1. Introduzione
Il tema dell’impersonale ricopre un ruolo centrale nel dibattito contemporaneo. Esso si è imposto in modo multiforme (o informe, come sarebbe più giusto dire) insinuandosi in diversi ambiti della riflessione, dalla politica alla bioetica, passando per l’arte e per il diritto. Per riprendere una terminologia da chi si è lungamente occupato di questo tema nelle sue varie sfaccettature (Esposito, 2007), possiamo parlare dell’impersonale come di «quel confine mobile, [di] quel margine critico, che separa la semantica della persona dal suo naturale effetto di separazione» (ivi: p. 19) : una realtà che esce dalle logiche individuali e anche da quelle relazionali dell’io-tu, ponendosi ai confini del «dispositivo escludente» della persona, non semplicemente annientandolo, ma mostrandone i limiti e costituendo uno spazio irriducibile a qualsiasi forma di soggettività in senso moderno. Questa realtà «altra» rispetto all’autocoscienza e al rapporto dialogico assume i connotati della «terza persona»,1 che è l’unica a non essere riconducibile alle prime due, e a non essere attribuibile a un soggetto specifico.
Possiamo provare a individuare due direttrici fondamentali sulle quali si sviluppa la nozione di impersonale: da un lato un senso più spiccatamente esterno al concetto di persona, ovvero un’alternativa permanente che delimita il territorio occupato dal soggetto rispetto a ciò che non lo è, uno sfondo anonimo e neutro privo dei caratteri di individuazione che non ingloba né mette in questione la sopravvivenza della persona. Per un altro versante, la realtà impersonale si innesca all’interno dello stesso individuo-persona, andando a demolire la solidità di questa nozione: il soggetto moderno di eredità cartesiana e kantiana che si costituisce intorno alla certezza di sé e alla propria volontà di comprendere il mondo sembra ormai essere troppo chiuso e riduttivo. Esso infatti alimenta il discrimine tra persona e non-persona, che diventa implicito nell’idea stessa di un soggetto che predilige come autentica un’unica dimensione (solitamente quella razionale-spirituale) a scapito di un’altra (quella corporea).
Sempre Esposito sottolinea che «la questione della terza persona attraversa inquieta l’intera opera di Levinas» (ivi: p. 146). Volgendo lo sguardo alla produzione dell’autore lituano, notiamo in effetti la presenza massiccia della tematica dell’impersonale. Incontriamo questa nozione nel suo senso esterno, in particolare nell’opera del 1947, Dall’esistenza all’esistente, in cui appare indicato col termine il y a e possiamo dire che esso costituisce il punto di partenza da cui sorgono tutte le successive riflessioni, come se la necessità di superare l’indeterminatezza dell’essere fosse il presupposto di tutto il pensiero etico-metafisico che ritroviamo formulato nei suoi lavori successivi. L’intento che ci proponiamo qui è quello di ripercorrere le tappe fondamentali da cui scaturisce la nozione di il y a come impersonale, tenendo conto sia delle esigenze filosofiche (soprattutto la polemica con Martin Heidegger), sia delle esperienze biografiche (in particolare la prigionia durante la guerra), sia degli spunti tratti dalla letteratura (ad esempio l’influenza di Maurice Blanchot), tutti elementi che si intrecciano saldamente nella edificazione di questo concetto.
Abbiamo detto «punto di partenza»: nel pensiero più maturo, da Totalità e Infinito in poi, Levinas sembra aver ricacciato i demoni dell’indeterminato giungendo a una soluzione positiva attraverso l’incontro con l’Altro, fonte di senso e apertura al futuro. Tuttavia l’il y a riappare con variazioni e funzioni differenti sia nell’opera del 1961 che in Altrimenti che essere e aldilà dell’essenza (Levinas, 1983). Quale significato assume qui? Lo spazio inferiore che occupa in queste opere indica davvero un ruolo marginale, una vittoria definitiva sul pensiero del neutro? Quello che abbiamo indicato come senso interno di impersonale sembra invece proprio a questo punto svilupparsi con maggior forza nella riflessione etica levinassiana, all’apice di essa, in concetti come quello di illeità e nell’introduzione del terzo della giustizia. Se seguiamo lo sviluppo dell’idea di impersonalità all’interno del suo pensiero, noteremo un movimento che mentre dall’esterno va verso l’interno (dall’essere al soggetto), contemporaneamente va dall’alto verso il basso (dal sostrato indistinto alla trascendenza). Rifletteremo su questi aspetti provando ad aprire qualche nuova prospettiva.
2. L’insostenibile pesantezza dell’essere: Dell’evasione (1935)
Nel 1935 Levinas pubblica Dell’evasione, scritto nel quale sono già ben delineate le intenzioni e le esigenze filosofiche di Levinas. L’epoca a lui contemporanea è caratterizzata da un «acuto sentimento di essere incatenati» (Levinas, 2008: p. 14) e da un radicale bisogno di evasione. Evasione da cosa? Dall’essere, che la filosofia ha sempre considerato come orizzonte irremissibile della realtà, meritandosi per questo il nome di «ontologismo». Anche nei suoi tentativi di “fuga” il pensiero occidentale è rimasto sempre intrappolato nelle sue strette maglie tanto che nemmeno l’idealismo, con l’emancipazione del soggetto nei confronti del mondo, è riuscito nell’intento. La necessità impellente che Levinas mette in luce è assai più profonda di quella idealistica, prevede una rottura molto più radicale, ovvero l’uscita anche da se stessi.
Il filosofo si scaglia contro tutto il pensiero occidentale per il suo modo di intendere l’essere, ma non nel senso di un «oblio dell’essere», come lamentava Martin Heidegger in Essere e tempo, uscito appena otto anni prima. La critica levinassiana comprende anche l’autore tedesco che rimarrà anzi il maggior bersaglio polemico di tutta la sua produzione filosofica successiva. Non limitandosi a archiviare o scartare le posizioni del filosofo tedesco, Levinas sente la necessità di superare il pensiero heideggeriano pur nella consapevolezza di non poter prescindere da esso come verrà scritto chiaramente nell’introduzione di Dall’esistenza all’esistente: «Se per ciò che concerne la nozione di ontologia e la relazione che l’uomo intrattiene con l’essere, le nostre riflessioni si ispirano, all’inizio, in larga misura alla filosofia di Martin Heidegger, esse sono spinte dal bisogno profondo di abbandonare il clima di tale filosofia e dalla convinzione che da essa non si può uscire in direzione di una filosofia che potremmo chiamare pre-heideggeriana» (Levinas, 1986a: p. 13)
Sin dall’epoca della sua formazione friburghese (1929-30), in cui ebbe l’occasione di avvicinarsi alla riflessione fenomenologica,2 la portata rivoluzionaria del pensiero heideggeriano viene da subito avvertita. Il filosofo tedesco, innanzi tutto, ha reso più radicale la fenomenologia rispetto alla riflessione husserliana mettendo in luce la concretezza dell’esistenza: la conoscenza dell’essere dell’ente corrisponde non alla teoresi, ma alla comprensione effettiva del suo esistere, rivalutando così la portata filosofica di stati affettivi e sentimentali che prima erano totalmente misconosciuti. Grande merito è inoltre quello di aver colto la differenza ontologica tra essere ed ente — «la cosa più profonda di Sein und Zeit» (Levinas, 1987) — dalla quale deriva quella tra ontologia e scienze ontiche. Anche molti anni dopo, parlando di questo autore, Levinas lo apprezza per aver risvegliato la questione dell’essere, mettendone in luce il suo carattere non concettuale, ma la sua «verbalità» (Levinas, 1998a: p. 59).
Riconosciuto il grande debito filosofico nei confronti del pensatore tedesco, emergono, sin da questo saggio, gli aspetti polemici che accompagneranno buona parte della produzione levinassiana: l’analitica esistenziale svolta da Heidegger ha un valore non di per sé, ma per il fatto di portare alla conoscenza dell’essere, il quale si pone come orizzonte insuperabile, finito, neutro e che viene, come tale, semplicemente accettato. L’essere c’è, e grava nella sua inamovibilità sull’esistente. Il Dasein è gettato in questo orizzonte e ha come modo autentico d’esistenza quello di sapersi «nullo fondamento di una nullità» e nella sua finitezza anticipare il momento della sua fine: ciò che rimane è la tragica rassegnazione e la conseguente deriva nichilistica È contro questo essere che Levinas esprime il bisogno di evasione nel 1935. Molto chiaramente troviamo espressa questa critica alla fine dell’opera: «Ogni civiltà che accetta l’essere, la disperazione tragica che comporta e i crimini che giustifica, merita il nome di barbara» (Levinas, 2008: p. 45, ccnn). Le motivazioni filosofiche sono associate al biasimo per l’adesione del filosofo tedesco al nazionalsocialismo, ideologia considerata uno degli esiti morali di quella prospettiva di finitezza e volontà di potenza legata all’essere che lo stesso Heidegger aveva elaborato. È interessante, a proposito, notare il parallelismo terminologico tra la citazione qui sopra e una considerazione presente in un altro scritto giovanile, pubblicato l’anno prima sulla rivista “Esprit”, in cui parla della filosofia dell’hitlerismo: «La voce misteriosa del sangue, gli appelli dell’eredità del passato di cui il corpo è enigmatico portatore, perdono la loro natura di problemi sottoposti alla soluzione di un Io sovranamente libero […] L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. Essere se stessi non significa sollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell’Io: ma, al contario, prendere coscienza dell’incatenamento originario, unico, al nostro corpo, e accettare tale incatenamento» (Levinas, 1996: p. 33, ccnn)^[3]
Di fronte a questo essere, che «risulta un peso per sé» (Levinas 2008: p. 34), l’uomo sperimenta concretamente la necessità di fuggire, come da una prigione. Le esperienze umane descritte attraverso un’attenta analisi fenomenologica (dove l’influenza Di Heidegger e l’intento critico nei suoi confronti convivono in modo evidente) procedono dal bisogno e dal piacere, passando per la vergogna, per giungere al culmine di efficacia nel confronto con la nausea (mal au cœur, in francese) . Quest’ultima esperienza aderisce completamente al soggetto, sino ad identificarsi con esso e a renderlo insopportabile a se stesso: si va alla ricerca di una liberazione, nel tentativo di uscire da se stessi, senza sapere dove andare, senza una direzione a cui tendere.3
Il testo qui preso in considerazione si ferma alla presentazione della problematica senza fornire delle risposte positive, delle concrete “vie di fuga”. Le opere successive elaboreranno proprio queste soluzioni per liberarsi da questa soffocante morsa che è l’essere neutro e impersonale.
3. L’esperienza della prigionia: i Carnets de captivité
Quella che era nata come esigenza filosofica nel 1935 va ben presto a coincidere con l’esperienza concretamente vissuta da Levinas: l’evasione dalla prigionia dell’essere si traduce nella reale reclusione che l’autore si trova ad affrontare per 5 anni, dal 1940 al 1945, periodo in cui la sua riflessione assume una concretezza e una aderenza alla vita che caratterizzano solo un «pensiero incarnato» (Nodari, 2011). Imprigionato in Francia nel 1939 e poi trasferito in Germania, passa qui cinque anni nel campo di lavoro di Magdeburg.4 Di questo periodo possediamo i suoi quaderni di appunti, recentemente pubblicati (Levinas, 2011), in cui vediamo la genesi di molte tematiche che rimarranno fondamentali in tutto il corso della sua produzione: l’elaborazione di Dall’esistenza all’esistente ha qui le sue prime tracce.
Nello Stalag XI, quell’«eccezionale presente» in cui il destino individuale è sospeso e lo sguardo va all’aldilà, agli «eventi di scala cosmica» che si leggono sui bollettini (ivi: p. 208), la vita è scandita dalla fatica. Da un lato la fatica del lavoro forzato, acuito dal freddo e dalla fame; dall’altra un altro tipo di fatica, quella «del riposo- la noia- ritorno al tempo del c’è» (ivi: p. 82, ccnn). Ecco che ritroviamo la pura presenza dell’essere che abbiamo già incontrato nello scritto del 1935, indicato nei quaderni per la prima volta col nome di c’è in senso sostantivato, l’il y a. La pesante nebbia della neutralità sembra riaffiorare tra le crepe di un «mondo infranto», in cui il Bene e il Male si sono scambiati di posto e ogni senso è ormai perduto: «Tutti i drappi cadono», dirà, parlando della disfatta e della disgregazione di tutta la realtà (ivi: p. 122).
Non abbiamo ancora una teorizzazione esplicita sull’il y a, ma solo descrizioni di questa situazione, costellati di spunti tratti dalla letteratura, allo studio della quale proprio in prigionia stava dedicandosi.5 Molte le citazioni da I fiori del male: lo spleen baudelairiano ben si presta a rappresentare quel senso di noia che «prende le proporzioni dell’immortalità» (ivi: p. 184), la continuità monotona che schiaccia l’uomo col suo torpore e lo costringe a ripetersi nell’eternità, come la maschera, che piange perché sa che dovrà vivere per sempre, o gli scheletri zappatori, che per sempre solcheranno la terra.
Nemmeno la morte, quindi, permette di eludere «la notte dell’essere» (ivi: p. 113), e questa irremissibilità si fa sentire in tutta la sua tragicità nell’opera di Racine in cui Fedra sa che il senso di colpa la inseguirà ovunque, anche nell’oltretomba. Le atmosfere equivoche e sghignazzanti, gli spettri e le streghe che abitano i tetri regni notturni del teatro shakespeariano e del Faust di Goethe colgono con efficacia lo spaesamento del soggetto di fronte a un mondo diventato orribilmente insensato. Edgar Allan Poe riassume nelle sue opere tutti questi tratti: la ripetizione, la mancanza di senso, l’impotenza dell’uomo e la sua quasi scomparsa in questo agglomerato anonimo. L’autore riporta un passo tratto da uno dei racconti:
Questa dunque, meditava il mio spirito, questa oscurità che è palpabile e opprime con un senso di soffocamento- questa — questa- è — veramente la morte. Questa è la morte- la terribile morte- la santa morte. Questa è la morte patita da Régulus e anche da Seneca. È in questo modo — è in questo modo che anche io resterò sempre — sempre- resterò sempre. La ragione è follia, la Filosofia menzogna. Nessuno conoscerà le mie sensazioni, il mio terrore — la mia disperazione. e tuttavia gli uomini continueranno a ragionare, a filosofare, a fare gli imbecilli. Non c’è, lo vedo bene, nulla oltre a questo. Questo- questo- questo — è la sola Eternità — e quale, Belzebù! — quale Eternità — stare disteso in questo vasto — questo temibile vuoto — nello stato di orrida, indefinita, insignificante anomalia — senza movimento, ma desideroso di muovermi — senza potenza, ma avido di essere potente — per sempre, per sempre, per sempre! (ivi: p. 78, ccnn)
4. L’esistenza senza mondo
In un dialogo con Philippe Nemo, nel 1982, Levinas ricorderà il tema dell’il y a: «La mia riflessione su questo argomento prende il via dai ricordi dell’infanzia: si dorme da soli, per gli adulti la vita continua; il bambino percepisce il silenzio della sua cameretta come “brusio”» (Levinas, 1984: p. 65). Può capitare di finire in quello stato in cui il peso dell’atmosfera sembra tenerci incatenati al letto, come avvolti in una pesante nebbia dalla quale non possiamo più distinguerci e lì riaffiorano le paure indeterminate del bambino che è in noi. Siamo nel 1947 quando questi temi appaiono nella loro elaborazione più compiuta nell’opera dal titolo Dall’esistenza all’esistente.
Il punto di partenza è sempre quello del 1935, ovvero la polemica con Heidegger. L’ente, abbandonato al flusso incessante dell’essere, è da sempre pensato come avente un’esistenza. Così come pensare un ente senza essere non è possibile, allo stesso modo non si può contemplare un puro essere senza sentire il vuoto che questa nozione comporta: «l’essere rifiuta ogni specificazione e non specifica nulla» (Levinas, 1986a, p. 12). Levinas cerca in quest’opera di descrivere questa esistenza anonima, partendo dalla quale l’esistente si pone nel presente, uscendo dall’indistinzione senza tempo.6 Come descrivere questa esistenza senza mondo? L’autore mette in atto un esperimento mentale, simile a un’epochè in senso husserliano, senza però voler giungere a un’autoaffermazione del soggetto conoscente. Ciò che ci appare quando il mondo si è ritirato non è il non-essere, ma qualcosa che accade, «non fosse altro che la notte, il silenzio, il nulla» (ivi, p. 50). Questa pura presenza anonima e neutra che permane rifiutandosi di lasciare spazio ad altro da sé è l’essere in generale; anteriore a ogni distinzione, anche a quella tra essere e non essere, è in-distinto e in-differente. Non ne abbiamo una vera esperienza in quanto non è oggetto di nessun pensiero, e per questo non può essere propriamente descritto se non tradendolo, poiché dal momento che il soggetto riflette su di esso, esso non è già più lì. Se si volesse comunque paragonare a una qualche forma di esperienza, la più appropriata sarebbe, secondo Levinas, la notte, nell’oscurità della quale tutto scompare ma, è la notte stessa a rimanere, come una presenza dell’assenza, un «campo di forze» (ivi, p. 51), che rende pieno il vuoto. L’indeterminatezza di questa notte è minacciosa, e proprio per questo il suo sfioramento è orrore.
In relazione all’orrore Levinas si serve delle analisi antropologiche di Levy-Bruhl7 riguardo al fenomeno della partecipazione: l’orrore che accompagna l’esperienza mistica, secondo questa interpretazione, è dato dalla paura della dispersione della propria identità nel divino. Non si tratta quindi dell’angoscia della morte, ma della paura di non poter morire, per questo «il redivivo, il fantasma, è l’elemento stesso dell’orrore» (ivi: p. 54). Ed ecco che riappaiono, come nei Carnets, i mostri dell’equivoco del drammaturgo inglese, primo tra tutti il fantasma di Banqo, nel Macbeth, e il terrore del ritorno dell’essere si coglie poi icasticamente nelle parole di Amleto: «to dye, to sleepe, to sleepe, prechanche to dreame».
La situazione-limite che viene scelta da Levinas per descrivere l’il y a non è più, come in Dell’evasione, la nausea, la quale aderisce al soggetto ma non lo priva della propria identità, bensì l’insonnia. Saremmo portati, dalla tradizione illuministica della quale siamo figli, a vedere nella veglia la più alta espressione di presenza a sé e controllo del soggetto: essa, qui invece è assunta come esempio di massima passività e perdita di sé. Infatti l’insonnia è quello stato in cui si continua a stare svegli senza avere la possibilità di non farlo. Non è il soggetto a decidere, non è lui ad avere potere su se stesso: è la notte stessa che veglia, «io sono l’oggetto di un pensiero anonimo» (ivi: p. 60). L’essere quindi non può essere controllato, è «senza padrone» (ivi: p. 61): l’uomo non è, heideggerianamente, pastore dell’essere, ma un semplice relitto perso in balia del suo scorrere. Nella veglia irremissibile il pensiero si perde in un vortice di insensatezza e silenzio che sembra non finire mai. Parafrasando la frase di Goya, qui non è il sonno, quanto l’insonnia a generare mostri.
«Orrore dell’immortalità, eternità del dramma dell’esistenza, necessità di assumerne sempre il peso» (Levinas 1986a, p. 56) : in una nota di commento a questa frase si trova il riferimento al romanzo di Maurice Blanchot, Thomas l’Obscur (1941) , nel secondo capitolo del quale si riscontrano immagini che completano in modo immediato la sua descrizione sull’impersonale. Anche nelle opere successive dello scrittore rimangono forti assonanze con la riflessione levinassiana. Bataille (2000) dirà che «Levinas descrive e Blanchot grida in un certo senso l’il y a» (ivi, p. 98, cn). L’espressione che viene utilizzata da Blanchot non è il y a, quanto piuttosto neutro, altro, disastro. La vicinanza tra i due è sia tematica che biografica, poiché legati da profonda amicizia, che nasce all’università di Strasburgo nel 1926 e proseguirà per il resto della vita.8 Gli intenti sono diversi: se uno dei tratti dell’il y a è per Levinas il suo silenzio, l’eternità senza voce dell’essere che deve essere superato, Blanchot invece vi vede l’espressione stessa dell’arte, espressione che smentisce se stessa. Nei suoi testi più teorici, a metà tra la filosofia e la critica letteraria,9 l’opera d’arte assume i tratti del neutro. I luoghi in cui questa affinità può essere riscontrata sono innumerevoli e un serio confronto tra i due occuperebbe uno spazio assai più ampio di queste pagine (Rolland, 1985). Ci limitiamo qui a riportare questo passo che richiama si presta a sottolineare la vicinanza tra la notte dell’essere descritta dal filosofo lituano e l’altra notte, il neutro blanchotiano: «Ma quando tutto è sparito nella notte, il «tutto è sparito» appare. È l’altra notte. […] Ciò che appare nella notte è la notte che appare, e l’estraneità non viene soltanto da qualcosa di invisibile che si farebbe vedere al riparo e nella sollecitazione delle tenebre: l’invisibile è allora ciò che non si può cessare di vedere, l’incessante che si fa vedere» (Blanchot, 1967, p. 139).
Se per Blanchot l’artista deve sprofondare nella neutralità dell’arte giungendo a una totale depersonalizzazione accettata come tale, per Levinas invece si ha la possibilità di staccarsi dall’essere e diventare soggetto esistente. Si vede dunque qui l’emergere della «differenza ontologica» heideggeriana, ma per così dire ribaltando la prospettiva (Marion, 1977): la differenza è quella dell’esistente che emerge dal fondo indistinto dell’essere. Il soggetto nel suo affiorare è detto ipostasi, ovvero «l’evento in cui l’atto espresso da un verbo diventa un essere designato da un sostantivo». Il suo porsi è un inizio nel tempo, è presente: «l’eccezionale situazione in cui è possibile dare un nome all’istante» (Levinas, 1986a: p. 67). Il cominciamento dell’esistente si rivela paradossale dal momento che non si spiega come ciò che non esiste possa conquistare la sua esistenza, e questo viene spiegato da Levinas attraverso l’analisi di alcune situazioni in cui una tale sporgenza dell’ente si mostra nella sua opposizione all’essere, tra le quali la meraviglia (espressa nella domanda riguardo all’essere, che, in contrapposizione a Heidegger, è una domanda che non prevede alcuna risposta, se non la semplice constatazione della differenza), la fatica e la pigrizia.
Il distacco dell’ente tuttavia non ha ancora condotto a una vera e propria liberazione: l’esistente non è più essere, ma non può fare a meno di essere. Sembra che l’audacia che portava Levinas a voler superare l’idealismo, non abbia qui ancora trovato un reale sviluppo. Siamo sempre in quello stato d’animo di soffocamento che non permette la totale libertà del soggetto «Pur liberandosi subito dal peso del passato, l’unico peso dell’esistenza di cui ci si accorga, l’impegno nell’essere comporta un peso proprio che la sua evanescenza non alleggerisce e contro il quale il soggetto è solo, che si costituisce nell’istante, è impotente. Il tempo e l’Altro sono indispensabili alla sua liberazione» (ivi: p. 91). La definitiva evasione, quindi, pretende ancora un passo avanti, il superamento dello stesso soggetto-ipostasi attraverso la sua apertura al futuro: le lezioni tenute nello stesso anno e riunite sotto il titolo di Il Tempo e l’Altro si occupano proprio di considerare la possibilità di un tempo futuro dell’essente, che si troverà nell’incontro con l’altro.
5. Un’idea che riemerge
Alla fine della sua opera fondamentale del 1961 Levinas afferma: «Noi abbiamo la convinzione di aver concluso con la filosofia del Neutro: con l’essere dell’ente heideggeriano in cui l’opera critica di Blanchot ha tanto contribuito a far emergere la neutralità impersonale» (Levinas, 1990, p. 306). Questo è infatti uno degli obiettivi di Totalità e Infinito, che, da una prospettiva più ampia rispetto alle conferenze del 1947, Levinas si prefigge. Non si discute più della differenza ontologica, ma dell’esistente in quanto scisso in Medesimo e Altro e del rapporto che intercorre tra i due. La relazione apre la riflessione sull’orizzonte etico che comprende tutta la realtà, delimitando l’onnicomprensività dell’ontologia, caratteristica della posizione di tutta la filosofia occidentale. Nell’ottica ontologica è centrale il concetto di totalità, intendendo con esso l’atteggiamento proprio del soggetto che assimila la realtà riducendola a pura tematizzazione o a oggetto che dev’essere posseduto, violando la sua alterità. L’alternativa etica proposta è rappresentata dall’idea di infinito, riprendendo la dimostrazione cartesiana della Terza Meditazione: un’idea trascendente e immanente, in quanto presente nel cogito, ma superiore a lui; un’idea non cognitiva, poiché non vi può essere adaequatio; un’idea asimmetrica, poiché non è il soggetto che la costituisce, ma è essa a costituirlo. Così è la relazione con l’Altro, che mostrandosi nella sua maestà come volto, chiama il soggetto come responsabile della relazione pur rispettando la separazione.
Venendo ora alla nozione di il y a quale viene tematizzata in quest’opera, assai più vasta nella sua trattazione e nei problemi che tocca, ci soffermiamo su alcuni luoghi particolarmente significativi. Nella prima sezione troviamo un passo in cui il filosofo lituano tratta del rapporto tra verità e giustizia: il pensiero europeo ha sempre considerato il soggetto come libero e indipendente, capace di attingere in modo autonomo alla verità. In contrasto con questa posizione, invece, la libertà deve essere considerata nel suo essere limitata dall’alterità, la quale le permette di non diventare un arbitrio incondizionato e prevaricante. Come si rapporta un soggetto libero, in questo secondo senso, alla verità? Non è più, come Gige, un individuo solitario e al riparo da tutto, «un essere per il quale il mondo è spettacolo» (ivi: p. 89) e per cui tutto è posto di fronte a sé affinché egli ne ricavi la certezza della rappresentazione. Questo mondo silenzioso è «an-archico, senza principio, senza inizio» (ivi: p. 89), proprio com’è l’essere prima del cominciamento, della posizione dell’ipostasi. Il mondo siffatto, nella sua chiarezza, si rivela in realtà l’inconoscibile: il fenomeno si degrada in apparenza, poiché un mondo che non parla non dice niente di sé. Il silenzio a cui si fa riferimento è ancora una volta non quello del vuoto, ma quello del non senso, è una domanda che rimbomba senza mai ricevere risposta. È così che nasce il dubbio dell’illusione, che può essere dettata dallo scherzo beffardo di uno spirito maligno, riprendendo ancora una volta le riflessioni cartesiane. Nella descrizione di questo mondo prima del significato, non a caso appare di nuovo il «labirinto di sottointesi che Shakespeare e Goethe fanno apparire nelle scene di streghe in cui si parla l’anti-linguaggio e nelle quali rispondere è sempre coprirsi di ridicolo» (ivi: p. 91). La conclusione a cui si giunge è che la verità non può prescindere da una giustizia intesa come rapporto etico, che garantisca un linguaggio e un discorso dando senso al mondo.
Nella seconda sezione, nella quale Levinas si occupa di fondare la relazione sulla separazione di Medesimo e Altro, analizzando la dimensione dell’interiorità e del godimento come fulcro di costituzione del soggetto, ecco di nuovo lo sfondo anonimo, chiamato qui elementale. Se il rapporto dell’io col mondo è letto in termini di godimento, ovvero come soddisfacimento dei bisogni che non si limitano all’utilizzo, ma mirano alla felicità, gli oggetti di questo godimento vengono posseduti attingendo da uno sfondo che sfugge al possesso. La terra, il mare, la luce, la città: ambienti che non hanno una forma, né un volto, solo una superficie nella quale noi sempre siamo immersi. I caratteri dell’informità, dell’indeterminatezza e dell’anonimato descrivono quindi questa situazione, e il riferimento all’il y a10 diventa esplicito nelle pagine successive, donde, parlando sempre dell’elementale, lo definisce mitico: «l’elemento di cui godiamo porta al niente che separa. L’elemento in cui abito è ai confini della notte. La faccia dell’elemento che è rivolta verso di me non nasconde un «qualcosa» che è in grado di rivelarsi, ma una profondità sempre nuova dell’assenza, esistenza senza esistente, l’impersonale per eccellenza» (ivi: p. 143).
In entrambi i casi qui riportati notiamo che la funzione dell’anonimo è coerente con ciò che si trova espresso in Dall’esistenza all’esistente, in quanto esso rappresenta sempre un esempio negativo di quell’orizzonte neutro da cui il soggetto, prima con il suo cominciamento come ipostasi, poi col suo rapporto donatore di senso con l’alterità, deve emergere e distaccarsi. Fino a questo punto la considerazione che abbiamo riportato all’inizio del paragrafo, in cui si dichiara il superamento delle filosofie del Neutro, può ancora essere accettata.
Soffermiamoci ora su un ultimo passo in cui Levinas parla dell’amore e elabora una «fenomenologia dell’eros». L’amore è «l’equivoco per eccellenza» (ivi: p. 262) : se da un lato rimanda a un desiderio non soddisfabile dell’alterità (ed è quindi trascendenza), dall’altro si pone nei confronti dell’Altro come se egli fosse oggetto di bisogno,11 un oggetto per soddisfare la deficienza dell’amante. È, con un’espressione che sfiora l’ossimoro, «godimento del trascendente» (ivi: p. 262). Fenomeno che si presta a spiegare questa ambivalenza è la carezza, una ricerca di contatto con l’Amata che trascende il sensibile, una profanazione di qualcosa che non c’è, anzi, non c’è ancora. Nella carezza «il corpo abbandona lo statuto dell’ente» (ivi: p. 266), mostrandosi nella sua evanescenza, senza forma, senza volto. Siamo al di sotto della soglia della relazione etica e del linguaggio: i termini utilizzati per indicare lo statuto della femminilità e della situazione erotica rimandano agli ambiti dell’impersonale, «una passività e un anonimato già infantili» (ivi: p. 266). Si assiste a un rifiuto di espressione, a un silenzio ambiguo e passivo che si perde nella non-significanza. Questa assenza di significazione non è più originaria, come quella dell’il y a, in quanto presuppone la presenza di un soggetto, di un ipostasi: soltanto un volto può in un certo senso spingersi fino all’equivoco dell’erotico.
«L’amata, ritornata al livello dell’infanzia senza responsabilità […] ha lasciato il suo statuto ti persona. Il volto perde consistenza, e nella sua neutralità impersonale ed inespressiva, si prolunga, ambiguamente, in animalità» (ivi: p. 270-71, cn). Quella dell’amore sembra essere un’esperienza che rimane in bilico, poiché non sprofonda totalmente nell’indifferente seppur non riesca nemmeno a stagliarsi al di sopra di esso. Se questo aspetto può far supporre un’accezione negativa dell’eros, dall’altro questa è la via maestra per il vero superamento del finito, dal momento che solo dall’unione amorosa il soggetto può aprirsi alla dimensione del futuro, del tempo infinito, dando vita al figlio. Nella fecondità Levinas individua proprio questa possibilità del soggetto di essere insieme se stesso e Altro, vincendo la morte.
Vediamo dunque che in quest’ultima occasione si trovano elementi di contatto con la descrizione precedente dell’impersonale insieme a elementi di differenza. Se l’amore è lo sfioramento dell’anonima esistenza prima dell’esistente, allo stesso modo esso è possibile solo in presenza di una persona, di un volto. Possiamo dire che l’il y a inizia qui a insinuarsi nella stessa ipostasi come una possibilità, anzi, vedendo ciò a cui porta (il figlio), sembra la sua possibilità più propria. Pertanto non si deve più cercare un’uscita irremissibile dall’essere puro, come sembrava dirci Levinas nelle sue prime opere, quanto piuttosto un superamento ottenuto grazie alle prospettive che lo stesso essere offre. Come sottolinea Ferretti (1996) : «Dall’essere non si deve uscire, se non per ritornarvi».
Nella stessa ottica possiamo leggere Altrimenti che essere o aldilà dell’essenza, in cui l’ontologia e il linguaggio apofantico della tematizzazione, alla quale si ricollega (il Detto), sono considerati non tanto nel loro carattere negativo, assimilativo e per giunta violento, quanto nella loro funzione positiva. Pur non costituendo l’ultima dimensione di senso della realtà, essi sono al servizio della stessa significazione etica che risiede al di là dell’essere. È per questo aspetto che si può valutare l’importanza che rivestono nella società alcuni ambiti dell’ontologia, come le istituzioni e la legge, in cui trova espressione la giustizia. La filosofia è quindi riduzione filosofica, che ha il compito di cogliere lo scarto esistente tra il dire e il detto, tra la trascendenza della relazione etica e l’ontologia, mettendo in luce la subordinazione della seconda alla prima. Troviamo un paragrafo dal titolo «Senso e c’è» (Levinas, 1983: pp. 203-206) in cui l’essere viene nuovamente associato all’anonimato e all’impersonalità: la tematizzazione sprofonda sempre nell’insignificanza, nel brusio incessante dell’essere. Ma anche l’il y a non è solo questo non senso: «il c’è è tutto il peso dell’alterità portata da una soggettività che non la fonda» (ivi: p. 205). Il rapporto etico, il rapporto de «l’uno per l’altro» che si sviluppa come prossimità sino a giungere alla sostituzione, è una relazione che comporta la massima passività del soggetto che deve assumere su di sé la gratuità della responsabilità senza ricondurla a un atto volontario e libero: «Da dietro il brusio anonimo del c’è la soggettività raggiunge la passività senza assunzione» (ivi: p. 205).
6. Conclusione
Prendendo in esame il percorso che va dai primi scritti sino agli ultimi riferimenti al tema dell’impersonale qui analizzati, possiamo dire innanzi tutto che la trattazione, benché non costituisca più il fulcro tematico, non perde di importanza. L’il y a riaffiora in Totalità e Infinito e in Altrimenti che essere, mantenendo i suoi tratti fondamentali, quali l’impersonalità, l’anonimato, l’assenza di senso e di espressione; ma sembra anche avere qualcosa di nuovo da dirci. Ci appare non solo come sfondo da cui emergere, ma anche come apertura della potenzialità stessa della relazione etica. Senza eros, ambiguo e spersonalizzante, non si ha fecondità; senza la neutralità assoluta dell’il y a non si ha la «passività più passiva di ogni passività» (ivi: p. 127): senza l’impersonale non si hanno le condizioni affinché l’uomo si apra all’autentica prospettiva della trascendenza etica. Ronchi (1985) sottolinea che in Levinas «l’il y a ha una storia sotterranea», in quanto la sua filosofia sarebbe proprio un tentativo escatologico di salvarsi dall’essere heideggeriano che però rimane sempre sia orrore che tentazione dalla quale bisogna tutelarsi. Condividendo questa visione aggiungiamo che questo non è tanto un rischio di ricaduta al di sotto dell’etica e della personalità, ma si rivela anche un’occasione, che racchiude in potenza quello che viene attuato nell’etica. Non è solo un ammonimento, come un memento mori che deve motivarci nel fuggire l’orrore dell’indistinzione, ma anche l’origine dell’apertura ad Altri.
A ben vedere l’evasione radicale, quella del soggetto da se stesso, che veniva invocata nel 1935, è realizzata in Levinas attraverso una messa in questione dell’ipostasi: se siamo riusciti a uscire dall’il y a, ci muoviamo ora verso una nuova depersonalizzazione e una denucleazione del soggetto, il che comporta un salto verso un nuovo senso dell’impersonalità, ovvero quello che nell’Introduzione abbiamo definito interno. Assistiamo infatti ad una sorta di decostruzione del concetto di soggetto, il quale, così faticosamente salvato dall’indistinzione e dall’anonimato, si trova qui nuovamente a dissolversi, questa volta a favore non dell’essere heideggeriano, ma dell’al di là, della trascendenza dell’Altro. Nella prospettiva etica l’Io non è più l’atomo che guarda il mondo come oggetto di rappresentazione o di godimento: la fortezza del cogito è stata espugnata e il soggetto si apre, o meglio, è chiamato alla relazione: «nell’incontro con l’Altro l’Io perde la sua sovrana coincidenza con sé, la propria identificazione in cui la coscienza ritorna trionfalmente a se stessa per riposare in sé» (Levinas, 1998b: p. 225).
La relazione è asimmetrica, la chiamata alla relazione viene dall’Altro il soggetto morale risponde a essa: la responsabilità sovrasta l’Io che non può che assumerla su di sé, sino alla sostituzione, senza sperare che ciò avvenga in modo reciproco. A garantire la reciprocità e una sorta di equità si svela la dimensione della giustizia in cui al rapporto duale si aggiunge il terzo, indispensabile e al tempo stesso problematico. Indispensabile per salvaguardare il Medesimo dal totale annientamento sotto il peso della responsabilità e per salvaguardare il terzo dall’indifferenza e dall’esclusione dal rapporto etico duale; problematico perché pone in questione il primato del rapporto a due alla base dell’etica. Tuttavia l’irriducibilità etica della relazione tra Medesimo e Altro, appunto relazione a due, si impone anch’essa grazie alla presenza di una «terza persona», ma questa volta, a differenza della giustizia, essa non è costituita dalla società degli altri uomini, ma da una dimensione ulteriore e assoluta, dalla quale proviene la trascendenza del volto. Il volto che si presenta nel faccia-a-faccia con la chiamata non rischia l’oggettivazione né perde la sua trascendenza proprio perché si iscrive nella traccia dell’illeità, neologismo che Levinas ricava dall’ille latino. «Egli è al fondo del Tu» (Levinas, 1986b: p. 92): la terza persona che nella dimensione della giustizia tutelava il soggetto dall’essere schiacciato dalla sua infinita responsabilità, qui salvaguarda la trascendenza originaria dell’epifania del volto. Essa è «tutta l’enormità, tutta la dismisura, tutto l’Infinito dell’assolutamente altro, che sfugge all’ontologia. La suprema presenza del volto è inseparabile da questa assenza suprema e irreversibile […]» (Levinas, 1998b: p.). Questo terzo irraggiungibile e infinitamente distante, ritrovato solo come traccia nel volto d’altri, questa essenziale terzietà, è Dio, il quale «non è semplicemente il “primo altri”, o “altri per eccellenza” o “l’assolutamente altri”, ma altro da altri, altro altrimenti, altro di un’alterità preliminare all’alterità d’altri, alla costrizione etica al prossimo, e differente da ogni prossimo, trascendendo fino all’assenza, fino alla possibile confusione con lo sompiglio del c’è» (Levinas, 1986b: p. 93).
Alla fine del nostro percorso, quindi, siamo giunti dall’indistinzione dell’il y a alla assoluta trascendenza dell’illeità. Attraversando significative trasformazioni il soggetto levinassiano sembra che si slanci da un inferiore stato di impersonalità a una trascendenza infinita, che mette nuovamente in discussione i confini della persona. Questo movimento che abbiamo appena analizzato non deve essere interpretato come “circolare”: non è il lavoro di una Penelope che di giorno fonda il soggetto-ipostasi salvandolo dall’indistinzione per vederlo poi semplicemente disperdersi nuovamente in essa. Non si torna al punto di partenza, quanto piuttosto si va oltre, verso una trascendenza superiore, poiché se si trattasse di un semplice ritorno all’il y a il percorso risulterebbe superfluo, rimovibile; mentre non possiamo sminuire ciò che si incontra su questa cammino come fosse semplicemente transitorio. Non dimentichiamoci infatti che durante questo percorso il soggetto compare, ed è fondamentale che ciò accada. Dobbiamo quindi dire con Esposito che l’impersonale (2007) «inquieta» di certo il pensiero di Levinas, ma non lo monopolizza, non lo demolisce, bensì lo completa. Lo stesso impersonale nel suo senso interno che, in qualche modo, si insinua nel soggetto-persona, dall’altra parte risulta avere bisogno di questo soggetto per essere e, potremmo dire, per albergare in esso. Infatti, pur avendo sottolineato in queste pagine gli aspetti di congiunzione tra questi due spazi di uscita o superamento del dispositivo della persona nella filosofia di Levinas, è doveroso porre l’accento su una profonda differenza tra questi due sensi di impersonalità: tramite il passaggio attraverso la relazione etica, e quindi attraverso la soggettività su cui essa si fonda, si raggiunge una trascendenza che sfalda, sì, il soggetto stesso, ma proprio il passaggio del soggetto è la traccia che permette la nascita di una dimensione di senso, non riscontrata invece nell’il y a.
Il terreno è sicuramente scivoloso, e il rischio di una ricaduta al di sotto del senso è presente, almeno come rischio. Concludiamo quindi con una delle Note su eros tratte dagli inediti, non tanto perché in essa si trovi una soluzione ai problemi da noi sollevati, quanto perché si coglie quanto la questione dell’impersonalità costituisca uno scoglio, una deriva problematica e consapevole del pensiero del nostro autore.
Le «je» n’est pas une individuation pure et simple, c’est l’individuation que se desindividue. Ou plutôt le je est une façon de s’individuer avec une possibilité de briser le chaînes de l’individuation. En quoi consiste cette individuation? Rétour à l’anonymat de l’il y a? Dissolution de l’hypostase?
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Esposito (2007) analizza la peculiarità della terza persona considerando in particolare la teoria linguistica di Benviste e la sua trattazione sull’argomento. ↩︎
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I primi scritti giovanili di Levinas saranno proprio dedicate a questi due autori e tramite essi favorirà in Francia la diffusione del pensiero fenomenologico. Ricordiamo in particolare gli scritti che sono stati successivamente riuniti sotto il titolo Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger. ↩︎
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J. Rolland (1982), nel commento alla riedizione del saggio, approfondisce con attenzione questo tema e mette chiaramente in luce analogie e differenze tra la nausea levinassiana e l’esperienza dell’angoscia di cui parla Heidegger. Sottolinea inoltre la vicinanza tra questa interpretazione della nausea e la successiva proposta sartriana. ↩︎
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Le condizioni della convenzione di Ginevra gli permettono di far valere il suo stato di soldato sulla sua origine ebrea, e di sfuggire così al campo di concentramento. A tale sorte non sfuggiranno invece i suoi parenti rimasti in Lituania. ↩︎
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A questo periodo risale anche la stesura di due romanzi, rimasti incompiuti, dai titoli di Eros o Triste opulenza e La signora di casa Wepler. ↩︎
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Levinas preferisce tradurre la coppia Sein e Seiendes come esistenza ed esistente piuttosto che essere ed ente «per ragioni di eufonia […] senza attribuire a questi termini un significato specificamente esistenzialistico» (Levinas, 1987, p.20). ↩︎
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I riferimenti a questo autore sono in particolare alla sua opera sulla mentalità primitiva (Levy-Bruhl, 1922). Levinas ha successivamente dedicato a questo autore un saggio dal titolo Levy-Bruhl et la philosophie contemporaine (1957) (trad. it. Levinas, 1998a: pp.65-84). ↩︎
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Ricordiamo il ruolo importante che ebbe Blanchot nel nascondere moglie e figlia di Levinas durante la guerra (Ferretti, 1996). ↩︎
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Come sottolinea Levinas nella sua raccolta di saggi dedicati all’amico, egli «non tende alla filosofia. Non perché non ambisca a tanto- ma Blanchot non vede nella filosofia l’ultima possibilità, e neppure nella possibilità stessa- nell’io posso- il limite umano.» (Levinas, 1994, p.45). ↩︎
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«Abbiamo descritto questa dimensione notturna dell’avvenire con l’espressione c’è» (Levinas, 1990: p.143). ↩︎
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La distinzione tra desiderio e bisogno è un tema fondamentale del pensiero levinassiano: se il primo è una tensione inappagabile verso la trascendenza, ed è l’unico tipo di rapporto che si può intrattenere con Altri, il bisogno invece è, platonicamente parlando, una mancanza che può essere soddisfatta. ↩︎