlin, L’etica e la buona morte, Edizioni di Comunità, Torino 2002, p. 201. ↩︎

  52. J. Ratzinger, op. cit., p. 110. ↩︎

  53. Ivi, pp. 111 e 116. ↩︎

  54. Ivi, p. 98. «La sofferenza fisica, la malattia che annunziano la morte, minacciano la nostra vera vita meno di quanto lo faccia un’esistenza vissuta senza prendere coscienza di noi stessi, la quale squalifica la promessa della vita e conduce infine nel vuoto» (ivi, p. 110). ↩︎

  55. Ivi, p. 106. ↩︎

  56. E. Lecaldano, La questione della morte. Definizioni tra etica e filosofia, in S. Canestrari, G. Ferrando, C.M. Mazzoni, S. Rodotà, P. Zatti (eds.), Il governo del corpo. Tomo II, Giuffrè Editore, Milano 2011, p. 2035. ↩︎

  57. Ivi, p. 2034. ↩︎

  58. Cfr. Pio XII, Discorso del 24 febbraio 1957 ai medici e chirurghi anestesisti sui tre quesiti posti dalla Società Italiana di Anestesiologia al termine del Congresso del 1956 (24 febbraio 1957): AAS XLIX (1957), p. 146; Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XVIII, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1957, p. 798. Un’ulteriore condizione è che questa scelta «non impedisca il compimento di altri doveri religiosi e morali» (ivi: AAS, p. 147; Discorsi e radiomessaggi, p. 798). Questo discorso verrà richiamato da Pio XII in quello tenuto l’anno successivo ai partecipanti a un altro congresso medico, nel quale viene ribadita la stessa posizione. Cfr. Pio XII, Discorso ai partecipanti al I Congresso Internazionale di neuropsicofarmacologia (9 settembre 1958): AAS L (1958), pp. 694-695; Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XX, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1959, p. 331. ↩︎

  59. Catechismo, cit., n. 2279, p. 422. ↩︎

  60. Il rispetto della vita e della persona nell’esercizio della professione medica, in «L’Osservatore Romano», Anno CX, n. 236, 12-13 ottobre 1970, p. 2. ↩︎

  61. Dichiarazione sull’eutanasia, IV: AAS, p. 551. ↩︎

  62. Ivi, p. 549. ↩︎

  63. Francesco, Messaggio ai partecipanti al Meeting regionale europeo della «World Medical Association» sulle questioni del «fine-vita», 16-17 novembre 2017 (7 novembre 2017). Disponibile su: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2017/documents/papa-francesco_20171107_messaggio-monspaglia.html. Consultato il 21 dicembre 2017. Il testo inglese utilizza l’espressione vital functions, che appare decisamente “ammorbidita” nella versione italiana (che parla appunto di funzioni biologiche, così come i testi in lingua spagnola e portoghese). Vale anche la pena di sottolineare come in questo intervento il Papa non usi mai l’espressione “morte naturale”. ↩︎

  64. Dichiarazione sull’eutanasia, IV: AAS, p. 549. . ↩︎

  65. La ragione speculativa, «trattando soprattutto di cose necessarie che non possono essere altrimenti, deduce sempre nelle sue conclusioni particolari la verità senza eccezione, come anche nei principi universali. Invece la ragione pratica tratta di cose contingenti, quali sono le azioni umane: perciò, sebbene nei principi universali vi sia una certa necessità, più si scende a deduzioni particolari e più si incontrano eccezioni» (S. Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996, vol. 2: Prima Secundae, q. 94, a. 4, pp. 731-732). ↩︎

  66. J. Rawls, Liberalismo politico, Einaudi, Torino 2012, p. 53. ↩︎

  67. Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposte a quesiti della Conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali, 1° agosto 2007: AAS XCIX (2007), p. 820. ↩︎

  68. Nota di commento, in «L’Osservatore Romano», Anno CXLII, n. 210, 15 settembre 2007, p. 5. Il testo della Nota si trova anche in Congregazione della Dottrina della Fede, Sull’eutanasia. Testi e commenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016 (Collana Documenti e Studi, 4), pp. 33-38. ↩︎

  69. Cfr. WHO, Closing the gap in a generation: health equity through action on the social determinants of health, World Health Organization, Geneva 2008. ↩︎

  70. Valga per tutti l’esempio della Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell’uomo adottata per acclamazione dall’Assemblea generale dell’UNESCO il 19 ottobre 2005, che chiede di condividere i benefici derivanti dalla ricerca scientifica e dalle sue applicazioni «con la società nel suo insieme e nell’ambito della comunità internazionale, in particolare con i paesi in via di sviluppo» (art. 15.1). ↩︎

  71. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), n. 3: AAS LIX (1967), p. 258; Insegnamenti - Encicliche 1963-1970, p. 82. ↩︎

  72. Giovanni Paolo I, Udienza generale su “la carità” (27 settembre 1978): Ins., p. 98. ↩︎

  73. Caritas in veritate, n. 75: AAS, p. 705; Ins., p. 1242. . ↩︎

  74. Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dalla Associazione Scienza & Vita (30 maggio 2015), in Quale scienza per quale vita? Formazione, ricerca, prevenzione. I quaderni di Scienza & Vita, n. 15, Edizioni Cantagalli, Siena 2015, pp. 17-18. ↩︎

  75. Francesco, Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), nn. 116-118: AAS CVII (2015), p. 894. ↩︎

  76. Francesco, Messaggio ai partecipanti al Meeting regionale europeo della «World Medical Association» sulle questioni del «fine-vita», cit. ↩︎

  77. Francesco, Messaggio ai partecipanti alla XXXII Conferenza internazionale sul tema «Affrontare le disparità globali in materia di salute», 16-18 novembre 2017 (18 novembre 2017). Disponibile su: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2017/documents/papa-francesco_20171118_conferenza-disparita-salute.html . Consultato il 22 dicembre 2017. ↩︎