Le domande della bioetica

1. Introduzione

Le scoperte neuroscientifiche degli ultimi decenni, le loro molteplici applicazioni e le conoscenze acquisite sul DNA presuppongono l’introduzione dell’alta tecnologia nella vita umana e nella medicina. Basti pensare alle tecnologie biomediche (fMRI o risonanza magnetica funzionale, la PET o tomografia ad emissione di positroni, ecc.) e alle biotecnologie. La ricerca genetica, la farmacogenetica e la farmacogenomica, la ricerca con esseri umani, gli sviluppi della biochimica e della biologia molecolare sono espressione del progresso medico e scientifico, ma destano anche numerosi interrogativi bioetici sulla vita umana. Chi è persona? Come «definire» la persona? Quali sono i suoi caratteri distintivi e originari? Che cosa significa rispettare la dignità dell’uomo? Qual è l’ordine dell’essere e degli enti? Le domande etiche, amplificate dai mezzi di comunicazione, esigono altrettante risposte, soprattutto sul piano clinico. La bioetica è certamente il luogo in cui si condensano conflitti radicali che rispecchiano diverse concezioni sul senso profondo da attribuire all’esistenza, alla libertà umana, ai limiti e alle finalità della scienza medica.

Da ciò deriva la consapevolezza dell’importanza del confronto interdisciplinare, finalizzato alla comprensione critica della realtà ed orientato al rispetto della dignità e della verità integrale dell’uomo. La fragilità e la vulnerabilità della condizione umana è il segno dell’esposizione originaria del nostro essere relazionale e della sua apertura al mondo della vita, ma può anche tradursi in varie forme di strumentalizzazione e prevaricazione che il più forte esercita sempre a danno del più debole. Ciò vale anche, e non solo, nella scienza medica.

Di bioetica si occupano, a vario titolo, giuristi, politici, medici, filosofi morali e biologi. Nella prospettiva della «bioetica personalista», occorre riflettere innanzitutto sullo statuto ontologico della persona e sull’ordine intrinseco dell’essere e degli enti tutti, sempre da amare e rispettare in base al principio ontologico della giustizia.

Il carattere fondamentale della medicina nel terzo millennio è, senza dubbio, la tecnologia. Già per Heidegger la tecnica era il carattere principale dell’Occidente ed in essa la verità dell’essere obliata si rivelava come nascosto fondamento. La tecnica ha reso possibile il progresso della medicina, la quale non è una scienza monolitica, e non è neppure una scienza esatta, ma abbraccia molteplici e sempre nuove specializzazioni. La medicina si articola in un insieme complesso di scienze sperimentali, ma è anche l’arte del prendersi cura, che si pone al servizio della fragilità dell’homo patiens. La cura delle malattie, l’alleviamento delle sofferenze e l’estensione delle cure di base, in base al principio di equità e giustizia, a tutta l’umanità, sono i caratteri fondamentali della scienza e dell’arte medica. Da tale prospettiva deriva l’esigenza, da più parti invocata, di un’umanizzazione della medicina che anima e sostiene l’idea stessa del progresso scientifico e lo statuto della medicina, il cui fine è la persona. Molte divergenze nascono già nell’indicazione del momento iniziale della sua esistenza o anche nella definizione della morte di una persona o del momento in cui non ci sarebbe più persona, a causa del venir meno di alcune capacità. Ma è possibile ridurre la persona al possesso di alcune capacità, in base ad un presupposto di tipo razionalistico e funzionalistico?

La questione dell’identità personale si riflette nella relazione medico-paziente-famiglia, quale espressione emblematica della condizione umana segnata dalla vulnerabilità. Prima di indicare le domande fondamentali della bioetica, occorre definire la bioetica, delineando il suo statuto epistemologico, molto controverso e dai confini ancora labili, il suo metodo e il suo oggetto formale.

Il rapporto tra tecnica e medicina suppone la domanda sul bene integrale della persona, concepita nell’unitotalità della concreta «esistenza relazionale». Nel contesto personalistico, definito da un’ontologia relazionale, si comprende la ragione per cui tutto ciò che è tecnicamente possibile non è sempre eticamente lecito. Infatti, la tecnica è per l’uomo e non l’uomo per la tecnica. Il mezzo deve essere perciò specificato dal fine ulteriore verso il quale si indirizzano gli sforzi e le intenzionalità pratico-operative.

Una questione essenziale risiede nella capacità di cogliere l’unità antecedente la riflessione, vale a dire l’esperienza vissuta e vivente della persona, la cui integralità spirituale e psico-fisica, richiede sempre protezione, cure proporzionate, scelte politiche e sociali ispirate al principio di giustizia.

Se si riconosce l’istanza metafisica nel filosofare, si comprende che ogni essere umano è persona e che la convivenza ordinata al bene implica il rispetto dei diritti umani che sono fondati nella natura umana. Dalla concretezza fenomenologica dell’esistenza, è possibile riconoscere la dignità di ogni singola persona, in modo universale, cioè ad ogni latitudine e in qualsiasi condizione materiale o fisica si trovi. Da ciò deriva l’assunzione di responsabilità verso il proprio essere, ma anche nei confronti delle scelte e delle conseguenze che le decisioni e le azioni mediche sono in grado di provocare. In riferimento alle nuove e inedite emergenze bioetiche, unitamente alle sfide delle neuroscienze, non è sufficiente un’etica comunitaria a regime ristretto o localistico.

L’allargamento dello sguardo sul mondo può favorire, attraverso la coscienza critica dell’età tecnologica, una progressiva globalizzazione dei diritti, come quello alla vita, alla sussistenza, alla cura e alla tutela delle persone, la cui preziosità e bellezza trascende lo spazio angusto e austero del profitto individuale o degli individui.

2. La bioetica ed il suo statuto epistemologico

Che cos’è la bioetica e qual è il suo stato epistemologico? Innanzitutto, «Bioetica» è un termine composto da due parole greche: bios (vita) ed ethica (etica), etica della vita. La semantica della vita è una questione molto complessa che non si può certo esaurire per mezzo di una definizione chiara e distinta, nel senso che la stessa vita umana trascende ed eccede ogni definizione del vivente. Possiamo però tentare di dire qualcosa senza sprofondare nello scetticismo relativistico o nella presunzione del razionalismo. La vita e la vita biologico-organica non sono nozioni equivalenti e, pertanto, il concetto di vita è di per sé analogo: esistono differenti livelli della vita. Il lessico della lingua italiana non aiuta a identificare la ricchezza della vita. Il termine italiano «vita» indica la vita animale, quella umana, quella oltreumana; applicato all’uomo, indica sia la vita organica, sia la vita spirituale che quella psichica. In greco ci sono tre termini per indicare lati diversi del fenomeno della vita: zoé, bios, psyché.1 Zoé indica la vita come fenomeno fisico, la vita mediante la quale viviamo (vita qua vivimus) , la vitalità, il principio della vita che si manifesta in tutti gli esseri organici. Il bios è la vita che viviamo (vita quam vivimus) e allude alle modalità, alle forme e alle condizioni della vita; è la vita, di qualsiasi genere, che ha un inizio e una fine. Bios è il vivente nella sua individualità e Bíoi sono perciò i singoli enti organici viventi che nascono e muoiono. Per descrivere le diverse modalità della vita, ad esempio la vita politica, la vita contemplativa, in greco si usa bios accompagnato da un aggettivo. Infine, Psyché indica il soffio vitale, l’anima e quindi la vita.

Nella seconda metà del Novecento, il pericolo rappresentato dalla proliferazione degli armamenti atomici nel periodo della «guerra fredda» — ma che si può constatare ancor più nel terzo millennio — , lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta, le sperimentazioni selvagge in USA, indussero l’oncologo Van Rensselaer Potter (1911-2001) ad affermare la necessità di una nuova disciplina capace di garantire la «sopravvivenza» della vita umana, dell’intero pianeta e di tutti i viventi. Per raggiungere questo scopo, secondo Potter era necessario «combinare la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani».2 Solo così sarebbe stato possibile costruire un ponte verso il futuro Egli coniò così il termine «bioetica» che, fin dagli esordi, assunse una prospettiva globale.

Nella prima edizione del 1978 dell’Encyclopedia of Bioethics, pubblicata negli Stati Uniti, la bioetica è definita da Warren Thomas Reich come «studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della salute, (condotta) esaminata alla luce di valori e di principi morali».3 Il principialismo è lo sfondo teorico in cui fu concepito il Rapporto Belmont da parte della Commissione USA costituita con il fine di presentare indicazioni valide ad evitare sperimentazioni su esseri umani inconsapevoli. Venne così affermato il principio del rispetto per le persone, il principio di beneficialità e non-maleficenza e, infine, il principio di giustizia. Tali assunzioni caratterizzarono la prima definizione A seguito della denuncia di crimini compiuti contro da alcuni medici, non solo durante il nazismo, ma anche negli anni ’60 e ’70 in USA, la bioetica sorse con l’intento di impedire nuove forme di sperimentazione selvaggia sugli esseri umani e con il fine di denunciare i rischi della manipolazione genetica.

Nell’edizione dell’Encyclopedia of Bioethics del 1995 compare la seguente definizione, ripresa anche nel 2004: «La bioetica può essere definita come lo studio sistematico delle dimensioni morali — incluse la visione morale, le decisioni, la condotta, la politiche — delle scienze della vita e della salute, con l’impiego di una varietà di metodologie etiche con un’impostazione interdisciplinare».4 In questa definizione è evidente il passaggio dal principialismo al nuovo paradigma dell’esperienza, basato sull’etica delle virtù. In questo contesto, le domande della bioetica vengono riformulate; non è più sufficiente chiedersi «che cosa dovremmo fare (etica del dovere), ma che tipo di persone dovremmo essere (etica delle virtù e del carattere)».5 La prospettiva teorica assunta tende a superare la teoria filosofica del principialismo, che caratterizzò la bioetica americana per almeno trent’anni.

Tenendo conto dell’imprescindibilità della questione antropologica e della necessità della riflessione etica a cui rinviano le questioni cliniche, in quanto la scienza e la ricerca sono azioni specifiche dell’uomo in cui è in gioco la felicità e il bene da farsi e il male da evitarsi, possiamo affermare che la bioetica è «la coscienza critica della civiltà tecnologica […] Il termine «coscienza critica» indica il livello di chiarificazione e di valutazione morale dello specifico contenuto pratico e teorico introdotto dalle tecno scienze: non tutti pertanto i problemi dell’etica medica rientrano nella bioetica, poiché non tutta le medicina è ad alto contenuto tecnologico. Da questo punto di vista la bioetica si configura come un’attività filosofica […] poiché le domande (l’oggetto formale) che investono le tecnoscienze (l’oggetto materiale) sono di natura filosofica e riguardano il significato della costruzione dell’identità umana all’interno della azione tecnologica»6.

Inoltre, la bioetica esige e presuppone un approccio interdisciplinare: 1) lo studio e l’analisi del fatto biomedico (momento epistemologico) è il compito delle scienza medica; 2) l’individuazione dell’antropologica e delle implicazioni sociali è il momento antropologico/sociale; 3) le risposte etiche, giuridiche costituiscono il momento applicativo.

La bioetica è nata con lo scopo di fornire risposte o almeno indicazioni concrete, valide per la prassi clinica e per la ricerca biomedica. Del resto, l’innovazione tecnica in campo medico, la sperimentazione e la ricerca con esseri umani non cessa di destare inquietanti e laceranti domande su ciò che è giusto e su ciò che è bene. Nel contesto culturale in cui viviamo convivono diverse prospettive e concezioni della vita; perciò, le domande della bioetica non possono non essere pubbliche nel senso che ogni posizione deve possedere un’adeguata argomentazione per sostenere una discussione pubblica. Ciò non implica la ricerca di un consenso a tutti i costi, ma almeno la ricerca paziente di mediazioni ragionevoli che non sacrifichino mai la vita umana. La spettacolarizzazione della sofferenza altrui, su cui si erigono bandiere ideologiche, le generalizzazioni astratte dai contesti esistenziali concreti, sembrano contravvenire al rispetto dovuto ad ogni persona che soffre.

Le domande della bioetica ruotano attorno a tre questioni fondamentali: il rapporto fra la medicina, la tecnica e la dignità dell’uomo ed il problema ecologico, e la bioetica animale, che affronta i problemi legati alla sperimentazione, alla vivisezione, agli xenotrapianti. In questo contributo, è cercherò di individuare le domande bioetiche che concernono la prima questione.

L’etica della vita umana concerne le questioni di inizio e fine vita, le quali si situano nel contesto antropologico della famiglia. La domanda fondamentale in bioetica è una domanda antropologica che sorge in relazione alla situazioni concrete di malattia o di sofferenza: qual è il significato della vita umana e della morte? Chi sono i pazienti in stato vegetativo, in coma o locked-in e in minima coscienza? Qual è il limite tra le cure necessarie per la vita e l’accanimento terapeutico? Qual è la dignità dell’embrione? Inoltre, la sperimentazione con esseri umani solleva numerose questioni etiche che riguardano il rispetto che si deve alle persone e la possibilità di esprimere un consenso libero e informato. L’Etica della vita abbraccia anche le questioni di giustizia sociale, il problema dell’allocazione delle risorse sanitarie. La questione della giustizia sociale e della responsabilità si declina non solo nelle dichiarazioni di principi, pure importanti e imprescindibili, come l’importante affermazione dei diritti inviolabili di ogni persona, ma esige una prospettiva globale che affronti il dramma di milioni di esseri umani che muoiono a causa della fame e della mancanza di acqua, il problema della mancanza delle cure mediche essenziali e i gravi problemi etici legati alla sperimentazione di nuove terapie in Paesi in via di sviluppo, dove non sempre vige un controllo indipendente e una regolamentazione codificata. Queste sono solo alcune «emergenze» radicali che interrogano la coscienza morale.

3. Il significato di un’azione biomedica

Dal punto di vista morale, occorre chiedersi: qual è il senso, cioè il significato oggettivo intenzionale dell’azione? In quali circostanze viene attuato un intervento medico, cioè con quali finalità, con quali mezzi e con quali intenzioni? Alcune distinzioni sono utili per decifrare il senso di un’azione. L’oggetto dell’azione é il finis operis. Il motivo che spinge l’agente a compiere quell’azione, lo scopo del soggetto agente è il finis operantis. Bisogna poi considerare anche le circostanze dell’azione. Il contenuto intenzionale di base dell’azione (finis operis) caratterizza la bontà o malizia dell’azione. In altri termini, non basta chiedere cosa faccio? ma occorre anche domandare a che pro lo sto facendo? per cogliere il fine prossimo e immediato dell’azione deliberata, il significato oggettivo dell’azione. Se l’oggetto dell’atto è un bene morale, l’atto è buono; se invece è un male morale, l’atto è cattivo.

Il finis operantis è il fine principale o fine intermedio nel quale il finis operis acquista il suo pieno significato. I fini superiori e principali comportano un atto proprio della volontà, cioè l’intenzione del soggetto. Le circostanze in cui un atto è posto concorrono, insieme alle intenzioni, a definire la moralità di un atto, possono aumentare, diminuire, cambiare in male la bontà oggettiva dell’atto, possono aumentare, diminuire, ma non cambiare in bene la malizia oggettiva dell’azione. In sintesi, un’azione è buona quando si dà unità intenzionale tra l’esecuzione, la scelta, l’intenzione e le motivazioni dell’agire (ragioni, impulsi ed emozioni). Più precisamente: «la moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata […] Per poter cogliere l’oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l’oggetto dell’atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all’ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà, ci perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene perfetto, l’amore originario. Per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l’atto del volere della persona che agisce. In tal senso … vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale».7

4. Per un’antropologia dell’integralità

Le domande etiche, alle quali corrispondono divergenti risposte e radicali contrapposizioni, soprattutto nel contesto multiculturale odierno, presuppongono la domanda fondamentale sull’essere umano e sul senso dell’essere dell’uomo. La bioetica deve offrire elementi di riflessione sulla dignità dell’uomo. Come definire la persona? Che cos’è la dignità umana? Le concezioni antropologiche di tipo razionalistico e funzionalistico identificano la dignità dell’uomo con la sua autocoscienza, ma non sono sufficienti a cogliere la complessità della sfida antropologica. Nella prospettiva della «bioetica personalista», che cerca di riflettere sull’integrità spirituale, psico-fisica e relazionale, lo statuto ontologico della persona include il riferimento il punto di partenza, non astratto, è l’unità sintetica originaria, che la riflessione non crea ma trova dinanzi e al di fuori di sé, ovvero l’unità corporeo-spirituale dell’essere umano, la sussistenza relazionale che ognuno di noi è. La dignità di ogni persona si giustifica nell’ordine dinamico dell’essere che la costituisce: la dimensione corporea, quale si dà nella concretezza individuale e somatica, la quale segue una legge ontogenetica di sviluppo, è manifestazione inerente alla persona. Inoltre, nell’apertura originaria della mente umana all’essere e al bene oggettivo, legge morale universale a cui ha accesso solo il mondo delle persone, si manifesta la natura trascendente della persona che è in grado di contemplare un ordine ontologico. Pertanto, la dignità umana risiede nell’atto integrale della persona. La «presenza» dell’essere umano si pone come domanda di essere. Per questa ragione l’essere della persona chiede, come atto di giustizia, il riconoscimento, l’accoglienza, l’ospitalità e la difesa della sua integrità. La dimensione trascendente e spirituale della persona ha la sua radice ultima nella verità della creazione dell’uomo, ente intelligente finito, che vive in una relazione con Dio di cui è immagine e somiglianza: «È proprio questa relazione con Dio che definisce gli esseri umani ed è fondamento del loro rapporto con le altre creature […] il mistero dell’uomo può essere pienamente chiarito solo alla luce di Cristo, che è immagine perfetta del Padre e che ci introduce, attraverso lo Spirito Santo a una partecipazione al mistero di Dio uno e trino. È all’interno di questa comunione di amore che il mistero di ogni essere, abbracciato da Dio, trova il suo pieno significato».8 Su basi antropologiche, le religioni monoteiste, che esprimono visioni bioetiche, possono favorire un dialogo interreligioso proficuo per un autentico progresso umano e scientifico.

5. L’autonomia del paziente e la coscienza del medico

La persona che si trova in una condizione di vulnerabilità e fragilità, veicola una domanda di senso, rivolge una richiesta di aiuto, cerca una risposta di amore, accoglienza e dedizione. Nella relazione con altri, la persona può ricercare il senso globale del suo essere e della stessa sofferenza che coinvolge e attraversa tutte le dimensioni, da quella fisica a quella psichica a quella spirituale. Ciò dimostra quanto sia grande la responsabilità del personale medico e paramedico a cui è richiesta una capacità di ascolto e di empatica comprensione nella comunicazione i cui pilastri sono la verità e l’amore. Solo intercettando le domande di senso, attraverso un approccio maieutico e dialogico, è possibile entrare in dialogo con l’altro: quando desideriamo qualcosa, che cosa realmente desideriamo? Nel rapporto medico-paziente, è importante allargare la beneficialità fondandola sulla fiducia (beneficence-in-trust), sulla base del modello proposto da Pellegrino e Thomasma9: alla fiducia nella persona del medico deve corrispondere la disposizione di quest’ultimo ad agire per il bene del paziente. L’obiettivo comune per il medico e il paziente è agire nel migliore interesse l’uno dell’altro. L’attenzione alla condizione globale del paziente impedisce di considerare la persona un puro e semplice caso. Più precisamente, il bene biomedico, che include tutti gli effetti degli interventi clinici sul decorso della malattia, si deve coniugare sia con l’idea che il paziente ha del proprio bene (il bene che il paziente percepisce) sia con il bene inteso come possibilità di esercitare la capacità di operare scelte condivise, informate, esplicite ed attuali. Infine, il bene particolare del paziente non può non relazionarsi al bene ontologico. Il medico ha il dovere di «prendersi cura» del paziente, di tutelarne la salute e la vita. Contro le forme di manipolazione dell’embrione umano o del suo patrimonio genetico, che rivelano finalità eugenetiche o selettive e configurano il dominio dell’uomo sull’altro uomo, è essenziale la prospettiva di «cura delle persone e di educazione alla cultura dell’accoglienza della vita umana nella sua concreta finitezza storica».10 La relazione o alleanza terapeutica tra il paziente, i medici e i familiari, presuppone il principio dell’inviolabilità e dell’indisponibilità della vita umana. Proprio sulla base della finalità umanistica della medicina si giustifica l’obiezione di coscienza.

Nel principio di autonomia si radica il diritto che ha il paziente all’informazione e al consenso libero e informato prima di sottoporsi ad una sperimentazione. Detto ciò, possiamo affermare che l’autodeterminazione del paziente è assoluta? Esiste davvero una libertà assoluta che include il «diritto di morire»? La libertà dell’uomo per essere moralmente connotata deve sempre declinarsi con la responsabilità. Pertanto, l’uomo gode di un’autonomia relazionale. Inoltre, l’etica della responsabilità ovvero lo sguardo della responsabilità che l’uomo assume su di sé e nei confronti dell’altro, implica il riferimento ad un bene morale oggettivo che l’ideologia libertaria e nichilista dominante nega risolutamente.

Sulla base di tali considerazioni, possiamo formulare alcune domande etiche concernenti lo stato vegetativo, l’inizio della umana nascente, la ricerca le cellule staminali embrionali e con le cellule somatiche, la clonazione e la fecondazione artificiale assistita, i criteri di accertamento della morte e le questioni di fine vita. Pur constatando l’esistenza di risposte divergenti, e spesso inconciliabili, ai problemi enunciati, vale la pena sottolineare che la dicotomia tra una bioetica cattolica e una bioetica laica è una distinzione approssimativa e per certi versi semplicistica, anche se può assumere una funzione pratica e politica. Innanzitutto, bisogna riconoscere che il Magistero della Chiesa in sé non è affatto contraddittorio nel riconoscere la sacralità della vita umana dal concepimento alla morte naturale. La difesa dell’embrione umano, il principio di proporzionalità dei trattamenti e delle terapie, hanno sempre ispirato i pronunciamenti del Magistero. Tali indicazioni consentono di evitare ogni forma di strumentalizzazione o manipolazione della vita umana e, al tempo stesso, l’accanimento terapeutico.

Inoltre, in riferimento alla dignità dell’embrione, alla manipolazione genetica, alla clonazione e alle cure da assicurare ai pazienti in stato vegetativo, si è verificata una sostanziale convergenza tra credenti e non credenti. La laicità, erroneamente assunta come sinonimo di laicismo, ci induce a pensare che il principio della sacralità della vita non elimina l’importanza del tema della qualità della vita. Di quest’ultima si indica il fondamento antropologico antecedente che in Dio ha la sua ragione d’essere.

6. L’etica della vita umana

Tra le numerose questioni di bioetica, vi è quella relativa allo stato vegetativo, che non bisogna confondere con gli altri disordini di coscienza, vale a dire la minima coscienza, locked-in, il coma.11 I contrasti etici vertono sulla sospensione o somministrazione dell’alimentazione e dell’idratazione, che alcuni considerano sostegni vitali e altri terapie non obbligatorie.

Per affrontare tale problematica, bisogna prima di tutto chiedersi: che cosa significa essere in uno stato vegetativo? Come si differenzia dal coma? Chi è la persona in stato vegetativo o di minima coscienza? Di che cosa hanno bisogno? I pazienti in stato vegetativo possono percepire il dolore? Qual è il livello di comunicazione possibile con questi pazienti? Dal punto di vista medico-clinico, i pazienti in SV sono persone viventi, sia pure in una condizione di gravissima disabilità: «lo stato vegetativo è una condizione funzionale del cervello, che insorge subito dopo l’evento acuto che lo ha determinato, diventando riconoscibile solo quando finisce il coma che, sovrapponendosi, lo maschera (Plum e Poster, Jennett, Dolce e Sazbon). Lo SV è infatti uno dei possibili esiti del «coma», che è invece uno stato transitorio (qualche settimana) dal quale si può uscire in tre modi: 1) con la morte 2) ripercorrendo tutti i gradini del coma fino a uscirne — con o senza danni; 3) passando in uno SV/SMC, situazione che può durare a lungo o per sempre. La persona in SV, dopo un lungo e impegnativo percorso sanitario, trascorso fra sale di rianimazione e reparti specializzati, si trova in una situazione personale clinica stabile, con funzioni vitali autonome: dorme e si sveglia con ritmi regolari, respira da sola, non è attaccata a nessuna macchina, ha una sua attività cerebrale. Talvolta riesce anche a deglutire, ma con difficoltà e lentezza, per cui spesso si preferisce nutrirla con sondino naso-gastrico, o con la PEG (Percutanea Enterogastrostomia), Queste persone non sono in uno stato «terminale», e anzi possono lentamente migliorare e, se accudite con attenzione, vivere a lungo».12

Il parametro della coscienza, che costituisce l’hard problem della neuroscienza, non è facilmente misurabile, così come le correlazioni tra le lesioni del cervello e la perdita di coscienza non sono immediatamente evidenti, perché non è possibile indicare la sede, dal punto di vista anatomico, della coscienza. Esistono ancora molte questioni da considerare con pi maggiore attenzione, ad esempio il problema delle diagnosi errate con cui si definiscono irreversibili situazioni che non si rivelano tali, i processi rigenerativi e di riorganizzazione plastica (rewiring) delle strutture cerebrali, la possibilità di una comunicare con questi pazienti, la percezione e la reazione psicofisica alle voci dei familiari, la presenza/assenza di coscienza e conseguentemente la percezione del dolore che i recenti studi stanno accertando e verificando in alcune situazioni cliniche oggetto di studio dei ricercatori. Recentemente alcuni ricercatori, utilizzando la risonanza magnetica funzionale per immagini, hanno verificato la possibilità di una «elementare interazione» con alcuni pazienti.13

Da ciò deriva il compito di ri-definire e migliorare i criteri nosografici dei disordini di coscienza e

della possibile evoluzione di una patologia. Per effettuare un’accurata diagnosi, bisogna adottare un metodo integrato che si avvalga della risonanza magnetica funzionale o di elettroencefalogrammi, test comportamentali, scale di misurazione.

Su queste basi sarà possibile elaborare un nuovo lessico. Infatti, si possono generare equivoci. Ad esempio, al di fuori di un contesto specialistico, l’aggettivo «vegetativo» spesso viene assunto come sinonimo di «vita vegetale» e quindi non umana.

La Multi Society Task Force14 nel 1997 propose alcuni criteri per distinguere lo stato vegetativo «permanente» e lo stato vegetativo «persistente». L’Aspen Consensus Group preferì evitare questi termini, poiché non era possibile stabilire con certezza l’irreversibilità o meno di una condizione, e suggerì di utilizzare l’espressione «stato vegetativo da … x mesi/anni».

Altri neuroscienziati, riunitisi a Salerno per la terza Conferenza internazionale su Coma e Coscienza (4-7 Luglio 2010) hanno proposto di cambiare la definizione del 1994 di «Stato vegetativo persistente» in «Sindrome della veglia arelazionale», per evitare di assimilare lo «Stato vegetativo» delle persone che si trovano in questa condizione a dei vegetali. In verità, già nel 2003, l’Agenzia governativa australiana consigliava l’espressione «post-coma unresponsiveness».15 Come si vede, tale sindrome è ancora alla ricerca di un nome appropriato. Il principio di precauzione è quello più aderente alla realtà clinica di questi pazienti. Sulla base di tali considerazioni, l’idratazione e l’alimentazione, nella misura in cui garantiscono le condizioni fisiologiche di base per vivere (garantendo la sopravvivenza, togliendo i sintomi di fame e sete, riducendo i rischi di infezioni dovute a deficit nutrizionale e ad immobilità), costituiscono forme di assistenza ordinaria e proporzionata di sostegno vitale, di cura e assistenza. La sospensione di idratazione ed alimentazione configurerebbe una forma disumana di abbandono del malato (e in Italia ce ne sono circa 4000). Invece, nell’ipotesi in cui l’organismo non fosse più in grado di assimilare le sostanze fornite si impone la doverosità etica della sospensione della nutrizione.16

L’esperienza clinica, la testimonianza delle associazioni familiari e le nuove ricerche neuroscientifiche dimostrano che «un’evoluzione clinica può dipendere dal tipo di assistenza — sanitaria, sociale, familiare … un inserimento corretto della persona in SV nel suo ambiente familiare può dare veramente risposte inattese. Di pari importanza è il non isolamento di queste persone e la frequentazione di ambienti in cui si possano ritrovare con altre persone nella stessa condizione. Talvolta le capacità relazionali aumentano …»17

Un’altra questione bioetica concerne le situazione-limite in cui si trovano i malati terminali. In senso proprio, la condizione «fine vita» è quella che corrisponde al malato terminale con prognosi infausta a breve termine (cioè, sta per morire). Dall’eutanasia — che è moralmente illecita in quanto si tratta di un’azione o di un’omissione che procura intenzionalmente la morte del paziente allo scopo di eliminare ogni dolore — bisogna distinguere il rifiuto dell’accanimento terapeutico, che consiste in una serie di interventi non adeguati alle reali condizioni del paziente. Perciò, «quando la morte si preannunzia imminente e inevitabile, si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi».18 Qual è il modo più umano per combattere la sofferenza e la solitudine si manifesta la solitudine esistenziale dell’uomo? La solitudine esistenziale della persona che soffre nel corpo e nello spirito interpella la responsabilità del personale medico e dei familiari. Si tratta di cogliere la richiesta di aiuto che proviene dalla persona che soffre e che si situa nel contesto di una relazione empatica. Nella richiesta di morte si manifesta la solitudine esistenziale.

L’eutanasia, il suicidio assistito, l’aborto, i tentativi di ibridazione in cui sono stati utilizzati ovociti animali per la riprogrammazione di nuclei di cellule somatiche umane, con il fine di estrarre staminali embrionali, costituiscono una palese violazione e negazione della dignità dell’essere umano.

Dal punto di vista clinico, è necessario precisare i criteri di accertamento della morte. Come si può constatare il decesso avvenuto di una persona? Quando è morto un essere umano? Quando si può sospendere il trattamento artificiale e/o intervenire sul suo corpo? La validità biologica e morale del criterio neurologico di accertamento della morte (morte cerebrale totale), con cui è possibile verificare un’irreversibile cessazione di tutte le funzioni dell’intero cervello, cioè degli emisferi e del tronco cerebrale, è riconosciuta da gran parte della comunità scientifica. Tuttavia, esistono anche altre motivazioni scientifiche e filosofiche (Hans Jonas, Joseph Seifert, Robert Spaemann, John M. Finnis, ma anche su basi diverse Peter Singer) che sostengono la validità dello standard tradizionale cardiocircolatorio (irreversibile cessazione delle funzioni circolatoria e respiratoria). In riferimento allo standard cardio-polmonare, bisogna sottolineare la necessità di adeguati tempi di accertamento che non possono essere ridotti a 2 o 5 minuti, ma devono protrarsi per 20 minuti, come stabilito in modo prudenziale dalla normativa italiana (L. 578/93). A tal proposito, bisogna considerare che la morte è una sola ed entrambi i criteri sono clinicamente validi.19

Un tema molto controverso riguarda lo statuto ontologico e giuridico dell’embrione umano. Qual è la dignità dell’embrione umano? Le tecniche di fecondazione assistita pongono una questione bioetica di grande rilevanza antropologica ed etica, per il fatto che esse implicano la produzione in laboratorio di una vita umana, la produzione di embrioni soprannumerari e il sacrificio degli embrioni sacrificati dalla tecnica. A seguito della stimolazione ormonale compiuta sul corpo delle donne, si compie in vitro la fecondazione.

Prima dell’approvazione della legge n. 40 («Norme in materia di procreazione medicalmente assistita», 18 febbraio 2004), sottoposta a consultazione referendaria, non tutti gli embrioni venivano impiantati, ma alcuni venivano crioconservati nel liquido di azoto, così da renderli disponibili per successivi tentativi di trasferimento in utero. La legge n. 40 imponeva l’impianto dei tre embrioni fecondati, limite massimo consentito dalla legge, al fine di salvaguardare la vita di tutti gli embrioni umani e di porre un argine al problema degli embrioni soprannumerari. Con la sentenza 8 maggio 2009 n. 151, la Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 2, della norma, nel punto in cui essa prevede che ci sia un «unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre embrioni». I giudici della Corte hanno così eliminato il limite di tre embrioni, preordinato a tutelare il diritto alla vita. Per effetto della pronuncia della Corte, l’art. 14 comma 2 l. 40/2004 risulta così riformulato: «Le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell’evoluzione tecnicoscientifica e di quanto previsto dall’art. 7 comma 3 [in tema di Linee guida], non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario». Questo significa che in alcune situazioni si possono produrre più di tre embrioni e, inoltre, non c’è obbligo di trasferirli immediatamente e contemporaneamente. Sorge però un problema: se si producono più di tre embrioni, quale sarà la sorte ed il destino degli embrioni umani prodotti dalla tecnica e non immediatamente trasferiti? Più recentemente sono stati sollevati dubbi sulla legittimità costituzionale sulla parte della legge 40 che vieta la fecondazione eterologa. Di fronte all’invasione della tecnica, che promette di soddisfare i desideri di potenziali genitori, ci chiediamo: qual è il significato e il fine della procreazione umana e della generazione? Che cosa rimane delle relazioni umane e familiari? Che ne sarà della famiglia come comunità naturale di affetti? Qual è il senso che viene attribuito al valore della vita umana e quali sono le conseguenze (cliniche, psicologiche, sociali, culturali) di tali interventi che producono, «manipolano» embrioni umani viventi?

Alla luce delle conoscenze attuali dell’embriologia, della citologia e della genetica, ogni embrione umano vivente è tale fin dal suo atto primo di esistenza. Dalla fusione dei gameti inizia uno sviluppo coordinato, continuo e graduale. L’espressione essere umano è sinonimo di persona, nel senso che la persona è quell’esemplare unico della specie umana, dotato di individualità genetica, corporea e spirituale che sottende la relazionalità intrinseca del suo stesso porsi come individuo relazionale e relazione sostanziale. Sarebbe sufficiente tale constatazione per motivare un principio prudenziale di tutela della vita umana fin dal concepimento o fecondazione. Alla luce di tali considerazioni, l’aborto e la manipolazione degli embrioni, la ricerca che prevede o comporta la loro distruzione degli embrioni umani, la clonazione costituiscono gravi violazioni della vita umana che p un bene indisponibile e non strumentalizzabile.

Nelle tecniche di fecondazione extra-corporea si utilizza la diagnosi genetica preimpianto (PGD, Preimplantation Genetic Diagnosis) introdotta nel 1990. Essa consiste nell’analisi di una o due cellule prelevate dall’embrione al fine di verificare la presenza di anomali ed eliminare gli embrioni malati. Un’altra finalità è la selezione sociale del sesso o la selezionare di embrioni da utilizzare come possibili donatori di tessuti o di organi per i loro fratelli affetti da una qualche malattia. La mentalità eugenetica si manifesta nella ricerca di un «figlio perfetto e sano» e richiede la selezione degli embrioni. I rischi della genetica liberale sono stati denunciati anche da un filosofo contemporaneo post-metafisico della Scuola di Francoforte, J. Habermas.20 Diversamente dalla diagnosi genetica pre-impianto eseguita con finalità eugenetiche, la terapia fetale ha una finalità etica perché considera l’embrione ed il feto come un paziente di cui bisogna prendersi cura.

Un altro gruppo di domande di bioetica riguardano le cellule staminali: che cosa sono? A che cosa servono? È lecito usarle? Si tratta di cellule capostipiti e non differenziate che sono all’origine di tutte le altre cellule differenziate. Dal latino stamen/staminis = trama, ordito, filo. Tali cellule sono presenti negli embrioni, nel cordone ombelicale, nell’organismo adulto. Le cellule staminali hanno la capacità prolungata di riprodursi senza differenziarsi, dando così vita ad altre cellule staminali, oppure possono dare origine a cellule progenitrici di transito (con capacità proliferativa limitata) dalle quali discendono cellule altamente differenziate (nervose, muscolari, ematiche, ecc.).

Le cellule staminali embrionali (embryo stem cells) sono «totipotenti», possono cioè sviluppare tutte le linee cellulari dell’organismo. La loro preparazione implica un processo molto complesso: 1) la produzione di embrioni e/o l’utilizzazione di quelli soprannumerari da fecondazione in vitro o crioconservati; 2) il loro sviluppo fino allo stadio di iniziale blastociste; 3) il prelevamento delle cellule dell’embrioblasto o massa cellulare interna attraverso una tecnica invasiva che comporta la distruzione dell’embrione umano; 4) la messa in coltura di tali cellule che così si moltiplicano e formano colonie. Le cellule totipotenti, se immesse in un organismo, possono provocare l’insorgenza di tumori. La «clonazione terapeutica» ovvero la riproduzione asessuale e agamica di un organismo umano — mediante trasferimento del nucleo di una cellula di un soggetto in un oocita umano enucleato — , viene propugnata al fine di evitare i rischi tumorali delle cellule staminali embrionali e al fine di risolvere le patologie. In questo modo si creano embrioni per poi distruggerli. L’uomo viene così ridotto a strumento, cosa, oggetto da produrre e distruggere in base a presunti vantaggi che ne deriverebbero.

Le cellule staminali adulte o somatiche possono essere estratte dal midollo, dal cervello, dal fegato, dal tessuto adiposo; non sono totipotenti, ma pluripotenti (o multipotenti), in quanto sono in grado di dare origine solo ad alcuni tessuti. Anche se la rarità di queste cellule costituisce una difficoltà, bisogna riconoscere che le cellule staminali adulte provenienti da tessuti specifici, non ledono l’integrità del soggetto, presentano il vantaggio di essere differenziate, possiedono versatilità e plasticità, non comportano la distruzione di embrioni. Dal punto di vista terapeutico, le cellule staminali adulte stanno offrendo buoni risultati in quanto possono essere trapiantate e sono in grado di ricostruire il tessuto del ricevente. Le cellule staminali pluripotenti indotte (Induced pluripotent Stem cell — IPS) derivano dalla riprogrammazione genetica di cellule adulte differenziate in cellule staminali pluripotenti. La tecnica estremamente innovativa, che ha consentito di riprogrammare cellule della pelle, è stata elaborata dal laboratorio di Biologia delle Cellule Staminali dell’Università di Kyoto, diretto dal prof. Shinya Yamanaka, e successivamente confermata da ricerche che si sono svolte in molti laboratori, sia in Italia che in USA. Le metodiche che si perfezionando sono molto importanti, anche se necessitano di controlli sperimentali accurati. Visto che la fase sperimentale è stata già avviata con successo e i risultati con le cellule staminali adulte sono molto promettenti, come dimostrano i risultati fin qui raggiunti, perché non investire nella ricerca con cellule staminali somatiche o adulte?

7. La ricerca con esseri umani

Nella storia dell’etica della ricerca con esseri umani si registrano numerose violazioni della dignità umana. Nei campi di concentramento venne attuata tragicamente la sospensione del diritto e la violazione dei diritti umani da parte dei medici nazisti. Le sperimentazioni selvagge nei campi di concentramento furono compiute sui prigionieri e sulle persone internate (ebrei, polacchi, russi, cechi).21 Gli esperimenti di decompressione e di ipotermia a Dachau, gli esperimenti sull’ereditarietà dei caratteri che Menegele, il dottore del terzo Reich, fece sui fratelli gemelli, sono alcuni tragici esempi di come la dignità della persona possa essere violentata dalla «follia collettiva delle menti» di una presunta scienza che, ispirandosi all’ideologia suicida del nazismo, ha annientano l’uomo, riducendolo ad oggetto strumentale, a cavia. Così facendo, la scienza medica è stata degradata ed il suo progresso è stato «sospeso». Tali sperimentazioni disumane erano promosse sulla base della supremazia della scienza, in nome di una suprema ragion di stato, rappresentata dal nazismo. Tra il 1946 e il 1947 si svolse il processo indetto dal tribunale Militare Internazionale insediatosi a Norimberga, che doveva giudicare i responsabili dei crimini di guerra nazisti. Il primo di dodici processi, cosiddetti secondari, di Norimberga fu quello nei confronti di ventitré persone, dottori ed amministratori che avevano preso parte alle sperimentazioni su esseri umani nei campi di concentramento nazisti. Il testo della sentenza contro i medici nazisti, noto come Codice di Norimberga (1947) o Decalogo di Norimberga, fissò in 10 punti alcune linee guida fondamentali. Si sancì la necessità del consenso volontario (voluntary consent) delle persone sottoposte a sperimentazione. Proprio il consenso volontario e informato delle persone sottoposte a sperimentazioni mediche divenne il criterio etico-giuridico imprescindibile di ogni sperimentazione clinica. I principi enunciati nel Codice di Norimberga furono adottati dall’Associazione Medica Mondiale nell’Assemblea svoltasi a Ginevra nel 1948, ispirarono la Dichiarazione di Ginevra (Associazione Medica Mondiale, Dichiarazione di Ginevra, 1948) ed il Codice internazionale di etica medica, approvato a Londra (Associazione Medica Mondiale, Codice Internazionale di etica medica, 1949). Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo.

Nel giugno del 1964 la XVIII Assemblea della World Medical Assocation, dopo 3 anni di discussione, adottò una risoluzione sui principi base della ricerca, nota come Dichiarazione di Helsinki (1964). Si affermò la necessità di svolgere preventivi esami di laboratorio su animali, un’accurata valutazione dei rischi connessi alla sperimentazione sull’uomo; inoltre, la sperimentazione non terapeutica fu distinta dalla ricerca clinica connessa con l’attività sanitaria; per la sperimentazione non terapeutica si ribadì la necessità del libero consenso, preceduto da informazione, mentre per la sperimentazione terapeutica il libero consenso doveva essere richiesto solo se possibile, secondo la psicologia del paziente. Nonostante ciò, alcuni articoli denunciarono esperimenti non etici. Il Dr. Henry Knowles Beecher (1904-1976), professore di anestesia della Harvard Medical School, nel 1966 pubblicò sul «New England Journal of Medicine»22 un articolo descrisse 22 esempi di ricerche non etiche che misero a rischio la vita delle pazienti. Questo articolo e l’inchiesta congressuale che ne derive alla base della fondazione delle correnti guidelines sul consenso informato e sull’umana sperimentazione.

Inoltre, il libro di Maurice Henry Pappworth (1910-1994), Human Guinea pigs. Here and now. Experimentation on man (1967), mise in luce molti esperimenti in cui molti soggetti sani rischiavano la vita. Queste opere di denuncia erano nate dalla consapevolezza che ogni sperimentazione dovesse rispettare i principi affermati nella Dichiarazione di Helsinki.

Purtroppo la storia dell’etica delle sperimentazioni è contrassegnata da azioni illecite e disumane compiute anche dopo i processi di Norimberga.

Il caso più sconvolgente di sperimentazione selvaggia senza consenso informato è noto alle cronache come «Tuskegee syphilis study» (1932-1972). Questa sperimentazione disumana e razzista, durò ben quarant’anni e fu promossa dalle autorità governative americane. Lo studio fu rivelato dal «New York Times» nel 1972. Nel 1932 il Servizio Sanitario pubblico statunitense si propose di studiare la storia naturale della sifilide e gli effetti della malattia su una popolazione di colore che presentava un alto tasso di sifilide. Lo studio fu condotto nella città Tuskegee, nella contea di Macon dello stato dell’Alabama (USA). Vennero reclutati come cavie 600 braccianti e mezzadri di colore dell’Alabama (600 black man, mostly poor and uneducated): 399 avevano una diagnosi di sifilide e non vennero mai curati. Agli interessati non fu mai comunicata la diagnosi. I restanti 200 soggetti, non affetti da Sifilide, furono impiegati come gruppo di controllo.

I soggetti quindi non sapevano di avere la sifilide, ma fu detto loro di avere solo il «sangue cattivo» (Bad Blood), ragion per cui dovevano sottoporsi ad esami medici periodici, inclusa la puntura lombare. Ai soggetti fu promesso il trasporto gratuito in ospedale, cure mediche gratuite per tutte le patologie, un pasto caldo al giorno e, in caso di morte, un rimborso per la sepoltura.

Lo studio fu valutato più volte dai responsabili del Servizio di Sanità Pubblica dell’USA, ma si ritenne che la validità scientifica ne giustificava la continuazione. Quando lo studio si concluse, nel 1972, solo 74 persone erano ancora vive, 28 erano morte di sifilide, 100 erano morte a causa di complicazioni, 40 delle loro mogli erano state infettate e 19 dei loro figli erano nati con una sifilide congenita. I ricercatori non iniziarono alcun trattamento a favore dei pazienti, neanche quando divenne disponibile la penicillina, cioè verso la fine degli anni Quaranta. Questo studio rivela una mentalità razzista. La scoperta del «Tuskegee study» indusse il presidente degli Stati Uniti ad istituire nel 1974 di una Commissione che produsse il Rapporto Belmont (1978). Il documento affermò il principio del rispetto dell’autonomia delle persone coinvolte nella sperimentazione e, conseguentemente, l’obbligo del consenso informato. A ciò si aggiunse l’enunciazione del principio di beneficialità negli interventi sperimentali e il principio di giustizia. La commissione concluse che la società non poteva più permettere che l’equilibrio tra i diritti individuali e il progresso scientifico venisse unicamente determinato dalla comunità scientifica».

Un’altra sperimentazione non etica si svolse presso il Jewish Chronic Disease Hospital di Brooklyn di New York (1963-1964), dove il dottore Chester Sotuham dello Sloan-Kettering Institute for Cancer Research iniettò, con il permesso del direttore sanitario dell’ospedale, cellule epatiche tumorali eterologhe in 22 anziani istituzionalizzati, dementi e soli, per valutare gli effetti immunologici. I pazienti non ricevettero le informazioni eticamente corrette.

Presso il Willowbrook State School di New York (1956-1970), alcuni medici iniettarono il virus dell’epatite B attivo in 800 bambini orfani, istituzionalizzati e handicappati psichici, per studiare l’eziopatogenesi dell’epatite e per sviluppare un vaccino. Lo studio, condotto da un medico pediatra e infettivologo, iniziarono nel 1956 e si protrassero sino al 1970, quando emersero all’attenzione del pubblico. Il modulo del consenso era stato redatto in modo ingannevole. Se i genitori si fossero rifiutati di esprimere il consenso alla sperimentazione disumana, l’istituto di cura non avrebbe ammesso i loro figli. Il centro di ricerca fu in seguito chiuso, ma i responsabili non subirono alcuna condanna e non si aprì nessun iter giudiziario.

Questi fatti dimostrano quanto sia importante porre al centro dei protocolli di sperimentazione il bene integrale della persona, la cui dignità ontologica non può essere prevaricata da interessi economici o anche scientifici. Non esiste infatti una buona scienza ed un progresso scientifico autenticamente umano senza un’etica della vita umana. Quest’ultima non è solo il riflesso vincolante di un dovere morale, ma l’espressione dell’amore per l’uomo e per la sua dignità.

8. Conclusione

Dalla medicina e dalla biologia sorgono molte domande. Tuttavia, la scienza non è sufficiente per fornire le risposte. Il ricorso diretto e indiretto alla tradizione filosofica (Tommaso, Rosmini, Kant, la filosofia della medicina contemporanea, le classiche distinzioni sul significato dell’azione, ecc.), non favorisce la conclusione che nella bioetica non ci sia nulla di nuovo o ancor peggio che la bioetica sia inutile. In primo luogo, vale la pena sottolineare che il fondamento della bioetica è la dignità ontologica dell’uomo e questa base è l’insegnamento perenne di una riflessione «metafisica integrale» di cui è possibile riscoprire la fecondità. Le questioni bioetiche qui evocate sono inedite ed esigono un ripensamento o meglio un approfondimento della questione antropologica, che deve consentire di superare l’autosufficienza delle competenze acquisite in uno spazio interdisciplinare per mezzo dello «sforzo edificante dell’integrazione». In questo progetto antropologico e sociale, a cu tutti siamo chiamati a partecipare, l’etica della vita umana si coniuga con l’etica sociale. La bioetica parte dunque dalla considerazione medico-scientifica, esprime un’istanza antropologica, come quella espressa dal personalismo ontologico qui riproposto, si declina nel diritto e nell’etica biomedica e sociale. La prospettiva integrale sulla persona richiede la considerazione della natura biologica dell’uomo, di cui oggi comprendiamo meglio alcuni aspetti, ma non propugna un naturalismo filosofico e non cade nella fallacia naturalistica. Tale fallacia si verifica solo in una prospettiva naturalistica, empiristica o anche in un approccio astratto all’essere e alla persona, ma non si verifica in una metafisica dell’integralità, dove non c’è un passaggio o un salto dal reale all’ideale normativo. Ogni forma dell’essere e ogni livello di realtà deve essere riconosciuto e integrato nell’ordine intrinseco dell’essere. Il riferimento alla trascendenza della verità si esprime nella ricerca di senso e nella globalità del senso a cui ogni uomo aspira e a cui il filosofo deve cercare di dare umilmente ascolto.


  1. Per una trattazione approfondita rinviamo al testo: F. D’Agostino, Parole di Bioetica, Giappichelli, Torino 2003, pp. 27-34. ↩︎

  2. Potter V.R., Bioethics. Bridge to the future, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1971, p. 1. ↩︎

  3. Reich W.T. (ed.), «Bioethics», in Encyclopedia of Bioethics, 4 voll., The Free Press, New York 1978; Introduction, p. XIX. ↩︎

  4. Reich W.T. (ed.), Introduction, in id., Encyclopedia of Bioethics, 5 voll., MacMillan Simon & Schuster, New York 1995, p. XXI. ↩︎

  5. Reich W.T., La Bioetica negli Stati Uniti, in C. Viafora (a cura di), Vent’anni di Bioetica, Fondazione Lanza, Libreria Gregoriana Editrice, Padova-Roma 1990, p. 171 ↩︎

  6. Pessina A., Bioetica. L’uomo sperimentale, Mondadori, Milano 2000. ↩︎

  7. Ioannes Paulus PP. II, Veritatis splendor (6 Agosto 1993), San Paolo, Milano 1993, par. 78. ↩︎

  8. Commissione Teologica Internazionale, Comunione e servizio. La persona umana creata a immagine di Dio, LEV, Città del Vaticano 2005, par. 95. ↩︎

  9. Cfr. Pellegrino E.D., Thomasma D.C., For the Patient’s Good. The Restoration of Beneficence in Health Care, Oxford University Press, New York 1988. ↩︎

  10. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Dignitas personae su alcune questioni di Bioetica, LEV, Città del Vaticano 2008, par. 27 ↩︎

  11. Cfr. Martin M. Monti, Steven Laureys, Adrian M. Owen, The vegetative state, BMJ 2010; volume 341:c3765, pp. 292-296: «Coma is a condition of unresponsiveness in which patients lie with their eyes closed, do not respond to attempts to arouse them, and show no evidence of awareness of self or of their surroundings. Patients lack not only signs of awareness (similar to vegetative state) but also wakefulness (unlike vegetative state) regardless of how intensely they are stimulated. Patients typically either recover or progress to a vegetative state (that is, they show signs of wakefulness) within four weeks. Irreversible coma with absent brainstem reflexes indicates brain death, which is not the same as a vegetative state. The minimally conscious state is a condition in which patients appear not only to be wakeful (like vegetative state patients) but also to exhibit inconsistent (fluctuating) but reproducible signs of awareness (unlike patients with vegetative state). Like the vegetative state, the minimally conscious state may be transitory and precede recovery of communicative function or may last indefinitely. Locked-in syndrome(or pseudocoma), although not a disorder of consciousness, may be confused with vegetative state. Patients with locked-in syndrome are both awake and aware, yet they are entirely unable to produce any motor output or they have an extremely limited repertoire of behaviours (usually vertical eye movement or blinking)» (p. 293). ↩︎

  12. Ministero della Salute, Libro bianco sugli stati vegetativi. Il punto di vista delle associazioni che rappresentano i familiari. Le buone pratiche e le problematiche relative ai percorsi di cura e ai centri di riabilitazione. Dall’evento al domicilio attraverso un percorso sanitario e sociosanitario, 2010, p. 4. ↩︎

  13. Martin M. Monti, Audrey Vanhaudenhuyse, Martin R. Coleman, Melanie Boly, John D. Pickard, F. Med.Sci., Luaba Tshibanda, Adrian M. Owen, and Steven laureys, Willful Modulation of Brain Activity in Disorders of Consciousness, «The New England Journal of Medicine», 18 Feb 2010, volume 362, pp. 579-589. I ricercatori dell’università di Cambridge e dell’Università di Liège hanno reclutato 23 soggetti in SV e 31 in minima coscienza e hanno constatato che nel momento in cui i soggetti immaginavano di giocare a tennis o immaginavano di passeggiare in una stanza, si attivavano le aree cerebrali che presiedono al movimento. Alla fine dell`esperimento, quattro pazienti che inizialmente erano stati classificati in stato vegetativo si dimostrarono in grado di modulare la propria attività cerebrale attraverso l’immaginazione mentale. Inoltre, un paziente che aveva subito un incidente con conseguente trauma cerebrale, classificato come paziente in stato vegetativo, aveva risposto correttamente, con la propria attività cerebrale, a 5 delle 6 domande autobiografiche. Il soggetto doveva rispondere pensando ad un tipo di immagine in caso di risposta affermativa (immagine motoria o immagine spaziale) e all’altro tipo di immagine in caso di risposta negativa. ↩︎

  14. The Multi Society Task Torce on PVS, Medical Aspects of the Persistent Vegetative State: First of Two Parts, in «New England Journal of Medicine» 330/ 21, pp. 1499-1508; 1572-1579. ↩︎

  15. Australian Government National Health and Medical Research Council, Post-coma unresponsiveness (vegetative state). A clinical framework for diagnosis. An information paper (18.12.2003); Veronika Montiel Boehringer, Estado vegetative (post-coma unresponsiveness): una condición poco comprendida, in «Medicina e Morale», 2010/1, pp. 75-109. ↩︎

  16. Comitato Nazionale per la Bioetica, L’alimentazione e l’idratazione in stato vegetativo persistente, Parere del 30 Settembre 2005. ↩︎

  17. Ministero della Salute, Libro bianco sugli stati vegetativi… , p. 7. ↩︎

  18. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. sull’eutanasia Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), IV, l. c., 551; Ioannes Paulus PP. II, Evangelium vitae (25.03.1995), par. 65. ↩︎

  19. Comitato Nazionale della Bioetica, I criteri di accertamento della morte, Parere del 24 giugno 2010. ↩︎

  20. Habermas J., Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002. ↩︎

  21. Lepicard E., Auschwitz nella prospettiva di Norimberga. Implicazioni mediche ed etiche, in E. Baccarini, Lucy Thorson (a cura di), Il bene e il male dopo Auschwitz. Implicazioni etico-teologiche per l’oggi, San Paolo, Milano 1998, pp. 205-223. ↩︎

  22. Beecher H.K., Ethics and clinical research, in «The New England Journal of Medicine», 1966, 274, pp. 1354-1360. ↩︎