Il tramonto della comunità. Nisbet, Kirk e il comunitarismo romantico americano

1. Robert Nisbet: per la riconquista della comunità perduta

La riflessione sociologica e filosofica di Robert Nisbet1 è incentrata sul problema che più direttamente viveva la società americana della seconda metà degli anni ’50 del ’900 ma che affligge tuttora l’intera civiltà occidentale: la «domanda di comunità». Tale espressione è anche il titolo della sua opera principale, The Quest for Community, apparsa per la prima volta nel 1953, per i tipi della Oxford University Press, e in cui è probabilmente contenuta la prima e più rilevante formulazione organica della teoria della comunità nella storia del pensiero americano. Letto inizialmente nell’ambiente culturale del conservatorismo americano, The Quest for Community ha attirato, col passare del tempo, l’attenzione di un pubblico sempre più variegato, interessando, a partire dagli anni ’70, anche alcuni interpreti del movimento dei communitarians, col quale condivide senz’altro una prospettiva di pensiero pluralista e marcatamente antindividualista. Non a caso, B. Lowell Stone, autorevole studioso di Nisbet, rileva che «alcuni comunitaristi (come Michael Sandel, Alan Ehrenhalt e Amitai Etzioni) e teorici della «società civile» (come Don Eberly, Francis Fukuyama, Robert Putnum, Peter Berger e Richard John Neuhaus) spesso riprendono idee espresse molto tempo prima da Nisbet e che quest’ultimo sviluppò ampiamente durante il corso della sua feconda carriera».2 Il fatto stesso che il libro abbia avuto ben quattro edizioni e sia rimasto in stampa per più di mezzo secolo la dice lunga sulla originalità delle sue tesi e della loro adattabilità alle diverse fasi del processo di sviluppo della società americana.3

L’assunto principale dell’analisi di Nisbet è il seguente: l’odierna crisi della comunità si trascina dall’epoca in cui venne stabilita la supremazia del potere centralizzante e assolutizzante dello Stato che si è progressivamente sostituito alle comunità tradizionali di cui era ricco il mondo medievale. L’abbondanza di communitatum nel Medioevo era il derivato della «creazione di gruppi che potessero intercettare i bisogni precarizzati in seguito alla caduta di Roma. La famiglia patriarcale, il parentato, il villaggio, la città circondata da mura, il municipio, il monastero erano relazioni diventate forti nella vita dell’uomo sin dal tempo in cui l’Europa medievale raggiunse il suo zenith».4 Le comunità erano tenute insieme da legami sacri. Le città del Medioevo proteggevano la vita dei propri cittadini per mezzo delle associazioni economiche, religiose e civiche, ognuna delle quali aspirava ad essere una sorta di famiglia allargata. La società medievale si componeva fondamentalmente di gruppi e non di individui, e questi gruppi si sviluppavano pienamente nella loro autonomia. Nel pensiero medievale il principio di «totalità» era quello secondo il quale l’individuo era finalizzato al «tutto sociale» prima ancora di essere finalizzato a se stesso. La stessa idea di popolo non si traduceva in una semplice somma di individui, ma in una persona morale, giuridica e politica.

Le cause della domanda di comunità che, a distanza di così tanti secoli dalla civiltà medievale, avanza nelle società contemporanee, sono per Nisbet individuabili in quelle «alienazioni sociali» che sono il prodotto della caoticità delle grandi città industriali, della «disorganizzazione sociale» e della cosiddetta «mobilità» che fino a qualche tempo fa era una caratteristica tipica della società nordamericana ma che rapidamente è andata estendendosi in buona parte dell’Europa industrializzata. In The Quest for Community, Nisbet indica nel senso di estraniazione, di isolamento e di insicurezza dell’individuo le principali forme di alienazione che scaturiscono da una varietà di cambiamenti economici, religiosi e morali e, sul piano eminentemente politico, su una concezione dello Stato che egli definisce «errata e illusoria», poiché rinvia alla semplicistica «relazione legale», alla mera sovrastruttura di potere». Occorre, quindi, ancor prima di avviare un’analisi sulle cause dell’atteggiamento alienante dell’individuo sociale contemporaneo, riscoprire il significato reale dello Stato moderno, che è inseparabile dalle «penetrazioni delle alleanze economiche, religiose, di affinità, di sangue e locali dell’uomo». L’alienazione individuale e la conseguente domanda di comunità non sono altro che i sintomi del declino delle genuine comunità originato dallo Stato moderno, che ha esteso il suo potere fino a corrodere il tessuto delle piccole e vitali associazioni che hanno sempre rivestito il fondamentale ruolo di intermediazione tra lo Stato stesso e l’individuo.

La concentrazione del potere dello Stato e l’individualismo sono per Nisbet due facce della stessa medaglia; lo slogan «l’uomo contro lo Stato» inaugurato da Herbert Spencer, è una errata interpretazione della relazione tra l’individuo singolo, il quale è portatore di diritti, e lo Stato, di cui lo stesso individuo ha bisogno per vedersi assicurati i diritti. Individuo e Stato, per Nisbet, non sono affatto antitetici. Entrambi, semmai, si relazionano con un terzo elemento, la società, ossia quel miscuglio di associazioni e di piccole comunità che funge da mediatore tra le esperienze individuali, votate alla stabilità, e lo Stato. Nisbet trova una giustificazione semantica a questa tesi quando rileva che lo stesso termine sociale, coniato nel XIX secolo, «significava famiglia, villaggio, parrocchia, città, associazione di volontariato e classe, non Stato politico».5 Ciò significa che la società si situa su di un livello superiore rispetto allo Stato, poiché quest’ultimo, osserva Nisbet ricordando Tocqueville, è il prodotto di una cosciente deliberazione umana, mentre la società proviene direttamente da Dio.

Secondo Nisbet, il benessere di una società dipende dallo stato di salute delle istituzioni intermedie, ossia delle «comunità», termine che occorre rivalutare nel suo significato pluralistico. L’esperienza sovietica è un esempio di come al declino delle comunità sia corrisposto il declino dell’assetto politico. Per decenni, sotto l’incantesimo della filosofia marxista, i sovietici hanno denunciato le comunità intermedie della società civile come fonti del degrado umano, gerarchie illegittime e forme di tirannia sociale, costruendo una redimente comunità politica centralizzata. Storicamente, la prosperità delle nazioni è dipesa dal grado di eliminazione delle istituzioni intermedie. Quei Paesi dove le infrastrutture intermedie sono rimaste in piedi hanno conservato un ordine e una prosperità difficilmente rintracciabili in quelli dove sono state soppresse o indebolite.

La relazione tra l’uomo, la comunità e l’ambiente è, ad ogni modo, uno di quei problemi che è stato oggetto di riflessione da parte di generazioni e generazioni di pensatori. In larga misura questa relazione dipende dal sistema di autorità e funzione che esiste nella società in generale. Durante il Medioevo, quando l’autorità centralizzata non esisteva, le unità locali tendevano ad essere forti e ad assicurarsi la fedeltà dei loro membri. La caduta delle comunità medievali avvenne in larghissima parte come risultato della centralizzazione dell’autorità politica e dell’economia durante il Rinascimento e la Riforma. Dal momento che è stato sin qui difficile preservare l’eminenza delle piccole unità locali poiché la fedeltà degli individui si è consolidata progressivamente nei grandi stati nazionali, la questione della comunità nel mondo occidentale deve essere affrontata in termini di che cosa è storicamente accaduto alla struttura di potere e funzione nella società.

Il problema della comunità è anche un problema di valori. La diffusa enfasi storicamente posta sulla tecnica, il meccanicismo, la razionalizzazione dell’autorità, il monopolio dell’attività economica ha provocato un’avversione crescente nelle scienze sociali verso l’importanza dei valori umani. A prescindere da quella che è l’origine ultima dei valori umani, noi sappiamo che il loro nutrimento e la loro trasmissione di generazione in generazione dipende da piccoli gruppi in grado di fornire i mezzi dell’insegnamento e sufficientemente idonei ad assegnare un ruolo significativo alla coltivazione di valori come l’amore, l’onore e la fedeltà, che di certo non prosperano in ciò che Nisbet indica come «vuoto sociologico».

Secondo Nisbet, le associazioni umane non possiedono un significato maggiore di quelle che esistono nel mondo animale. E gli stessi valori non rimarranno a lungo importanti e ricchi di significato per gli esseri umani.6 A sostegno di questa tesi, Nisbet riporta un passo tratto dal libro di Susanne Langer, Philosophy in a New Key:7

La mente, come ogni altro organo, può trarre il suo sostentamento solo dal mondo ambiente: i nostri simboli metafisici debbono scaturire dalla realtà. Tale adattamento richiede sempre tempo, abitudine, tradizione e intima conoscenza del viver del mondo. Se, ora, il campo del nostro orientamento inconscio simbolico viene improvvisamente sconvolto da fortissimi mutamenti del mondo esterno e dell’ordine sociale, perdiamo la nostra presa su di esso, le nostre convinzioni e con esse i nostri fini effettivi. […] Tutti i vecchi simboli sono svaniti, e migliaia di vite medie non nuovi materiali a un’immaginazione creativa. Tutto ciò, più che bisogni fisici insoddisfatti, costituisce la morte per inedia che minaccia il lavoratore moderno: la tirannia della macchina. Il venir a mancare d’ogni mezzo naturale d’esprimere l’unità della vita personale è una delle principali cause della distrazione, dell’irreligiosità e dell’irrequietezza che marcano il proletario di tutti i Paesi.8

Il brano appena riportato si inserisce in un contesto argomentativo in cui la Langer è intenta a far luce sulle due «grandi minacce» alla sicurezza psichica: la nuova modalità di vita «che ha reso alieni alla nostra mente tutti i vecchi simboli della natura», e la nuova modalità del lavoro, «che rende insignificante e inaccettabile l’attività personale». La maggior parte degli uomini non vede mai il prodotto del suo lavoro, immersa com’è, nelle catene di montaggio dove si avvita un milione di viti identiche, in un’attività vuota e povera «anche per la mente meno ingegnosa perché essa la possa investire di contenuto simbolico». La maggior parte degli uomini non ha casa «e addirittura neppure un ricordo che possa adattarsi all’uopo»; non conosce più la lingua materna. Il progresso della tecnica compromette la «libertà psichica» dell’uomo:

In tempi come questo — scrive Langer in una delle pagine più significative del suo libro — la gente si esalta per qualsiasi convinzione generale o ideale, quale che essa sia: zampillano innumerevoli religioni ibride, misteriche, cause, ideologie, tutte appassionatamente abbracciate e malamente argomentate. Una vaga nostalgia per l’antica unità tribale fa sembrar salvezza il nazionalismo e fa insorgere i più fantastici scoppi di sciovinismo e autogiustificazionismo, le più selvagge leggende antropologiche e storiche, la deprecazione e la distorsione della dottrina, e, in luogo di sermoni ortodossi, quella proposta sistematica di lasche e crude idee che la nostra epoca conosce come «propaganda». Nel nostro mondo vi sono comitati e ministeri della propaganda come in quello dei nostri padri v’erano missioni evangeliche e società di allerta spirituale. Non c’è da stupirsi che i filosofi che contemplano questo pandemonio di autoasserzione, autogiustificazione e fantasticheria sociale e politica, lo considerano come una reazione all’Età della Ragione. Dopo secoli di scienza e progresso, concludono essi, il pendolo oscilla dall’altro verso; le forze irrazionali della nostra natura animale debbon tenere il loro sabba stregonesco.9

Per Nisbet non è affatto una stranezza che al tempo d’oggi, nel comportamento pratico come anche nella filosofia e nella letteratura, noi ci troviamo di fronte all’evidenza della dislocazione del valore morale cui fa riferimento la Langer. I vasti cambiamenti nel governo, nell’economia e nella tecnologia hanno avuto un impatto sorprendente sulle relazioni sociali degli uomini. Nel XVIII secolo il problema centrale dei filosofi era il problema dell’autorità, da cui derivò la teoria e la giurisprudenza del moderno Stato/Nazione. Nel XIX secolo la questione più dibattuta era di tipo economico, e nelle opere dei grandi economisti di quel secolo c’era la creazione degli schemi del mondo industriale a cui noi tutti apparteniamo. Nel XX secolo il problema sociale e morale è divenuto predominante per via dei profondi cambiamenti che si sono verificati nello Stato e nell’economia. A margine di tutto ciò è lecito chiedersi: quali sono le privazioni che inducono, in quest’epoca di abbondanza economica e di benessere politico, alla domanda di sicurezza e di comunità? Per Nisbet sono quelle che si esplicitano nel regno delle piccole, primarie relazioni personali della società, quelle relazioni intermedie tra l’uomo e il vasto mondo dei valori economici, morali, politici e religiosi che, in Italia, Adriano Olivetti, già negli anni ’40, chiamava, mostrandone pragmaticamente la necessità, «diaframma umano fra individuo e Stato».10

Dietro il dilagante senso di insicurezza e alienazione della società occidentale, dietro tutte le preoccupazioni popolari ed accademiche per il problema della comunità, si sviluppa la percezione che le relazioni tradizionali primarie dell’uomo sono diventate, in alcune aree, funzionalmente irrilevanti per le più larghe istituzioni sociali, e a volte prive di significato per le aspirazioni morali degli individui. Secondo Nisbet, il graduale processo di deterioramento della comunità è il frutto di una ben individuabile visione della società: il «monismo sociale». Sfoggiando le sue qualità di storico della filosofia politica, egli prende in esame quelli che considera gli archetipi delle moderne «teorie monistiche della sovranità», e cioè le opere di Hobbes e Rousseau. Le teorie contrattualistiche di Hobbes e Rousseau, i primi «agenti catalizzatori» del pensiero politico moderno, si rivelano un misto di «nichilismo sociale» e «affermazione politica» (affermazione intesa come «essere non forza, non repressione ma giustizia, libertà e tranquillità per l’individuo»)11 e sono nemiche di qualsiasi «società parziale».

Quella di Hobbes è, secondo Nisbet, una visione «asociale» della natura umana. Le sue affermazioni sull’uomo come essere naturale perseguono l’obiettivo di isolare le passioni elementari, le pulsioni istintive, i desideri dalla vita sociale. Dalla sua analisi risolutiva delle passioni, descritte nei primi dodici capitoli del Leviatano, Hobbes deduce, nel capitolo 13, ciò che chiama la «condizione naturale», priva delle influenze della civilizzazione. Nel resto dell’opera è utilizzato il metodo «compositivo», con cui Hobbes analizza la «comunità indipendente» (commonwealth) o società politica, rimedio essenziale agli inconvenienti della condizione naturale della vita umana, che è «solitaria, povera, bruta e breve». Cosa motiva gli esseri umani nei loro appetiti e nelle loro avversioni? Nessun sommo bene. Niente, per Hobbes, è intrinsecamente bene o male: gli oggetti di desiderio sono il «bene»; gli oggetti di avversione sono il «male». La capacità di frenare appetiti o desideri è da Hobbes chiamata «potere»: una generale inclinazione di tutti gli uomini, un perpetuo e incessante desiderio di potere e ancora potere, che cessa solo con la morte. Desideri e avversioni conducono allo stato di guerra perpetuo dell’uomo contro l’uomo. Se due uomini desiderano la stessa cosa, di cui non possono fruire insieme, essi diventano nemici. Il «contratto sociale», come è noto, è il traguardo in cui gli individui trasferiscono i loro poteri naturali a una sovranità assoluta. Secondo il «nichilismo sociale» di Hobbes non esiste nessuna associazione umana nella natura. Le associazioni extra-politiche sono ristrette nella società poltica. Nel potere monolitico creato da Hobbes poco spazio rimane a gruppi e associazioni, descritte come «aree che fomentano il dissenso, il conflitto con le esigenze dello Stato unitario e che non coltivano il rafforzamento dell’ordine e della giustizia». Hobbes paragona le associazioni interne allo Stato a «vermi nelle viscere dell’uomo». Nel corpo della comunità indipendente, le associazioni «provocano una infiammazione, accompagnata dalla febbre e da fitte dolorose».12 Hobbes diffida delle università e delle altre istituzioni educative poiché «non vanno a profitto dell’unità dello Stato». La famiglia non è, per Hobbes, un gruppo naturale. Nello stato di natura i padri abbandonavano il gruppo subito dopo aver copulato, mentre le madri avevano un dominio assoluto sui figli. La società coniugale si mantiene solo sulla forza della legge matrimoniale della società politica, in cui la famiglia non ha alcuno scopo se non quello della procreazione. Hobbes non concepisce la famiglia come la fonte della natura morale dell’uomo o come il modello di ogni forma di associazione. «Nel sistema di pensiero dell’Hobbes — scrive Nisbet — ogni cosa proviene dagli individui atomistici, dai loro istinti, dalla loro ragione e dai loro accordi contrattuali». Hobbes sottopone l’autorità familiare allo stretto controllo dello Stato, sull’esempio di ciò che i giuristi precedenti avevano fatto per le corporazioni economiche ed ecclesiastiche: «individualizzarla con la finzione di un contratto perpetuo». La solidarietà tipica del gruppo familiare non proviene, per Hobbes, dalla consuetudine o anche dalla legge divina ma solo da un «accordo volontario, sia esplicito che implicito», per cui il contratto è il «cemento» della famiglia. Quanto alla Chiesa, Nisbet ricorda che di tutte le associazioni umane è proprio la Chiesa quella che Hobbes teme di più: «In virtù della sua presa tenace sulle lealtà spirituali dell’uomo, la Chiesa rappresenterà sempre nella Commonwealth una forza disgregatrice, a meno che non venga strettamente subordinata al potere politico».13

Nella concezione hobbesiana dello Stato, in altri termini, non vi è più traccia dell’immagine medievale della società, che in qualche modo era sopravvisuta in un Bodin, figura di transizione tra la vecchia e la nuova visione della politica che concepiva le associazioni come gruppi sociali che poggiano sulla reciproca amicizia (amicitia) e sulla mutua responsabilità, contrariamente allo Stato che invece poggia sulla forza. «In Hobbes — scrive Nisbet — è scomparso il combattuto attaccamento per le associazioni basate sulla località, l’interesse e la fede. Ed è pure scomparsa la venerazione profonda per la parentela, l’inviolabilità del focolare domestico, l’autorità imprescrittibile del capo famiglia». Hobbes, in altri termini, non permette né alla famiglia, né alla Chiesa e né ad alcun altro sistema di autorità di intervenire in maniera significativa tra l’individuo e il potere assoluto dello Stato.

Se è vero che Hobbes opera, con riguardo alla considerazione della comunità, un distacco netto dal passato, è altrettanto vero che Rousseau non ha, in relazione al tema della comunità, ripreso o rielaborato concetti ed espressioni tipiche dell’epoca medievale. Secondo Nisbet, l’enfasi posta da Rousseau sulla comunità è stata spesso interpretata, nella storia della critica, come una sorta di riviviscenza di un concetto scomparso con il Medioevo che, a ben vedere, è del tutto estranea alla concezione del filosofo francese. In The Quest for Community, l’autore americano riconosce che le idee di Rousseau «compongono uno dei sistemi di pensiero più logicamente articolati della storia della teoria politica»,14 ma sottolinea che la base fondamentale di questo sistema è che non esiste moralità, né libertà e né comunità se non nell’ambito della struttura dello Stato, che è il mezzo per liberare l’uomo dalle incertezze spirituali e dalle ipocrisie della società tradizionale. I vincoli tradizionali della società, i rapporti che generalmente vengono chiamati sociali, «sono legami che per il Rousseau simboleggiano le catene dell’esistenza» da cui egli desidera emancipare l’individuo. Dopo aver ricordato che secondo il Rousseau del Contratto Sociale è indispensabile, in ordine ai dissidi che si producono nella società, «un assoluto abbandono dell’individuo, con tutti i suoi diritti e con tutti i suoi poteri, alla comunità», Nisbet sottolinea che la «mistica solidarietà» di Rousseau non è la solidarietà della comunità che esiste per costume e legge non scritta, ma è quella della comunità sociale. «La comunità sociale — scrive Nisbet — quale esisteva nel pensiero di Tommaso d’Aquino o, più tardi, nella teoria di Althusius, è una comunità di comunità, un insieme di gruppi minori moralmente integrati. La solidarietà di questa comunità sorge dalle osservanze morali e sociali dei gruppi minori. La sua unità non le viene dal fatto di essere permeata da una legge sovrana, la quale, partendo dal vertice, si estende a tutti i componenti individuali della struttura. Tuttavia, quella del Rousseau è una comunità politica che non si distingue dallo Stato e che ne condivide tutte le qualità livellatrici».15 È una «unità morale» conferita dalla volontà sovrana dello Stato e diretta dal governo politico. Per indicare la struttura unitaria della comunità politica Rousseau si serve della nota analogia organica: «La stessa centralità di comando del corpo umano deve dominare la struttura della comunità; l’unità è conferita dal cervello, che nell’analogia del Rousseau rappresenta il potere sovrano. La Volontà Generale è l’equivalente della mente umana, e come tale deve rimanere unificata».16 La centralizzazione del controllo che nel corpo umano è esercitata dal cervello, nella struttura della comunità, per analogia, è esercitata dal potere sovrano. Per Rousseau, quindi, la volontà generale deve, al pari della mente umana, rimanere unificata e invariata. E su queste premesse il filosofo francese costruisce il suo «monismo sociale». Per ottenere una sovranità che abbia gli attributi della unità e della indivisibilità è necessario, secondo Rousseau, che siano abrogate le lealtà tradizionali della società, poiché una Volontà Generale unificata è incompatibile con l’esistenza di associazioni minori: «La Volontà Generale è generale, altrimenti è nulla». Un’implicazione pratica di questa concezione è la considerazione che Rousseau ha della Chiesa: una istituzione ecclesiastica socialmente indipendente, al pari di ogni forma di lealtà non politica, rappresenta un’interferenza nel funzionamento della Volontà Generale, una imperfezione nell’unità spirituale dell’ordine politico. «Nel pensiero del Rousseau — scrive Nisbet — lo Stato è l’unica sfera di liberazione dalle tirannidi della società. […] L’individuo ripudia le lealtà sociali della società tradizionale, cede allo Stato i diritti di associazione che sono le basi della religione, della famiglia e della comunità, e nel fare questo diventa per la prima volta libero».17

Rousseau, secondo Nisbet, ha fortemente contribuito all’affermazione del valore assoluto della ragione sovrana. Quando i principi basilari del liberalismo moderno venivano formulati da autori come Locke, Montesquieu, Adam Smith e Jefferson, l’immagine dell’uomo, illuminato dalla mente filosofica, era un’immagine costruita su tratti caratterizzanti come la ragione sovrana, la stabilità, la sicurezza, e su robustissime motivazioni nei riguardi della libertà e dell’ordine. L’uomo era concepito astrattamente come essere autosufficiente, fornito di istinto e ragione, che lo rendono autonomo. La filosofia dell’individualismo, col passare del tempo, diventa una psicologia razionalista devota allo scopo dell’emancipazione dell’uomo da vecchi retaggi e lealtà, e diventa anche una visione della società basata sulla tesi di fondo che i gruppi e le istituzioni sono meri riflessi del solido e indelebile essere individuale. Con specifico riguardo a John Locke, il padre del liberalismo classico, Nisbet sostiene che benché avrebbe potuto esaltare maggiormente i diritti individuali, egli rese comunque possibile il sistema successivo. In molti sensi Locke è un pensatore «derivativo», nel senso che fu Hobbes il suo maestro in tutti i campi. Gli esseri umani sussistevano prima dell’emergenza dello Stato. La condizione originaria non era di guerra di tutti contro tutti, come immginava Hobbes, ma una guerra di homines contra homines, di alcuni contro alcuni. La società politica è la soluzione umana, e non naturale, ai problemi di parzialità innata e di conflitto sulla proprietà accumulata. Ma sia nelle società politiche che in quelle naturali primitive l’obbligazione comunitaria è naturalmente limitata. I liberalisti classici distinguevano tra due regni: comune e privato, pubblico e commerciale. Questi due regni si basano su principi molto differenti. Se il regno privato riguarda pochi intimi, il regno pubblico attiene ad un auto-interesse che è indifferente alle qualità dei più forti. Se il regno privato è intimamente legato agli originari sentimenti naturali di benevolenza, il regno pubblico dipende dalla giustizia universale sostenuta dalla ragione utilitaristica. Se nel regno privato le nostre relazioni stanno al di là di contratti e leggi codificate, nel regno pubblico i nostri rapporti e legami sociali sono contrattuali e governati da leggi. E se il regno privato o comunitario è costruito sull’accumulo di eccezionali atti di benevolenza, la giustizia universale poggia sistematicamente su relazioni pubbliche.

Nisbet, nei suoi scritti, mostra una particolare predilezione per la visione della società civile dei moralisti scozzesi (Adam Smith compreso) e soprattutto di Montesquieu, il quale aveva visto nei corpi intermedi — ceti, corporazioni, chiese e comunità locali — un argine contro la degenerazione della monarchia in dispotismo. Montesquieu concepiva la storia della società civile come una transizione da piccole, omogenee comunità a larghe, pluralistiche nazioni. La natura umana è uniforme ma le nostre passioni e i nostri interessi sono incanalati da istituzioni e circostanze differenti. Le piccole comunità — quelle tribali o quelle delle città-Stato — si basano sulla sottomissione dell’individuo al bene della totalità. Hume cercava di organizzare stati-nazione sui principi di virtù perfetta e sulla «comunione di beni» che conduce alla «totale dissoluzione della società». Mentre le differenze individuali e sociali causano disordine nelle piccole comunità, le stesse incoraggiano la pace e l’ordine nelle grandi nazioni. Quindi, piuttosto che cercare di eliminare le differenze sociali occorre incoraggiarle, cosicché nessun singolo gruppo possa dominare sugli altri. Politicamente ciò vuol dire ripartizione del potere, per dirla con Montesquieu; culturalmente ciò vuol dire pluralismo sociale, che concretamente significa presenza differenziata di gruppi «secondari» e «intermedi», in una parola di comunità sottoposte a un «regime», se così si può dire, di «tolleranza istituzionalizzata».

Secondo Nisbet, all’affermazione di queste comunità (o gruppi intermedi) non ha seguito, nel corso dei secoli, il parallelo processo di affermazione dello Stato. Con l’apparizione delle teorie di Hobbes e Rousseau, al progressivo sviluppo delle funzioni dello Stato in senso giacobino-rousseauiano, hegeliano e marxista è mancato il corrispondente sviluppo della comunità autentica, basata sui cosiddetti «rapporti primari». La comunità politica è diventata una «comunità assoluta, centralizzata e onnicompetente» che non dà tregua alle autonomie e alle «immunità» che sono le fonti della capacità di libertà e di organizzazione. Anche quei gruppi (professionali, sindacali o di altro tipo) che oggi sono attivi nel quadro dello Stato centralizzante sono minacciati dal pericolo della «morte culturale e sociale». Scrive a tal proposito Nisbet: «L’errore sta nella comune incapacità di combinare i vasti scopi delle associazioni con i piccoli, spontanei rapporti che le compongono. Il sindacato, l’associazione dei medici o degli avvocati, le chiese diventeranno centralizzate e remote quanto lo Stato nazionale stesso, a meno che queste grandi associazioni non si radichino nei rapporti minori (smaller relationship) che danno significato alle loro finalità».18

«Per la comunità perduta, per la comunità da riconquistare». È questa la preoccupazione «diffusa in molte sfere del pensiero e dell’azione» nel mondo occidentale contemporaneo. La crisi della società odierna è legata alla perdita della base di «esperienza umana concreta» che si esprime nel piccolo gruppo spontaneo e che dà l’opportunità all’individuo di autosvilupparsi e soprattutto di non trovarsi disarmato di fronte al potere centrale.

La concezione dell’individuo — scrive F. Ferrarotti nella sua introduzione all’edizione italiana di The Quest for Community — come realtà auto-sufficiente e puntiforme, che ha in sé la propria stabilità, le ragioni e i mezzi per realizzare il proprio destino, tipica del razionalismo dei philosophes, dei giacobini e del darwinismo di marca spenceriana, trova qui la sua radicale diffida. Alla perdita del contatto diretto fra le maglie della impersonale mediazione burocratica, che con il loro artificioso infittirsi stanno a segnare sia il declino della comunità tradizionale che la fiducia nei poteri organizzativi automatici del processo storico, il Nisbet fa succedere l’ideologia democratica di ispirazione giacobina — ispirazione che vede operare in profondità anche nel razionalismo marxistico — e la comunità politica assoluta, che la incarna, ossia lo Stato nazionale monolitico, fondato sul consenso unitario del popolo.19

La domanda di comunità trova oggi validità se si approfondisce il concetto stesso di comunità, ad iniziare dalla rivisitazione della celebre antitesi elaborata, verso la fine del XIX secolo, da F. Tönnies e da cui si diramano le diverse interpretazioni che conducono fino al comunitarismo statunitense degli anni ’70 del ’900, che senz’altro deve alcune delle sue premesse alla visione proposta in netto anticipo dal Nisbet. Benché sia stato lo stesso Tönnies ad ammettere che le categorie della Gesellschaft (Società) e della Gemeinschaft (Comunità) hanno solo un valore ideale, «segnaletico», appare indubbio che il concetto di comunità è in realtà assai più complesso del significato del termine Gemeinschaft, che rinvia a quei rapporti individuali che hanno una validità intrinseca e sono motivati da valori comuni (mentre nella società, secondo Tönnies, sono stabiliti in vista di uno scopo esterno e hanno quindi una natura utilitaria). Come fa notare Ferrarotti, il concetto di comunità, specialmente nei paesi anglosassoni, «non può prescindere dal principio territoriale, ossia da un’area geograficamente definita, occupata da persone aventi un certo grado di uniformità culturale, di interrelazione nelle attività economiche e di autonomia nella regolamentazione della loro vita pubblica».20

Punto di partenza necessario nella ricerca del legame comunitario è, secondo Nisbet, la riproposizione della comunità nella sua valenza pluralistica, ad iniziare dall’utilizzo del termine al plurale (le comunità) e non al singolare (la comunità). Nisbet, a più riprese, tiene a precisare che non vi è nulla di nostalgico, di mistico o di romantico nel riferimento alle comunità medievali e che il termine «comunità» non si riferisce né a un «patto d’amore» e né a un diretto, immediato senso di «insiemezza» o «appartenenza». Al contrario, nessuna autentica, duratura e autorevole comunità è mai nata da questi sentimenti.21 Ogni singola comunità non solo include caratteristiche spirituali o intellettuali invisibili, ma anche «visibili legami, rituali, statuti e norme di gerarchia e autorità, che stabiliscono limite e anche forza a ciò che è spiritualmente o intellettualmente contenuto nella comunità».22 Per Nisbet le comunità sono reali, sostanziali e prontamente identificabili, e sebbene qualcuno ascirivi ad esse qualità cosmiche o persino talismaniche, queste forme primarie e spontanee della società sono soprattutto gruppi di uomini. In The Quest for Community è scritto: «Supporre che la famiglia del nostro tempo, o qualsiasi altro gruppo, in assenza di funzioni concrete e sentite, possa perpetuarsi per mezzo di qualche insito legame affettivo, è come supporre che i legami camerateschi di aiuto reciproco che nascono incidentalmente in una unità militare possano sopravvivere a lungo in una condizione dalla quale la guerra sia chiaramente e irrevocabilmente bandita».23 Come dice Nisbet citando Ortega y Gasset, «la gente non vive insieme solo per essere insieme. Vive insieme per fare qualcosa insieme».24 L’esperienza del «fare insieme» è connaturata all’essere sociale dell’uomo, cui deve necessariamente corrispondere una lettura comunitarista e pluralista delle sue vicende e dei suoi propositi di vita. Le associazioni intermedie fra individuo e Stato (i sindacati, le cooperative, le università, i circoli ricreativi e culturali, i centri comunitari e sociali) se private della loro autonomia finiscono per essere assorbite nella struttura dello Stato oppure rischiano di andare distrutte. La libertà, quindi, è innanzitutto libertà di associazione e di vivere i legami comunitari in modo autonomo. In tali condizioni, la libertà acquista, per Nisbet, un significato nuovo poiché diventa «libertà di fare ciò che lo Stato nella sua onniscienza stabilisce».25

Ciò che maggiormente contraddistingue il comunitarismo nisbetiano è lo sforzo di costruire la «tipicizzazione» della comunità, ossia la struttura caratteristica della comunità. Nisbet individua i caratteri distintivi propri di una comunità nella funzione, il dogma, l’autorità, la gerarchia, la solidarietà, l’onore e il senso di superiorità.26

Ogni comunità è costruita intorno a una determinata funzione, che può essere nobile o non nobile, frivola o profonda. La comunità è libera, non trova restrizioni e impedimenti nello sforzo di raggiungere i propri scopi. Un’autonomia perfetta probabilmente non è né possibile e né desiderabile, ma le funzioni delle comunità vengono meglio realizzate in assenza di intrusioni dall’esterno. Ciò non significa che le funzioni delle comunità siano immutabili. Esse possono anzi cambiare nel corso del tempo e spesso sono motivo di conflitto dentro e tra le comunità.27 Ma la sola funzione non basta a che una comunità possa sopravvivere. La funzione deve «sembrare buona», deve cioè essere trasformata in credenza. Pertanto una comunità è tale se possiede un certo proposito trascendente, un ideale, un dogma. I dogmi possono essere buoni o cattivi ma sono sempre profondamente costruiti. L’individuo non può dimostrare tutte le verità importanti, gli serve la fede nell’azione. La persona meramente razionale, calcolatrice non può mai essere stimolata ad agire in una comunità. La decisione di sposarsi e di mettere al mondo dei bambini non è, per esempio, un calcolo razionale. Da qui il bisogno di dogmi. La comunità, inoltre, è caratterizzata dall’autorità, non dal potere. L’autorità comunitaria, sia essa in famiglia, nel monastero o nell’università, poggia su una manifestazione di consenso. L’autorità deriva dall’abitudine, dall’uso, dal costume, non da qualche esplicita convenzione. Il potere è esterno, basato sulla forza e impone l’obbedienza forzata o la complicità di altri alla volontà di una o più persone in modo non derivante dagli statuti dell’aggregato. Quindi il potere tende ad essere monistico e indiscriminato, con effetti uniformi, poiché l’autorità per sua natura è pluralistica, con effetti multiformi. Il potere emerge solo quando l’autorità è abbattuta. Una comunità è anche gerarchia. Si è membri di una comunità come padre, madre, prete, soldato, studente o professore, ed è impossibile schierare questi ruoli in una linea di uguaglianza. «Non esiste alcuna forma di comunità senza una qualche forma di stratificazione di funzione e ruolo. Dovunque due o più persone si associano, c’è l’obbligo di assumere una certa forma di gerarchia».28 Ma la comunità è anche solidale: «In una comunità — scrive Nisbet — è pressoché istintivo per i membri dire «noi». E si possono tracciare le fasi di dissoluzione di una comunità nel crescente numero di esempi in cui è più piacevole dire «Io» anziché «Noi»».29 L’identità, in una comunità, è largamente corporativa, e la comunità, come totalità, ha una «superiorità normativa» su ognuno dei suoi membri. Tale identità è possibile a seconda dell’intensità con cui un individuo avverte un senso di obbedienza al suo ruolo e non alla comunità. Un’autentica comunità, inoltre, possiede un forte senso dell’onore, ben distinto dagli interessi utilitaristici e pecuniari. Le comunità cercano di subordinare questi interessi all’onore. «Nella comunità di sangue, la parentela non può essere tassata come se fosse un interesse materiale o pecunario […]. E nella comunità tradizionale degli studenti, nell’università, ci si vanta dell’indifferenza al materiale o agli interessi in dollari messi in moto dagli uomini di affari».30 Infine, una comunità ha bisogno di mantenersi distante dal mondo circostante, mostrando un senso di superiorità. Le comunità sono nel mondo ma si considerano come se non vi fossero. Ciò è fortemente avvertito sia tra le piccole che tra le grandi comunità, «sia tra le associazioni a delinquere che tra le corporazioni». Per gran parte della storia, le comunità, non gli individui, furono le unità irriducibili della società. Nel Medioevo, ad esempio, l’onore, il privilegio, la libertà appartenevano alle comunità, non agli individui. L’identità di ognuno era comunitaria. La legge e l’economia medievali sono semplicemente inconcepibili se ci si attiene alle moderne concezioni dell’individualismo e dal contrattualismo. Il gruppo era un «gruppo primario». Nelle famiglie patriarcali, le tasse erano imposte a carico della famiglia non dell’individuo, così come anche gli onori. Nella solidarietà corporativa stava il motivo di quasi tutte le decisioni riguardanti l’individuo — la sua occupazione, lo stato sociale, il matrimonio e l’educazione dei bambini. Similarmente, l’agricoltura era essenzialmente comunitaria, e la città medievale era essa stessa un’associazione chiusa. Le città erano, althusianamente, «associazioni di associazioni». In esse vivevano innumerevoli comunità, piccole associazioni di mutuo soccorso, corporazioni di fede religiosa e responsabilità politica.

Nella mentalità contemporanea gli attributi essenziali della comunità, individuati da un autore originale come Nisbet, vengono spesso percepiti come qualità negative. Le stesse comunità sono spesso considerate, a seconda dei punti di vista, come gruppi particolaristici, parrocchiali, esclusivi, autoritari, arroganti, intolleranti e egalitarie. Dalla lezione di Nisbet apprendiamo che la misura del declino delle comunità è perfettamente uguale a quella dell’emancipazione dell’individuo e che la dissoluzione della comunità è stata sino ad oggi proporzionale alla crescita dell’individuo. Un risultato, questo, su cui la sociologia, la politica e la filosofia contemporanee sono chiamate ad interrogarsi per far fronte, come ha recentemente scritto Valentina Paze’, allo «sradicamento dell’individuo moderno, indifeso di fronte al potere statale, ormai pienamente sovrano, e allo scatenarsi delle dinamiche impersonali del capitalismo».31

2. Russell Kirk: la comunità autentica e i suoi nemici

Ordine, tradizione, autorità, diversità, localismo e gerarchia. Più o meno le stesse di quelle tracciate da Nisbet sono le precondizioni necessarie di una comunità viste da un altro autore americano del Novecento: Russell Amos Kirk,32 «uomo di lettere indipendente», come amava definirsi, unanimemente riconosciuto come il più autorevole interprete, in chiave soprattutto politica, della tradizione anti-illuministica americana.

In linea con la visione nisbetiana dello spettro dell’insicurezza e dell’alienazione che accompagnano i comportamenti degli individui nella società contemporanea e che sono la diretta conseguenza della perdita della comunità, Kirk sostiene che «quando gli uomini si emancipano dai legami tradizionali che li vincolano alla famiglia, alla chiesa, alle associazioni di volontariato e a tutti quei gruppi sociali che danno significato e proposito alla loro vita, diventano ansiosi, frustrati, soli e vulnerabili». Un sempre più diffuso anonimato segna il passo dell’umanità moderna che, smarrita, torna alla ricerca della comunità, di quella «autentica comunità» che è l’unione degli uomini per mezzo dell’amore e dell’interesse per il benessere comune, un’unione che è nata quando è nato l’uomo e che pertanto è connaturata all’essere umano, come ci ha insegnato Aristotele.

Nella sua analisi sulla comunità, Kirk parte dalla celebre definizione aristotelica dell’uomo come «animale sociale». L’uomo, per il filosofo di Stagira, desidera la compagnia dei suoi simili per il duplice scopo della sopravvivenza e dell’amicizia.

È evidente — è scritto in un passo della Politica di Aristotele — e che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestia o dio.33

Un dio onnipotente non ha bisogno degli altri per sopravvivere mentre le bestie si servono solo del proprio istinto di sopravvivenza. Al contrario, l’uomo dipende dai suoi simili per vestirsi, cibarsi, rifugiarsi e proteggersi. Fuori dalla compagnia degli altri, noi saremmo incapaci di elevarci dallo stato selvaggio e sviluppare pienamente il nostro potenziale come esseri umani.34 Tra gli scopi della comunità c’è, per Aristotele, quello della formazione della personalità inculcata dalle abitudini morali: noi siamo abituati alla auto-disciplina morale conformandoci alle leggi e ai costumi della società.35 La comunità, nella sua forma più alta, è un’associazione di persone unite dal comune accordo sulle norme etiche. I membri di una comunità, per ovvie ragioni pratiche, non ultima quella di ritrovarsi a vivere in un continuo timore di ricevere danni da parte degli altri, devono trovarsi d’accordo su di un codice giuridico di base. Anche in una banda di ladri, per usare un famoso esempio di Cicerone, esiste un codice da rispettare. Mentre i ladri praticano la loro villania sugli altri, essi non ruberebbero mai a una persona che appartiene alla loro stessa associazione poiché, come minimo, sarebbero immediatamente espulsi perché ritenuti indegni di fare parte di una società di ladri, e potrebbe lo stesso capo non distribuire il bottino in accordo alle misure di giustizia e onestà; egli potrebbe anche essere ucciso o isolato dalla compagnia.36 Una comunità autentica, quindi, può essere definita come un’associazione di persone unite dalla giustizia, guidate da norme che trascendono i semplici interessi materiali e i cui scopi egoistici sono temperati dall’interesse per il bene comune. Incarnate nelle leggi fondamentali della società, le norme morali rappresentano un elemento imprescindibile nell’esistenza sociale che unisce le persone nella comunità a prescindere dalla loro differenziazione sociale, che pure deve esistere, come osservava Aristotele. Egli infatti definiva la polis, la comunità politica greca, come un’entità composta di differenti tipi di uomini, poiché i simili non possono farla nascere. Poiché nessun individuo singolo è omnisciente o omnicompetente, la polis è «composta di differenti membri che si scambiano mutuamente diversi servigi in virtù di differenti capacità». Questo scambio di beni e servizi fra i membri della polis consente al collettivo di raggiungere un alto livello di autosufficienza. Il controllo sulle conseguenze distruttive del conflitto sociale e sull’inclinazione verso comportamenti arbitrari è affidato dalla polis alla costituzione e alla intensificazione delle possibilità della cooperazione sociale.37

La diversità che primeggiava nella riflessione aristotelica e di cui è ricca la società americana è, per Kirk, motivo di lode, poiché è garanzia di libertà e individualità. Kirk si oppone fortemente alle pressioni politiche e culturali tendenti a soppiantare la struttura federale del governo con una «democrazia plebiscitaria» centralizzata e rivaluta la proliferazione dei gruppi autonomi locali come barriera contro l’intrusione del governo centrale nelle libertà locali. Definisce la democrazia plebiscitaria come «l’infatuazione per un popolo astratto, infallibile» e come la «concentrazione del potere popolare in un governo assoluto, centralizzato».38 L’associazionismo spontaneo, le legalità naturali, le comunità locali non rappresentano un problema per la pubblica amministrazione ma un indispensabile aiuto allo sviluppo morale umano. Quanti si oppongono alla formazione e alla vita di tali gruppi attribuiscono ai legami che li caratterizzano il pericolo della diluizione del potere dell’autorità centralizzata dal momento che i membri delle comunità sono orientati a adottare la prospettiva del gruppo a cui sono legate piuttosto che la totalità della collettività. Le associazioni, quindi, vengono condannate e viste come barriere alla cooperazione e all’unità collettiva. Una volta spogliatisi delle piccole associazioni locali, i collettivisti esaltano il popolo come una massa indifferenziata che diventerà interamente rispondente agli interessi collettivi della società. La comunità delle associazioni di volontariato e i rapporti di vicinato sono «detestati dai riformatori sociali del nostro secolo — afferma Kirk — che vorrebbero vedere la società costretta in un singolo, rigido modello caratterizzato dall’amministrazione centrale, regolato attraverso un decreto di esecuzione, uniformità di vita e sradicamento da ogni diversità locale e personale». Le persone trovano la loro identità e lo scopo della loro vita nelle relazioni di gruppo. La recente esperienza storica non è stata incoraggiante per i riformatori sociali che hanno anticipato le conseguenze benefiche della sottrazione dell’individuo dal gruppo di appartenenza. L’allontanamento dell’individuo dai tradizionali vincoli di classe, religione, parentela lo ha reso libero ma non gli ha dato quel senso di liberazione creativa e gli ha provocato un senso di disincanto e alienazione.

Kirk ammira il regime aristotelico, «il migliore praticabile». Lo Stato aristotelico si fondava su interessi e affezioni comunitarie. La «comunità dell’amicizia» evocata da Aristotele è diventato un ideale tipico della società americana, sin dagli inizi della sua genesi; la riconciliazione di interessi e di classi furono un obiettivo cosciente dei padri fondatori americani. L’elogio di Aristotele delle classi medie fu oggetto di approvazione della società americana originaria, poiché i piccoli agricoltori indipendenti erano la maggior parte della popolazione. E l’idea di bilanciamento politico e sociale «espressa da Aristotele, Polibio e Plutarco, venne direttamente incorporata nella costituzione americana».39 Il concetto aristotelico della distribuzione della giustizia è un elemento imprescindibile nella vita di un’autentica comunità. In base a questo principio, quei cittadini che contribuiscono al bene della polis riceveranno in misura proporzionale una parte di riguardi e onori. Il merito personale e la contribuzione al benessere della comunità hanno diritto a un premio. La comunità richiede uno speciale orientamento all’armonizzazione tra i desideri dei simili. La giustizia retributiva gratifica quelli che esercitano il loro autocontrollo mentre punisce quelli che vorrebbero perseguire vantaggi per gli interessi loro propri o per quelli del loro gruppo, a detrimento di altri.

Se una comunità è un’associazione di persone volontariamente unite da affetti ed interessi, allora l’autoindulgenza e gli impulsi egoistici ne causeranno la distruzione. Questo, dice Kirk, è precisamente la situazione attuale. Al giorno d’oggi la comunità è terribilmente afflitta da rotture ideologiche e sociologiche. Di conseguenza, il «problema morale dominante del nostro tempo» è la perdita di comunità. Kirk attribuisce questo decadimento a tre cause interconnesse: l’industrializzazione, l’urbanizzazione e la noia sociale.

L’industrializzazione di massa ha dato al mondo moderno un grado di conforto e di ricchezza materiali del tutto sconosciuti in precedenza. Ma ha anche contribuito alla «distruzione rivoluzionaria della società tradizionale». Kirk accusa la rapida innovazione tecnologica di avere sradicato le persone dalla comunità originaria. Con il trionfo della tecnologia, la «venerazione per l’insegnamento umanistico iniziò a diminuire tra gli uomini di affari, specialmente in America. La scienza applicata appariva come la chiave del potere, la possibile cura a tutti i mali dell’umanità; le teorie sociali raggruppate sotto l’etichetta del positivismo hanno causato l’apologia della «deificazione della tecnologia». Inoltre, l’industrializzazione di massa sradicò gli individui dalle comunità rurali, dove il senso della continuità del proposito prosperava meglio che nelle aree più urbanizzate dove essi diventarono membri «estirpati» del proletariato.

Per contrapporsi alla diffusione dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, Kirk raccomanda quello che si potrebbe definire l’abbraccio conservatore dall’agrarianismo: «Il conservatore — scrive in A Program for Conservaties — farà ogni cosa in suo potere per prevenire l’ulteriore diminuzione della nostra popolazione rurale, raccomanderà la decentralizzazione dell’industria e la deconcentrazione dalla popolazione, cercherà di mantenere quanti più uomini e donne possibili legati al mondo abituale e naturale in cui fiorisce la tradizione. Questa volontà non sarà una reazione artificiale al naturale processo di consolidazione sociale, perché la nostra intensa industrializzazione e urbanizzazione, dal tempo di Hamilton fino alla guerra in Korea, è il frutto di sistemi politici incoraggiati dallo Stato e dai governi nazionali e dalle grandi corporazioni. Se noi applicassimo molto meno della metà dell’energia e del pensiero alla preservazione della vita rurale e alla vecchia struttura della comunità come abbiamo fatto per la consolidazione sociale, potremmo essere meglio equilibrati in queste relazioni, come lo è la Svizzera».40

La noia, come fenomeno sociale, sopraggiunge quando sono ormai perse le motivazioni ultime dell’esistenza. Quando gli individui perdono di vista i loro ultimi propositi spirituali, ossia le loro obbligazioni verso Dio, verso la famiglia e verso la comunità, vanno all’inseguimento delle gratificazioni materiali e sensuali. La noia, «pigrizia dello spirito», è un vizio, e quella più mortale conduce al desiderio delle più proibite deviazioni. La noia sociale è una potente forza sociale distruttrice. Il trionfo della macchina è intimamente legato alla decadenza della varietà e dell’individualità tra le moderne masse. Come le società sono diventate più industrializzate i tradizionali modelli di vita e i legami familiari e comunitari da cui gli individui derivavano significato e scopo della propria esistenza si sono indeboliti e distrutti. La produzione di massa e la cultura della macchina hanno imposto alla mente umana la noia e l’apatia «probabilmente ineguagliabili con ogni altra precedente epoca di decadenza». L’uomo moderno, risultato del trionfo della macchina, «si è intossicato di movimento». Trascurando le sue responsabilità verso la famiglia, la chiesa e la comunità, «egli si dirige insaziabilmente verso sempre nuove sensazioni». Il mero edonismo, l’insaziabile ricerca di nuovi piaceri sensuali, diventano la norma. I piaceri per la vita contemplativa sono sconosciuti in un siffatto quadro. Siccome il pensiero comporta dolore, l’individuo si abbandona al «flusso della novità e della velocità».41

La più grande minaccia alla libertà è, per Kirk, il tramonto della comunità. Nel difendere questa posizione, egli si scaglia contro i libertarians, notoriamente convinti che, da sempre, la formidabile minaccia alla libertà individuale viene dallo Stato.42 Una sicura salvaguardia contro la possibilità della crescita continuata del potere dello Stato e la concomitante concentrazione della libertà individuale proibisce ogni funzione o potere dello Stato al di là del minimo necessario per la difesa e il mantenimento dell’ordine interno. Nella loro bramosia di espandere la libertà individuale, i libertarians, secondo Kirk, preparano involontariamente la strada allo Stato totalitario. L’individualismo atomistico che essi sposano insidia le istituzioni intermedie (famiglia, istituzioni locali, chiese, ecc.) che giocano un ruolo vitale come barriere contro l’invasione del potere dello Stato. Abolire «il tradizionale concetto di comunità e sostituirlo con un individualismo dottrinario […] è una crescente propensione della società verso il collettivismo. L’individualismo dottrinario non solo emancipa le persone dal controllo dello Stato ma anche reprime il costume, la tradizione e il ritrovarsi in associazioni locali».43 Le libertà economiche e personali dipendono dall’esistenza di questi gruppi autonomi. E non c’è mai stato un tempo in cui un sistema economico di successo sia poggiato su movimenti individualistici o su relazioni impersonali così apprezzate dai razionalisti. Sono sempre esistiti associazioni e incentivi alimentati da processi non economici di parentela, religione e varie altre forme di relazioni sociali. Un sistema improntato alla umana economia libera non ha ragione di esistere se si disgregano i bisogni di comunità.

Kirk afferma che l’assalto degli individualisti alla religione istituzionale, ai metodi economici alla vecchia maniera, all’autorità familiare, alle piccole comunità ha reso l’individuo libero da ogni cosa a lui vicina. Ma una siffatta libertà è un qualcosa di terrificante, è la libertà di un bimbo abbandonato dai genitori a fare ciò che vuole.

Il risultato — scrive Kirk — è l’indebolimento di tutti quei legami di gruppo che tradizionalmente soddisfavano il bisogno umano di sicurezza e socievolezza. Spogliati dalle associazioni locali, dall’atomismo sociale e dalle impersonalità economiche di larga scala, gli individui risultanti diventano impauriti, amareggiati e incapaci di guardare oltre il successo materiale. Ciò di cui si ha bisogno è una libertà più alta, solidamente agganciata a una comunità stabile, che rende libere le persone di raggiungere i loro ultimi traguardi spirituali e culturali.44

L’uomo comunitario, agganciato alla tradizione, è l’unico capace di battersi contro il Leviatano, l’ingombrante Stato/Nazione che riduce uomini e donne ad atomi sociali. Con riguardo alla kirkiana visione antisecolaristica della società contemporanea, Pio Colonnello e Pasquale Giustiniani, hanno scritto:

Rispetto a chi, come Hannah Arendt, riesce a vedere nella rivoluzione un «ritorno a sé», un «volgere daccapo», un «novus ordo» […] di virgiliana memoria, Kirk preferisce l’età dell’imperatore-filosofo, convinto che la grande linea di divisione nella politica antica e moderna non sia tra «totalitaristi» e «libertari utilitaristi», bensì tra coloro che credono in un ordine morale trascendente e quelli che invece considerano l’esistenza individuale come il fine di tutto. Chiunque creda nell’esistenza di uno stabile ordine morale, in cui ordine, giustizia e libertà sono i prodotti di una lunga e spesso dolorosa esperienza sociale da mettere al riparo dagli assalti del «radicalismo astratto»; chiunque difenda le consuetudini, gli usi, le istituzioni che, messe alla prova, hanno funzionato bene, e giudica qualunque misura pubblica in base alle sue conseguenze nel lungo termine, è per lui un benvenuto nel cammino della mentalità conservatrice.45

In conclusione, per opporsi all’atomismo sociale c’è bisogno di una mentalità che combini libertà e tradizione e che riconosca il valore della famiglia, della comunità locale, delle unioni parentali, della chiesa, delle università, delle professioni, una mentalità che riconcili, in altri termini, l’individuo con «il senso della comunità», e che si contrapponga all’ideologia liberale che interpreta il tramonto del fatto comunitario come conseguenza dell’emergenza della modernità e che considera la comunità come un fenomeno residuale che le burocrazie istituzionali e i mercati globali devono impegnarsi a dissolvere.

L’accentuazione del valore della comunità da parte di intellettuali come Kirk e Nisbet non è solo una «sopravvivenza conservatrice», e nemmeno una semplice nostalgia romantica e, per molti versi, utopistica, ma è soprattutto un forte motivo di contrapposizione all’ideologia liberale e alla sua pretesa di riorganizzazione della società in forma razionale e atomizzata.


  1. Robert Nisbet nasce a Los Angeles il 30 settembre 1913. Nel 1932 entra alla Berkeley, l’Università della California, dove rimane per ventuno anni, prima come studente e poi come docente. Da giovane si lascia impressionare dallo storico Frederick J. Teggart che insegna in quell’ateneo e sotto la cui guida acquisisce il dottorato. Studia i cosiddetti «pluralisti inglesi» (F. W. Maitland, Ernst Barker, J. N. Figgis, Harold Laski) e si imbatte nel pensiero di Edmund Burke e Alexis de Tocqueville, la cui scoperta, in America, ha inizio nei primi anni ’50. The Quest for Community, pubblicato nel 1953 dalla Oxford University Press, gli vale la fama di sociologo tra i più originali e influenti degli Stati Uniti. Nel 1954 istituisce un college a numero chiuso, che amministra per un decennio, un arco di tempo interrotto solo un anno, quello tra il 1956 e il 1957, che definirà «splendido» e che viene a trascorrere in Italia, all’Università di Bologna, come visiting professor. E’ qui che scopre il piacere dell’insegnamento, che si rivela la ragione per la quale abbandona l’attività di amministratore del college nel 1963 per tornare a insegnare e scrivere. Sono di questo periodo i libri: The Sociological Tradition (1966), Tradition and Revolt (1968), Social Change and History (1969), The Social Bond (1970) e The Degradation of Academic Dogma: the University in America 1945-1970 (1971). Lascia la California nel 1972 per l’Università dell’Arizona, dove è chiamato ad insegnare storia e sociologia. Pubblica altre due opere: The Social Philosophers (1973) e The Sociology of Emile Durkheim (1974). Due anni dopo accetta la cattedra di Humanities alla Columbia University, dove frequenta assiduamente Irving Kristol, Robert Merton e Norman Podhoretz. Pubblica Twilight of Authority (1975) e Sociology as an Art Form (1976). Nel 1978 lascia l’insegnamento da professore emerito e si trasferisce a Washington, dove pubblica altri libri: History of Idea of Progress (1980), Pregiudices: a Philosophical Dictionary (1982), Conservatism: Dream and Reality (1986), The Making of Modern Society (1986), Roosevelt and Stalin: a Failed Courtship (1988), The Present Age: Progress and Anarchy in Modern America (1988). Muore il 9 settembre 1996. Per un approfondimento delle vicende biografiche e del pensiero di Nisbet, insuperato è il libro di Brad Lowell Stone, Robert Nisbet: Communitarian Traditionalist, ISI Book, Wilmington 2002. ↩︎

  2. B. Lowell Stone, Robert Nisbet: Communitarian Traditionalist, ISI Book, Wilmington 2002, cit., p. xvii. ↩︎

  3. L’opera è stata tradotta in italiano, nel 1957, col titolo La Comunità e lo Stato (a cura di F. Ferrarotti), Edizioni di Comunità, Milano 1957. Nell’introduzione, Nisbet sintetizza in due righe lo scopo del libro: «Ho preferito occuparmi delle cause politiche delle molteplici alienazioni che stanno dietro alla contemporanea ricerca della comunità» (p. 7). ↩︎

  4. R. Nisbet, Prejudices: A Philosophical Dictionary, Harvard University Press, Cambridge 1982, pp. 51-52. ↩︎

  5. Ivi, p. 287. ↩︎

  6. Nello studio del linguaggio, rileva Nisbet, è risaputo che i significati delle parole e le sentenze dipendono dalle comprensioni che sono anteriori all’espressione delle parole stesse. E’ ugualmente vero che tutte le affermazioni formali del valore dipendono da certi pregiudizi che esprimono giudizi formali e anche possibilità di comunicazione. Senza alcun tipo di accordo sull’inespresso ma potente pregiudizio è infruttuoso ogni sforzo di derivare significato dall’accordo sui giudizi espliciti. Molti dei conflitti tra fede e azione nel mondo hanno origine dalla mancanza di accordo sui pregiudizi più che dal dissenso sui giudizi formali. ↩︎

  7. S. Langer, Philosophy in a New Key. A Study in the Simbolism of Reason, Rite, and Art, Harvard University Press, Cambridge, 1969. Susanne Langer, allieva di A. N. Whitehead, esalta l’opera di una generazione intellettuale (quella di Russell, Wittgenstein, Freud e dello stesso Whitehead) che «ha lanciato l’attacco al formidabile problema del simbolo-e-significato e fissato la chiave del pensiero filosofico dei nostri giorni» (S. Langer, Filosofia in una nuova chiave: linguaggio, mito, rito e arte, Armando, Roma, 1972, p. 10). ↩︎

  8. S. Langer, Filosofia in una nuova chiave, Armando, Roma 1972, cit., pp. 378-379. ↩︎

  9. Ivi, p. 379. ↩︎

  10. Adriano Olivetti, L’ordine politico delle Comunità dello Stato secondo le leggi dello spirito, Edizioni di Comunità, Milano 1945, p. 13. ↩︎

  11. R. Nisbet, The Social Philosophers: Community and Conflict in Western Thought, Washington Square Press, New York 1982, p. 10. ↩︎

  12. Ivi, p. 189. ↩︎

  13. R. Nisbet, La Comunità e lo Stato, cit. p. 191. ↩︎

  14. Ivi, p. 199. ↩︎

  15. R. Nisbet, «Rousseau and the Political Community», in Tradition and Revolt, Transaction Publishers, New Brunswick 1999, pp. 17-18. Johannes Althusius (1557-1638), qui citato da Nisbet, ricorre alla nozione di «comunità simbiotica» (consociatio symbiotica) per esprimere il gruppo organico composto di esseri sociali. In Politica Methodice Digesta, oltre a distinguere le comunità naturali, semplici o private, come le famiglie e i ménages, dalle comunità volontarie o spontanee, come i collegi o le compagnie che si formano solo grazie alla volontà dei simbioti, Althusius respinge con forza l’idea di un individuo che basta a se stesso o che trae i suoi diritti da una natura astratta ponendo l’idea di un uomo la cui vita simbiotica è non una libera scelta ma una necessità naturale. Secondo Alain de Benoist, che di recente si è occupato di Althusius, la consociatio symbiotica, corrispondente al legame organico della vita civile, «si traduce in una socializzazione progressiva degli elementi della comunità, in una partecipazione crescente dei suoi membri alla vita comune, nonché nello scambio di beni e servizi, con messa in comune di alcuni tra loro». «L’originalità di Althusius - continua De Benoist - consiste nel pensare la società a partire dalla base, per arrivare progressivamente al vertice. La società è costituita per lui da associazioni e da collettività successive, incastrate le une nelle altre, dalle più semplici alle più complesse […]. La libertà in seno alla società non discende dunque dalla sovranità collocata al vertice, ma dalla autonomia a tutti i livelli; l’articolazione e l’equilibrio tra i differenti livelli viene assicurata dal principio della sussidiarietà» (A. de Benoist, Identità e Comunità, Guida, Napoli 2005, p. 134). ↩︎

  16. R. Nisbet, La Comunità e lo Stato, cit., p. 202. ↩︎

  17. Ivi, p. 212. ↩︎

  18. Ivi, p. 374. ↩︎

  19. F. Ferrarotti, «Introduzione» a La Comunità e lo Stato, cit., p. VII. ↩︎

  20. Ivi, p. X. ↩︎

  21. R. Nisbet, The Degradation of Academic Dogma: The University in America, 1945-1970, Basic Books, New York 1971, p. 43. ↩︎

  22. Ivi, p. 41. ↩︎

  23. R. Nisbet, La Comunità e lo Stato, cit., p. 89. ↩︎

  24. R. Nisbet, The Degradation of Academic Dogma, cit. p. 43. ↩︎

  25. R. Nisbet, La Comunità e lo Stato, cit., p. 204. ↩︎

  26. Le singole caratteristiche della comunità, che Nisbet descrive qua e là in diversi suoi scritti, sono mirabilmente ordinate ed elencate da Brad Lowell Stone in Robert Nisbet, cit., pp. 14-21. ↩︎

  27. R. Nisbet, Twilight of Authority, Oxford University Press, New York 1975, p. 236. ↩︎

  28. Ivi, p. 238. ↩︎

  29. R. Nisbet, The Degradation of Academic Dogma, cit., p. 44. ↩︎

  30. Ivi, p. 45. ↩︎

  31. V. Paze’, Il comunitarismo, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 21. ↩︎

  32. Russell Amos Kirk nasce a Plymouth (Michigan), il 19 ottobre 1918, da una famiglia di origini scozzesi. Dopo il diploma in Storia, frequenta la Duke University di Durham, nel North Carolina, dove consegue il titolo di Master of Arts con una tesi dedicata allo «statista-piantatore» della Virginia John Randolph (1773-1833) che viene pubblicata nel 1951 con il titolo Randolph of Roanoke: a Study in Conservative Thought. Nel 1941 entra nell’esercito e presta servizio militare fino al 1945. Nel deserto di sale dello Stato dello Utah, dov’è dislocato, si dedica allo studio della filosofia stoica classica. Nel 1946 gli viene affidata la cattedra di Storia della Civiltà al Michigan State College, incarico che lascia il 1953, in seguito ad una disputa con i colleghi sugli standard accademici. Dal 1948 al 1952 studia per il dottorato in lettere presso l’antica università scozzese di St. Andrews. La sua tesi, The Conservative Mind: From Burke to Santayana, diviene un testo fondamentale della rinascita culturale conservatrice angloamericana. Nel villaggio dei taglialegna di Mecosta, fondato da un suo avo nel Michigan centrale, Kirk abita la casa dei bisnonni, che trasforma in una ricca biblioteca che diviene meta di studenti universitari e studiosi. Rifuggendo il mondo caotico delle grandi città industriali per «tornare alle radici» familiari e culturali, Kirk costruisce una comunità umana alternativa alla «mobilità» tipica di parte della società nordamericana, il cui perno è la sua famiglia. Il 1964 è l’anno della conversione al cattolicesimo. Kirk pubblica più di trenta opere, centinaia di saggi, articoli, recensioni e decine di simposi e conferenze, poi raccolte in The Politics of Prudence, del 1993 e in Redeeming the Time, uscito postumo nel 1996. La produzione kirkiana si caratterizza come una costante ricerca delle «realtà permanenti», formula con cui il poeta anglicano Thomas Stearns Eliot (1888-1965), amico e maestro di Kirk, indica la Philosophia perennis. In questa cornice si inseriscono le opere: Beyond the Dreams of Avarice: Essays of a Social Critic, del 1956; The Intemperate Professor, and Other Cultural Splenetics, del 1965; ed Enemies of the Permanent Things: Observations of Abnormity in Literature and Politics, del 1969. Ispirate da una forma mentis tipicamente conservatrice sono anche i saggi: Edmund Burke: a Genius Reconsidered, del 1967, ed Eliot and His Age: T. S. Eliot’s Moral Imagination in the Twentieth Century. Contro le pedagogie progressiste Kirk scrive Academic Freedom: An Essay in Definition, del 1955, e Decadence and Renewal in Higher Learning: An Episodic History of American University and College since 1953, del 1978. Senza mai assumere cariche politiche ufficiali, Kirk sostiene le candidature presidenziali di Robert A. Taft, di Barry M. Goldwater e di Ronald W. Reagan. Muore il 29 aprile 1994. La sua eredità culturale è al centro dell’attività del Russell Kirk Center for Cultural Renewal, diretto dalla moglie Annette. Scarsa è stata sino ad oggi la diffusione del pensiero di Kirk in Italia. Solo due le edizioni italiane delle sue opere: Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, a cura di M. Respinti, Mondadori, Milano 1996; La prudenza come criterio politico, a cura di P. Colonnello e P. Giustiniani, ESI, Napoli 2002. ↩︎

  33. Aristotele, Politica, libro I, 2, 1253a, 25. ↩︎

  34. Cfr. Aristotele, Politica, libro I, 1253a, 1-35. ↩︎

  35. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, libro II, 1.1103a-1103b, 1-25. ↩︎

  36. Cfr. Cicerone, Uffici, libro II, 11. ↩︎

  37. Aristotele propose, come è noto, un governo basato su principi antichi come le riforme di Solone alla costituzione ateniese del VI secolo a.C. Lo Stato aveva come scopo finale la riconciliazione dei diversi interessi che compongono la polis. Idealmente, in un tale Stato, nessuno degli interessi legittimi di ciascuna classe, ricca o povera, sarebbero violati perché ogni classe avrebbe potere e risorse sufficienti a proteggere i propri bisogni vitali. ↩︎

  38. R. Kirk, Enemies of the Permanent Things: Observations of Abnormity in Literature and Politics, Arlington House, New Rochelle 1969, pp. 235-236. ↩︎

  39. R. Kirk, The Roots of American Order, Open Court, La Salle 1974, p. 94. ↩︎

  40. R. Kirk, A Program for Conservaties, Regnery, Chicago 1962, pp. 308-309. ↩︎

  41. R. Kikr, Beyond the Dreams of Avarice: Essays of a Social Critic, Regnery, Chicago 1956, p. 308. ↩︎

  42. W. Wesley McDonald rileva che l’animosità di Kirk nei confronti dei libertarians degli anni ’50 e delle loro dottrine radicalmente individualistiche trovò il suo culmine nel clamoroso rifiuto della collaborazione con la rivista National Review, veicolo principale degli opinionisti conservatori statunitensi. William F. Buckley, giovane editore della rivista, voleva fortemente Kirk nello staff dei collaboratori, ma l’autore di The Conservative Mind rifiutò seccamente, non gradendo di trovare il suo nome scritto accanto a quelli di accaniti sostenitori dell’individualismo liberale statunitense, come Frank Chodorov e Frank S. Meyer (Cfr.: W. Wesley McDonald, Russell Kirk and the Age of Ideology, University of Missouri Press, Columbia and London 2004, p. 154). ↩︎

  43. R. Kirk, A Program for Conservatives, cit., p. 140. Come riconobbe anche un liberista come Hayek, «dissolvere l’associazione locale e di volontariato lascerebbe l’individuo vulnerabile nei confronti della bruta forza dello Stato» (F. A. Von Hayek, Individualism and Economic Order, Henry Regnery Company, Chicago 1972, p. 23). ↩︎

  44. R. Kirk, The Conservative Mind: from Burke to Santayana, Regnery, Chicago 1953, p. 421. ↩︎

  45. P. Colonnello, P. Giustiniani, «Prefazione» a: R. Kirk, La prudenza come criterio politico, cit. p. 17. ↩︎