1. Le tragedie dell’impossibile
Pensare ad Albert Camus significa ricordare l’uomo della rivolta, ma anche l’autore del Mito di Sisifo o il giornalista di Combat. Pensare a Camus significa incontrare una protesta1 che si nutre del rifiuto del negativo ma prima ancora di una verità fatta di terra e di carne, di sole e di ombre. Pensare a Camus significa lasciarsi trasportare in uno spazio non circoscritto: quello dell’intellettuale di confine, che si muove su un territorio di prossimità ma non di compiuta identificazione, poiché luogo di frontiera e non di sbarramento, baricentro di un complesso e fecondo sguardo d’insieme.
La sua opera, infatti, non si esaurisce integralmente nell’aderenza al polo letterario o filosofico, bensì si dipana attraverso molteplici canali espressivi. L’esclusione di un ambito delimitato di riferimento e la riluttanza nei confronti del razionalismo accademico confermano, quindi, l’appartenenza di Camus a quella regione dove la ricchezza del contributo multidisciplinare, rappresentata nello specifico dal fecondo connubio di arte e filosofia, coinvolgerà anche l’ambito teatrale, in un esercizio che vedrà implicato il pensatore con passione e in prima persona.
Il rapporto di Camus con il teatro, sia in veste di attore che di drammaturgo, è legato all’esperienza con il Théâtre du Travail, compagnia da lui fondata in Algeria negli anni ’30, mentre, da poco laureato, si mantiene con i mestieri più disparati: dall’impiego nel centro meteorologico alla vendita di accessori d’auto. In seguito alla rottura con il partito comunista,2 la compagnia si scioglie e ne viene fondata un’altra, il Théâtre d’Équipe. È però in quella che viene definita come seconda stagione teatrale, con sede parigina, che il drammaturgo metterà in scena i suoi celebri drammi. Così Il malinteso, Caligola, I giusti e Lo stato d’assedio racconteranno «apparentandosi a generi teatrali diversi, quattro storie di individui che, abbandonandosi all’empito di una o più passioni dominanti, hanno scelto la strada, aspra e tormentosa, della rivolta, senza per questo attingere alla privilegiata soglia della libertà».3
Indubbiamente il tassello conclusivo di quello che l’autore presenterà come «ciclo dell’assurdo», ossia l’analisi della dialettica insolubile che vede contrapporre al desiderio di ragione e chiarezza dell’uomo la silenziosa indecifrabilità del mondo, è rappresentato da Caligola che completa, insieme allo Straniero e al Mito di Sisifo, il trittico progettato da Camus. Non a caso, «una delle grandi faccende della sua vita è il teatro. Ha continuato ad occuparsene contemporaneamente alla stesura della tesi,4 […] ai saggi letterali e all’attività di militanza […]. Per lui il teatro non è solo un piacere: ne ha bisogno, nel pubblico e nel privato».5
Caligola, primo dei copioni in ordine di stesura, sarà rappresentato la prima volta il 5 settembre 1945 al Théâtre Hébertot di Parigi. La storia dell’imperatore, votatosi a una spietata e crudele logica omicida, scatenata dalla morte della sorella e amante Drusilla, raggiungerà il culmine in una ribellione estesa al di là del dolore per la perdita della donna.
Crediamo di conoscere il dolore quando perdiamo chi amiamo. Ma c’è una sofferenza molto più terribile: quando ci accorgiamo che anche i dolori non durano a lungo. Anche il dolore non ha senso.6
Caligola comprende che «anche l’amore, il valore sulla cui perdita aveva fondato la sua rivolta, rientra nell’oscurità dell’“equivalenza”, dove tutto è uguale e niente ha più importanza»,7 ossia avverte l’intollerabilità di un’esistenza dominata dalla mortalità, dunque dall’infelicità, e a questa oppone un delirante desiderio: «decide di realizzare l’assurdo supremo. Si renderà colpevole per offrirsi come responsabile del dolore umano».8
Un mondo regolato dalla cecità dell’arbitrio o dall’indifferenza divina legittima per assurdo il «lirismo disumano»9 della logica assassina adottata dall’imperatore. Se è il fato il signore del mondo allora Caligola andrà sino in fondo, per possedere la luna, e trascinare nella libertà sconfinata la menzogna smascherata, ormai incapace di proteggere l’ipocrisia umana. L’esasperazione della potenza, fomentata dall’intento di eguagliare in crudeltà l’indifferenza degli dei, poiché «per un uomo che ama il potere, la concorrenza degli dei è seccante»,10 non potrà che condurlo anche all’annichilimento di sé. «Caligola sarà ucciso dai congiurati, è vero, ma è pur sempre lui a dirigere i loro pugnali»,11 coerente sino alla fine alla propria rivolta lucida e sterile.
Non avrò la luna. Comincio ad aver paura. […] Nemmeno la paura dura tanto. Sto per ritrovare quel grande vuoto in cui l’anima si placa. […] Eppure sono certo, ed anche tu lo sei (tende le mani verso lo specchio piangendo), che mi basterebbe l’impossibile. L’impossibile! L’ho cercato ai confini del mondo e di me stesso. Ho teso le mani. (Urlando. ) Tendo le mani e non incontro che te, sempre te, come uno sputo sul mio viso.
«Per Camus, Caligola è “la storia di un suicidio superiore”. Il Malinteso quello di un suicidio inferiore? Scritto nel 1942 e 1943 in un paese occupato, […] il dramma “indossa i colori dell’esilio”, ma non è disperato né disperante».12 La piéce andrà in scena nel 1944 al Teatro dei Mathurins ricevendo però un’algida accoglienza.
La struttura del Malinteso riprende i tratti dell’antica tragedia greca: unico topos, quattro personaggi e breve arco di tempo, che dipana la vicenda in poco più di una giornata. La trama, nello specifico, si sviluppa intorno alla figura di Jean che, dopo venticinque anni di assenza, decide di far ritorno al paese natio e prendere alloggio nella locanda gestita dalla madre e dalla sorella Marta, celando però la propria identità. Le donne, che incarnano la figura del ribelle esistenziale, per uno strano gioco di fraintendimenti si troveranno ad essere carnefici dello sciagurato ospite. Questi, infatti, incurante delle sollecitazioni della moglie Maria, si ostinerà nella dissimulazione eludendo con tal scelta la possibilità di venir riconosciuto e, forse, risparmiato da quella tragedia che trascinerà con sé anche le omicide.
Marta e sua madre agiscono in nome del “tutto è lecito”, ai loro occhi legittimato da una vita più crudele di loro, ma mosse, a un tempo, dal desiderio di quell’Altrove «dove il sole soffoca qualsiasi interrogativo».13 L’ineluttabilità di un destino assurdo e della contraddizione insanabile tra ricerca del compimento e smarrimento nel non senso permea l’intero dramma esplicandosi anche nelle parole di Maria, la moglie apparentemente paga di un’esistenza felice:
Sono tanto sicura del tuo amore, eppure so che mi allontanerai da te. Per questo l’amore degli uomini è torturante. Non possono trattenersi dal lasciare ciò che amano.14
La confessione di Maria, più che una sorta di macabro presentimento della tragedia a venire, sembra rappresentare l’ennesima illustrazione dell’assurdo per eccellenza: lo scandalo dell’effimero e il miracolo di amare ciò che muore. La consapevolezza di sapersi destinati all’ineluttabile scacco finale svela, insieme al carattere tragico dell’esistenza, anche quello, a essa connesso, della paradossalità dell’amore, ossia l’inesorabile condanna a lasciare o perdere ciò che si ama. La caducità sancisce il limite invalicabile dell’affettività, limite che solo uno sguardo capace di una fedeltà superiore, all’uomo e alla sua finitudine, potrà sopportare.
Non mancano i riferimenti ad altre fondamentali tematiche camusiane, come la contrapposizione tra i crepuscoli della grigia e malinconica Europa, patria dello smarrimento e dell’esilio, e i tramonti mediterranei, colmi della gioia paga in cui «le serate sono promesse di felicità»;15 e ancora il delitto e il suicidio, o la solitudine umana dinnanzi all’indifferenza divina.16
Particolare attenzione merita il personaggio di Marta che compie sì efferati delitti consapevole dell’irrazionale volto dell’esistere, ma è anche animata da quel desiderio di felicità che caratterizza l’uomo in quanto tale: «Ciò che ho di umano è ciò che desidero, e per ottenere ciò che desidero, credo che travolgerei tutto sul mio passaggio».17
La novità che emerge in quest’opera è infatti inerente al desiderio di felicità, ma per la prima volta Camus chiama in causa le implicazioni etiche a questa connesse. Come Marta, anche Jean ambisce al completo appagamento poiché, nonostante la fortuna già ottenuta, sente che «non si può essere felici nell’esilio e nell’oblio»,18 ma sceglierà la strada della menzogna sancendo così definitivamente la propria condanna. Il malinteso rinvia quindi a qualcosa di più profondo, che non si risolve in un fatale gioco di equivoci, poiché a essere chiamata in causa è anzitutto la responsabilità del protagonista, la deformazione volontaria di quella verità appassionatamente difesa da Meursault. Non è infatti casuale l’inciso che anticipa nello Straniero la piéce in questione: Meursault trova incastrato nella branda della sua cella uno stralcio di giornale che riporta, facendolo passare per un fatto di cronaca, quella che sarà la trama del Malinteso, aggiungendo inoltre un commento capace di sciogliere il nodo della questione:
Devo aver letto quella storia un migliaio di volte. Da una parte mi pareva inverosimile, dall’altra era naturale. In ogni modo, trovavo che il viaggiatore se l’era un po’meritato, e che non si deve mai giocare.19
L’amore per la verità di Meursault traduce una morale della sincerità20 rivendicata e difesa anche nell’opera teatrale, «Jean non è “l’étranger”, ma è l’esiliato che tace per nascondere la verità: è questo il malinteso che lo condanna».21 Così Jean celerà la propria identità e Marta si opporrà imperterrita al vano tentativo materno volto a scongiurare l’ennesimo delitto, impedendo un contatto tra i due, e in tal modo «sarà proprio il silenzio fondamentale tra madre e figlio, a provocare la tragedia».22 L’indomita Marta rimarrà disposta a tutto pur di realizzare i suoi desideri persino di fronte al drammatico smascheramento finale, dopo il quale, però, non le rimarrà che aspirare al nulla di una terra che inghiotte senza promesse, nell’indifferenza emotiva e nel rifiuto di una riconciliazione resa possibile solo dalla «sofferenza di rinascere all’amore».23 La scoperta della reale identità della vittima svelerà infatti, insieme al dramma, il latente e mai sopito amore materno. La presenza, fortemente autobiografica, della madre umile e silenziosa, assumerà nella pièce toni di disarmante tenerezza e straziante angoscia rivelando proprio nel mancato riconoscimento la profondità di un amore mai rivelato ma non per questo sopito, poiché espresso mediante melodie altre, veicoli di una necessità interiore, prossima a un urlo originario.
E il mio vecchio cuore, che si credeva staccato da tutto sta imparando di nuovo a conoscere il dolore. Non sono più abbastanza forte per poterlo sopportare. E ad ogni modo, quando una madre non è più capace di riconoscere il proprio figlio, vuol dire che ha terminato di recitare la sua parte sulla terra.24
L’indifferente logica quantitativa incontrata con Caligola, sebbene legittimata da un’inconsistenza assiologica, incontra con la figura materna del Malinteso un limite che diviene barriera: l’assassinio del figlio decreta l’«umanamente intollerabile».25
Non ho più pensieri, e tanto meno pensieri di rivolta […]. Ho perso la mia libertà […]. È bastato il dolore a trasformare tutto […]. Non è altro che la sofferenza di rinascere all’amore, eppure è più forte di me. So che anche questa sofferenza non ha ragione di essere. Ma il mondo stesso non è ragionevole; lo posso dire io che l’ho goduto per intero, dalla creazione alla distruzione.26
2. Con l’assurdo, sull’assurdo: Beckett e Camus
Camus «invitava a non considerare il suo teatro un “teatro filosofico”»27 designandolo, piuttosto, come espressione del «teatro dell’impossibile»28 poiché, ancora una volta, la contingenza del conflitto espresso nei suoi drammi altri non è che il simbolo di un’opposizione più radicata e inesorabile: quella della rivolta contro il mondo e contro la propria condizione; una rivolta ispirata dal sentimento dell’assurdo e dal senso di inattuabilità che esso comunica, poiché un’azione assurda è e rimane un’azione impossibile. L’indomita presenza della muraglia assurda attraversa, quindi, anche la produzione teatrale del poliedrico Camus, divenendo occasione per legittimi, seppur non banalmente risolvibili, accostamenti e confronti con l’assonante teatro dell’assurdo, sviluppatosi contemporaneo alla riflessione del pensatore, tra la fine degli anni ’40 e gli inizi dei ’50.
Il teatro dell’assurdo nacque con l’intento di dar voce al senso di angoscia, alienazione e incomunicabilità dell’individuo contemporaneo dinnanzi a quell’assurdità dell’esistenza denunciata da Camus, ma si distanziò sostanzialmente dalle fonte ispiratrice sia in virtù dei contributi contenutistici che delle modalità stilistico-espressive. La denuncia dell’inquietudine esistenziale, infatti, avviene mediante una peculiare scelta espressiva che individua nel rigetto della struttura tradizionale il veicolo stesso mediante il quale manifestare il disagio dell’esistente. La scelta di una modalità alogica, l’insensatezza dei dialoghi, l’inconsistenza della trama, e ancora, il primato del grottesco congiunto all’atmosfera asfissiante divengono articolazioni stesse dell’assurdo, incarnazioni del disagio vitale e non sterili canali di comunicazione. Così, se nel Malinteso il dialogo negato finisce comunque per trovare una sorta di riscatto nell’insopprimibile legame filiale, l’assenza respirata nella rappresentazione beckettiana non lascia spazio a fraintendimenti; il soffocante tentativo di riconoscimento di Jean si traduce in Waiting for Godot in un dialogo fine a se stesso: attendere un Dio che non esiste e dunque non può arrivare, God not, vanifica l’attesa e allo stesso tempo la speranza.
Il dramma si dipana nella conversazione stessa, ossia mediante la vana ripetizione di frasi private di funzione significante, dove il conversare è volto solo a «ingannare l’attesa in cui consiste l’essenza della pièce stessa»,29 ed è proprio la mancanza di un’azione, dunque di una trama, a svelare il contenuto del dramma: «l’attesa di qualcuno che non verrà diventa la forma attraverso cui si rivela il significato dell’esistenza umana».30
La celebre opera beckettiana appare intrisa di connotati grotteschi, come i rimandi alle gags del cinema muto volti a rafforzare il lato tragico dell’esistere:
ridiamo dell’infelicità umana in quanto ridiamo della beffa più clamorosa di cui è vittima l’umanità, e cioè del fatto che, in ultima istanza, non è possibile cogliere un senso, uno scopo, una finalità nella nostra esistenza.31
Inoltre, l’inattuabilità del compimento e della significazione ultima assume toni disperati proprio in virtù dell’inesauribilità della domanda, poiché Beckett, come Camus, individua la tragicità della condizione esistenziale nella condanna che vede l’uomo «inchiodato alle leggi insensate di una esistenza miserevole, che tuttavia non sa, né vuole, abbandonare».32
La battuta con cui Pozzo esce di scena rivela così la disarmante, poiché inconsistente, libertà in cui si risolve tutta la miseria umana:
Ma la volete finire con le vostre storie di tempo? È grottesco! Quando! Quando! Un giorno, non vi basta, un giorno come tutti gli altri, è diventato muto, un giorno io sono diventato cieco, un giorno diventeremo sordi, un giorno siamo nati, un giorno moriremo, lo stesso giorno, lo stesso istante, non vi basta? (Calmandosi) Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, e poi è di nuovo notte. (Tira la corda) Avanti!33
L’anatema del tempo è essenzialmente quello di una «misura scarsa»34 che «ci condanna a una insopportabile ristrettezza»35 nella quale l’eroe beckettiano mostra il volto indigente della creatura consacrata all’attesa perenne, a un tempo, consapevole della paradossalità e inammissibilità dell’esistere.
Tale attesa, alimentata dalla domanda insolubile, consacra inoltre l’esistente a una «solitudine irrimediabile»,36 che nella rappresentazione dell’incomunicabilità totale tra gli individui di Giorni felici assume i toni più disperati.
In quest’opera il movimento scompare del tutto, Winnie che nel primo atto è interrata fino alla vita, nel secondo lo sarà sino al collo, costretta all’assoluta immobilità, in una fissità che diviene metafora della paralisi dell’individuo intrappolato nella realtà desolata nella quale la parola «è un passatempo, ma anche un impasse».37 Il continuo monologo di Winnie, interrotto solo dal deludente tentativo di interloquire con il compagno Willie, intenta a trascorrere felicemente il giorno che vive in scena, così come quelli passati e rammentati, rivela, proprio mediante «la normalità delle sue frasi nell’anormalità della situazione, […] la chiave del dramma».38
La modalità espressiva beckettiana diviene veicolo per la manifestazione del lato oscuro, di quell’ombra feconda e creativa che non cessa di ingorgarlo nell’orrore; poiché in Beckett la scrittura non purifica, bensì diffonde l’informe mediante la bellezza della parola, in una rappresentazione che designa però «una danza di voci che non conclude in nessuna sinfonia».39
La strutturazione del teatro beckettiano manifesta così la peculiare articolazione espressiva del teatro dell’assurdo, rivelando le manifeste difformità con l’assetto artistico pensato, al contrario, da Camus:
Il linguaggio distrutto dalla negazione irrazionale si perde in delirio verbale […] Se nella sua rivolta l’uomo deve rifiutare ad un tempo il furore del nulla e il consenso alla totalità, l’artista deve sfuggire insieme alla frenesia formale e all’estetica totalitaria della realtà. […] La civiltà è possibile solo se, rinunciando al nichilismo dei principi formali e al nichilismo senza principi, ritrovi la via di una sintesi creatrice.40
3. Lo scandalo dell’effimero: la denuncia rumena
L’impossibilità si configura come assenza di comunicazione anche nell’opera di un altro insigne esponente del teatro dell’assurdo, ovvero Eugène Ionesco. Il celebre drammaturgo rumeno esordì infatti nella sua prima pièce teatrale, la Cantatrice calva (Parigi, Théâtre des Noctambules, 1950) con personaggi affini a vuote conchiglie in balia delle onde, individui prossimi a fantocci senza identità. L’intento di Ionesco appare chiaramente: le sue opere rappresentano «schemi ormai senza contenuto in una società che continua a portarsi appresso le ampolle di essenze irrimediabilmente evaporate e che nel puntiglioso quanto grottesco rispetto del rituale — non per nulla l’azione ci porta in un salotto borghese — s’illudono di eludere le domande senza risposta».41
L’uso spregiudicato di parole deformate e per lo più accostate in virtù di sole affinità fonetiche, manifesta ciò che per Ionesco è la creazione artistica: un’espressione slegata dai canoni logici volta a mostrare l’incomunicabile piuttosto che dirlo, ossia dimostrarlo logicamente, come sottolinea egli stesso in una lettera di risposta a Gabriel Marcel:
Il mio è un teatro d’immagini, di sensazioni, di reazioni quasi istintive che cerco di rendere nella loro purezza iniziale, primitiva, senza un’elaborazione cerebrale […] La cantatrice calva è un tentativo di esprimere- partendo dalla realtà “realista” più quotidiana, più banale- l’insolito, l’assurdo, forse che (secondo il mio sentire spontaneo) si nasconde dietro la realtà quotidiana e la insidia, la smonta: ahimè, lei mi accuserà di nuovo (a ragione, certo) di voler riportare il logico all’illogico […] penso di riuscire a decifrare, qualche volta, il senso del mio non-senso e a ordinare […] l’emergere d’una passione o l’evidenza dell’assurdo.42
L’impegno intellettuale di Ionesco nasce dal tentativo di risposta ai quesiti che riguardano l’essere umano, «le intuizioni contraddittorie del cuore»43 o le istanze metafisiche espresse attraverso la ricerca di un «Dio, che non sia il Dio dei filosofi estraneo all’urto dell’esistenza»44 poiché chiarisce egli stesso:
Al di sopra di tutto- c’è il mio stupore di trovarmi qui e di far parte integrante di tutto, mio malgrado. Chi mi ci ha messo? Come mi ci trovo? Adottare un sistema filosofico che mi spiegherebbe tutto; una religione, che mi darebbe la chiave di tutto o la speranza che l’universo si riequilibrerà […] è troppo difficile per la mia povera testa, o troppo facile, al contrario; ad ogni modo non vi sarebbe accordo fra il mio pensiero apparente e le profondità oscure delle mie viscere.45
La domanda sull’esistente, ormai mutatasi in domanda sull’inconveniente di essere nati, percorrerà anche, se non soprattutto, le pagine della produzione del compatriota e amico Cioran, il quale instancabilmente denuncerà attraverso la condanna dell’effimero, lo stato di vassallaggio nei confronti del tirannico e indifferente orologio dell’esistenza, regolato sin dal primo vagito in direzione dell’ineludibile scacco finale.
Lo scandalo della caducità diviene, come già accennato, «l’ossessione della nascita»,46 intollerabilità nei confronti di un divenire capace solo di «procurarci a ogni istante qualche nuova umiliazione»,47 poiché, come annoterà lo scrittore in uno dei suoi aforismi: «Ogni volta che non penso alla morte ho l’impressione di barare, di ingannare qualcuno in me».48
Tale senso di angoscia e oppressione finisce per generare in Cioran una vera e propria nostalgia per l’increato49 e il conseguente rifiuto di procreare, di contribuire alla perpetuazione di un universo di sventura poiché sarà tollerabile «aver commesso tutti i crimini, tranne quello di essere padre».50
L’assillo del caduco si manifesta anche attraverso il carattere asistematico della sua opera che individuerà proprio nella scrittura frammentaria l’unico mezzo per sottrarsi alla morsa fagocitante del divenire.
Più si è offesi dal tempo, più si vuole sfuggirgli. Scrivere una pagina senza pecche, o anche una sola frase, vi innalza al di sopra del divenire e delle sue corruzioni. Si trascende la morte con la ricerca dell’indistruttibile attraverso il verbo, attraverso il simbolo stesso della caducità.51
Al contrario, la creazione artistica di Ionesco, seppur caratterizzata da una dissoluzione dei canoni linguistici tradizionali, sostituiti dal casuale incontro di parole decostruite e poi recuperate in una feconda ricomposizione, diviene lo strumento essenziale per testimoniare la lacerazione dell’esistente: «l’arte torna a rappresentare la vita, non a idealizzarla».52
La consapevolezza di sapersi ontologicamente limitati accomuna, pertanto, i due artisti rumeni, fratelli nel male di vivere ma opposti nella reazione a questo: Cioran «con una superbia da giovane superuomo, cerca le tecniche attraverso le quali poter intensificare la sua lucidità».53 Ionesco, all’opposto, si vive come una creatura impaurita e tormentata che cerca nella drammatizzazione assurda una comicità pronta a ridicolizzare il finito, non in virtù di una gratuita misantropia, bensì con l’intento, pur dissacrante, di «ricreare un terreno metafisico»,54 come confermerà l’amico Cioran:
Ho conosciuto Ionesco quando eravamo studenti. Lui è sempre stato attratto dalla religione. Non è credente, ma la fede lo tenta. È ossessionato dall’idea della morte. Non riesce ad accettarla. Abolisce l’idea della morte. Non può farci niente. È un angosciato. L’angoscia è la sua malattia. L’angoscia è al centro di tutto quello che ha scritto. Lui è più religioso di me, che non sono mai stato tentato dalla fede. Ionesco è sempre lì lì per esserlo.55
L’inaccettabilità di un’esistenza paradossale, poiché teatro di estasiante bellezza e indifferente crudeltà, conduce Ionesco al tormento agonico, alla perenne oscillazione tra dubbio e speranza, tra ribellione metafisica e ricerca di un approdo che «soddisfi il bisogno di un significato totalizzante».56 Tale desiderio di compimento apre all’uomo una dimensione di attesa, che, in opposizione alla prospettiva beckettiana, si configura come presenza vissuta nell’assenza. Quest’ultima è essenzialmente la «nostalgia per qualcosa che ci è stato strappato via, è la domanda stessa che si apre a partire da ciò che manca. […] Il primo passo, per Ionesco, è prendere atto del fatto che l’uomo, più avverte l’insondabilità degli interrogativi, l’assenza di un significato, più si sente spinto a non arrendersi».57
La rivolta metafisica del genio rumeno oscilla tra un disperato biasimo nei confronti del fallimento della creazione e un insopprimibile atteggiamento religioso ed evocativo, mediante il quale «la realtà percepita attraverso la bellezza, diviene “segno di… ”, rinvia ad un significato nascosto, diventa la profezia di una promessa».58
Però, al pari di Camus, Ionesco avverte anche la presenza del male: il paradosso della bellezza in cui rintracciare la promessa di un’eterna estate e, d’altra parte, la consapevolezza di sapersi destinati a perdere tutto, senza alcun significato.
L’assurdo camusiano viene da Ionesco battezzato l’“insolito”, un giudizio sul dato, sulla realtà enigmatica attraverso l’unico sguardo ancora possibile, ossia quello illogico, simile a un’intuizione primordiale:
io chiamo assurdo ciò che non capisco perché sono io stesso che non posso attutire o perché è la cosa che è essenzialmente incomprensibile, impenetrabile […] chiamo anche assurdo la mia situazione davanti al mistero, […] assurdo dunque questa situazione, essere qui, che non posso riconoscere come essere mia, che è mia però.59
Non è però solo la propensione alla denuncia del carattere tragico dell’esistenza ad avvicinare i due pensatori, bensì anche una rara sensibilità che congiungerà la commozione destata dal ricordo dei crepuscoli algerini di Camus con l’immagine complementare delle aurore evocata da Ionesco:
Ci sono talvolta in aprile, delle mattine limpide, d’una grazia leggera, molto fragile. Pare che l’universo sia appena nato, appena uscito dall’acqua originale […]. Tutto è solo luce e acqua […] Tutto è solo un’attesa […] La grande speranza.60
Nel rispetto delle innegabili differenze e peculiarità, la distanza tra Camus e Ionesco sembra quindi trovare, mediante l’incanto provocato dalle seducenti sere algerine e dalle fresche mattine primaverili, un terreno comune. Alba e crepuscolo, diventano così momenti di sospensione, occasione per un contatto con l’originaria armonia perduta. Nella bellezza sembrerebbe allora possibile scorgere «il ponte che permette questo segreto dialogo che costringe l’uomo ad uscire da sé per guardare sì il suo limite, ma anche per accorgersi della sua infinita capacità di commozione di fronte a questa realtà sentita come se fosse data la prima volta».61
Tuttavia, se in Ionesco il fascino dell’aurora evocherà la nostalgia di un non ancora intriso di speranza, per Camus la tenerezza di un tramonto, tenerezza che «tocca l’intreccio di essere e apparire»,62 non si risolverà mai in un sentimento di soddisfatta riconciliazione, bensì nel ricordo di qualcosa di irrimediabilmente perduto. Infatti, per quanto sia un «atto di fede» a nutrire e alimentare l’opera camusiana, siffatta dedizione riguarderà esclusivamente la vita e il confine sancito dal finito in quanto tale. Pertanto, se di promessa sarà ancora possibile parlare, questa non avrà che il volto della terra.
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L’uomo assurdo presentato da Camus nel Mito di Sisifo è l’uomo consapevole dell’aspirazione ineludibile al compimento impossibile, ossia l’uomo capace di sopportare il turbamento provocato dalla dicotomia insolubile, quella dell’opposizione tra il suo desiderio di sensatezza e l’insormontabile opacità della natura. L’individuo dipinto nell’Uomo in rivolta ne rappresenta, invece, l’evoluzione poiché è colui che, abdicato il solipsismo, continuerà sempre a rifiutare la presenza del rovescio e del negativo, ma non rinuncerà mai ad opporvisi avanzando, al contrario, una rivolta intesa come ribellione non estrema, poiché vincolata alla misura, al limite sancito dal rispetto dell’umanità in quanto tale. ↩︎
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L’ex combattente del PC Albert Camus rifiutò, infatti, di sacrificare i diritti sociali e civili degli indigeni algerini confluiti nel Partito popolare algerino (PPA), così accusato di trotzkismo; allontanatosi dal partito controbatterà: «Non può esserci cultura là dove muore la dignità e […] non può prosperare una civiltà sottoposta a leggi che l’opprimono». Cfr. O. Todd, Albert Camus. Une vie, Gallimard 1996, Albert Camus. Una vita, Bompiani, Milano 1997, p.147. ↩︎
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A. Camus, Tutto il teatro, cfr. Introduzione di G. Davico Bonino, Bompiani, Milano 2000, pp. VI-VII. ↩︎
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Il DES, ovvero la tesi redatta per il concorso di agrégation (abilitazione all’insegnamento). ↩︎
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O. Todd, Albert Camus. Una vita, cit, pp. 116-117. ↩︎
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A. Camus, Caligula, Gallimard, Paris 1944, it. Caligola in Tutto il teatro, Bompiani, Milano 2000, pp. 111-112. ↩︎
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P. Castoro, Albert Camus. Il pensiero meridiano, ed. Besa, Lecce 2001, p. 20. ↩︎
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A. Montano, Camus. Un Mistico senza Dio, ed. Messaggero di Sant’Antonio, Padova 2003, p. 51. ↩︎
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A. Camus, Caligula, Gallimard, Paris 1944, it. Caligola in Tutto il teatro, cit., p.69. ↩︎
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Ivi, pp. 89-90. ↩︎
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P. Castoro, Albert Camus. Il pensiero meridiano, cit, p. 20. ↩︎
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O. Todd, Albert Camus. Una vita, cit, p. 340. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 15. ↩︎
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Ivi, 26. ↩︎
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Tra gli i vari riferimenti simbolici sarà opportuno segnalare la figura del vecchio domestico, stereotipo di un Dio crudele e indifferente dinnanzi allo strazio di Maria. ↩︎
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Ivi, p. 29. ↩︎
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P. Castoro, Albert Camus. Il pensiero meridiano, cit, p. 50. ↩︎
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A. Camus, L’Étranger, Gallimard, Paris 1942, Lo Straniero, in Opere, Bompiani, Milano 2003, p. 160. ↩︎
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«Lo scrittore trae a posteriori un senso possibile dell’opera: “Se l’uomo vuol essere riconosciuto bisogna semplicemente che dica chi è. Se tace o mente, muore solo e tutto intorno a lui è votato alla sventura. Se invece dice il vero, morirà ma dopo aver aiutato gli altri e se stesso a vivere”». Cfr. O. Todd, Albert Camus. Una vita, cit., p. 340. ↩︎
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P. Castoro, Albert Camus. Il pensiero meridiano, cit, p. 51. ↩︎
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A. Camus, Opere, Bompiani, Milano 2003, p. 1274. ↩︎
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Ivi, p. 40. ↩︎
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Ivi, p. 39. ↩︎
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P. Flores D’arcais, Albert Camus filosofo del futuro, ed. Codice, Torino 2010, p. 16. ↩︎
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A. Camus, Le Malentendu, Gallimard, Paris 1944, Il malinteso in Tutto il teatro, Bompiani, Milano 2000, p. 40. ↩︎
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A. Montano, Camus. Un mistico senza Dio, cit., p. 49. ↩︎
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Ibidem ↩︎
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P. Bertinetti, Beckett, ovvero l’idea di teatro del secondo Novecento, in S. Beckett, Teatro, Einaudi, Torino 2002, p. IX. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. X. ↩︎
-
N. Fusini, Beckett & Bacon, Garzanti, Milano 1994, p. 27. ↩︎
-
S. Beckett, Aspettando Godot, in S. Beckett, Teatro, cit., p. 91. ↩︎
-
N. Fusini, Beckett & Bacon, cit, p. 52 s. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 39. ↩︎
-
Ivi, p. 45. ↩︎
-
P. Bertinetti, Beckett, ovvero l’idea di teatro nel secondo Novecento, cit., p. XIX. ↩︎
-
N. Fusini, Beckett & Bacon, cit, p. 29. ↩︎
-
a.camus, L’Homme révolté, Gallimard, Paris 1951, it. L’uomo in rivolta, in Opere, cit, p. 916. ↩︎
-
g.r. morteo, Prefazione a E. Ionesco, La cantatrice chauve, it. La cantatrice calva, Einaudi, Torino 2010, pp. 11-12. ↩︎
-
E. Ionesco, Lettera a Gabriel Marcel, in Teatro Completo, Einaudi, Biblioteca della Pléiade 1993, pp. 659, 661. ↩︎
-
Ivi, p. 660. ↩︎
-
B. Marini, L’assurdo e la bellezza del mondo in Eugéne Ionesco, in Annali della Facoltà di lettere e filosofia Università degli studi di Perugia 2002-2003, p. 61. ↩︎
-
E. Ionesco, Lettera a Gabriele Marcel, cit., p. 660. ↩︎
-
E.M. Cioran, De l’inconvénient d’être né, Gallimard, Paris 1973, it. L’inconveniente di essere nati, Adelphi, Milano 2007, p. 15. ↩︎
-
Ivi, p. 30. ↩︎
-
Ivi, p. 34. ↩︎
-
«Mi seduce solo quello che mi precede, quello che mi allontana da qui, gli istanti innumerabili in cui non fui: il non nato» cfr. Ivi, p. 11. ↩︎
-
Ivi, p. 12. ↩︎
-
E.M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, cit, p. 37. ↩︎
-
B. Marini, L’assurdo e la bellezza del mondo in Eugéne Ionesco, cit., p. 75. ↩︎
-
M. Petreu, La sventura d’esser nato, in Romania culturale oggi a cura di N. Nesu, Bagatto Libri, Roma 2008, p. 38. ↩︎
-
B. Marini, L’assurdo e la bellezza del mondo in Eugéne Ionesco, cit., p. 64. ↩︎
-
E.M. Cioran, Entretiens, Gallimard, Paris 1995, it. Un apolide metafisico, Adelphi, Milano 2004, pp. 235-236. ↩︎
-
B. Marini, L’assurdo e la bellezza del mondo in Eugéne Ionesco, cit., p 75. ↩︎
-
Ivi, p. 77. ↩︎
-
Ivi, p. 81. ↩︎
-
Ivi, p. 74. ↩︎
-
Ivi, p. 80. ↩︎
-
B. Marini, L’assurdo e la bellezza del mondo in Eugéne Ionesco, cit., p. 81. ↩︎
-
U. Perone, Il presente possibile, ed. Guida, Napoli 2005, p. 70. ↩︎