Franz Rosenzweig indicò con chiarezza, tracciando un primo bilancio del dibattito successivo alla pubblicazione di Der Stern der Erlösung, le fonti e i co-autori di quel «nuovo pensiero» al quale affidava il grande compito di scalzare ab imis la filosofia dell’Occidente.1 Esso ha la sua lontana origine in Feuerbach, ma trova i suoi segnavia più prossimi nel Cohen della Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums — opera della quale «si può difficilmente trovare, dopo Hegel e Schelling, qualcosa di equivalente»2 — e nel «punto di Archimede» scoperto da Eugen Rosenstock con l’affermazione che rivelazione significa orientamento.3 Dopo aver ricordato la Philosophie des Arztes di Victor v. Weizsäcker e la Theoretische Biologie di Rudolf Ehrenberg, Rosenzweig cita quindi due autori che «sono pervenuti da soli al punto critico del nuovo pensiero» — Martin Buber con Ich und Du e Ferdinand Ebner con Das Wort und die geistigen Realitäten4 — e colui che egli riconosceva suo «maestro» in filosofia:5 «Poi, oltre alla Stella è apparsa un’ulteriore presentazione fondamentale della nuova scienza, il primo volume del Fichte di Hans Ehrenberg, opera dell’idealismo redatta nella nuova forma del colloquio autentico che esige il suo tempo». Fra tutti i testi ricordati questo Fichte — dedicato «all’amico Franz Rosenzweig e alla sua opera La Stella della Redenzione» e con il quale si apre la Disputation. Drei Bücher vom deutschen Idealismus, la cui pubblicazione avvenne fra il 1923 e il 1925 ed è dunque coeva alla composizione di Das neue Denken6 — è l’unico nel quale l’istanza teoretica si saldi fin dal titolo ad un preciso obiettivo storiografico. Ed è su questa specificità, lente d’ingrandimento di un profondo sodalizio umano, oltre che culturale, che vogliamo insistere. La «nuova scienza» risponde cioè alla quaestio juris della sua legittimità attraverso il confronto diretto e a tutto campo con il suo più formidabile avversario (l’idealismo, appunto) e l’opera di Ehrenberg, autore riscoperto in questi ultimi anni dopo un lungo periodo di sostanziale oblio,7 può ben essere considerata un luogo privilegiato per la messa a fuoco della sua fisionomia.
1. L’idealismo tedesco fra storia e nostalgia di Weltanschauung
Era stato Windelband, interrogandosi sulla Erneuerung des Hegelianismus nello stesso torno di tempo nel quale Kronenberg assumeva l’idealismo tedesco come cifra dello svolgimento dell’intero pensiero europeo,8 a porre il problema di un «ritorno a Hegel» come possibile risposta al nuovo bisogno di Weltanschauung, contro gli eccessi del materialismo, del positivismo e dell’individualismo di impronta nietzscheana. Un «risanamento» utile, se si fossero evitate le «avventatezze metafisiche» del vecchio hegelismo, buttando la buccia e salvandone la polpa, che è l’indicazione della storia come vero «organo» della filosofia. Se l’errore del neokantismo era stato quello di uno gnoseologismo unilaterale, sfociato in uno psicologismo relativista che aveva dissolto i valori della ragione in necessità e bisogni antropologici, si trattava insomma adesso — concludeva Windelband — di riscoprire nel cosmo storico i valori, senza tuttavia cadere nello storicismo, che è una forma di relativismo altrettanto pericolosa dello psicologismo.9 In questo dibattito Ehrenberg è fin dall’inizio ben presente, se è vero che egli affronta e «liquida» già nel 1911 questa ipotesi di un «rinnovamento dell’hegelismo» come via d’uscita dall’esito aporetico di quella filosofia che aveva proclamato la necessità di «tornare a Kant» proprio per chiudere definitivamente i conti con la vecchia metafisica, che appunto Hegel aveva restaurato. La tesi sostenuta in Die Parteiung der Philosophie è che fra Hegel e i neo-kantiani passa il comun denominatore di una «logica senza sistema», cioè della mancanza di una corretta connessione fra la logica, le discipline non logiche e l’assoluto: ciò vale «sia nel caso della filosofia dello sviluppo di Hegel, nella quale un sistema che è ad ogni modo presente nella impostazione viene schiacciato dalla logica e come risultato si dà comunque una logica senza sistema, sia nel caso del kantismo, dove il destino di restare un frammento è assolutamente manifesto e che di quando in quando ha perfino cercato di annullare le discipline non logiche come visioni del mondo filosofiche non scientifiche».10 Così, mentre l’obiettivo dichiarato dei neo-kantiani è quello di opporsi tanto alla metafisica hegeliana quanto all’empirismo positivista, «senza che con ciò venisse posta un’ipoteca su un eventuale Assoluto»,11 il loro reale punto d’arrivo è che «la logica, il sistema delle categorie, è costruita di nuovo in maniera tale da essere la scienza di tutto; e la lunga, faticosa strada che il kantismo ha percorso per correggere l’errore hegeliano sembra essere stata inutile».12 Conclusione: «Essendoci posti come obiettivo la liberazione del sistema dalla signoria della logica, combattiamo esattamente nello stesso modo l’hegelismo e il kantismo; per annientare il primato della logica ci rivolgiamo adesso all’armonizzazione della triplicità: logica, discipline, assoluto».13
Torneremo più avanti sulla pars construens dello scritto del 1911. Basti per ora aver sottolineato come Ehrenberg assuma subito un atteggiamento di vigilanza critica nei confronti della nuova temperie culturale nella quale uno degli interlocutori della Disputation riterrà di poter dichiarare finalmente finito «il boicottaggio accademico contro l’hegelianismo»: in Fichte, Schelling e Hegel si riconosce nuovamente lo Zeitgeist della cultura tedesca (cfr. III, 6).14 Il dialogo su Fichte esce d’altronde contemporaneamente alla prima parte della Philosophie des deutschen Idealismus di Hartmann e al primo volume della Religion des deutschen Idealismus und ihr Ende di Lütgert, due anni dopo la pubblicazione del primo volume del Von Kant bis Hegel di Kroner.15 Per quest’ultimo «l’idealismo tedesco da Kant ad Hegel deve essere compreso nel suo sviluppo come una totalità», nella consapevolezza che quelli della filosofia speculativa non erano fantasmi evanescenti. «Oggi cominciamo di nuovo a sentire che la filosofia non può prendere la sua misura di scientificità dalle scienze non-filosofiche […] Cominciamo a capire che i sistemi speculativi possiedono in grado mai raggiunto quelle proprietà che caratterizzano l’essenza della scientificità filosofica». In questo senso «Hegel è una conclusione; con lui finisce un’epoca, al cui contenuto culturale egli offrì l’espressione filosofica più comprensiva e conclusiva». Dopo Hegel era impossibile andare oltre, se non con «un nuovo inizio».16
È fin troppo facile anticipare la conclusione che è proprio a questo «nuovo inizio» che guarda invece Ehrenberg: la «nuova scienza» della cui scoperta Rosenzweig lo indica come co-autore è appunto una scientificità filosofica il cui principio si contrappone a quello dei sistemi speculativi, dimostrando attraverso questa opposizione la sua autenticità. Una polemica esplicita fin dalla forma scelta per la trattazione — il «colloquio autentico che esige il suo tempo» — e la cui eco è possibile cogliere anche nella dichiarazione di metodo con la quale Johannes (il protagonista della disputazione) e il vecchio amico Friedrich iniziano il loro confronto sull’idealismo: si parte dai singoli filosofi e dalle loro opere, non dai «problemi», perché «i problemi si lasciano spaccare e poi cuocere nuovamente insieme, gli uomini no» (I, 10). Una risposta indiretta alla rimozione da parte di Kroner dell’elemento «biografico» riguardante la personalità dell’autore,17 ma che non deve far dimenticare come anche Ehrenberg sia costretto, proprio nell’intento di rovesciarlo, a ripercorrere l’itinerario dell’idealismo secondo una prospettiva unitaria. È la globalità di quel «dramma filosofico» che Johannes sintetizzerà in questi termini alla conclusione dei tre giorni della disputazione, riassumendo nel titolo di ciascun atto il ruolo rispettivamente di Fichte, Schelling e Hegel: «Primo atto: ricerca nell’ambito della logica; secondo atto: interpretazione nell’ambito della metafisica; terzo atto: pensare autonomo nell’ambito dell’etica; esposizione, conflitto, catastrofe!» (III, 171).
Un itinerario coerente, ma naturalmente non una sintesi di stampo hegeliano. E ciò non tanto o non soltanto per il fatto che l’ultimo momento è quello della catastrofe, anziché della finale Aufhebung. I tre protagonisti non vengono disposti sui gradini successivi di una ipotetica scala dell’Assoluto, ma piuttosto come interpreti di uno stesso copione, che sottolineandone e amplificandone uno degli elementi costitutivi caratterizzano attraverso esso la rappresentazione. La globalità non è dunque quella di un percorso storiografico schematizzante «da…a»,18 ma quella squisitamente teoretica che fa dell’idealismo la cifra compiuta del «vecchio» pensiero. Ed è proprio in quanto viene assunto un preciso criterio di giudizio che Ehrenberg può non solo affermare che «l’idealismo fu una ricerca del giusto fine, ma perseguita con mezzi sbagliati» (I, 9), ma anche articolare la sua analisi dei singoli autori in modo da far emergere frammenti di verità che, rompendo lo schema, anticipano la «nuova scienza». In breve: contro Hegel, ma non sempre contro e talvolta anzi con Schelling. È in questo contesto che acquista la sua specifica rilevanza la riproposizione nella Disputation dei più classici topoi interpretativi riguardanti l’idealismo: la sua forma, il suo tono, il suo soggetto, i confini temporali della sua epoca.
Innanzitutto la forma dell’idealismo, che è il sistema, nel quale «l’idea ha interamente assorbito in sé la realtà» e vale dunque come espressione dell’Assoluto: il tema dell’idealismo è l’unità del molteplice, che è «unità dei problemi e delle soluzioni ai problemi»;19 gli idealisti mirano in anticipo «all’idea del tutto; quasi ognuna delle loro opere maggiori reca un nuovo progetto di sistema; e più d’uno, nel corso del suo sviluppo speculativo, trasforma di volta in volta il sistema un tempo concepito».20 Insomma: «Con la totalità, questo lo concederei a chiunque, sta e cade l’idealismo» (I, 68). È proprio questa convinzione di aver attinto la totalità, l’Assoluto, che dà all’idealismo il suo tono, quello di un ottimismo dal quale Johannes prende seccamente le distanze fin dalle prime battute del suo dialogo con Friedrich. Fichte era convinto che «il suo tempo e la sua propria persona e filosofia fossero così portatori di un nuovo mondo» (I, 15) e avrebbe partorito un ottimismo peggiore di quello di Leibniz, giustamente sbeffeggiato da Voltaire. Leibniz lodava il mondo, Fichte l’uomo e proprio per questo se la prendeva con quel Rousseau che si sforzava invece di penetrare più a fondo nelle pieghe dello spirito. Rousseau vedeva le sofferenze dell’uomo e cercava di superarle in un sentimento più alto: «Non ci riuscì, certamente no, ma almeno egli fu nelle intenzioni un consolatore. Fichte invece fu soltanto un predicatore» (I, 15). Egli sradica il dubbio dall’anima dell’uomo e pretende di fondare in questo modo una nuova e felice epoca: «Oggi parliamo così spesso di tramonto, fine del mondo, apocalisse e decadenza. Credete forse che sarebbe successo se il vostro idealismo non avesse completamente bruciato il linguaggio e la forza dell’ottimismo, se non ci avesse educati ad uno stato d’animo superficiale, dal quale siamo stati riscossi troppo rudemente?» (I, 17).
Il soggetto sul quale si regge l’ambizioso progetto di questa sintesi assoluta è l’Io e anche in questo caso Ehrenberg non sembra far altro che riproporre uno scontato luogo comune,21 nella stessa prospettiva della periodizzazione del pensiero occidentale che Rosenzweig schizzerà in Das neue Denken appunto con l’obiettivo di indicare la necessità della fuoriuscita dalla filosofia come indagine sull’«essenza», come tentativo di riportare sempre di nuovo ad uno dei tre elementi originari descritti nel primo libro della Stella gli altri due: «Per il pensiero antico tutto può essere ricondotto al mondo, è un pensiero cosmologico. Nel Medio Evo la scolastica riconduce tutto a Dio, è un pensiero teologico. Dopo Cartesio, tutto è ricondotto al soggetto pensante, all’“io”: è un pensiero antropologico».22 Il rifiuto del pensiero monologico in nome di quello dialogico, della prima persona singolare a vantaggio della prima plurale, coinvolge così direttamente la possibilità di interpretare l’epoca dell’idealismo, appunto nel segno del primato dell’Io reso assoluto, come compimento (ed esaurimento) del moderno. Lo stesso Kroner ribadisce la continuità fra Kant e l’idealismo — contro quella storiografia ottocentesca che, magari per salvarla di fronte al crollo dei grandi sistemi, aveva trasformato «la teoria critica della conoscenza in cameriera della scienza della natura» — dal punto di vista della progressiva riduzione di due polarità che nello stesso Kant hanno un valore di interazione piuttosto che di contrapposizione: la polarità di idea e materia e quella di io e mondo. L’idealismo supera l’opposizione nella consapevolezza finale che «l’Io sollevato al di là della contrapposizione al mondo non è più l’io finito o umano, ma quello divino, che vive nel più profondo fondamento dell’io umano».23 Anche per Hartmann, che pure ne accentua il valore polemico ed esclude non a caso il pensiero kantiano dalla sua trattazione, il riferimento obbligato degli idealisti è a quella «metafisica futura» della quale il filosofo di Königsberg aveva saputo approntare soltanto i Prolegomeni.24 Ehrenberg conferma questa primogenitura di Kant, ma la inserisce in una più complessiva interpretazione del moderno, che trova il suo punto di partenza non in Cartesio, ma in Copernico, la cui «rivoluzione» era peraltro esplicitamente richiamata come modello nella Prefazione alla seconda edizione della prima critica.25 Una rilettura di per sé non particolarmente originale. Essa si caratterizza tuttavia per la determinazione della specificità kantiana nel senso di una vera e propria svolta antropologica, che non rinnega quella prima rivoluzione del pensiero, ma ne porta per così dire ad epifania l’autentico significato.
Lo stesso Friedrich sottolinea come «la scoperta dell’uomo è l’opera comune dell’illuminismo francese e del filosofo tedesco, lì nella politica, qui nel pensiero. Kant e Rousseau sono i padri spirituali dell’idealismo» (I, 18). In Kant il primato è dunque della ragion pratica su quella teoretica e lo stesso apriori dell’esperienza è un Sollbegriff, cosicché «l’intera storia dell’idealismo da Fichte fino ad Hegel non mi appare altro che il tentativo di conciliare il primato kantiano della ragion pratica con un nuovo concetto di mondo» (I, 21). Johannes-Ehrenberg non nega la validità di questa interpretazione, limitandosi ad osservare che «Kant non è ancora idealista; poiché egli dubita. Idealista è soltanto la sua eredità, il suo testamento». Proprio per questo scarto fu possibile recuperare Kant, dopo la fine dell’idealismo, contro la sua eredità, «contro il suo stesso testamento» (I, 23-6). All’inizio della giornata di dibattito dedicata a Schelling egli riconduce tuttavia questa continuità «da Kant a Hegel» al suo più lontano luogo d’origine, che è appunto «l’astrazione dall’uomo vitale-reale e dal suo luogo, l’abbandono della rappresentazione del mondo geocentrica» (II, 26), in una parola: Copernico. L’uomo copernicano, l’uomo moderno non è più fatto di carne e sangue e si riduce ad una vuota astrazione: «Allora l’Io, l’uomo si trova di fatto sciolto dalla natura non umana, morta, meramente meccanicistica, in una forma astratta, trascendentale: come coscienza in generale» (II, 27). In questa vuota coscienza in generale, in questa «ombra», possono radicarsi tanto la metafisica del dominio del cosmo quanto lo scetticismo di una soggettività che ha smarrito la sua materia ed è di questo equivoco che resta prigioniero lo stesso Kant e con lui l’idealismo, che persegue come sottolineato all’inizio il «giusto fine», ma utilizzando i «mezzi sbagliati». Il giusto fine è il superamento della contrapposizione di soggetto e oggetto, l’errore è dato invece dal dispiegamento ostinato del pensiero in un Io che diventando assoluto non cessa per questo di essere astratto.26
C’è dunque anche Ehrenberg dietro l’affermazione Rosenzweighiana che «alla rivoluzione copernicana di Copernico, che faceva dell’uomo un granello di polvere nell’universo, la “rivoluzione copernicana” di Kant, che in compenso lo collocò sul trono del mondo sta in una corrispondenza molto più esatta di quanto Kant stesso pensasse».27 Di più: si può ben dire a questo punto che la stessa periodizzazione del pensiero europeo proposta da Rosenzweig rinvia ad un fecondo e continuo confronto con l’amico e interlocutore filosofico privilegiato, che rende ragione fino in fondo della sua citazione come co-autore della nuova scienza. Tornando a Kant, il cui concetto di libertà era stato definito da Rosenzweig, nella Urzelle, «l’unica caravella sulla quale noi possiamo muovere alla scoperta del nuovo mondo»,28 si può concludere correggendo quella interpretazione riduttiva la cui esposizione Ehrenberg aveva non a caso affidato a Friedrich. A partire da Kant si può davvero rileggere nella sua globalità la vicenda dell’idealismo, ma proprio in quanto il criticismo consegna a quest’ultimo l’eredità di Copernico e dunque l’equivoco della modernità: «Dopo Kant le sole pietre di costruzione disponibili per la ragione pensante sono quelle del copernicanesimo: un uomo astratto, un mondo autonomo e attraverso ciò infine un Dio infinitizzato. I tre idealisti si dividono su questi tre rudimenti: Fichte predica l’uomo astratto, Schelling benedice il mondo autonomo, Hegel interpreta il Dio infinitizzato!» (II, 63). Questa conclusione fornisce il filo rosso di un duplice percorso storiografico: quello della critica ai tre grandi protagonisti dell’idealismo, ma anche quello della ricerca dei punti di rottura rispetto ad esso, che diventano proprio per questo altrettante anticipazioni del nuovo pensiero.
2. De tribus impostoribus
La filosofia di Fichte è un «Epos dell’Io» (I, 70), che si articola in assoluto, teoretico e pratico e afferma decisamente il primato di quest’ultimo: il pensiero è una forma dell’agire della libertà, fondamento dell’unità del sistema delle rappresentazioni non meno che dei doveri.29 La critica di Johannes-Ehrenberg si concentra su due punti. In primo luogo l’inattingibilità di questo Io, che una volta posto a tema diventa mich e ripropone così proprio all’interno della certezza di sé il rapporto soggetto-oggetto. La seconda contestazione riguarda, anche quando si ammettesse questo «puro Io», la possibilità di ricavare da esso l’identità di teoria e prassi: «La dottrina della scienza è una dottrina della libertà — questo le deve essere concesso — ma in nessun modo una dottrina del sapere. Essa è prassi, non teoria» (I, 57). Lo stesso Fichte afferma d’altra parte che solo il contenuto della Wissenschaftslehre è necessario, mentre quello delle singole scienze è contingente, casuale. Come si può fondare così il sapere empirico? A mancare è una adeguata comprensione della natura, con un risultato paradossale. Poiché dalla certezza di sé, dall’Io="Io" non risulta in alcun modo il passaggio alla cosa, questo passaggio è possibile solo ammettendo qualcosa che nel semplice Io non c’è, qualcosa che è dunque, fichtianamente, non-io.
Il punto nel quale convergono le aporie della posizione fichtiana, quello nel quale tutto viene «alla luce del giorno» (I, 87), è l’Atheismusstreit. Già nel Versuch del 1792 Ehrenberg attacca la traslitterazione antropologica dell’equivoco cosmologico di Newton, che aveva ridotto Dio a «presidente onorario della natura. Allo stesso modo lo tratta il deismo morale della fede razionale; esso chiama Dio al ruolo di presidente onorario dell’eticità» (I, 31). Il rifiuto di ogni speculazione su Dio in sé e per sé, della sua «personalità», sottende la sua interpretazione come semplice attributo dell’essere finito e a Friedrich, che sottolinea come Fichte avesse poi abbandonato questa posizione per un Dio che non è semplice «sostegno» della moralità, ma reggitore e ordinatore del mondo, Johannes replica ridislocando la polemica su un nuovo obiettivo: «La mia accusa è che non il suo concetto di Dio, ma il suo concetto dell’uomo è ateistico» (I, 94). Un uomo tutto mondanizzato, che ha di fronte a sé un Dio del mondo, non dell’uomo, un Dio che regge e governa, non che giudica e perdona. L’intera filosofia di Fichte, il suo tanto annunciato sistema, non è così altro che un monologo destinato a restare incomprensibile «per tutti i non filosofi», nulla più che una «fede» particolare, quella «della individualità di Fichte in se stessa» (I, 101-2).
Questa vera e propria «malattia» idealistica non viene superata neppure nella fase successiva alla polemica sull’ateismo, la cui apparente inversione di polarità — dall’attività alla passività, dal porre sé al rinunciare a sé — non riduce e anzi potenzia all’infinito la presunzione della libertà, mentre la nuova attenzione alla vita, che lascia in secondo piano la Wissenschaftslehre, diventa fonte di ulteriori ambiguità, che dovevano accendere pour cause l’ira di Schelling contro il «secondo» Fichte. Per il «primo» la natura era un oggetto della libertà, ma ne era almeno il prodotto più importante; adesso il mondo è la storia e Dio resta in questo contesto un prodotto dell’immanenza, «l’oggetto del nostro agire […] E così la vita beata, alla quale Fichte indirizza, è una autorinuncia mistica, nella quale solo il sapere spirituale rimane stabile e fermo» (I, 124). Una conclusione che viene confermata in quella che Johannes definisce la «terza» fase di Fichte, nella quale la vita e l’assoluto si separano e polarizzano come apparenza e Dio. In altri termini: l’An-sich si specchia in noi, ma non è in noi: «Tutto è apparenza, la stessa legge morale è solo un’immagine, così come l’Io, ma sopra tutte le apparenze si libra il puro in-sé di Dio» (I, 131). Questa purezza non deve infatti ingannare: la rivelazione della quale Fichte torna a parlare nel 1812 non è altro che la filosofia stessa e «neanche la comprensione del primato del Daß preserva Fichte dal suo filosofismo […] La filosofia è Dio diventato uomo» (I, 132-3).
La lettura di Schelling come un capitolo della tradizione copernicana, cioè della scissione di soggetto e oggetto nei poli contrapposti di un rapporto astratto, appare a prima vista più problematica. Né si può dimenticare come egli costituisca per il «nuovo pensiero» qualcosa di ben diverso da un semplice punto di riferimento polemico. La sua presenza determinante nella Stella è stata ampiamente documentata30 e riconosciuta dallo stesso Rosenzweig: il protagonista del secondo libro è lo Sprachdenker, il pensatore della parola, che si esprime con il metodo del narrare introdotto da Schelling nei Weltalter attraverso la profezia di una «filosofia narrante» e dunque il riconoscimento della centralità del tempo.31 È vero che anch’egli resta in qualche modo legato all’ideale dell’oggettività, mentre la filosofia va caratterizzata ormai come «confessione autobiografica»,32 ma in lui Rosenzweig trova un mai interamente rinnegato modello di pensiero: «Schelling […] mi stimola continuamente allo scetticismo, alla contraddizione e pertanto è insomma il mio tipo devo riconoscerlo».33 A questo «tipo» anche Johannes-Ehrenberg afferma di non essere rimasto insensibile: «Schelling! Il tuo nome risveglia in me ricordi. Una volta ti chiamavo, pensando ai tuoi ultimi anni, mio maestro» (II, 7).
L’interpretazione assume così un andamento bifronte. La dimostrazione di come l’enfant prodige della filosofia tedesca resti invischiato nell’equivoco fondamentale del copernicanesimo passa per la riproposizione del topos della simmetria fra il suo idealismo e quello fichtiano, entrambi preparatori della sintesi hegeliana. «Per Fichte l’Io era il Tutto, per lui al contrario il Tutto era l’Io» — esordisce Friedrich — cosicché si può ben dire che il primo voleva «trovare una certezza interiore», il secondo «regalare a questa certezza una casa» (II, 9-11). Ma la sua fede nell’Io, nella sua incondizionatezza, originarietà e forza creatrice, non viene in nessun momento minimamente scossa. Anche se il rapporto con il mondo è completamente diverso e la filosofia diventa ancora una volta «filosofia del mondo» il suo «spinozismo» resta segnato e determinato dal presupposto idealistico, dal primato dell’Io. Quest’ultimo ha per così dire «un piccolo sovrappiù», puntualizza Johannes (II, 19), che più che correggere nella sostanza la posizione dell’amico34 si preoccupa quindi di ricondurre anche la parabola schellinghiana sulla linea teorica dominante del moderno. È vero che Schelling cercò per primo di annullare Copernico e che proprio per questo può essere considerato il «profeta» di Einstein, ma «lo fece sulla strada sbagliata e in parte a metà» (II, 30). Una volta sconsideratamente separati, soggetto e oggetto potevano infatti altrettanto sconsideratamente essere fusi: l’io diventa principio del mondo senza perdere nulla della sua astratta assolutezza, poiché da esso possono discendere tanto un «sistema dell’Io estraneo alla natura» quanto «un sistema della natura ubriaco di Io», che produce una «radicale mondizzazione dell’uomo! L’uomo diventa kosmos!» (cfr. II, 64 e 67). Il cerchio dell’idealismo si chiude così nel più rigoroso rispetto della tradizione manualistica: Hegel sarà l’ultimo passo di questo percorso e se la filosofia della natura di Schelling è ancora «una deliziosa mescolanza di esperienza e speculazione», quella da lui proposta «non conosce più alcuna empiria, è un arido sistema concettuale» (II, 35).
L’intuizione dei Weltalter è proprio la sostituzione a questa istanza dialettico-sistematica di una autentica prospettiva epico-narrativa: «Il passato è saputo, il presente è constatato, il futuro è presagito».35 Schelling supera qui davvero il «filosofismo» al quale tornerà Hegel, cioè la superstizione dell’autonomia della ragione, della autosufficienza della speculazione, della chiusura sistematica della filosofia,36 aprendo al concetto assolutamente nuovo del «sapere come rivelazione», della «rivelazione come sapere originario» (II, 126). È la traccia che porta non al compimento dell’idealismo, ma ad una radicale alternativa ad esso. Tuttavia, come già anticipato, si tratta di un itinerario del quale Schelling può mostrare soltanto il punto di partenza. Egli non comprende cioè che il «terzo», l’autentico mediatore fra natura e spirito, fra sfera umana e divina, è il linguaggio e questo errore pregiudica la stessa centralità attribuita al momento della rivelazione. Trasferendo in Dio non l’Urwort, ma la Urmaterie, Schelling rimane prigioniero dell’idealismo e del copernicanesimo, anche se l’accento non batte più sul soggetto, ma sulla natura. Risultato: «I problemi della rivelazione diventano in Schelling problemi della creazione» (II, 129). Egli apre uno squarcio di verità, ma non è il «maestro» della nuova scienza.
Di quest’ultima Hegel è «l’interlocutore per eccellenza […] il rappresentante più insigne del tentativo di riassumere speculativamente il cristianesimo divenuto una razionale Weltanschauung».37 Lo stesso Johannes non si trova più semplicemente a discutere testi e posizioni filosofiche, ma ad affrontare un interlocutore in carne ed ossa, l’hegeliano appunto, la cui forza filosofica è tale che Friedrich quasi cede alla sua suggestione.38 Fin dalle pagine iniziali dei due primi volumi della Disputation, che «contestualizzano» il discorso sui singoli autori in una prospettiva insieme storica e teoretica, si ha d’altra parte come l’impressione che Ehrenberg proceda a ritroso, aprendo una scatola cinese dietro l’altra a partire dalla più piccola e con l’obiettivo di mostrare nell’idealismo la cifra riassuntiva di una eredità via via più ampia: prima la continuità fra Fichte e Kant; poi quella fra l’idealismo e il copernicanesimo (e dunque il moderno nel suo complesso); infine il percorso il cui punto di arrivo egli trovava chiaramente indicato nella Stella: la polemica del nuovo pensiero è contro la filosofia che pretende di ridurre il reale ad un unico principio e dunque non solo contro il presupposto antropologico della modernità, bensì contro l’intera vicenda dell’Occidente, «dalla Ionia fino a Jena».39 Anche per Ehrenberg, insomma, Hegel è l’ultimo e più grande degli avversari poiché «ha portato a compimento e dunque alla sua conclusione la filosofia» (III, 49), chiudendo il cerchio che essa aveva iniziato a tracciare con Parmenide.40
La filosofia è un’esperienza peculiare del mondo occidentale, fondata su quell’equazione pensiero-essere che è invece soltanto un’astrazione dalla realtà. L’equivoco nasce in Grecia, quando lo spirito umano pretende la sua autonomia liberandosi dal suo essere-creato. È il «secondo uomo», che Johannes distingue dal primo uomo, l’uomo originario, e dall’uomo nuovo, l’uomo della rivelazione. Egli vive «come se anche gli dei fossero semplicemente opera sua. E certamente può credere in essi, perché egli può credere alle sue opere» (III, 54). Il primo fu Socrate, che scelse di morire per dare al suo pensiero la forza della vita, aprendo la strada ad una lunga illusione, perché il pensiero «può conservare, proteggere, incorniciare, coprire con un tetto, ma il suo compito non è quello di creare, di produrre il vivente. La totalità dello spirito è una trama del cervello, la vita non ne ricava nulla» (III, 51).41 L’ultimo è Hegel, che rappresenta la conclusione di questa vicenda risucchiando per intero il pathos comunque dialogico del pensatore greco, incarnato in un ethos vivo e concreto, nella monologica dell’individuo assoluto (cfr. III, 57-8). Avendo tolto ogni spazio al prossimo, al Du come all’Es, si fa dell’Io dell’autocoscienza un guscio vuoto di ogni contenuto, una «trovata cerebrale» (III, 84), che genera a sua volta almeno tre gravi errori. Hegel ha prima di tutto negato la creazione, riducendola di fatto ad una autoestraneazione di Dio, a realtà sdivinizzata, nella quale non si riconosce più il creatore. Egli ha inoltre ingannato l’uomo, elevandolo ad uno stato di perfezione che non gli appartiene. Infine, riducendolo a semplice concetto, Hegel ha «ucciso» Dio (cfr. III, 99-100). Su queste basi, come è ovvio, dura e irrimediabile è la rottura con l’hegeliano. Egli ribatte accusando Johannes di ripetere semplicemente la polemica di Kierkegaard e chiude il confronto con un definitivo addio.
3. Il «filosofo all’inferno»
Ritornando a questo punto allo schema di articolazione delle diverse parti della Disputation, si ricorderà come, nella complessiva parabola dell’idealismo, Ehrenberg attribuisca ad Hegel un momento — la catastrofe — ed un motivo dominante: l’etica. Un abbinamento che può apparire singolare e che non è spiegabile con la semplice constatazione che logica e metafisica erano già state «bruciate» sotto i nomi di Fichte e Schelling. In realtà proprio l’etica, o meglio l’equivoco di una «falsa etica», quella della perfezione, è la catastrofe dell’idealismo e della filosofia e non poteva dunque non coincidere con il loro capitolo conclusivo. La storia del «filosofo all’inferno» viene raccontata a questo punto da Johannes proprio per sottolineare come non ci sia vera etica sul presupposto greco (e della filosofia) che si possa «stabilire» un ethos, senza per questo dover finire con Kierkegaard nel vicolo cieco di «un etica della non-etica». L’unica strada coerente con la condizione umana è quella di chi rafforza pazientemente e quotidianamente il suo spirito, nella consapevolezza che «ogni etico è un asmatico» (III, 94) e che la cruda evidenza del male, debordando continuamente dalle pretese totalizzanti della ragione, ne smaschera l’inganno: Johannes, con malcelata ironia, rimpiange che Hegel non si sia preoccupato «di confutare anche il libro di Giobbe» (II, 171). Mentre pretende di nobilitare l’uomo nella sfera purissima dell’Assoluto, il monologo della ragione lo allontana dalla verità della sua finitezza, la cui cifra è la morte, la prima parola della Stella. Dalla Ionia fino a Jena è questa la paura che la filosofia ha incessantemente quanto vanamente tentato di esorcizzare, intessendo «attorno a ciò ch’è terreno il vapore ceruleo della sua idea del Tutto. Poiché, certo, un Tutto non morrebbe e nel Tutto nulla morrebbe».42 Con Heidegger, anzi, prima di Heidegger, contro Hegel.43
Nella Disputation l’anticipazione di questo motivo centrale di Sein und Zeit diventa quasi letterale. All’hegeliano, che lo accusa di essere un sentimentale, Johannes replica affermando che egli scambia la realtà della morte con un elemento puramente astratto del gioco dialettico: «(l’hegeliano): Voi non riuscite a sopportare la morte… (Johannes): E voi a viverla. (l’hegeliano): Viverla?! La morte! E perché mai? Sarebbe un evento misero. Senza contenuto! Se lo volete, io posso guardare fisso nella notte più oscura. (Johannes): Certo, nella notte dell’altro! Nella notte che non opprime voi stesso. Voi potete sopportare la morte del prossimo. Sopportate una buona volta la vostra propria morte!» (II, 199).44 Il problema è comunque non quello dell’autenticità della libertà nel suo essere appunto per la morte, ma quello esplicitamente etico-religioso della «domanda sulla salvezza della nostra vita» (II, 100). Domanda che marca una distanza incolmabile dal «filosofismo» di Schelling, per il quale non solo la radice, ma l’essenza stessa del male va vista cosmicamente,45 con il risultato che, anche quando sposta — e giustamente — la sua attenzione sulla storia, Schelling diventa un «idealista rovesciato e trasforma la realtà di Dio, l’elemento storico, in essenza» (II, 141), ripetendo l’errore gnostico. Domanda che, però, rende anche pienamente conto della scelta di Rosenzweig di indirizzare proprio a Ehrenberg la celebre lettera nella quale egli demoliva la teodicea hegeliana per sostituire al Dio della storia quel Dio della religione che solo può salvare l’uomo.46 Poiché, come è ovvio, ad essere in questione non è l’idea della storia come storia della salvezza, ma il metodo della sua comprensione,47 centrato sulla «rivelazione come orientamento» e non più sull’autodispiegarsi del concetto, la sfida implicitamente posta all’amico convertito (così come a Rosenstock) era quella a declinare, a partire da questo comun denominatore, il proprio punto di vista.
La risposta di Ehrenberg si trova nel primo volume della Disputation, a partire dal giudizio sulla inadeguata comprensione della realtà del male da parte di Fichte. Egli «peggiora» Kant che, riconoscendo la radicalità del male, aveva dimostrato di avere «più sangue religioso».48 La sua equazione fra Dio e la legge riduce il primo ad una semplice «ipotesi di supporto, sebbene necessaria». Soltanto se la legge non si ricava più dalla ragione, ma la stessa legge della ragione viene da un’altra fonte, l’equazione fra Dio e l’eticità può capovolgersi e Dio diventa il nome originario: «Questo caso lo abbiamo in effetti nella ancora poca conosciuta opera della vecchiaia del kantiano Hermann Cohen, che è stata pubblicata da poco dopo la sua morte: nella Religion der Vernunft aus dem Quellen des Judentums» (I, 35).49 È però il rapporto fra la filosofia e la politica ad offrire a Johannes-Ehrenberg lo spunto per tracciare il suo modello di intepretazione della storia, basato sull’immagine, di per sé non particolarmente originale, di «due spade» che si incrociano nel reggimento del mondo, la spiritualità e la mondanità: «L’homo philosophicus appartiene a questa, come il politico; l’artista al contrario è il precursore pagano dello spirituale, come il politico lo è del filosofo» (I, 140). Il cristianesimo soltanto introduce l’autenticità dello spirituale, poiché ora la sua spada «cade dal cielo», mentre non a caso la filosofia viene dal paganesimo: essa non è una realtà soprannaturale e appartiene all’ordine del mondo. Questa ricomprensione della filosofia nel polo opposto a quello della spiritualità ne sottolinea il pregiudizio antropologico-cosmologico, ma non è senza via d’uscita. Il filosofo può infatti diventare un Überphilosoph, sottoponendo sé e la sua mondanità all’altra spada e ottenendo, solo allora, un nuovo nome: «quello di maestro». L’errore di Fichte è insomma una volta di più la presunzione della filosofia, che non riconosce l’eccedenza della spiritualità sulla mondanità e quindi si preclude la comprensione della storia, rifugiandosi nell’illusione dell’autosufficienza: «Chi non crede al peccato, non crede nemmeno al giudizio, all’ira di Dio» (I, 141-2).50
La polarità spiritualità-mondanità si incarna poi in quella di chiesa e stato, che non a caso Fichte risolveva interpretando la prima come una semplice istituzione intermedia, destinata a scomparire per far posto ad una comunità dei santi. Alla chiesa spetta al contrario di preservare la vera dimensione della spiritualità e la verità della contrapposizione fra le due spade, in una condizione paradossale: «La chiesa si pone nel contrasto fra il creatore e la creazione dalla parte del creatore ed appartiene tuttavia al mondo visibile. Non cosmica e tuttavia nel mondo!» (I, 145). Ehrenberg propone così attraverso Giovanni la dialettica di «già» e «non ancora» come verità del cristianesimo sulla storia: «Il tempo ultimo diventa il presente, ma con ciò il presente non è diventato il tempo ultimo. Invece gli escatologi liberali, gli idealisti, traggono questa falsa conclusione e dimenticano che fra noi e la fine dei tempi vale una sola direzione, quella che va da noi verso la fine. Noi possiamo anticipare la fine, ma mai senza allo stesso tempo spostarla di nuovo più in là; non possiamo mai renderla presente e dobbiamo tuttavia continuamente attualizzarla» (I, 146).51 Compito, dunque, inesauribile e al tempo stesso ineludibile, perché «solo la storia rende beati, la metafisica semplicemente intelligenti» (I, 152).
4. Verso la «nuova scienza»
Il secondo itinerario storiografico, dedicato ai precursori del nuovo pensiero, è abbozzato nelle sue linee fondamentali, ma non sviluppato in maniera esaustiva. Esso risente oltretutto di una certa rigidità schematica, dalla quale risulta una simmetria che lo stesso Ehrenberg è consapevole di dover in qualche modo giustificare. Ai nomi dei «tre impostori» vengono fatti corrispondere quelli di Feuerbach, Schopenhauer e Kierkegaard, tutti e tre anti-idealisti in quanto anti-hegeliani: appare dunque problematico ricondurre i primi due ad una esplicita polemica rispettivamente contro Fichte e Schelling. E in effetti il confronto proposto da Johannes risolve la difficoltà «saltando» direttamente alla specificità teoretica delle singole posizioni. Tutti e tre attaccano Hegel — e giustamente perché è in Hegel che culmina l’idealismo — ma Feuerbach ha di mira quella pura immanenza che ad Hegel veniva da Fichte, Schopenhauer l’impostazione metafisica della speculazione assoluta che Hegel raccoglie da Schelling. Solo Kierkegaard è dunque anti-hegeliano in senso stretto: anche quando parla della logica è dell’etica che si tratta e in questo campo Fichte è piuttosto avversario che compagno di Hegel e Schelling non ne è comunque il precursore. Feuerbach combatte insomma l’illusione dell’onnipotenza (Allmachtswahn), Schopenhauer la presunzione dell’onniscienza (Allwissenheitsdünkel), Kierkegaard la bugia della bontà universale (Allgütelüge).52
Confrontando questa ricostruzione, peraltro molto manualistica, con le indicazioni fornite nella Introduzione alla prima parte della Stella — in philosophos! — è inevitabile constatare una certa disomogeneità. Per Rosenzweig la fuoriuscita dall’hegelismo (e dalla filosofia occidentale) si realizza con la ridislocazione dell’interrogativo fondamentale del pensiero dall’«essenza» del mondo al suo «valore» e dunque all’«uomo vivo».53 La traiettoria che prepara l’avvento della nuova filosofia è quella che «si apre con Schopenhauer, prosegue attraverso ed oltre Nietzsche e non è ancora giunta alla fine».54 Lo stesso Kierkegaard, con il rifiuto di accettare la dissoluzione dell’individuo nella totalità del sapere compiuto, non farebbe altro che contrapporre un’affermazione ad un’altra affermazione; egli rovescia, ma non intacca, l’«ambito specifico» della filosofia hegeliana. Tale itinerario si collega quindi per Rosenzweig ad una precisa triplicità, quella dei tre elementi originari: il meta-etico dell’uomo, il meta-logico del mondo, il meta-fisico di Dio. Questa triplicità la si ritrova nella Disputation, sia pure in una forzata simmetria storica alla quale quegli elementi restano sottesi: a Feuerbach l’uomo, a Schopenhauer il mondo, a Kierkegaard Dio. La differenza, più che la sostanza dell’interpretazione dei singoli autori, riguarda in effetti questa utilizzazione storiografica della forma che domina ossessivamente tanto la Stella quanto l’opera di Ehrenberg: mentre la polarità essenza-valore chiama direttamente in causa il punto di rottura della tradizione filosofica occidentale, la Disputation arriva allo stesso risultato per via mediata, cioè attraverso la decostruzione nei suoi «rudimenti» dell’ultimo capitolo di quella tradizione, che la riassume e conclude. E poiché tre sono i paragrafi del capitolo, come gli elementi della Stella, tre dovevano essere le postille critiche.
Anche nel giudizio su Kierkegaard, oltre che per l’indicazione del ruolo di Schopenhauer, Ehrenberg si muove comunque nel solco tracciato da Rosenzweig. L’obiettivo del suo attacco a Hegel è individuato nella generale tendenza alla riconciliazione, inadeguata alla problematica etica in senso cristiano. Proprio per questo, tuttavia, la natura della sua opposizione è in primo luogo religiosa e solo secondariamente filosofica. Il risultato è che egli rimane troppo legato al peccato come fatto originario e a una impostazione di stampo pietista, fuorviante rispetto al principio della correlazione che la nuova scienza stabilisce fra i tre elementi originari: «Se il Dio vivente non vive più per noi, se la frattura fra Dio e noi diventa troppo profonda, Egli per noi muore» e cade nell’oblio la fede nella creazione, che sola può dare al pensiero l’elasticità che permette «il salto nella redenzione» (III, 111).55 Ma che Ehrenberg abbia ben presente il Rosenzweighiano in philosophos! lo dimostra soprattutto il post-scriptum aggiunto da Johannes alla polemica anti-idealista. Nella lotta contro il «vecchio» pensiero «il calice della salvezza» lo porta anche Nietzsche, del quale egli legge proprio il passo sul mondo «vero» che diventa una favola. È la fine del più lungo errore della storia dell’uomo: incipit Zarathustra (cfr. III, 114).
Resta Feuerbach, che lo stesso Rosenzweig indicherà in Das neue Denken come il primo ad aver scoperto il nuovo metodo. Per Ehrenberg, come per tutta la tradizione del pensiero dialogico (si pensi soltanto a Buber) i suoi Grundsätze der Philosophie der Zukunft sono davvero il passaggio obbligato per la fuoriuscita dall’idealismo, per la decisione con la quale egli afferma che il vero io è solo quello posto nella relazione con il prossimo: «Feuerbach chiarische così l’io come “Tu-Io”, mentre per Fichte era “Es-Io”» (I, 166). Inoltre gli va riconosciuto il grande merito di aver compreso che il medium di questa relazione è il linguaggio. I problemi, oltre che il già ricordato «sensualismo», riguardano la sua polemica congiunta contro la filosofia e la teologia, conseguente ad una precisa situazione storica. Kant aveva ancora creduto di poter giustificare la fede rinunciando al pensiero. Poi vennero gli idealisti e Hegel intrecciò a tal punto fede e sapere che dopo di lui «nessun Kant redivivo avrebbe potuto scioglierle l’una dall’altro, ma esse potevano solo subire unite lo stesso destino, che fu per loro preparato da Feuerbach. Feuerbach poté superare l’idealismo solo rifiutando allo stesso tempo la teologia. Un fatto certo singolare, ma comprensibile. L’ateismo di Feuerbach poggia in generale su una scoperta del pensiero che è assolutamente religiosa, cristiana. Io e Tu come portatori della vera vita; la sua logica è una logica del prossimo, logica del Tu, al posto della logica dell’Io e la sua metafisica poggia e sfocia nell’amore, ancora nell’Io e Tu» (I, 167). Feuerbach portò così a compimento quella «detronizzazione» dei dogmi teologici iniziata da Kant, ma ripetendo il suo errore, quello di esasperare la separazione di teologia e filosofia per non cadere nella loro falsa mescolanza: «Nel momento in cui allontanano categoricamente i contenuti religiosi dalla filosofia, costringono la filosofia e il pensiero a diventare irreligiosi» (I, 169).
Il rovesciamento di questa conclusione è l’obiettivo della pars construens della Disputation. Nonostante ad essa sia dedicato uno spazio quantitativamente ridotto dell’opera, è evidente che ne costituisce il punto d’arrivo e per così dire la cartina di tornasole teoretica. La sua rivisitazione consente così di chiudere il cerchio della riflessione aperta a partire dalla citazione di Ehrenberg in Das neue Denken: al termine della polemica contro l’idealismo e il pensiero occidentale-copernicano ci sono il metodo e il sistema della nuova scienza (nella sua versione cristiana).
Il nuovo metodo si regge su tre pilastri: lo scardinamento del monologo del soggetto sull’oggetto e della filosofia ego-centrata; l’assunzione del linguaggio come «vera realtà della vita dello spirito», nella quale «vengono ricondotti ad unità Dio, Mondo e Uomo» (I, 183); il primato del tempo e dunque della vita sull’istanza cosmologica che ha dominato fin dall’inizio la filosofia occidentale. La sostituzione della prima persona singolare con il plurale e della centralità della relazione Io-Tu a quella Io-Es rompe con il copernicanesimo e diventa il principio di una nuova teoria della conoscenza: «Il soggetto della conoscenza è così la prima persona plurale; in ciò esso si distingue dal soggetto della vita, dall’individuo, dal soggetto empirico. Di fatto il soggetto della conoscenza non è empirico, ma, in quanto soggetto plurale, metaempirico. Solo io e tu vivono» (I, 172). È fra l’io e il tu che si pone l’Es, come oggetto di un confronto aperto, come vero e proprio «terzo»: «L’Es è X, in esso abbiamo il noumeno kantiano, l’oggetto. L’Io e il Tu possono arrivare forse ad una opinione comune sull’Es solo se l’Es c’è già senza di loro; l’Es “diventa” il loro oggetto, essi lo rendono tale» (I, 175). Il milieu di questo divenire è il linguaggio,56 animato da due tendenze contrapposte: quella alla universalità e oggettività e la «forza» personale della parola, che dà il nome alle cose diventando carne in ciascuno di noi.57 È questo l’autentico medium vivente fra soggetto e oggetto. Quando esso non viene riconosciuto, «un altro linguaggio deve intraprendere la mediazione, il morto linguaggio di segni della matematica», assunto dal mondo moderno come «modello di ogni scientificità […] Logica trascendentale, matematica, immagine del mondo scientifico naturale! L’equazione di questi tre elementi si chiama critica della ragione kantiana» (II, 36-7).
Il terzo punto è quello che merita la maggiore attenzione: anch’esso ripropone, come abbiamo già sottolineato, uno dei passaggi-chiave del nuovo pensiero Rosenzweighiano, ma viene declinato da Ehrenberg in maniera ampia e originale. La filosofia è sempre stata filosofia dello spazio e non del tempo (eccetto Agostino e in parte Kierkegaard), dislocando l’uomo in posizione eccentrica rispetto al fondamento della sua vita: «Come l’uomo viene dalla terra e torna alla terra, allo stesso modo il pensiero viene dalla vita e torna alla vita». La realtà della quale la filosofia è chiamata ad occuparsi non è dunque in primo luogo quella del cosmo, ma appunto questa esistenza fra la nascita e la morte, cosicché essa stessa diventa non più una scienza, ma «un pezzo di vita, una realtà della vita» (cfr. III, 134-5). Il nuovo filosofo deve rendere conto non solo al vecchio giudice della veracità, esattezza e non contraddittorietà, ma anche a quello della forma, che offre al concetto il volto del pensiero dialogante, e infine al giudice della vita. C’è poi un giudice a latere, che valuta l’opera secondo la misura dell’epoca e il suo valore umano. Insomma: nella tensione fra il terreno-temporale e l’escatologico l’esistenza è Zwischenexistenz, ma non soltanto nel senso della polarità kierkegaardiana immanenza/trascendenza. Essa è un trovarsi fra tempi diversi, fra la vecchia e la nuova generazione, fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, ecc.
Nella forma «biografica» di questo pensiero «in stazioni» Ehrenberg riconosce il comun denominatore della «filogenesi» e della «ontogenesi» dello spirito. La vita di ognuno, che inizia «nella notte», perché «nella nostra coscienza la nostra nascita non ha posto alcuno» (III, 120), si sviluppa come itinerario che attraversa alcuni precisi e fondamentali passaggi: la pronuncia della parola «Io», la scoperta del «Tu» come «miracolo dell’amore» (III, 123), l’apprendimento dell’Es. La filosofia deve dunque modellarsi su questa biografia della coscienza e non più sull’istanza metafisica, che assume ad oggetto la realtà che si presume di trovare prima della nascita e dopo la morte, consapevole che questo Zeitmensch resta comunque collegato al Raummensch, per il quale la parola chiave non è più stazione, ma situazione, posto che l’esperienza dell’uomo resta vincolata appunto alla polarità tempo/spazio e, in essa, a quella di dinamico e statico: «L’uomo del tempo, l’uomo delle epoche, delle stazioni, l’uomo soltanto biografico è l’uomo puramente dinamico. Soltanto l’uomo dello spazio possiede la statica dell’esistere. All’uomo è più vicina la dimensione dell’umanità nel tempo, alla donna quella dell’umanità nello spazio» (III, 140). E se la filosofia è sempre stata cosmologica, non la si declina così al femminile? No, perché essa in realtà dinamizza lo spazio, da pensiero sulla natura diventa pensiero sul principio, da filosofia del mondo logica e filosofia dello spirito.
Il problema fondamentale è naturalmente, in questo contesto, quello dell’interpretazione della natura, nella quale la contrapposizione di dinamico e statico sembra riprodurre quella fichtiana di libertà e necessità, esponendo anche il «nuovo pensiero» al rischio di dover poi far intervenire un novello Schelling a difesa del mondo ed Ehrenberg al sospetto di aver «tradito» la correlazione Uomo-Mondo celebrata da Rosenzweig nel coro della redenzione. La natura viene descritta come il regno di un ordine statico, di un sistema fisso, che sottomette a sé il tempo e nel quale dunque non si trova la vita in senso proprio. Naturalmente nello spazio ci sono movimenti incessanti, ma essi celano una staticità originaria, che non viene mai distrutta: «La stazione è un momento di stasi nello scorrere incessante del tempo — la situazione è movimento in mezzo alla rigida staticità. Senza stazioni la vita ci sfugge, senza situazioni la natura, il mondo ci rimangono impenetrabili, e da qui viene l’apparenza della loro misteriosità» (III, 143). Con ciò, tuttavia, l’apparenza della contrapposizione diventa la verità di un rapporto nel quale ritorna il fondamentale modello della Stella. Anche se il movimento della natura non contiene in sé la vita, se cioè il fattore dinamico resta subordinato a quello statico, alla vita esso rimanda, come vera e propria epifania di un mistero: «La natura è autonoma, appunto grazie alla creazione, ma la sua autonomia le è data, donata» (III, 144). Di qui due possibilità per il nuovo filosofo: una mentalità narrativa, nel senso delle stazioni del pensiero, o una mentalità costruttiva, nel senso delle situazioni del pensiero. Quest’ultima, certo più vicina alla vecchia sistematica, trova comunque la sua legittimità nell’impossibilità di «chiudere» nel pensiero la fecondità inesauribile della correlazione: «In ogni caso, quella filosofia narrativa non diventa mai così «vitale» come lo scorrere reale della vita e questa filosofia costruttiva non diventa mai così «naturale» come l’edificio reale della natura» (III, 146).
È questo «il sigillo della vita» che Johannes indica come intestazione del suo «sistema» (III 148), senza possibilità di equivocare la posizione del nuovo pensatore con quella di un vitalismo di impronta irrazionalistica. Proprio su questo punto si sviluppò fra Ehrenberg e Rosenzweig un confronto significativo e chiarificatore. All’amico, che gli aveva rimproverato, in una recensione della Stella pubblicata sulla «Frankfurter Zeitung» del 29 dicembre 1921, di pagare nella conclusione un tributo alla corrente di pensiero dominante dell’epoca, sottoscrivendo il motto «dalla filosofia alla vita», Rosenzweig replica che «la “vita” dell’ultima parola non è in alcun modo in contrasto con la “filosofia”. Non è affatto questo il punto. In questa vita si può certamente anche filosofare (io lo faccio). Ciò che non accade più, è soltanto lo Schauen. Lo Schauen, non la filosofia, è qui l’elemento di contrapposizione dal quale salta fuori la vita».58 Ad essere posta in questione è dunque nella forma più esplicita la metafora-guida dell’intero pensiero occidentale: esso ha come oggetto l’idea, che nella sua stessa radice etimologica tradisce l’assunzione della vista come il più elevato fra i sensi e dunque della vita contemplativa come forma privilegiata dello spirito. Un pregiudizio esplicitamente accantonato nella Disputation,59 in nome del «punto di vista della vita» (III, 185). Lo stesso della erfahrende Philosophie proposta in Das neue Denken, in parallelo ad un nuovo rifiuto da parte di Rosenzweig dell’equazione fra la sua filosofia e il vitalismo.60 E fra Scilla e Cariddi passa la continuità di teoria e prassi proposta da Ehrenberg a partire dall’attribuzione ad ognuno degli elementi originari di una forma elementare del linguaggio: al mondo la domanda, all’uomo l’affermazione («Noi rispondiamo, perché le cose domandano!» (III, 187)), a Dio il comando. La scienza si trova così sulla strada che da Dio porta a noi attraverso il mondo e l’azione su quella che da Dio porta al mondo attraverso di noi. Ma l’esperibilità delle cose e la nostra libertà in quanto tali «non dispongono di nessuna forma originaria del linguaggio. L’azione e la ricerca sono i due compagni muti della vita» e perciò «la prassi e la teoria come forze autonome sono i segnali di un allontanamento dal linguaggio di Dio» (III, 188).
Su queste basi si fonda l’«edificio» del nuovo pensiero. Il disegno schizzato da Johannes è quello di un edificio di quattro piani, con tre coppie che fungono da scale di collegamento. I piani sono la vita, il mondo, lo spirito e l’anima; le coppie vita-mondo, natura-spirito, spirito-anima. Del rapporto vita-mondo si è già detto. Lo spirito viene definito «il sollevarsi della vita sul mondo», nel quale «la creazione risponde al creatore» (III, 149-50) e che, riconoscendo un senso e un valore al di fuori di sé, incontra l’anima. Questi sono rapporti «teoretici», ai quali se ne aggiunge un quarto, che in quanto «pratico» non va confuso con gli altri. Esso rimane per così dire in sottofondo agli altri: è il rapporto diretto fra la vita e l’anima. Vi è poi un «sistema interno dello spirito», che si fonda sull’incrocio delle tre dimensioni della temporalità con la sua spinta alla liberazione dal tempo, alla Zeitlosigkeit. In esso Ehrenberg recupera una precisa continuità appunto «sistematica», sia pure su un fondamento del tutto diverso, fra il nuovo pensiero e la tradizione bimillenaria dalla quale esso, affrancandosene, nasce: il tempo, non lo spazio, è la linea di fuga dell’infinito, nella quale si radicano l’arte, la politica e la filosofia, i tre ambiti ereditati dal mondo greco. L’arte, che propone il motivo della creazione e rinnova nell’opera una vita già vissuta, è la Zeitlosigkeit del passato. La politica lo è del futuro, proponendo il motivo della redenzione come azione per il futuro del mondo. La filosofia, infine, è l’eterna attualizzazione della verità nel pensiero. Uno schema che sembrerebbe paradossalmente riproporre il primato hegeliano della filosofia, rideclinando al suo interno i motivi Rosenzweighiani della creazione e della redenzione. Ma la filosofia non è l’Assoluto e la religione non compare nel sistema dello spirito proprio perché essa non è la Vorstellung il cui destino è di essere superata. Come già detto, l’errore di Feuerbach è proprio quello di voler azzerare con la filosofia anche la teologia tout court e non solo la sua versione filosofica. È al contrario nel cristianesimo e in esso soltanto che arte, politica e filosofia trovano per Ehrenberg il loro punto d’incontro e insieme il superamento del loro rispettivo limite. La rivelazione diventa così il fondamento autentico del passato della creazione e del futuro della redenzione.
Questo primato della teologia sulla filosofia, che fa della prima la «scienza fondamentale filosofica», rovesciando il significato hegeliano della loro identità, era già chiaramente affermato in Die Parteiung der Philosophie, a partire dal superamento della tirannia della logica con la proposta di una meta-logica come luogo nel quale il pensiero supera la contrapposizione fra al di qua e al di là, rendendo ragione, senza rinnegare il proprio principio, della dimensione verticale della realtà. La sfera del sapere è cioè insieme fondante e fondata e questo significa che la filosofia determina l’essenza dell’essere assoluto attraverso la tensione fra l’essere assoluto in sé e l’essere del sapere assoluto: «Chiamiamolo il contrasto del regno di Dio con il regno della filosofia e abbiamo in questo modo formulato il problema dell’essere assoluto, il problema di Dio. Ciò si può esprimere anche dicendo che noi ci interroghiamo sul senso che il regno della filosofia può avere “nonostante” il regno di Dio. Di nuovo si pone la fondamentale (metalogica) domanda di una Logodicea».61 La soluzione che Ehrenberg proponeva nello scritto del 1911 era appunto il pieno riconoscimento del significato logico-trascendentale della logica formale e dunque della filosofia, della «reale applicazione delle categorie a se stesse» come «fondamento della possibile applicazione delle categorie ad oggetti», ma sulla base del riconoscimento che la possibilità del sistema riposa «sul fatto che la filosofia concepisce se stessa come una parte della totalità, cioè dell’Assoluto; l’Assoluto è allora il vero punto unificante di ogni costruzione sistematica […] In quanto la filosofia, nella cui propria realtà l’infinitamente molteplice è ricondotto ad unità, concepisce se stessa come parte della molteplicità da essa ricondotta ad unità, questa unità, dalla quale la filosofia reale è com-presa, ha “superato” (aufgehoben) in sé il processo nella molteplicità della conoscenza, è così oltre esso ed esprime in questo modo la totalità esistente, ovvero Dio». Così Dio, l’essere assoluto è davvero il «senso del mondo». Dio è cioè il suo proprio senso, è fine a se stesso, e solo Lui ha questa assoluta libertà di essere fine a se stesso: «Noi sostituiamo il primato della logica, che troviamo e combattiamo in Hegel e nei kantiani, con il primato della teologia».62
Nella Disputation il confronto fra filosofia e teologia diventa il confronto fra i momenti del sistema interno dello spirito e il cristianesimo. Ognuno di essi è destinato allo scacco, se non viene vivificato dalla luce di Cristo. Per l’arte questo limite è l’orgoglio del genio che crede di possedere il mondo, nella presunzione di averlo ai piedi della sua forza creatrice. Quando si ritrova precipitato nella realtà, il genio non trova così più nulla in cui sperare, perché aveva riposto in sé ogni speranza. La risposta è quella del risorto. La politica deve invece fare i conti con la constatazione che il futuro contraddice i progetti dei grandi uomini, che «fra il presente e il futuro è sempre posto un morire» (III, 159). Essa deve cioè imparare che solo chi perde la sua vita la guadagnerà e guardare dunque al crocifisso, nella consapevolezza che le due spade che governano il mondo, impugnate dallo Stato e dalla Chiesa, devono incrociarsi senza sottomettersi reciprocamente. La croce introduce all’unica politica autentica, quella dell’amore. Rispetto ad arte e politica, la filosofia non è il «terzo» di una sintesi idealistica, ma la sua malattia è comunque la malattia più pericolosa per l’uomo, «perché il pensiero è l’organo centrale dell’esistenza umana» (III, 164). E la malattia non è più semplicemente l’incessante ricerca dell’essenza, ma la mancanza di radice nell’unica verità, quella della «Parola divenuta carne».
Guardando ad essa Ehrenberg conclude che «solo il pensiero credente è un pensiero sano». In sintesi: «Il risorto irraggia bellezza, l’amore lo impariamo dal Crocifisso, ma la verità la dà solo il Vivente. Nell’indivisibile farsi unità di “dottrina e vita” Gesù Cristo dette agli smorti schemi greci dell’idea carne e sangue; egli donò alla verità il suo corpo. Solo la speranza, che persevera fino alla fine, illumina l’opera! Solo l’amore, che si sacrifica interamente, regge l’azione! Solo la fede, che rende possibile tutto, forma il pensiero!» (cfr.III, 161-5).63 Per gli avversari della «nuova scienza» è così fin troppo facile concludere che il piatto del dogmatismo è in questo modo ancora una volta servito e comunque essa ripropone con Ehrenberg la sfida di una dimostrazione difficile: la verità della filosofia è l’apologetica della fede.
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Cfr. F. Rosenzweig, Das neue Denken. Eine nachträgliche Bemerkung zum Stern der Erlösung. Trad. it. in Il nuovo pensiero, a cura di G.Bonola, Venezia 1983, p. 59. ↩︎
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Cfr. la lettera a R. Ehrenberg del 5-3-1918, in Briefe und Tagebücher, hrsg. R. Rosenzweig u. E. Rosenzweig-Scheinmann: 1. Band 1900-1918, 2. Band 1918-1929, Den Haag 1979, vol. I, p. 514. ↩︎
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Cfr. F. Rosenzweig, »Urzelle« des Stern der Erlösung. Trad. it. «Cellula originaria» della Stella della redenzione, in Il nuovo pensiero, cit., pp. 19-20 (la Urzelle è una lettera a Rudolf Ehrenberg del 18 novembre 1917). E da questo nuovo punto di Archimede deriva la consapevolezza che il «centro» non è la ragione autofondantesi, ma un accadimento, un evento dell’essere che coinvolge in prima persona la filosofia di chi filosofa, «così che il concetto ordinatore di tale mondo non è l’universale, né l’arché, né il telos, non l’unità naturale né quella storica, bensì il singolo, l’evento, non inizio o fine, ma centro del mondo» (ivi, p. 29). Der Mensch als Hörer und Sprecher und nicht als Denker ist der Anfang (cfr. A. Zak, Vom reinen Denken zur Sprachvernunft. Über die Grundmotive der Offenbarungsphilosophie Franz Rosenzweigs, Stuttgart 1987, p. 62). ↩︎
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Sul ruolo fondamentale di Rosenzweig, Buber e Ebner per la genesi del nuovo pensiero dialogico cfr. B. Casper, Das dialogische Denken. Eine Untersuchung der religionsphilosophischen Bedeutung F. Rosenzweigs, F. Ebners und M. Bubers, Freiburg 1967. Oltre alle opere di Buber e Ebner Rosenzweig cita anche gli scritti inediti di Florens Christian Rang (cfr. Goethe »Selige Sehnsucht«. Ein Gespräch um die Möglichkeit einer christlichen Deutung, Freiburg 1949). ↩︎
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Cfr. la lettera a Ernst Simon dell’agosto 1922, in Briefe und Tagebücher, cit., vol. II, p. 809. Si veda anche la lettera a Rudolf Hallo del 4 febbraio 1923, nella quale Rosenzweig, respingendo l’accusa di «speciale giudaicità della nuova filosofia», richiama come suoi principali alleati filosofici proprio i cristiani Rosenstock, Hans Ehrenberg e Ebner (cfr. ivi, pp. 888-9). ↩︎
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Cfr. rispettivamente Fichte. Der Disputation erstes Buch, München 1923; Schelling. Der Disputation zweites Buch, ivi 1924; Hegel. Der Disputation drittes Buch, ivi 1925 (d’ora in poi citati indicando fra parentesi il volume e la pagina ai quali si fa riferimento). ↩︎
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Collegato al primo centenario Rosenzweighiano e alla forte ripresa d’interesse per la Stella è il volume Franz Rosenzweig und Hans Ehrenberg. Bericht einer Beziehung, hrsgg. W. Licharz e M. Keller, Frankfurt a.M. 1986, al quale fece immediatamente seguito Jenseits all unsres Wissens wohnt Gott. Hans Ehrenberg und Rudolf Ehrenberg zur Erinnerung, hrsgg. R. Hermeier e M.E. Ehrenberg, Moers 1987. Grazie anche all’attività della «Hans-Ehrenberg-Gesellschaft» si è arrivati, più di recente, alla pubblicazione dei volumi di G. Brakelmann, Hans Ehrenberg. Ein judenchristliches Schicksal in Deutschland. Bd. 1: Leben, Denken und Wirken 1883-1932 e Bd. 2: Widerstand, Verfolgung und Emigration 1933-1939 (Waltrop 1997 e 1999), nonché, sempre a cura di Günter Brakelmann, della Autobiographie eines deutschen Pfarrers (anch’essa uscita nel 1999). Strumenti di approfondimento ai quali va aggiunta la nuova edizione del volume di Ehrenberg del 1911 su Die Parteiung der Philosophie. Studien wider Hegel und die Kantianer, hrsgg. M. Gormann-Thelen, W. Gärtner e W.L. Hohmann, Essen 1998. ↩︎
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Cfr. M. Kronenberg, Geschichte des deutschen Idealismus, 2 voll., München 1908-12. Dello stesso periodo si vedano anche O. Flügel, Die Religionsphilosophie des absoluten Idealismus, Langensalza 1905 e E. Sydow, Kritischer Kantkommentar, zusammengestellt aus den Kritiken Fichtes, Schellings und Hegels, Halle 1913. ↩︎
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Cfr. W. Windelband, Die Erneuerung des Hegelianismus, Festrede in der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, C.Winter, Heidelberg 1910. ↩︎
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H. Ehrenberg, Die Parteiung der Philosophie. Studien wider Hegel und die Kantianer, Leipzig, Felix Meiner Verlag, 1911, p. IV. ↩︎
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Ivi, p. 17. In realtà, quando l’unità del sistema si spezza, l’alternativa è fra una filosofia dell’al di qua (Diesseitsphilosophie) e un irrazionalismo teosofico, che si schiacciano rispettivamente sul polo della ragione e su quello di Dio, finendo col non rendere più ragione né dell’uno, né dell’altro: «O viene isolato il puro al di qua in quanto tale, schiacchiando la relazione con un al di là che nel concetto di al di qua è data (Cohen); o la relazione di al di qua e al di là viene riconosciuta e il punto di vista di una filosofia dell’al di qua, nonostante ciò, viene garantito dal fatto che alla sfera dell’al di là corrispondono soltanto attese irrealizzabili (Windelband)» (ivi, pp. 84-5). ↩︎
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Ivi, p. 29. ↩︎
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Ivi, p. 123. ↩︎
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È tuttavia lo stesso hegeliano ad indicare il vizio d’origine di questa «moda»: essa non nasce da una matura consapevolezza spirituale; è un «pezzo di nazionalismo […] Alla moda di Spengler: Prussia e socialismo!» (ivi). ↩︎
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Cfr. R. Kroner, Von Kant bis Hegel, Tübingen 1921-1924. Vol. I: Von der Vernunftkritik zur Naturphilosophie; vol. II: Von der Naturphilosophie zur Philosophie des Geistes; N. Hartmann, Die Philosophie des deutschen Idealismus, Berlin 1923-1929. Vol. I: Fichte, Schelling und die Romantik; vol. II: Hegel. Trad. it. La filosofia dell’idealismo tedesco, a cura di V. Verra, Milano 1972; W. Lütgert, Die Religion des deutschen Idealismus und ihr Ende, 3 voll., Gütersloh 1923-30. Sempre del 1923 è l’ampia monografia di A.H. Korff, Der Geist der Goethezeit, 2 voll., pubblicata a Leipzig. Nel 1921 era stato ristampato per la terza volta lo studio classico di R. Haym, Die romantische Schule. Ein Beitrag zur Geschichte des deutschen Geistes, Berlin 1870. ↩︎
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Cfr. R. Kroner, op. cit., vol. I, pp. 5-24. È proprio la considerazione di uno sviluppo inteso come totalità che indica per Kroner la specificità della sua ricerca rispetto ai lavori di J.E. Erdmann (Versuch einer wissenschaftlichen Darstellung der neueren Philosophie, vol. III, Leipzig 1853), di K. Fischer (Geschichte der neueren Philosophie, voll. VI, VII e VIII), di Windelband (Geschichte der neueren Philosophie vol. II: Die BlüteZeit der deutschen Philosophie), del recente Cassirer (Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit. Bd. III: Die nachkantischen Systeme, Berlin 1920). ↩︎
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Nell’Introduzione Kroner distingue tre metodi concentrici per l’indagine storico-filosofica: quello storico-culturale, che cerca di inserire i sistemi nel più complessivo ambito della storia dello spirito; quello biografico, che mette al centro la personalità del pensatore; quello sistematico, che cerca appunto di saldare l’istanza storica a quella sistematica, non per formulare un giudizio di verità o falsità in generale, ma «nel senso dello sviluppo, cioè guardando alla meta che lo sviluppo raggiunge» e cercando «la necessità immanente del progresso» (R. Kroner, op. cit., vol. I, pp. 19- 20). ↩︎
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Questa difficoltà è sottolineata sotto il profilo appunto storiografico anche da Hartmann: «I singoli filosofi non si possono comprendere l’uno senza l’altro, nel loro sviluppo. L’evoluzione progressiva di uno presuppone sempre in parte ciò che nell’esposizione può seguire solo in quello successivo […] Non si può intendere storicamente l’ultimo Fichte senza Schelling, lo Schelling intermedio senza i romantici, l’ultimo Schelling senza Hegel» (La filosofia dell’idealismo tedesco, cit., pp. 8-9). ↩︎
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R. Kroner, op. cit., vol. I, p. 7. «Gli idealisti tedeschi sono riempiti dalla fede che nella realtà e nella vita si manifesta un senso, che noi cerchiamo, amiamo e onoriamo come il vero, il buono, il bello e che queste idee non sono soltanto immagini della fantasia umana, ma in esse cogliamo qualcosa che vale assolutamente ed è espressione dell’Assoluto» (ivi, p. 9). ↩︎
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N. Hartmann, op. cit., p. 6. ↩︎
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«Al centro del pensiero si trova la coscienza, l’Io, il soggetto, l’intelligenza, lo spirito, o come altrimenti lo si voglia chiamare» (R. Kroner, op. cit., vol. I, p. 10). ↩︎
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S. Moses, Système et Révélation. La philosophie de Franz Rosenzweig, Paris 1982, pp. 48-9. ↩︎
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Cfr. R. Kroner, op. cit., vol. I, pp. 13-6. ↩︎
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«L’età postkantiana si pone così in un visibile contrasto con Kant, agli occhi del quale, nonostante il suo atteggiamento di base profondamente metafisico, fino all’ultimo costituì la prima esigenza non tanto il sistema quanto la «critica», come presupposizione del sistema» (N. Hartmann, op. cit., p. 6). ↩︎
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Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Roma-Bari 1977 (6), p. 20. ↩︎
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Il problema è quello di riconoscere che il soggetto trascendentale sul quale si basa la scienza non risolve in sé quello reale-empirico: «L’uomo astratto non crede più alla unione in carne ed ossa di sensibilità e spiritualità; il conflitto fra speculazione ed esperienza è il conflitto interno all’uomo moderno fra spirito e sensibilità. L’uomo non crede più che ciò che il suo occhio vede e ciò che il suo cervello pensa sono una e una sola cosa; dopo Copernico l’unità dell’uomo è distrutta» (I, 34). ↩︎
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F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 66. ↩︎
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Id., «Cellula originaria»…, cit., p. 25. Proprio Kant è stato d’altra parte indicato come il punto di riferimento più diretto delle tre categorie Rosenzweighiane di Dio, Mondo e Uomo. Cfr. K. Löwith, M. Heidegger und F. Rosenzweig. Ein Nachtrag zu Sein und Zeit, in Gesammelte Abhändlungen. Zur Kritik der geschichtlichen Existenz, Stuttgart 1960, pp. 68-92. ↩︎
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«Nell’attività dell’io è compreso tutto l’essere, il sensibile e il sovrasensibile. Nella coscienza di sé (Kant stesso vi aveva accennato abbastanza chiaramente) si trovano l’unità di tutte le facoltà dello spirito, l’unità delle forme fondamentali e della cosa in sé sulla quale il fenomeno è basato, l’unità del sistema delle nostre rappresentazioni e del sistema dei nostri doveri, l’unità delle nostre nature teoretica e pratica» (R. Haym, La scuola romantica. Contributo alla storia dello spirito tedesco, trad. it. a cura di E. Pocar, Milano-Napoli 1965, pp. 242-3). ↩︎
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Per E. Freund, per esempio, l’intero pensiero di Rosenzweig avrebbe le sue radici speculative in quello di Schelling e proprio sulla tematizzazione di questo rapporto si regge la sua interpretazione in chiave esistenzialista. Cfr. E. Freund, Die Existenzphilosophie F. Rosenzweigs. Ein Beitrag zur Analyse seines Werkes »Der Stern der Erlösung«, Hamburg 1933 (1959). Sempre a questo proposito di fondamentale importanza è la già citata opera di S. Moses, Système et Révélation. La philosophie de Franz Rosenzweig. Per la centralità del momento della rivelazione ai fini di una rilettura esistenzialista cfr. anche J. Tewes, Zum Existenzbegriff F. Rosenzweigs, Meisenheim a/G 1970. ↩︎
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Cfr. F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 53. È al linguaggio che spetta di rompere la rigidità dei tre elementi, conferendo a ciascuno l’orientamento agli altri due. Si hanno così il racconto della creazione, il dialogo della rivelazione e il coro della redenzione: «Le vie di Dio e le vie dell’uomo sono diverse, ma la parola di Dio e la parola dell’uomo sono la stessa cosa» (Id., Der Stern der Erlösung, Frankfurt a.M. 1921. Trad. it. La Stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Casale Monferrato 1985, p. 160). ↩︎
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Id., Briefe und Tagebücher, cit., vol. I, p. 410 (lettera a R. Ehrenberg del 28 maggio 1917). ↩︎
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Ivi, p. 537 (lettera a R. Ehrenberg del 14 aprile 1918). ↩︎
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Al meccanismo Schelling sostituisce l’organismo come concetto fondamentale della filosofia della natura, ma anche per lui «la natura è il gradino preparatorio dell’autocoscienza. In generale, Fichte parte dalla coscienza e cerca la coscienza; Schelling al contrario fa sorgere la coscienza da ciò che ne è privo» (II, 43). In Fichte l’elemento idealistico è all’inizio, in Schelling alla fine. Considerando i due elementi costitutivi dell’idealismo, a Fichte si deve così la scoperta dell’Io assoluto, a Schelling quella della totalità. ↩︎
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F.W.J. Schelling, Weltalter. Fragmente, hrsg. M. Schröter, München 1946, pp. XV-XVI. ↩︎
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L’errore è semmai quello di una inadeguata determinazione del presente, per il quale Schelling ripropone il motivo della conoscenza. Qui, secondo Johannes, manca Fichte, perché questo dovrebbe essere lo spazio dell’etica, cioè dell’«unità di teoretico e pratico» (II, 132). ↩︎
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P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio. Franz Rosenzweig (1886-1929), Roma 1989, pp. 262-3. ↩︎
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È quanto accade all’inizio della terza e conclusiva giornata, quando l’hegeliano e Friedrich iniziano a discorrere da soli, attendendo l’arrivo di Johannes. Il nocciolo dell’argomentazione riguarda l’interpretazione della storia. Hegel inaugurerebbe «un modo di pensare interamente nuovo», inserendo la storia sacra in quella profana, partendo con la seconda e facendo cominciare la prima dall’anno zero del cristianesimo. Ad apparire particolarmente convincente è per Friedrich la correzione proposta dall’hegeliano al maestro, con l’introduzione di una istanza escatologica che non faccia chiudere il sistema su se stesso, trasformandolo in un vero e proprio sistema della Zwischenreich: «A partire da Cristo domina la fine. Noi viviamo nel tempo di mezzo, dobbiamo entrare nella riconciliazione dello spirito» (III, 27). ↩︎
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F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, cit., p. 12. ↩︎
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Oltre ad Hegel, l’«ultimo dei filosofi», Rosenzweig riconosce come è noto un secondo punto di riferimento dell’inquietudine del suo ingranaggio mentale che porta il nome di «1800»: Goethe, l’«ultimo cervello pagano» (Cfr. «Cellula originaria»…, cit., p. 20). E proprio Goethe costituisce il punto d’arrivo dell’ampia riflessione dedicata da Johannes alla «patologia dello spirito tedesco», determinata a partire dalla sua radice protestante: «L’io senza mondo — pensiamo alla sequenza: Lessing, Fichte Nietzsche! — è l’Io-spirito tedesco; poiché poggia sul punto di vista protestante, esso allontana da sé il mondo» (II, 152). L’uomo protestante nasce con Lutero, ma esso resta semplicemente individuo e non «spirito» fino a Lessing, cosicché si può ben dire che «soltanto l’epoca tedesca da Lessing a Goethe fonda lo spirito protestante» (II, 151): Lessing l’Individualgeist, Herder («Sprachdenker, il più geniale utilizzatore della parola che la Germania abbia mai avuto» (II, 157)) il Volksgeist, Goethe il Menschheitsgeist (II, 162). Goethe è così il padre di tutti gli spiriti creativi, ma proprio portando a compimento in sé la misura dell’uomo egli ha distrutto la richiesta della sua dismisura (Übermass, che viene dalla trascendenza). L’uomo elevato nel «mondo olimpico», contro le sue intenzioni, resta esposto al pericolo di scivolamento verso la pretesa di uno spirito del mondo onnipotente e di un superuomo: «Lo spirito dell’umanità è una incarnazione, lo spirito del mondo, al contrario, una astrazione; così si rapportano l’uno all’altro Goethe e Hegel; essi sono una ed una sola cosa, l’uno come natura, l’altro come spirito! E come la natura è più dello spirito, così Goethe ha un peso maggiore di quello di Hegel» (II, 166). ↩︎
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Johannes reinterpreta in questa prospettiva il processo a Socrate, accusando in lui il «filosofo», che assume il pensiero come «professione» e non come elemento del naturale sviluppo della vita e dell’educazione (cfr. III, 67). Egli dichiara tuttavia di assumere allo stesso tempo la difesa del «pensatore» che ha inaugurato, di fronte alla polis che era l’unica «divinità» dei greci, una diversa dimensione dell’esperienza «pubblica» dell’uomo. La condanna non è così a morte, ma al pagamento delle sole spese processuali. ↩︎
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F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, cit., p. 4. ↩︎
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«La Jemeinigkeit della morte, puntualmente teorizzata da Rosenzweig con notevole anticipo rispetto a Heidegger, viene infatti a smentire clamorosamente, almeno in un punto, le prodigiose capacità «digestive» del sistema onniabbracciante, che non riesce ad assorbire e a dissolvere in sé la singolarità irriducibile, esaltata appunto dalla morte, di colui che di questo sistema è l’autore» (F. Ciglia, Scrutando la «Stella». Cinque studi su Rosenzweig, Padova 1999, p. 30). Per K. Löwith, M. Heidegger und F. Rosenzweig. Ein Nachtrag zu Sein und Zeit, cit., è la comune ascendenza kierkegaardiana a rendere ragione delle evidenti affinità fra i due autori: la critica al pensiero occidentale nella sua globalità, il motivo del Dasein dominato dalla morte, il tono petico-religioso, ecc. Sulla possibilità di rileggere la contrapposizione fra l’universale e la dimensione individuale dell’esperienza come principio della filosofia a partire appunto dalla morte cfr. anche H.J. Görtz, Tod und Erfahrung. Rosenzweigs »erfahrende Philosophie« und Hegels »Wissenschaft des Bewußtseins«, Düsseldorf 1984. ↩︎
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Non è comunque questo l’unico spunto «heideggeriano». Durante la discussione sullo spirito tedesco c’è infatti l’importante constatazione che «i pensatori e i poeti si trovano certo dappertutto; ma da noi domina fra loro l’«e». Noi non abbiamo poeti, ma poeti pensatori; non abbiamo pensatori, ma pensatori poetici» (II, 178) La definizione è a proposito di Hölderlin e Novalis come interpreti di due linee della poesia: la prima che considera il linguaggio come organo dell’amore, la seconda che lo considera come oggetto stesso dell’amore. Hölderlin appartiene alla seconda, quella dei poeti Hörenden e Musischen, Novalis (come Goethe) alla prima, quella dei poeti Schauenden e Bildenden. Aggiungendo ai loro nomi quello di Schleiermacher, Johannes ottiene «i tre regni del sogno del romanticismo» (II, 196): Grecia, cattolicesimo e protestantesimo, corrispondenti ai tre elementi linguaggio, chiesa ed Erlebnis. L’importante scoperta di quest’ultimo è appunto il merito di Schleiermacher, al quale viene comunque riservato un duro giudizio: «Lo spirito tedesco che era inizialmente uscito dallo spirito individuale si è perso sempre più profondamente nelle regioni del «noi», senza poter risolvere la disarmonia fra il singolare e il plurale. Ora ha preso il sopravvento su di esso una ebbrezza del Noi, nella quale il protestante tedesco, questo Io che può essere sobrio o ubriaco, ma mai vivificato dal Noi, si sente un estraneo» (II, 193). Non è in questa «ebbrezza» che il principio dialogico riconosce le sue radici. ↩︎
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«È una libertà in Dio, non fuori di Dio. Così da una parte Dio deve portare in sé anche il male, dall’altra la libertà dell’In-Gott-sein non deve rappresentare affatto una autentica libertà, una libertà per il male nel senso della cattiva volontà, del satanico. Gli uomini sono solo pensieri di Dio» (II, 134-5). ↩︎
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«Noi oggi sottolineiamo il pratico, il peccato originale, la storia, quest’ultima vista, a differenza di Schleiermacher, non come essere disteso nel tempo, per la contemplazione dell’osservatore, bensì come azione dell’agente. Perciò ci rifiutiamo anche di vedere il “Dio della storia” poiché noi vogliamo vedere la storia (sotto l’aspetto religioso) non come quadro, non come essere; al contrario ignoriamo Dio in essa, per restaurarlo nel processo attraverso cui essa diventa. Noi vediamo Dio in ogni accadimento etico, ma non nel tutto finito, nella storia; poiché a cosa ci servirebbe un Dio, se la storia fosse divina, se ogni azione che scorre in questo bacino diventasse in ogni caso divina, giustificata. No, ogni azione diventa peccaminosa quando entra nella storia […] e perciò Dio deve redimere l’uomo non attraverso la storia, bensì realmente come “Dio della religione”. Per Hegel la storia invece era divina, teodicea […] Per noi la religione è la sola teodicea autentica» (Id., Briefe und Tagebücher, cit., vol. I, pp. 112-3). ↩︎
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Pöggeler riconosce anzi da questo punto di vista, pur nella evidente discontinuità di attitudini e soluzioni, una precisa continuità fra Rosenzweig e Hegel sul piano della comprensione filosofica della storia: «La storia per Rosenzweig rimane storia di salvezza che, alla maniera di Hegel, deve essere compresa filosoficamente […] Rosenzweig rimane perciò un hegeliano che tiene ferma, pur trasformandola, la comprensione della storia anche se vuole rinnovarla alle sue origini» (O. Pöggeler, Rosenzweig und Hegel, in H. Görtz, Tod und Erfahrung, cit., pp. 12-3. ↩︎
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Ehrenberg mostra così di accogliere l’intepretazione, dominante già fra i contemporanei di Kant, della dottrina del male radicale come infiltrazione nel criticismo di elementi di origine fideistica e dogmatica. Per i limiti di questa posizione, che finisce con il travisare il significato del primo libro dello scritto sulla Religion, rinviamo al nostro Dalla teodicea al male radicale. Kant e la dottrina illuminista della «giustizia di Dio», Padova 1990. ↩︎
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Anche Ehrenberg recupera in questo modo l’opera postuma di Cohen fra le fonti del nuovo pensiero, sottolineandone implicitamente lo scarto rispetto alla Ethik des reinen Willens (Marburg 1904), la cui conclusione era che «Dio non deve diventare il contenuto di una fede, se per fede si intende una cosa distinta dal sapere» (p. 450). «Cohen ha costruito ancora una volta una casa al Dio dei filosofi», poteva così legittimamente affermare Buber. (Cfr. L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Milano 1961, p. 69). Nella conclusione si apre tuttavia una prospettiva diversa — «La natura consiste nell’insieme delle sue leggi che hanno il loro fondamento nella logica. Qui Dio è del tutto fuori gioco. L’eticità consiste nell’insieme dei concetti etici, la cui fondazione risale infine alla metodica logica. Anche qui Dio non è in gioco. Egli è trascendente rispetto ad ambedue le forme di conoscenza» (p. 464) — alla quale sembra saldarsi la Religion der Vernunft. Al primato del pensiero logico si sostituisce quello dell’amore religioso, in una eticità che non è più caratterizzata dal suo rapporto con la conoscenza, ma con la religione nella sua specificità. Diventa centrale il motivo della correlazione Dio-uomo, che tanta influenza ebbe su Rosenzweig e che era già stato anticipato da Cohen in Der Begriff der Religion im System der Philosophie (Giessen 1915): «Io non penso più Dio (questo non più è quasi una testimonianza diretta) soltanto come garante della moralità in terra, bensì […] come il vendicatore del povero nella storia del mondo. Io amo questo vendicatore dei poveri» (p. 16). ↩︎
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«Intellettualismo! in questo senso proprio l’idealista rappresenta, nonostante tutte le proteste, il fatto che dall’Io viene “prodotto” non soltanto il mondo inferiore, sensibile, ma anche quello superiore, metasensibile» (I, 150). ↩︎
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«Fichte vede se stesso all’inizio e alla fine» (I, 150) ed è questo un errore comune a tutte le coscienze rivoluzionarie, ebbre di entusiasmo apocalittico: credere appunto che con loro «cominci» la fine, il tempo ultimo, del quale non spetta al contrario agli uomini fissare l’avvento. ↩︎
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Anche i tre anti-idealisti hanno tuttavia il loro limite. Feuerbach inclina al sensualismo. Schopenhauer è responsabile della sciocca imitazione che si è fatta della filosofia di Kant nella seconda metà del diciottesimo secolo. L’errore di Kierkegaard, che è comunque il più grande, perché raggiunge «il luogo del pensiero della realtà», è quello di «entrare con il cuore nella testa; egli sommerge il cervello con una incredibile onda di sangue» (III, 108-9), con il risultato di dissanguare il cuore e rischiare di farlo morire. ↩︎
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«L’uomo nella pura e semplice singolarità della sua essenza individuale, nel suo essere, contrassegnato da nome e cognome, uscì dal mondo che si sapeva accessibile al pensiero, uscì dal Tutto della filosofia» (F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, cit., p. 10). ↩︎
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Ivi, p. 8. ↩︎
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Inoltre in Kierkegaard e Hegel viene sottolineato un errore simmetrico rispetto al problema del tempo: «Ambedue, Kierkegaard come Hegel, conoscono solo la vuota uguaglianza di attimo ed eternità; soltanto l’uno parte dalla cosiddetta eternità, l’altro dall’attimo; questa è tutta la loro differenza. Il tempo reale è completamente estraneo a tutti e due» (III, 87). ↩︎
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«Finché gli uomini dialogano fra loro, non può «accadere» nient’altro» (I, 178), afferma Johannes con un esplicito riferimento a quel vero e proprio spartiacque della storia e della cultura europee segnato dal 4 agosto 1914. ↩︎
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Questa possibilità di nominare le cose si fonda sull’atto divino della creazione: «Sapete che c’è una vecchia disputa sull’origine del linguaggio, se essa sia divina o umana. Non potrebbe esso avere una doppia origine? Adamo dette il nome a quelle cose che Dio creò con la parola. Fra me e te ed Es Dio ha posto la parola» (I, 182). ↩︎
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F. Rosenzweig, Briefe und Tagebücher, cit., vol. II, p. 735. ↩︎
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Per Johannes la vita contemplativa, con un completo rovesciamento della tradizione, vale «soltanto per i piccoli spiriti, per i filosofi minori» (I, 11-2). ↩︎
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Rosenzweig intende scongiurare nel modo più energico «il pericolo che il nuovo pensiero venga compreso nel senso, o meglio nel nonsenso, delle tendenze delle “filosofie vitalistiche” o altrimenti “irrazionalistiche”. Oggi l’oscuro gorgo di questa Scilla pare aver già risucchiato tutti coloro che sono abbastanza intelligenti da saper sfuggire alla vendetta del Cariddi idealistico» (F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 64). È stato giustamente sottolineato come questo concetto di esperienza, centrale nello scritto del 1925, comparisse di rado nella Stella: la sua assunzione documenterebbe così l’attenzione di Rosenzweig ad un problema largamente dibattuto dai pensatori che intendono superare l’impostazione neo-kantiana, da Husserl al Benjamin del Programm der kommenden Philosophie (cfr. G. Bonola, Pietre di confine. Al limitare della «Stella della redenzione», in Il nuovo pensiero, cit., p. 15). ↩︎
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H. Ehrenberg, Die Parteiung der Philosophie, cit., pp. 97-8. Questo spunto era stato raccolto da Rosenzweig: «Il mondo non è alogico, al contrario la logica ne è componente essenziale o, come vedremo, più correttamente ne è la componente «più essenziale»; il mondo non è alogico ma, con un’espressione coniata da Ehrenberg, meta-logico» (F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, cit., p. 14). ↩︎
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H. Ehrenberg, Die Parteiung der Philosophie, cit., pp. 126-9. ↩︎
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La considerazione che al di là del pensiero resta comunque l’intero territorio dell’anima, «il puro parlare di Dio con l’uomo» (III, 163), permette infine di adattare l’immagine dell’edificio e dei quattro piani alla Trinità: dal piano terra del semplice esistente si sale al piano del mondo (creatore), poi a quello dello spirito (figlio), infine a quello dell’anima (spirito santo). ↩︎