Ecco, ciascuna di queste cose, e altre migliaia consimili su cui lo sguardo suole scorrere con ordinaria indifferenza, può per me all’improvviso, ed in un qualsiasi momento che sfugge del tutto al mio dominio, assumere una connotazione così nobile, fervida e toccante che nessuna parola mi pare atta a renderla. Ebbene sì, anche la puntuale evocazione di una cosa assente può essere quella destinata alla misteriosa sorte di colmarsi sino all’orlo di quella dolce quanto traboccante energia di sentimento divino.
— H. von Hofmannsthal, La lettera di Lord Chandos
1. «Non pensare, ma osserva!»
Il centro del lavoro filosofico nella fase matura di L. Wittgenstein è rappresentato dal linguaggio e dalle sue funzioni, dai giochi linguistici e dalle loro regole, dalla ricchezza e complessità del reale, primariamente da quel generale obiettivo che, nel corso di questo articolo, definiremo «risveglio al senso». Lo spirito della filosofia wittgensteiniana dopo il Tractatus si esprime nella ricerca di chiarezza e trasparenza all’interno del linguaggio comune, nella volontà di gettare luce sulle nostre strutture linguistiche al fine di reindirizzare lo sguardo umano e risvegliarlo al senso di una realtà linguistica che non riuscivamo a scorgere. Nelle Ricerche Filosofiche, testo maggiormente rappresentativo della sua produzione matura, il filosofo austriaco dichiara di aver proceduto alla raccolta di osservazioni filosofiche che ha inteso come schizzi paesaggistici, figure linguistiche del nostro banale linguaggio quotidiano. Banale sembra infatti la descrizione di contesti linguistici consuetudinari e di situazioni reali e possibili, parole con le quali quotidianamente intratteniamo un rapporto di stretta vicinanza. Tale prossimità ai molteplici elementi linguistici non ci ha comunque difeso dalla tentazione di confondere e fraintendere il nostro linguaggio quotidiano, di forzarlo oltre le sue effettive possibilità. Tradizionalmente il linguaggio è stato infatti interpretato come linguaggio informazionale, nell’ambito di quella che è stata definita «logica del doppio»1 e questo ha necessariamente influenzato il nostro modo di rapportarci alle cose e al mondo. Prigionieri delle nostre abitudini intellettuali abbiamo da sempre ricercato il significato secondo la logica del doppio propria del modello oggetto-designazione, tendendo ad andare a guardare oltre la parola nella convinzione di dover trovare qualcosa che possa conferirle senso. Vediamo un segno o lo ascoltiamo ma finché non reperiamo una realtà o una rappresentazione ad esso corrispondente, che possa dargli senso, quel segno non ha vita. Con la descrizione di contesti di vita condivisi Wittgenstein vuole invece portare alla luce un linguaggio i cui elementi linguistici non sono tra loro uguali, inerti segni sulla carta che attendono di ricevere un senso da un loro duplicato esterno, che sia un oggetto o una rappresentazione mentale. Molte delle espressioni linguistiche infatti non hanno bisogno di sostegni esterni, vivono semplicemente nel linguaggio, ascoltate e scambiate quotidianamente:
Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». […] Considera la molteplicità dei giuochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: Comandare, e agire secondo il comando - Descrivere un oggetto in base al suo aspetto o alle sue dimensioni - Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) - Riferire un avvenimento - […] Recitare in teatro - Cantare in girotondo - Scogliere indovinelli […].2
È opportuno soffermarsi sulla descrizione analitica delle forme di vita quotidiana per rinvenire proprio quelle differenze tra tipi di parole che si nascondono dietro la rigidità della logica del doppio. Non tutto quello che esprimiamo nel nostro linguaggio ha l’esigenza di rimandare a qualcosa oltre sé, ogni elemento linguistico è unico e irripetibile e necessita pertanto di un approccio peculiare che ne tuteli l’unicità: esistono parole che richiedono di essere trattate come etichette per oggetti (parole che stanno per qualcosa), e parole che invece esauriscono in loro stesse e nel modo in cui sono scambiate il significato da noi ricercato. Il modello oggetto-designazione rientra allora in una più generale e complessa visione del linguaggio: associare una parola ad una cosa viene ad essere uno tra i tanti modi d’uso di una parola, non l’unico. Oltre a ridimensionarne la portata, Wittgenstein ne parla come un modello linguistico secondario: se indico con la parola due un gruppo di noci, sono certa che quella parola non stia per il loro colore, soltanto perché conosco preliminarmente l’uso della parola due, in quale posto del linguaggio compare, per usare un’espressione di Wittgenstein, quale sia la sua grammatica. Pertanto ciò che è primario e fondamentale è la vita della parola nel linguaggio, il modo in cui appare nelle dinamiche dei giochi linguistici condivisi, la sua specifica funzione. Primariamente la significatività di una parola è dunque mostrata nell’uso effettivo che di essa viene fatto all’interno del linguaggio e solo secondariamente è anche possibile associare la stessa parola al proprio portatore. È necessario perciò analizzare le forme di vita e osservare gli usi delle parole nei giochi tra parlanti per cercare di cogliere la funzione specifica assunta da un elemento linguistico e quindi rinvenire il suo significato. Il risveglio al senso di una realtà linguistica che non sapevamo scorgere necessita inevitabilmente della chiarificazione degli usi delle parole del nostro linguaggio, del modo in cui esse compaiono e scompaiono tra le regioni del mondo linguistico condiviso. Wittgenstein ci chiede di acquisire uno sguardo fine che superi l’apparente uniformità legata alla superficialità dell’aspetto degli elementi linguistici e che si inoltri nelle prassi quotidiane dove le differenze tra elementi linguistici si palesano in modo evidente. A questo punto la descrizione del nostro linguaggio quotidiano e il lavoro chiarificatorio indirizzato ad esaltare l’articolazione di una realtà che non ci accorgevamo di abitare, non corrono più il rischio di essere definite banali ricerche. Il progetto wittgensteiniano mette capo alla scoperta di uno sfondo linguistico che, nonostante la vicinanza, non sapevamo riconoscere. «Non pensare, ma osserva!»3 è il monito di un filosofo del Novecento che non rinuncia a spiazzare il lettore abituato a muoversi con puri e limpidi parametri linguistici denotanti e oggettivanti. Wittgenstein ci suggerisce invece di gettare luce sullo stato del nostro linguaggio, tenendo conto delle condizioni reali che regolano il mondo linguistico condiviso, ci chiede di lasciare una volta per tutte le lastre di ghiaccio della logica pura e di inoltrarci sul terreno scabro della quotidianità. Giungeremo dove già si è e faremo del punto di partenza il nostro punto di arrivo, torneremo cioè al nostro linguaggio, proprio quello da cui eravamo partiti. La difficoltà risiederà nel vedere diversamente ciò che c’è sempre stato. «La difficoltà qui sta nel fermarsi».4
2. Il terreno grammaticale
La nuova realtà che si dischiude dinnanzi ad uno sguardo più fine e attento alla complessità e agli intrecci irregolari del linguaggio è la realtà grammaticale. Per «grammatica» di una parola il filosofo viennese intende la varietà dei modi con i quali una parola può essere utilizzata; indicare il posto occupato dalla parola nel linguaggio significa esibirne la grammatica e cioè gli usi che di quella parola possono esser fatti. Se la significatività del linguaggio risiede nel modo in cui esso è scambiato ed usato dai parlanti, per condurci e risvegliarci al senso del nostro linguaggio è necessario che Wittgenstein dispieghi, descrivendolo, il terreno grammaticale che ci circonda. Ciò che deve emergere sono le relazioni che intercorrono tra le parole, quello che dobbiamo conoscere è semplicemente il modo in cui le parole sono regolarmente usate, dunque la loro grammatica. Ad essere rilevanti sono i giochi linguistici condivisi e articolati nelle diverse forme di vita nelle quali i termini compaiono con regolarità. È di estrema importanza non intendere le regole grammaticali come una specie di «manuale d’uso» per il corretto parlare: la grammatica della parola è quella che esibiamo quotidianamente, quella che non potremmo non rispettare in qualunque tipo di scambio linguistico; dalla grammatica non possiamo uscire, non ce ne possiamo liberare, è necessaria e presente anche quando essa stessa è l’oggetto del discorso e perciò sarebbe del tutto errato concepirla come qualcosa che sta prima o dopo il linguaggio stesso. Non è niente in sé stessa, ma è tutto quello che il linguaggio, quando c’è, esibisce:
But the concept of a language cannot be defined by reference to extraneous purposes that a language fulfils, and the rules of grammar are rules constitutive of meaning, not technical (instrumental) norms specifying how words must be used if such-and-such purposes are to be fulfilled (e.g. to produce such-and-such effects on hearers). A language is a normative, rule-governed practice.5
Non esiste «un corpo delle regole» né possiamo fornire una definizione di «regola»; anche in questo caso il metodo analitico-descrittivo usato da Wittgenstein ci deve essere d’aiuto per nozioni che possono essere veramente comprese soltanto nel momento in cui si mostrano: la grammatica e dunque le regole d’uso delle parole sono quotidianamente esibite nel linguaggio condiviso nei contesti di vita, forse troppo vicine da non riuscire neanche ad essere percepite. La prassi linguistica quotidiana è dunque costituita da modi di procedere che non trovano altra giustificazione all’infuori di loro stessi, e cioè in quelle pratiche umane per le quali ha senso semplicemente affermare: «si fa così». Le regole sono il dato certo da riconoscere e accettare, quell’ingiustificato sfondo che non può in alcun modo essere messo in discussione, il famoso «strato di roccia sul quale la vanga si piega».6
Tale fondo ingiustificato non è da intendersi come un sistema formale fisso e indipendente dai parlanti che vi si adeguano, ma come l’insieme di tutto ciò che avviene nella prassi comune. Siamo tentati invece di interpretare le regole come super-norme capaci di definire tutte le questioni una volta e per sempre e predeterminare in anticipo ogni applicazione, verità immutabili di un regno iperuranico soggetto ad un tipo di conoscenza intuitiva. Wittgenstein compie un lavoro di revisione critica nei confronti di questo tipo di concezione, che ricade sotto il nome di «platonismo semantico», definendo pericolosa «la tentazione di reificare le regole del linguaggio in una struttura iperurania ed eterna di cristallina purezza».7 Si è indotti a cadere nella trappola del platonismo semantico per via dell’universale accordo sulle prassi d’uso consuetudinarie, accordo raggiunto però con l’addestramento e non mediante intuizione di verità eterne. Quello che per il platonismo semantico costituiva l’autoevidente, un regno composto da oggetti eterni da intuire al quale bisognava adeguarsi, è in realtà una prassi adottata che viene scambiata per verità immutabile e trasferita in un’area iperuranica soltanto a causa del continuo accordo su di essa. Una volta eliminato l’errore di considerare la regola alla luce del «platonismo semantico», è opportuno considerare il modello teorico opposto che molti commentatori hanno utilizzato per interpretare il senso wittgensteiniano di regola: il convenzionalismo. «L’opposizione convenzionalista al platonismo consiste innanzi tutto nel mostrare che i nostri attuali modi di inferire, contare, calcolare, ecc. non sono gli unici possibili».8 L’alternativa alla concezione di regola assoluta del «platonismo semantico» è rappresentata da un’idea di regola come connessione diretta di elementi, voluta e stabilita da decisione umana, una convenzione che potremmo arbitrariamente sostituire con qualunque altra. Eppure il rifiuto del platonismo semantico non deve per forza condurci sul versante opposto nel quale ogni alternativa possibile presenta lo stesso valore di quella attuale. Sarebbe giusto propendere per una soluzione mediana tra l’assoluta rigidità della regola idealizzata del platonismo semantico e l’assoluta aleatorietà nella scelta delle alternative della teoria convenzionalista. Nella prospettiva wittgensteiniana è sicuramente vero che il calcolare, il comandare e il contare sarebbero potute essere attività diverse da come effettivamente sono ed è perciò, contro la concezione del platonismo semantico, un fatto contingente che esse siano così e non altrimenti. Da ciò non segue però che le regole mediante le quali si sarebbe potuto calcolare, comandare e contare costituiscano delle vere alternative che possono sostituirsi in qualunque momento alle nostre regole attuali. La linea mediana consiste non nell’opporre al platonismo semantico un convenzionalismo estremo, bensì nel riconoscere il carattere convenzionale nel fatto che le nostre regole dipendono da prassi condivise che avrebbero potuto essere diverse da come sono ma che di fatto non presentano alternative possibili alle nostre ormai radicate prassi d’uso comune. Wittgenstein non richiede di scegliere tra il platonismo semantico e il convenzionalismo estremo. Non c’è nulla oltre il linguaggio che ne determina la struttura, nulla oltre i simboli linguistici determina il modo in cui essi si relazionano; la regola wittgensteiniana è da ritrovarsi proprio nella connessione diretta di elementi, una connessione che non trova però giustificazione né nella sostituibile e arbitraria decisione umana, né tanto meno in una super-norma da intuire, ma in un fondo non ulteriormente giustificabile costituito dalle nostre forme di vita. «[…] and they agree in the language they use. That is not agreement in opinions but in form of life».9 Tale interpretazione, che esclude la fissità delle regole senza rinunciare alla loro normatività, rappresenta la chiave di lettura della via mediana che Wittgenstein propone tra il platonismo semantico e il convenzionalismo estremo. La comprensione del concetto di regola e dunque delle modalità d’uso delle parole è strettamente connessa alla questione del significato. Se il significato è l’uso che della parola viene fatto, e l’uso è un uso regolato, ci deve essere un accostamento tra significato e regola. La regola è prassi d’uso ed è in quest’ultima che si deve ricercare il significato:
Un significato di una parola è un modo del suo impiego. Perché è quello che impariamo quando la parola viene incorporata per la prima volta nel nostro linguaggio. Per questa ragione tra i concetti «significato» e «regola» sussiste una corrispondenza.10
Dunque il terreno grammaticale che Wittgenstein raffigura nei suoi schizzi paesaggistici viene ad essere lo spazio in cui è possibile quel risveglio al senso che il nostro sguardo disattento ci precludeva. Alla logica del doppio si sostituisce la logica grammaticale, si dischiude uno sfondo costituito dalle regolari pratiche umane trattate come incondizionatamente degne di fede, come sicuramente giuste. «The forms of language and knowledge consist neither in reasoning, nor in an unfounded premise, but in a way of acting which is itself unfounded».11 Torna alla luce la natura istintuale dei fenomeni linguistici, il flusso della vita, un esito non di natura teorica ma esistenziale. «Istinto, natura, immediatezza sono termini che designano il limite a cui perviene la catena delle spiegazioni».12 Tornano alla luce i giochi linguistici, le regole e le forme di vita, e «la dimensione semantica si scoglie dentro la dimensione pragmatica, vitale».13
3. Per uno sguardo «grammaticalmente strutturato»: nessi intermedi e visione perspicua
All’interno del terreno linguistico grammaticale profilato da Wittgenstein, la profondità che uno sguardo fine dovrebbe ricercare è «superficiale» e visibile, un approccio di adesione alla configurazione esterna della prassi linguistica che esclude la ricerca di strutture extralinguistiche sottostanti l’applicazione del linguaggio. In questa forma di «esternalismo» grammaticale la visione diventa un elemento centrale poiché è solo nel cambiamento del modo in cui le cose e le parole sono viste che è possibile quel risveglio al senso cui il filosofo vuole condurci. Con uno sguardo mutato, ci sorprenderemo nel riconoscere l’immanenza del significato ai materiali linguistici, il fatto che all’interno del nostro linguaggio ogni parola dice semplicemente se stessa esprimendo il proprio senso attraverso il suo aspetto visibile. Wittgenstein ci dirige così verso il riconoscimento di immagini linguistiche significanti, dell’aspetto esteriore delle parole e contemporaneamente di come queste si muovano regolarmente nelle dinamiche fluttuazioni del linguaggio. Così dovremmo intendere la particolare posizione linguistico-espressivista wittgensteiniana: ogni immagine linguistica incarna ed esprime nella propria forma visibile il suo significato. Affinché l’immagine linguistica esprima visibilmente se stessa, il linguaggio deve essere interamente colto per come è ed è perciò necessaria la chiarificazione della realtà grammaticale che tutti noi abitiamo e su cui tutti dovremmo dunque convenire:
La filosofia si limita, appunto, a metterci tutto davanti, e non spiega e non deduce nulla. – Poiché tutto è lì in mostra, non c’è neanche nulla da spiegare. Ciò che è nascosto non ci interessa. […] Se in filosofia si volessero proporre tesi, non sarebbe mai possibile metterle in discussione, perché tutti sarebbero d’accordo con esse.14
Il risveglio al senso di qualunque immagine linguistica e cioè la capacità di cogliere la sua forma significante è possibile solo all’interno della morfologia grammaticale, del nostro sistema linguistico regolato. Quello di cui la morfologia linguistica ha veramente bisogno affinché il linguaggio possa esser considerato nel suo aspetto «materico», non è l’extralinguistico, ma il supporto di un mondo linguistico interamente dispiegato, di una grammatica totalmente disvelata.
Una delle fonti principali della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole. – La nostra grammatica manca di perspicuità. – La rappresentazione perspicua rende possibile la comprensione, che consiste appunto nel fatto che noi «vediamo connessioni». Di qui l’importanza del trovare e dell’inventare membri intermedi. Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un significato fondamentale. Designa la nostra forma rappresentativa, il modo in cui vediamo le cose. (È questa una «visione del mondo»?)15
Ancora una volta Wittgenstein vuole invitarci a cogliere la superficie del mondo, le forme di vita, le connessioni e l’intreccio dei somiglianti giochi linguistici che quotidianamente giochiamo. Quando si coglie un’immagine linguistica nella sua forma significante, si costruisce uno sfondo intrecciato di giochi somiglianti entro il quale quell’immagine trova precisa collocazione; un reticolo di connessioni grammaticali, e perciò regolate, si organizza spazialmente costituendo la condizione dell’unicità del senso dell’immagine percepita. La profondità della parola, il suo senso unico, si dischiudono proprio grazie al legame di superficie che essa intrattiene con le forme di vita del nostro mondo nelle quali la parola è comparsa o potrebbe comparire. Non si può non considerare l’importanza che Wittgenstein attribuisce alla grammatica: il cuore dell’unicità del senso di un’immagine linguistica è percepita a condizione che venga colta la sua grammatica e cioè il modo in cui quella stessa parola è usata in tutti i contesti della vita quotidiana. Lo sguardo percorre i tortuosi percorsi grammaticali, si muove trasversalmente tra i giochi linguistici e contemporaneamente si ferma alla percezione di un singolo elemento. Guardare la parola e sentirne l’eco significa allora partecipare alle regole del nostro mondo: «Lo sguardo deve essere, per così dire, grammaticalmente strutturato».16 La visione perspicua non esiste prima del suo accadere, c’è solo nel momento in cui accade, quando vi è composizione dello sfondo entro il quale può esservi determinazione. «Il tipo di esperienza è detto dai verbi impiegati (aufleuchten, erscheinen, entstehen: mandare una luce improvvisa-balenare, comparire, sorgere) e dall’indice temporale che rimanda a un presente enunciativo: qualcosa si annuncia nel momento attuale».17 Con la visione perspicua emerge una forma significante a partire dal dispiegamento di connessioni possibili tra l’elemento linguistico percepito e le molteplici regioni grammaticali nelle quali quello stesso elemento avrebbe potuto trovare un posto. Siamo dunque noi a comporre, a creare e costruire qualcosa come condizione di qualcos’altro; l’immagine linguistica percepita presuppone allora questo atto creativo, questo percepire attivo come condizione della comprensione del suo senso. Quando ascoltiamo una parola, costruiamo un supporto grammaticale, una solida trama di elementi linguistici per fissarla entro certi limiti e cogliere perciò specificamente la sua unicità: la vaghezza e la complessità dell’intreccio delle famiglie linguistiche somiglianti, sono proprio lo sfondo e la condizione della determinatezza e dell’unicità di una specifica mossa linguistica. «È come se l’immagine trovasse pace in una certa posizione (o in un’altra). Come se potesse, in realtà, fluttuare, e poi trovare pace con un’accentuazione particolare».18 La comprensione della determinatezza, dell’elemento linguistico individuale, è allora tale alla condizione di un’eccedenza, alla condizione dello sfondo grammaticale costituito dall’intreccio di giochi linguistici somiglianti in cui quell’elemento individuale è apparso o potrebbe apparire. Il rapporto tra lo sfondo grammaticale e il singolo elemento linguistico, tra condizione e condizionato, è qualcosa di molto particolare in quanto nel percepire qualcosa noi non vediamo chiaramente la condizione che rende tale percezione possibile; la condizione, lo sfondo che viene colto, fa parte di un orizzonte che esiste soltanto quando si sottrae nell’invisibile per rendere esplicitamente visibile il condizionato. Ciò significa che la connessione tra i molteplici contesti della vita viene colta e percepita come sfondo invisibile di supporto all’immagine visiva. Abbiamo tutti gli strumenti per risvegliare il nostro sguardo al senso delle immagini linguistiche, per poter intendere la parola come simbolo del tutto speciale, carico di pathos, circondato da una particolare atmosfera ed energico come un gesto «vivo». A conferire alla parola tutta questa vitalità è proprio quel rapporto tra condizione e condizionato di cui si parlava, esso ci permette di cogliere l’aspetto specifico di un’immagine linguistica e cioè tutta la profondità del suo senso esibita in superficie:
È il complesso delle correlazioni che una nuova espressione individuale e originale intrattiene con le circostanze della nostra vita che rende ragione di quei tratti di familiarità, ritmo, gestualità, e di aderenza immediata, non esitante, che ci fanno comprendere e riconoscere, al di fuori di regole prearrangiate, il significato di quella espressione.19
La percezione di un’immagine linguistica, che incarna il suo senso e lo esprime nella sua fisionomia, è il frutto delle connessioni di «superficie» che la legano ad altri contesti della vita:
L’espressivismo, la diretta e immediata percezione del significato, dell’atmosfera, del pathos di un’espressione simbolica […] si dispiega e si condensa nella nozione di visione perspicua che è un vedere le connessioni dirette, immediate tra le componenti di scenari della vita attraverso la scoperta di nessi intermedi.20
La profondità di un termine risiede allora nell’immediatezza del significato percepito o più precisamente, in quell’invisibile supporto semantico costituito da connessioni grammaticali che, attraverso la loro mediazione, rendono il significato immediatamente percepibile. L’esercizio di risveglio al senso è la capacità di cogliere il significato visibile solo nel momento in cui si riesce a scorgere la sua invisibile eccedenza. L’intento di Wittgenstein è quello di sottolineare l’imprescindibilità della dimensione della significazione linguistica: il senso di ogni immagine linguistica è interno all’uso pubblico del linguaggio, dunque l’unicità di un singolo elemento del linguaggio e la particolarità della sua atmosfera risiedono nella precisa posizione che esso assume tra le connessioni grammaticali. «L’essenza è espressa nella grammatica»,21 e ancora: «Che tipo di oggetto una cosa sia: questo dice la grammatica. (Teologia come grammatica)»22
4. Un’attitudine estetica complessa: il risveglio al senso
La ricerca wittgensteiniana consiste nel ritornare a quei fatti ovvi e pervasivi che avevano però perso il carattere di ovvietà. «This primacy of the obvious as I propose to call it, is one of the cornerstones of Wittgenstein’s philosophy after the Tractatus».23 Il risveglio al senso necessita proprio dell’acquisizione di sensibilità verso la realtà grammaticale, della «capacità di ricevere un’impressione forte e durevole da un fatto della grammatica».24 L’aspetto morfologico-grammaticale del linguaggio si mostra ad uno sguardo mutato che è ora pronto, con un’attitudine estetica complessa, a cogliere le diverse figure linguistiche. Il risveglio al comparire della forma linguistica significante richiede una sensibilità estetica che sappia riconoscere e cogliere il mondo in figura. Ciò che è ora fondamentale è il senso incarnato dalla forma visibile, dunque l’invisibile sfondo semantico costituito da connessioni grammaticali che, attraverso la loro mediazione, permettono l’emergere di una forma significante determinata. Si tratta di un supporto grammaticale all’immagine linguistica percepita che è altro dall’immagine ma che può essere colto soltanto contemporaneamente alla percezione di quest’ultima. Percepire «esteticamente» un elemento linguistico significherà allora cogliere la particolare fisionomia che esso assume in superficie senza trascurare ciò che il visibile porta con sé, un ‘altro’ rispetto all’immagine, un’eccedenza costituita dal legame che l’immagine intrattiene con il flusso della vita. «E come nella superficie, ossia nella corporeità dell’immagine, si dà la memoria di ciò che resta occulto, così nel fisico-corporeo è iscritto l’invisibile».25
In questo tipo di percezione estetica ciò che accade è un rovesciamento della percezione abituale, una catastrofe improvvisa, «un immediato contraccolpo di contingenza e intrascendibilità».26 Nel percepire l’elemento linguistico significante, ci apriamo alla contingenza richiamando alla mente i suoi possibili movimenti grammaticali, i molteplici vincoli che la parola potrebbe intrattenere con la totalità del nostro linguaggio e cioè le forme di vita in cui essa potrebbe essere giocata. Nel medesimo istante questa apertura soggettiva verso l’invisibile eccedenza dell’immagine linguistica sbatte contro i limiti visibili della stessa, limiti invalicabili ed intrascendibili ma necessari per il successo della comunicazione locale. «Il comprendere è questo stesso movimento […] è la penetrazione in ciò in cui già si sta, che lascia scoperto allo sguardo il non-detto: ciò che sta nel mezzo tra il vedente e il visibile»27. Il risveglio al senso nell’ambito della filosofia wittgensteiniana consiste proprio nel vivere tale contraccolpo esistenziale, sintesi di contingenza e intrascendibilità.
Questo tipo di adesione estetica alla parola costituisce l’ultimo anello e il punto di arrivo di una prassi linguistica interamente dispiegata, una forma di sensibilità complessa, un sentire immediato che, paradossalmente, presuppone qualcosa prima. «Si potrebbe anche utilizzare l’espressione sensismo di secondo grado, intendendo con ciò la percezione […] che non sarebbe concepibile senza una preliminare dimestichezza con una rete di concetti verbali».28 L’analitica viene allora ad essere la condizione preliminare per sviluppare questo tipo di «istinto fine», questa forma di sensibilità complessa: il sensismo di secondo grado è il punto di arrivo che si sviluppa soltanto in seguito alla parola. Il sapersi muovere nella grammatica del nostro linguaggio, e cioè il sapere vedere e rispettare le regole grammaticali, è dunque preliminare alla possibilità di accedere ad una sensibilità carica di senso e complessità: il sensismo di secondo grado ha di mira un non-linguistico che è, però, radicalmente post-linguistico. La strategia di Wittgenstein è quella di esplicitare analiticamente la configurazione spaziale della nostra grammatica, disegnare schizzi paesaggistici che raffigurino le dinamiche non lineari del nostro mondo per poi lasciarci soli, a contatto diretto con la parola nell’ambito del post-linguistico, ormai capaci di ricevere un’impressione totale da una forma linguistica significante. Pertanto la filosofia descrive e chiarifica per poi svanire nella chiarezza e rovesciarsi oltre se stessa nella dimensione estetica in cui vige silenzio, un silenzio carico di significato. Questa prospettiva conduce Wittgenstein ad affermare:
«Non mi è affatto chiaro se preferirei una prosecuzione del mio lavoro da parte di altri, o non piuttosto un mutamento del modo di vivere che rendesse superflui tutti questi interrogativi. (Perciò non potrei mai fondare una scuola).»29
Cosa è cambiato nel nostro modo di vivere? Cosa è mutato nella percezione di una realtà che è sempre rimasta tale? Wittgenstein ci dice che la percezione rimane immutata ma nel medesimo tempo qualcosa cambia: la visione si allarga, la produzione di nessi intermedi genera connessioni che estendono la superficie visiva, qualcosa di nuovo e più profondo salta all’occhio, in un attimo e improvvisamente viene colta «l’atmosfera». A questo punto la percezione, che è rimasta tale, non è più propriamente percezione; vorremmo dire che è pensiero, ma si può dire pensiero ciò che non è più percezione e ancora lo è? Più di una semplice percezione e meno di un vero e proprio pensiero, il risveglio al senso è percezione di una forma che incarna il suo significato, è diretta visione del senso.
È quasi come se il ‘vedere il segno in questo contesto’ fosse l’eco di un pensiero. «Un pensiero che echeggia nel vedere» – si vorrebbe dire.30
Cogliere l’atmosfera di una qualunque mossa linguistica, diviene allora un compito «estetico» che, dall’etimologia della parola, consiste nella «percezione attraverso la mediazione del senso». Una percezione che non implica mezzi intellettualistici ma che comunque non rinuncia alla presenza di significato: «Qui, del mio concetto, fa parte il mio rapporto con l’apparenza».31 Nel risvegliarci al senso, il senso viene inaspettatamente visto. Ecco che la vicinanza all’aspetto visibile della parola si sostituisce al rapporto di prossimità improduttiva che abbiamo da sempre intrattenuto con essa. Le ricerche del filosofo austriaco partivano proprio da questo tipo di vicinanza improduttiva e dalla conseguente incapacità di poter mettere a fuoco le immagini del nostro linguaggio. A contatto con quest’ultimo non ne sapevamo cogliere la fisionomia. Dall’uniformità di un sistema costituito da semplici e vuoti segni siamo giunti a considerare la varietà di immagini significanti del linguaggio morfologico che, per essere colte, necessitano di una preliminare dimestichezza grammaticale: il risveglio al senso cui Wittgenstein vuole condurci è una vicinanza consapevole che permetta di delineare i contorni esatti di una figura linguistica all’interno delle molteplici possibilità grammaticali. Tale vicinanza all’immagine c’è dove c’è mediazione, dove lo sguardo è maggiormente in grado di cogliere l’intreccio tra giochi linguistici somiglianti, di possedere una visione d’insieme (sinossi dei fatti).32 La vicinanza alla parola presuppone dunque un allontanamento, la familiarità un distacco, l’adesione un lavoro di mediazione: cogliere da lontano le connessioni della nostra grammatica e così saper fare confronti, è condizione di una maggiore vicinanza e cioè di una maggiore possibilità di determinazione del senso di una parola e della sua unicità. La «vicinanza» come possibilità di determinazione, non contraddice la presenza di mediazione, ma, al contrario, necessita di tale presenza.
All’inizio del nostro percorso si è fatto riferimento ad un tipo di prossimità non mediata e impotente, incapace di cogliere l’irripetibilità del senso di ogni mossa linguistica. In sostituzione a questo cieco e disorientato attaccamento alla parola, nell’ambito del post-linguistico, si è raggiunta invece una vicinanza mediata che rappresenta il massimo grado di orientamento soggettivo. «Vige a questo riguardo il principio di Ermes: il più basso coincide con il più alto, l’elementare contatto sensoriale si ripresenta anche, poi, come esito estremo del pensiero più rigoroso e logicamente strutturato».33 Si giunge ad acquisire una forma complessa di sensibilità estetica soltanto dopo la fatica di un lungo lavoro di resistenza contro le tentazioni filosofiche teorizzanti e di dimestichezza con la grammatica del nostro linguaggio: «Il sensualismo […] occorre percepirlo […] come il felice punto di arrivo della «fatica dei concetti»; come il risultato o il culmine del pensiero verbale; come una meta complessa, verso cui convergono prestazioni intellettuali assai sofisticate».34 Il punto di arrivo delle ricerche wittgensteiniane che abbiamo definito «risveglio al senso» consiste precisamente nel raggiungere quella complessa meta cognitiva con la quale è possibile rinvenire l’invisibile nel visibile. A tal proposito sarebbe utile chiedersi
come mettere a punto un concetto veramente filosofico di fisiognomica, […] tale da costituire una categoria centrale del pensiero, paragonabile, per intendersi, a quella di «induzione» o di «a priori» […] Va da sé che, per elaborare un concetto filosofico di fisiognomica, bisogna essere così avvertiti da trascurare senza esitazioni […] la maggior parte dei discorsi sulla fisiognomica.35
La fisiognomica filosofica in Wittgenstein ci porta a considerare il linguaggio gestuale come una grande opera d’arte, un insieme di forme e immagini che incarnano in loro stesse tutta la profondità del senso. Si torna così allo stesso punto da cui eravamo partiti, al linguaggio di sempre, a ciò che è da sempre stato sotto i nostri occhi, ma nel punto di arrivo tutta questa normalità è vissuta come eccezione: «Il valore abituale del segno resta tale, ma è come se questa abitualità fosse spogliata del suo abito e restituita al suo momento battesimale».36 Lo stupore dinnanzi a ciò che viene vissuto come eccezione proviene dall’improvviso stabilizzarsi dell’immagine in una precisa posizione all’interno delle relazioni che la legano ai giochi linguistici e agli altri contesti della vita, dall’improvvisa consapevolezza che, nonostante sarebbe potuta essere qualcosa di diverso, l’immagine ha assunto un significato preciso che ora incarna nella sua fisionomia. L’eccezione è quel contraccolpo esistenziale, sintesi di contingenza e intrascendibilità, che rende capaci di meravigliarsi di una semplice tautologia, di un’immagine che mentre dice se stessa rimanda a ciò che sarebbe potuta essere, del fatto che un’immagine diviene per noi qualcosa, assume un significato e si circonda di una particolare atmosfera. Wittgenstein insomma, nell’ambito di un faticoso lavoro di chiarificazione grammaticale, prefigura uno spazio non-linguistico in cui è preservato e difeso il senso profondo della realtà. Il linguaggio diviene lo strumento per rompere quella rigida relazione che il soggetto ha da sempre intrattenuto con il mondo e le cose che lo circondano, il mezzo per rinnovare una forma complessa di sensibilità perduta. Il percorso di «risveglio al senso» nella ricerca grammaticale wittgensteiniana è un esercizio che ha il potere di cambiare principalmente noi stessi: «Il lavoro filosofico è propriamente […] un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)».37
-
Per «logica del doppio» si intende una logica che ci spinge a credere che il linguaggio per funzionare abbia bisogno di un duplicato, un oggetto o una sua rappresentazione mentale, che possa vivificare le parole concepite come vuoti segni. La pervasiva presenza del modello oggetto-designazione nell’ambito di questa logica sarà da Wittgenstein ridimensionata sulla base di una più ampia e complessa concezione del linguaggio. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, § 23. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 66. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Zettel. Lo spazio segreto della psicologia, Einaudi, Torino, 1986,§ 314. ↩︎
-
G. P. Baker, P. M. S. Hacker, Volume 1 of An Analytical Commentary on the Philosophical Investigations, Wittgenstein: Understanding and Meaning, Blackwell Publishing, Malden, 2005, exegesis §§1-84, p. 20. ↩︎
-
Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 217. ↩︎
-
D. Marconi, Guida a Wittgenstein. Il «Tractatus», dal «Tractatus» alle «Ricerche», Matematica, Regole e Linguaggio privato, Psicologia, Certezza, Forme di vita, Editori Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 155-156. ↩︎
-
B. Stroud, Wittgenstein e la necessità logica, cit. in M. Andronico, D. Marconi, C. Penco, Capire Wittgenstein, Marietti, Genova-Milano, 2004, p. 152. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 241. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Della Certezza, Giulio Einaudi editore, Torino, 1978, § 61. ↩︎
-
A. G. Gargani, Thematic continuities in Wittgenstein’s work, in A. Coliva, E. Picardi, Wittgenstein today, Il poligrafo, Padova, 2004, p. 437. ↩︎
-
A. Gargani, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, p. 34. ↩︎
-
A. Boncompagni, Wittgenstein. Lo sguardo e il limite, Mimesis, Milano-Udine, 2011, p. 120. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 126; § 128. ↩︎
-
Ivi, § 122. ↩︎
-
Giovanni Matteucci, Estetica e natura umana: considerazioni programmatiche, in «Studi di estetica», anno XLV, IV serie N° 7 (1/2017). ↩︎
-
S. Borutti, Percezione e immagine. Un’estetica per le scienze umane, in «Aut-Aut», 313-314, 2003, p. 193. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano, 1990, § 871. ↩︎
-
A. Gargani, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, cit., p. 22. ↩︎
-
Ivi, p. 40. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 371. ↩︎
-
Ivi, § 373. ↩︎
-
G. H. Von Wright, Wittgenstein and tradition, in F. Bianco, Colloquium Philosophicum, Annali del Dipartimento di Filosofia, Anno accademico 1995/1996, Leo S. Olschki, Firenze, 1997, p. 39. ↩︎
-
M. Andronico, Wittgenstein: estetica e sensibilità, in M. De Carolis e A. Martone, Sensibilità e linguaggio. Un seminario intorno a Wittgenstein, Quodlibet, Macerata, 2002, p. 22. ↩︎
-
Ivi, p. 223. ↩︎
-
M. De Carolis, Filosofia come modificazione della sensibilità, in M. De Carolis e A. Martone, Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein, cit., p. 63. ↩︎
-
L. Distaso, Estetica e differenza in Wittgenstein. Studi per un’estetica wittgensteiniana, Carocci, Roma, p. 122. ↩︎
-
M. Mazzeo, P. Virno, Il fisiologico come simbolo del logico. Wittgenstein fisionomo, in M. De Carolis e A. Martone, Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein, cit., p. 119. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1988, p. 118. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., II, XI, p. 249. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit. § 617. ↩︎
-
Per «visione sinottica» o «sinossi dei fatti» si intende un modello di descrizione parallela, comparativa e compositiva dei diversi elementi fattuali, quindi linguistici, colti simultaneamente. ↩︎
-
M. Mazzeo, P. Virno, Il fisiologico come simbolo del logico. Wittgenstein fisionomo, in M. De Carolis e A. Martone, Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein, cit., p. 121. ↩︎
-
Ivi, p. 120. ↩︎
-
Ivi, p. 130. ↩︎
-
M. De Carolis, Filosofia come modificazione della sensibilità, in M. De Carolis e A. Martone, Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein, cit., p. 62. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Pensieri diversi, cit., p. 43. ↩︎