A ritroso. Albert Camus e la condizione umana

1. Introduzione

Chi siamo? Qual è il ruolo dell’uomo all’interno dell’universo? E quali i diritti da rivendicare al cospetto di un padre silenzioso come il nostro, il mondo, che pur dicendoci tutto, offrendosi a noi, è come se non dicesse niente? La produzione letteraria e filosofica di Albert Camus (1913-1960) ha stagliate all’orizzonte queste domande originarie; enigmi immortali, che per la loro impossibilità ad essere sciolti, presto conducono l’uomo bramoso di risposte alla coscienza dell’assurdo. Lo stesso Camus, all’interno del suo percorso personale e filosofico, arrivò a constatare l’assurdità dell’esistenza, cercando però di superarla, di darsi e dare una speranza di vita (e morte) felice, o, meglio, di vita vissuta nel pieno delle sue possibilità, facendo tuttavia desistere l’uomo impaziente dalla speranza di un’altra vita oltre a quella che gode, qui, sotto il sole e le stelle, vita in cui è il corpo il vero protagonista, ed « […] il corpo ignora la speranza. Esso non conosce che il pulsare del sangue».1 Se c’è una speranza nel vocabolario camusiano non ha certo a che fare con religione e trascendente, ma con la possibilità, inscritta nella condizione umana, di ritrovare l’intima misura, il ritmo, che ci lega al mondo, alla natura, alla coscienza dell’esistere.

Eppure questa misura non sarà sempre intesa allo stesso modo da Camus, la cui vita vide avvicendarsi quattro fasi fondamentali, le quali si rifletteranno inevitabilmente nel suo pensiero filosofico: da un equilibrio felice tra uomo e natura vissuto inconsciamente (Nozze, La morte felice); alla folgorazione dell’assurdità dell’esistenza incrinante questo stesso equilibrio (Lo straniero, Il mito di Sisifo, Caligola); alla volontà di ribellarsi all’assurdo destino umano (L’uomo in rivolta, La peste); fino ad arrivare al configurarsi di un’altra felicità, cosciente dei limiti umani, che in qualche modo annienta lo spaesamento scatenato dall’assurdo (La caduta). Dunque, da un fiducioso e spensierato trionfo del corpo, espresso in una giovinezza semplice, trascorsa nelle assolate spiagge algerine in cui Camus ha la possibilità d’immergersi nel flusso dell’esistenza primigenia — «all’infuori del sole, dei baci e dei profumi selvaggi, tutto ci sembra futile»2 scrive in una delle sue prime opere ispirate alla vita algerina — , dove i problemi della vita emergono ma trovano in superficie la luce e il calore del sole a mitigarli; egli passa per la terribile consapevolezza dell’assurdo, condizione di lucidità che gli avvenimenti dell’età adulta portano inevitabilmente con loro (si pensi anche alle particolari condizioni del contesto storico, come il prepararsi e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, che acuirono di certo il sentimento dell’assurdo camusiano). E poi per la conseguente rivolta a questa condizione, un no all’assurdità della vita che è contemporaneamente un al senso di positività, di bene, di giustizia col quale l’uomo accetta l’esistenza, la sua finitudine. Approdando infine all’accettazione della caduta dell’uomo — compimento filosofico camusiano — , ovvero della sua duplicità, della necessaria e ineluttabile coesistenza di bene e male nel suo cuore. L’accento, ora, non è più posto sul bene, ma tra il bene e il male, principi di forza essenziali del nostro peregrinare esistenziale. In questo modo l’assurdo, sempre e comunque latente perché impossibile da sconfiggere (infondo non scopriremo mai il motivo per cui siamo qui), lascia il ruolo di protagonista alla possibilità di essere (comunque) felici, di trovare una nuova dimensione garante dei nostri bisogni vitali, un equilibrio sofferto e disilluso, che matura anzitutto nell’uomo stesso, prima ancora che tra uomo e mondo: l’uomo che si riconosce colpevole, costitutivamente — la colpa è l’esistenza stessa — , si libera delle idealizzazioni e va cinicamente incontro al suo destino, la morte — è in questo modo che espiamo la colpa. La colpa per la nostra condizione assurda non è del mondo esterno, della natura silenziosa, ma dell’uomo stesso, è dentro di noi che nasce la dismisura (il male è nostro). Nel frattempo, però, l’uomo lucido e conscio di ciò cerca di essere felice sfruttando la propria duplicità, semplicemente accettandola, senza cercare di neutralizzarla — seguendo così l’insegnamento dei Greci. Vivere seguendo il flusso, senza chiedersi del perché le cose non vadano sempre come vorremmo, cioè bene (dal nostro punto di vista), e poi sfogarsi, riconoscersi, cercare di migliorarsi, anche se forse non è possibile. Un equilibrio, dunque, più realistico rispetto a quello teorizzato da Camus durante la giovinezza; equilibrio, quest’ultimo, che faceva del matrimonio uomo/natura una concreta possibilità, nonché l’unica auspicabile per una vita degna di essere vissuta, e idealizzando così la medesima condizione umana, che vedeva l’uomo essere tra gli esseri, animale puro, nascondendo però il suo lato cattivo (invero fonte di soddisfazione nel suo auto-riconoscimento). Il matrimonio uomo/natura è sì possibile ma è molto più complesso di quello cantato, per esempio, in Nozze. Perché è l’uomo ad essere un animale molto più complesso, per “natura” portato a svincolarsi dal flusso naturale.

La sentenza definitiva di Camus sulla condizione umana arriva soltanto alla fine di un percorso filosofico e personale interamente dedicato al tentativo di dar risposta alle domande originarie di cui si parlava all’inizio; un percorso travagliato, di malattia, critiche, litigi e delusioni: tutti gli ingredienti per diventare autenticamente uomini.

2. Lo sposalizio

Come Nozze (1939), la più famosa raccolta di saggi autobiografici della giovinezza di Camus, a simbolizzare la prima fase del pensiero camusiano è il romanzo incompleto La morte felice (scritto tra il 1936 e il 1938), mai terminato da Camus probabilmente a causa del sopraggiungere di una nuova prospettiva — un nuovo sentimento nei confronti dell’esistenza — culminata in seguito nel più celebre romanzo Lo straniero (1942). Ne La morte felice, il protagonista Patrice Mersault (quasi omonimo del Meursault de Lo straniero) è un comune impiegato la cui mancanza di tempo, dovuta alla sua condizione sociale medio-bassa e alle otto ore d’ufficio che gli consentono di guadagnarsi da vivere, lo rende infelice. La conoscenza dell’infermo Zagreus, primo amante della sua ragazza Marthe, ricco ma impossibilitato a godere dei suoi averi, spinge Patrice ad ucciderlo per impossessarsi della sua fortuna e così liberarsi dall’oppressione dell’infelicità. Piano piano Patrice scorge una nuova felicità, permessa dal denaro, il lusso del far niente, ma soprattutto dalla possibilità di accordarsi con il mondo fuori, di respirare il sole, la sera, i colori del cielo. La felicità di Patrice è dunque la serenità interiore, la tranquillità che si raggiunge in un’esistenza priva d’affanni e preoccupazioni, con l’unico pensiero di dover godere di ciò che il mondo ci offre prima di doverlo lasciare per sempre. Lo si capisce anche dal viaggio che Patrice intraprende subito dopo l’assassinio: le nuvole del Nord Europa non gli danno quello che potrebbe dargli invece il sole algerino; ad una lettera inviata da Vienna alle sue amiche Rose e Claire egli scrive: «qui la bellezza ha fatto posto alla civiltà. […] Ci sono spettacoli e belle donne. Manca solo un vero sole».3 Soltanto la bellezza della natura, garante dell’equilibrio uomo/mondo, può suggellare la felicità umana. Ciò lo spingerà a tornare in Algeria per abbracciare finalmente l’agognata vita (e morte) felice. Qui

accordava i battiti del suo sangue alla violenta pulsazione del sole delle due e, sprofondato tra gli odoro selvaggi e i concerti degli insetti sonnolenti, guardava il cielo passare dal bianco all’azzurro puro e poi subito svaporare fino al verde e riversare la sua dolcezza e la sua tenerezza sulle rovine ancora calde. […] Non riusciva a immaginare eternità né felicità sovrumana fuori dalla curva delle giornate. La felicità era umana e l’eternità quotidiana. Tutto stava nel sapersi umiliare, nel coordinare il proprio cuore al ritmo delle giornate invece di piegare il loro alla curva della nostra speranza.4

Patrice trova dunque la felicità, e in punto di morte evoca la sua vittima Zagreus, immedesimandosi in essa, accettando questa vita così com’è, nietzscheanamente, nella salute e nella malattia, nel bene e nel male, ad occhi aperti. «Consacra — così — il suo matrimonio con la terra».5 Questa felicità, invero, già presagisce la felicità colpevole di Jean-Baptiste Clamence, protagonista de La caduta (1956); eppure in Patrice ancora non è lucida la coscienza della propria colpevolezza — nemmeno l’assassinio lo fa sentire realmente in colpa! Sono le condizioni della vita che lo costrinsero ad agire in quel modo, pensa, per poter giungere infine a compiere «l’unico dovere dell’uomo che è soltanto quello di essere felice»,6 in pace con se stessi ed il mondo. L’uomo, qui, si sente ancora innocente, giustificato dal diritto (ingiustamente privatogli) di essere felice.

Una volta tornato in Algeria, Patrice, «innocente, sconvolto dalla gioia, capì finalmente di essere fatto per la felicità».7

Lo sposalizio uomo/mondo è il tema principale anche della raccolta di saggi lirici Nozze. La felicità è qui raggiungibile attraverso una sorta di auto-annullamento che faccia trasparire in noi la natura di cui facciamo parte, ma che contemporaneamente esalti il nostro essere in una “fedeltà alla terra” tutta nietzscheana. La misura di cui parla Camus è simile all’equilibrio apollineo/dionisiaco manifesto del primo Nietzsche, il modo mediterraneo di concepire la vita, quello dei Greci dell’età arcaica: non cercare un significato razionale a tutto, ma vivere in conformità al fluire della vita, compresa la sua parte apparentemente violenta e irrazionale. Nel saggio Nozze a Tipasa leggiamo:

Mare, campagna, silenzio, profumi di questa terra, mi riempivo di una vita odorosa e mordevo nel frutto già dorato del mondo, turbato di sentire il suo succo dolce e forte colare lungo le mie labbra. No, non ero io che contavo, né il mondo, ma soltanto l’accordo e il silenzio che fra il mondo e me faceva nascere l’amore.8

Felicità è dunque sinonimo di amore, amore per la vita e tutto quello che sa offrirci. Ciò che conta è saper approfittare dei momenti di felicità che ci sono concessi nell’unica vita possibile, questa, senza sprecare energie nel cercar soluzioni a noi precluse, come la speranza di altre vite e altri mondi. Dobbiamo accordarci con la nostra esistenza, solo così potremo sopportare lo smacco della fine necessaria. Scrive Camus ne Il deserto:

Che altro è la felicità se non il semplice accordo fra un essere e l’esistenza che conduce? E quale più legittimo accordo può unire l’uomo alla vita se non la duplice coscienza del suo desiderio di durare e del suo destino di morte? Almeno s’impara a non contare su nulla e a considerare il presente come la sola verità che ci venga data “in sovrappiù”.9

Smacco, quello della morte, che viene obliato dall’estasi prodotta dal matrimonio con la natura, che culla la sua creatura fino a farla dimenticare di tutto, perfino di se stessa. L’uomo torna così — ancora una volta — innocente, e come sogno irrealizzabile sembra avere quello dell’incoscienza delle pietre. Perché a Camus, del modo (forse idealizzato) di vivere la vita dei Greci, manca ancora la consapevolezza, da cui non si torna più indietro, della colpa dell’uomo: l’essere nati.

Il vento mi foggiava a immagine dell’ardente nudità che mi era intorno. E, pietra fra le pietre, la sua stretta fugace mi dava la solitudine d’una colonna o d’un olivo nel cielo d’estate… Ben presto, sparso ai quattro angoli del mondo, dimentico, dimenticato da me stesso, io sono questo vento e, nel vento, queste colonne e questo arco, queste pietre che sanno di caldo e queste montagne pallide intorno alla città deserta.10

3. Il divorzio

Una nuova luce, inquietante, si farà però spazio nell’animo di Camus. La sua vita a Parigi, lontano dal sole e dalle spiagge algerine, al cospetto della malattia, la tubercolosi, e una catastrofe mondiale che gli uomini di buon senso stentavano ad accettare, gli insegna la difficoltà dell’esistenza. Camus diventa straniero, non trova più una ragione valida per spiegare quello che sta vivendo e quello che gli capita intorno, il che lo porterà all’elaborazione filosofica e letteraria del sentimento che lo ossessiona, un sentimento invero universale, con cui gran parte degli uomini, prima o poi, devono fare i conti: l’assurdo.

Un mondo che possa essere spiegato, se pure con cattive ragioni, è un mondo familiare; ma viceversa, in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l’uomo si sente un estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra promessa. Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, fra l’attore e la scena, è propriamente il senso dell’assurdo.11

L’assurdo è dunque il divorzio tra l’uomo e la sua vita, tra l’uomo e la condizione nel quale è costretto, tra l’uomo e la natura, l’ambiente che lo accoglie. L’uomo diventato straniero a se stesso attraverso la coscienza dell’assurdità dei suoi gesti, perché senza un significato al quale ricondurli, non riesce più a godere dei profumi dei fiori e delle carezze del vento, anch’esse ormai divenute insensate. Svanisce l’incantesimo dell’equilibrio esistenziale, per la troppa coscienza, per la troppa curiosità scontratasi contro il muro di un universo muto. E le conseguenze del disaccordo tra uomo e natura, tra uomo e se stesso, per Camus, possono essere tragiche, come racconterà ne Lo straniero:

Tutto quel calore pesava sopra di me e contrastava il mio andare… Mi tendevo tutto per vincere il sole e quella ubriachezza opaca che esso riversava su di me. A ogni sciabolata di luce sprizzata dalla sabbia, da una conchiglia candida o da un frammento di vetro, mi si contraevano le mascelle.12

La conclusione di questo disaccordo tra il protagonista Meursault e la natura, ormai ostile, saranno i quattro colpi di pistola riversati sul corpo inerte del marocchino disteso sulla spiaggia:

Il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura e è là, in quel rumore secco e insieme assordante, che tutto è cominciato. Mi sono scrollato via il sudore ed il sole. Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario silenzio di una spiaggia dove ero stato felice.13

Nessuno però proibisce all’uomo di ribellarsi a questa condizione, di imparare a vivere di quello che ha, rassegnandosi all’idea di non poter andare oltre alla terra che calpesta e che lo nutre. Sentire la positività e il privilegio della vita, nonostante l’assurdo e la morte — la più grande assurdità, perché

ogni cosa si trova smentita in modo vertiginoso dalla assurdità di una possibile morte. Pensare al domani, fissarsi uno scopo, avere preferenze, tutto suppone la credenza nella libertà… Ma, a questo punto, so bene che la libertà superiore, la libertà di essere, che sola può fondare una verità, non esiste. La morte è là, di fronte, come la sola realtà.14

Ma bisogna immaginare Sisifo felice, seppur condannato e senza speranza, dice Camus; vivere l’eternità del quotidiano, sperimentare la propria libertà di rivolta e creazione di valori. Così si supera l’assurdo per incontrare l’unica felicità possibile, la nostra misura originaria, l’accordo tra noi ed il mondo smarrito da un uomo immemore e ingrato. Ma l’uomo di Camus, a differenza di Sisifo (o forse proprio come lui), provocatore degli dèi, conserva ancora una parte d’innocenza — la sua colpevolezza è superficiale, poiché nel suo intimo mantiene ancora un legame privilegiato con la natura, che è solo da riscoprire e salvaguardare. Ed è per questo che ha il dovere della rivolta.

4. La rivolta

Già Il mito di Sisifo preannuncia il tema della rivolta — «una delle sole posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto dell’uomo e della sua oscurità»15 — , che però sarà sviluppato appieno soltanto nel trattato L’uomo in rivolta (1951).

C’è un limite in ognuno di noi, superato il quale il nostro agire si ritorce contro noi stessi, contro qualsiasi nostro buon proposito iniziale — se buono lo è mai stato. La rivolta non deve mai rischiare di tradire i suoi ideali, oltrepassare il suo limite, ma deve rimanere sincera e coerente, mai farsi regime — rivoluzione — , ma personale desiderio di rinascita. È dovere morale dell’uomo, per Camus, rivoltarsi contro l’assurdità del tutto all’insegna di un nuovo senso profondo, che è la preziosità di questa stessa vita vissuta nella sua pienezza. Ritrovare dunque una misura originaria, perduta; tornare a respirare il ritmo della terra; lasciare entrare nei nostri giorni l’irriducibile irrazionale, il negativo del mondo, a smussare gli spigoli di una ragione disumanata. Questo sul piano personale. Su quello sociale e politico ciò si traduce in democrazia, coesistenza pacifica e costruttiva di maggioranze e opposizioni.

Eppure anche ne L’uomo in rivolta, manifesto della vita piena, della possibilità di redenzione dell’uomo dal carcere della ragione e di un’esistenza avulsa dalla gioia più semplice, quella del corpo e dei sensi in pace con mondo e sentimenti, si fa sentire lo scoraggiamento di Camus nei confronti della vera condizione umana e della sua possibilità di essere felice. C’è uno scarto tra l’uomo Camus e ciò che scrive, uno scarto che, a tratti, non può non emergere già in questo saggio, ma che sarà lampante solo ne La caduta, suo testamento filosofico. Alla fine del saggio del ’51, Camus scrive:

La misura, nata dalla rivolta, […] è costante conflitto, perpetuamente suscitato e signoreggiato dall’intelligenza. Non trionfa dell’impossibile né dell’abisso. Qualunque cosa facciamo, la dismisura serberà sempre il suo posto entro il cuore dell’uomo, nel luogo della solitudine.16

Cosa significa? Che ormai l’uomo, cosciente dell’assurdità dell’esistenza, non riuscirà più ad essere felice come prima, quando gli bastava distendersi al sole e ascoltare i flutti del mare sciogliersi sulle rocce (anche se probabilmente non è mai esistito uomo capace di tale incoscienza)? Che ormai l’uomo è inquinato e può solo cercare di offuscare la sua gratuità attraverso un moto d’indignazione perpetuo, il quale anch’esso, in definitiva, non ha senso, perché non risolverà mai il suo divorzio con il mondo, ma riesce soltanto a tenerlo a galla?

«Tutti portiamo in noi il nostro ergastolo, i nostri delitti e le nostre devastazioni. Ma il nostro compito non è quello di scatenarli attraverso il mondo; sta nel combatterli in noi e negli altri».17 Non resta che combattere, dunque. Ma perché c’è così tanto male in noi? Da dove viene?

La felicità non sarà mai più definitiva, e molto probabilmente, per gli uomini, non lo è mai stata. D’altronde soltanto nell’Eden si potrebbe vivere uno stato di felicità perpetua, che poi non sarebbe reale, perché impossibile da confrontare col suo negativo necessario.

5. La caduta

L’uomo è ipocrita, e quindi colpevole. Tutti gli uomini, pur aspirando all’innocenza, sono ipocriti e colpevoli. Questa l’illuminazione, semplice e disillusa, che ossessiona l’ultimo Camus. L’uomo non è un essere innocente catapultato su questa terra, costretto a subire ingiustamente la tortura di un mondo che non parla, ma, con l’ingombro della sua esistenza, si rende ipso facto colpevole, perché impuro, meschino, egoista. Sebbene voglia per sé il candore dell’innocenza, ogni attimo dimostra la sua duplicità, il vivere per il pubblico, per l’applauso, nascondendo egoismo e autocompiacimento dietro falsa generosità e falsa gentilezza.

Il protagonista de La caduta Jean-Babtiste Clamence — alter ego, almeno in parte, di Camus — si rende conto della maschera con cui ha sempre convissuto inconsciamente, e svela così l’essenziale ipocrisia che individua tra le cose che esistono la peculiarità dell’esistenza umana.

Camus è arrivato alla fine del suo percorso, lasciandosi alle spalle l’idillio di un uomo trafitto dai benefici dei raggi solari, un uomo ancora troppo legato al mondo animale, di cui è sì parte, ma non alla stregua degli altri esseri viventi; ma anche l’assurdo, irrisolvibile e per questo motivo ormai parte di noi; e la rivolta — perché ha ancora senso lottare per questo tipo di uomo?

Sentenza amara quella di Camus, ma che finalmente assottiglia quello scarto tra uomo e opera di cui si parlava. In questo modo la sua esistenza entra prepotentemente nel suo pensiero, costringendolo a un ripensamento. L’accordo con il mondo, invocato dalle accensioni liriche di Nozze, non è più possibile, non lo è mai stato. La felicità è altrove, ed è comunque sempre compromessa e sofferta. L’autoaccusa libera l’uomo donandogli attimi di sincerità in cui si toglie la maschera e smette di recitare la sua parte. Solo così, riconoscendo la propria colpa e quindi quella degli altri, si può toccare una specie di felicità, e si fa pace con il mondo: «librandomi col pensiero sopra tutto il continente che mi è sottomesso senza saperlo, bevendo l’assenzio del giorno che nasce, finalmente ebbro di parole cattive, io sono felice».18 E ancora:

L’essenziale è potersi permettere tutto, salvo di tanto in tanto a professare clamorosamente la propria indegnità. Io mi permetto di nuovo tutto, e senza risate, questa volta. Non ho cambiato vita, continuo ad amare me stesso e a servirmi degli altri. Solo che la confessione delle mie colpe mi permette di ricominciare con maggior leggerezza e di godere due volte, prima della mia natura e poi d’un delizioso pentimento.19

Confessare la propria colpevolezza — quindi accettare la condizione umana — ci fa sentire meglio, quasi felici. Ma è un circolo vizioso perché dietro la sincerità c’è sempre lo spettro dell’autocompiacimento, il quale annulla seduta stante il nostro slancio di purezza.

L’uomo, dunque, può essere felice? Da una certezza Camus è tornato all’incertezza della domanda. E se vogliamo cercare di dare una risposta alle domande originarie poste all’inizio potremmo dire che per Camus l’uomo è colpevole, non ha ruolo in questo mondo se non quello di vivere in conformità al suo essere duplice, e non può rivendicare nulla: la sua vita è assurda e rimarrà tale fino a che non sarà egli stesso ad inventarsi un senso che si conformi anch’esso alla sua condizione.

Camus, nella sua vicenda personale e filosofica, percorre a ritroso la storia del pensiero e dell’uomo, viaggiando dalle coste algerine ai caffè di Saint-Germain-de-Prés, approdando infine — questa volta solo idealmente — ad altre coste mediterranee, quelle agrigentine, rifugio di Empedocle.

I Greci, infatti, accettavano la vita così com’era, forse anche loro autocompiacendosi dell’effimerità dell’esistenza e delle sofferenze che dovevano sopportare — , si inventarono anche l’invidia che provavano gli dèi nei loro confronti per il fatto di essere mortali e così poter vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, il che conferiva agli attimi un sapore preziosissimo. Lo leggiamo nei loro poeti, ce ne parla Nietzsche. Tuttavia non sapremo mai cosa sentiva dentro di sé un Greco. E nemmeno Camus, al quale però siamo inevitabilmente più vicini.


  1. Albert Camus, Le désert, in Noces, Gallimard, Paris 1938; tr. it. di S. Morando, a cura di C. Pastura e S. Perrella, Il deserto, in Nozze, in Estate e altri saggi solari, 2ª ed., Bompiani, Milano 2010, cit., p. 30. ↩︎

  2. Albert Camus, Noces a Tipàsa, in Noces, Paris 1938; tr. it. Nozze a Tipasa, in Nozze, in Estate e altri saggi solari, cit., p. 4. ↩︎

  3. Albert Camus, La mort heureuse (1936-1938, pubblicato postumo nel 1971), Gallimard, Paris 1971; tr. it. di G. Bogliolo, a cura di J. Sarocchi, La morte felice, 1ª ed., BUR, Milano 1975, cit., p. 75. ↩︎

  4. Ivi, p. 110. ↩︎

  5. Ivi, pp. 122-123. ↩︎

  6. Ivi, p. 134. ↩︎

  7. Ivi, p. 80. ↩︎

  8. Albert Camus, Nozze a Tipasa, cit., p. 9. ↩︎

  9. Albert Camus, Il deserto, cit., p. 36. ↩︎

  10. Albert Camus, Le vent à Djémila, in Noces, Paris 1938; tr. it. Il vento a Djemila, in Nozze, in Estate e altri saggi solari, cit., pp. 12-13. ↩︎

  11. Albert Camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942; tr. it. di A. Borelli, prefazione di C. Rosso, Il mito di Sisifo, 9ª ed., Bompiani, Milano 2010, cit., p. 9. ↩︎

  12. Albert Camus, L’étranger, Gallimard, Paris 1942; tr. it. di A. Zevi, nota di S. Perrella, Lo straniero, 24ª ed., Bompiani, Milano 2010, cit., p. 73. ↩︎

  13. Ivi, pp. 75-76. ↩︎

  14. Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 53. ↩︎

  15. Ivi, p. 50. ↩︎

  16. Albert Camus, L’homme révolté, Gallimard, Paris 1951; tr. it. di L. Magrini, prefazione di C. Rosso, L’uomo in rivolta, 1ª ed., Bompiani, Milano 1994, cit., p. 329. ↩︎

  17. Ibidem↩︎

  18. Albert Camus, La chute, Gallimard, Paris 1956; tr. it. di S. Morando, La caduta, 1ª ed., Garzanti, Milano 1966, cit., p. 87. ↩︎

  19. Ivi, pp. 85-86. ↩︎