1. Introduzione
Raimon Panikkar incarna armoniosamente l’incontro osmotico e fecondante di due culture opposte e complementari. Nato a Barcellona il 3 novembre del 1918 da madre catalana e padre originario del Kerala, uno stato del sud dell’India, fin dai primi anni di vita subì l’influenza di una rigorosa educazione cattolica ammorbidita e controbilanciata dal pensiero hinduista. Il suo mondo si è integrato ed ampliato in seguito ai continui soggiorni in India, America Latina, Stati Uniti, Italia e Germania. Le sue convinzioni e il suo retaggio culturale sono stati continuamente «spazzati», messi in discussione, esposti al vento del confronto culturale, dell’incontro con la diversità. Gettato in questo turbinio continuo d’esperienze decentranti, Raimon Panikkar racconta di aver trovato un punto d’intersezione, una linea di mediazione raccordante nella propria vita interiore, nella coscienza, che ha subito il passaggio rigenerante ad un grado di consapevolezza superiore, espansa, capace di vedere ed accettare la relatività e la relazionalità propria del Reale. Per l’Autore, soltanto questo tipo di consapevolezza riesce a svelare la costitutiva tridimensionalità dell’Essere rivelando l’insufficienza di ogni pensiero assolutizzante e mono-tono, ed è in grado di liberare l’uomo dalla piccolezza del proprio egocentrismo. La realtà ha tre dimensioni; così ogni antropologia che voglia rispettare la natura reale dell’essere umano dovrà risultare necessariamente tripartita. Ordinato sacerdote cattolico, laureato in filosofia, teologia e chimica, questa tridimensionalità si può dire connaturata al pensiero dell’Autore che sostiene di non essere mai riuscito, nel suo desiderio di un abbraccio integrante al Reale, ad escludere nessuna di queste tre dimensioni vitali: né dunque la dimensione dell’Uomo (la filosofia), né quella del Mondo (la chimica), né tanto meno quella di Dio (la teologia). Raimon Panikkar è spesso presentato come una figura «religiosa» internazionale. Da molti considerato un «guru», un maestro spirituale, soprattutto a causa del suo incessante parlare della necessità di un dialogo inter-religioso, del suo invito all’approccio mistico e della sua ricerca di una via per una pace possibile, ha conquistato il «grande pubblico» grazie al proprio carisma personale, che gli ha procurato l’appellativo di «costruttore» di «ponti» e di «arcobaleni» interculturali. Eppure, chi non si sia fermato alla superficie, incantato e appagato da questa capacità di riempire le mancanze, di sanare le ferite interiori attraverso parole intrise di originaria vitalità, chi abbia ascoltato non solo il «sacerdote», ma anche il filosofo e il chimico, o se si vuole «l’alchimista», sa che Raimon Panikkar non è soltanto un «costruttore», ma anche un «distruttore», e che anzi la sua lezione più importante è proprio questa: non può essere costruito nulla di nuovo là dove previamente non sia stato smantellato il vecchio. Ogni ri-generazione ha bisogno di spazio o di Vuoto. Questa è la legge dell’Essere. Il mezzo per farsi spazio e per ricostruire è lo stesso: il dialogo dialogale, un incontro che coinvolge l’interezza della persona attraverso la «differenza» del mythos, che è l’humus dove affondano le credenze culturali. Lo spazio per l’evento dialogale è la mistica, spazio «puro», aria non inquinata dalla riflessione logica e dunque invisibile, inintelligibile; mentre la ri-generazione, la nuova costruzione, è la nuova innocenza, una nuova forma di consapevolezza della Realtà che «dà vita» ad un nuovo rapporto con l’Essere, esperenziale, immediato e dunque sincero.
Raimon Panikkar è un provocatore, un lanciatore di sfide che pone l’uomo «alle strette» con se stesso. Ma assieme alla proposta della sfida della metanoia mitica, che è la sfida della nuova innocenza, egli da «anche» una risposta, una sorta di previsione «oracolare» che non consiste nella certezza di una conclusione «positiva», sicura, ma piuttosto nella riabilitazione della fiducia dell’uomo nella propria capacità di essere in grado di accettare la sfida, l’incontro, il dialogo, l’apertura alla diversità, la Vita, comunque andrà a finire. Nel tentativo di interpretare questo messaggio «oracolare», l’uomo si accorge che la sfida reale «è» il re-cupero della possibilità stessa di accettare la sfida, di dire di «si» con la propria partecipazione, di accettare il rischio della libertà vitale. La ri-generazione avviene dunque nel presente, senza dover attendere un risultato spostato in un futuro imprecisato, senza dover far ricorso a qualche escatologia: il premio non si trova alla fine del cammino, ma consiste nella capacità di vivere la pienezza del cammino stesso, di vivere la pienezza dell’Essere, il presente della Vita attraverso la presenza personale.
L’intento di Raimon Panikkar è quello di ri-orientare l’essere umano verso l’Essere, che è tanto un sostantivo quanto un verbo, una funzione. La cultura occidentale, negli ultimi seimila anni di storia, rapportandosi all’Essere, ovvero nel processo del conoscere, si è concentrata sul suo aspetto sostanziale, intelligibile, permettendo alle proprie capacità razionali di prevaricare l’aspetto funzionale, incontrollabile e incontenibile, che in tale modo è stato oscurato. Tale atteggiamento monistico, ha costituito la base per ogni assolutismo e per ogni totalitarismo. Anche nel momento in cui l’aspetto funzionale dell’Essere è stato percepito, l’impossibilità razionale di costringerlo nelle proprie categorie, ha spinto la mente occidentale ad un’ontologizzazione negativa, a creare cioè due sostanze, dando sfogo al dualismo. Il problema del dualismo è il problema della comunicazione fra due sostanze autosufficienti, chiuse in se stesse, assolute: è il problema ultimo della modalità del rapporto fra identità e differenza, fra immanenza e trascendenza, o se si vuole, fra mente e corpo. L’Essere è «anche» funzione, scorrere, imprevedibilità, insondabilità, pluralità, differenza, sensibilità; è «anche» corpo oltre che mente, è «anche» mistero oltre che intelligibilità, e non voler prendere in considerazione questo «anche», questa relazione costitutiva dei suoi due aspetti antinomici, significa nasconderne il senso pieno: significa oblio dell’Essere. L’uomo occidentale si è auto-recluso nella prigione del logos gestita dalla razionalità, ossia in un tipo di conoscenza analitica e specialistica, riflessiva e oggettivante, tecnocratica, che gli ha impedito di ascoltare l’intero linguaggio dell’Essere, di averne una visione relazionale e integrata, facendolo precipitare nel non-senso.
Se tutto questo però vale per l’Occidente degli ultimi seimila anni, non ha riguardato invece tradizioni più antiche della stessa cultura occidentale, né tanto meno riguarda storia e tradizioni orientali. Il confronto con il mondo orientale, che si è incarnato nell’Autore tanto attraverso il DNA e l’educazione paterna quanto attraverso l’esperienza personale, dovrebbe aiutare l’uomo occidentale a relativizzare sia la propria tendenza all’universalizzazione, che nel caso contemporaneo ha preso le sembianze della globalizzazione, sia la supremazia della Ragione, del logos, del soggetto sulla sensibilità, sul mythos, sull’oggetto nell’atto conoscitivo; come anche la convinzione della centralità dell’Ego che si concretizza nell’individualismo. In questo confronto, in questo dialogo relativizzante, l’uomo occidentale (od occidentalizzato) trova la sua possibilità di liberazione dalla schiavitù intellettuale e dunque dal non-senso. La differenza interculturale ponendo l’uomo di fronte ai propri limiti, ponendolo di fronte all’altro, al differente, costringendolo alla contingenza, gli impone un ripiegamento su se stesso, una ri-flessione che lo spinge nuovamente alla domanda originaria sull’identità, ossia all’interrogativo del «chi sono io». Attraverso l’osmosi che si crea tra il dialogo con l’altro, inter-personale o inter-culturale, e il dialogo con se stesso, scaturito dalla domanda sull’origine, che è dialogo intra-personale, la coscienza dell’uomo si modifica, cresce su se stessa fino a raggiungere la consapevolezza della relatività radicale della Realtà. Uscendo dal proprio arroccamento l’Ego si scopre un Io identitario in relazione inter-in-dipendente con un Tu differente, che è il suo Tu indissolubile, senza il quale non potrebbe essere. L’uomo scopre così che l’Essere «è» relazione tra due aspetti complementari e costitutivi, e che questa relazione, pur essendo apertura trascendente che si rivela esclusivamente nel «tra», nel confine tra le altre due dimensioni dell’identità e della differenza, della mente e del corpo, è tanto reale quanto queste, ed anzi è ciò che rende possibile tale Realtà. Inoltre, queste tre dimensioni del Reale inteso come tutto ciò che è, sono tempiterne, ovvero si compenetrano nel presente: in tal modo la trascendenza irrompe nell’immanenza donandole profondità, senza essere più relegata in un altrove o in un «chissà quando». Raimon Panikkar restituisce all’Essere il suo significato integrale e all’uomo la sua libertà, che è possibilità di comprensione pienamente significante, che è possibilità di aderire pienamente all’Essere, di ascoltarne e decifrarne il linguaggio reale. Questa nuova saggezza non ha chiaramente nulla a che fare con la riduzione razionale della conoscenza dialettica e analitica, né con l’istinto della sensibilità, piuttosto costituisce un’espansione di entrambe. Questa nuova forma di conoscenza, consapevole dell’integrazione del tutto, capace di «vedere» e stabilire un nuovo rapporto, un «tocco» esperenziale più rispettoso, generoso, immediato, amoroso e disponibile nei confronti dell’Essere, è la nuova innocenza che, seguendo la parola stessa, è relazione in-nocens, che non nuoce, incapace di violenza e di aggressività. L’uomo dialogale, cresciuto nella consapevolezza innocente, si muove in uno spazio mistico nel quale c’è posto per ogni unicità ma per nessuna riduzione. Ciò è possibile poiché la vecchia antropologia bidimensionale (mente-corpo), incapace di rapportarsi alla differenza dell’Essere, è stata approfondita dalla terza dimensione relazionale: la Realtà non è né una, né due, né tanto meno tre; ma è «Una» e «Trina» contemporaneamente; è a-dvaita: a-duale. La Realtà è armonia cosmoteandrica: l’uomo che si apre alla relazione si realizza microcosmo, quaternitas perfecta, scoprendo che l’’é’del suo «essere» uomo, è intrinsecamente congiunto con l’«È» di tutto ciò che «È», poiché partecipa all’Essere. Cosmo-Dio-Uomo, altrimenti detto, Sensi-Fede-Ragione, o ancora Corpo-Spirito-Mente, sono l’Essere libero di seguire la propria legge, la legge «di» essere, di scorrere, di vivere incondizionatamente senza falsificazioni, per la quale la ri-generazione è continuamente emergente: sempre, dopo la fine un nuovo inizio, che diventa a sua volta fine e possibilità di un nuovo inizio. Ma in questo scorrere continuo e paradossale, sempre diverso eppure costantemente se stesso, è necessario il momento de-strutturante e disarmonico che permette il cambiamento, il movimento stesso. È così che in questa visione integrale, originaria dell’Essere, la morte, il male e il dolore, da non confondersi però con l’uccisione, la violenza e la tortura, diventano possibilità, apertura verso la ri-generazione: acquistano realtà e naturalezza. Raimon Panikkar appare impegnato a de-ontologizzare l’Essere per permettergli di esprimersi liberamente, per permettere alla Vita di ri-sorgere, poiché seguendo la ruota della Vita, seguendo la legge dell’Essere, la contemporaneità appare attraversare il momento kairologico, opportuno cioè, per la ri-nascita: la società contemporanea ha la possibilità per una nuova innocenza. Deve solo accettarne la sfida.
Un simile proposito corrisponde alla proposta di smantellamento di una cultura. Raimon Panikkar non è dunque solo «passiva accoglienza», ma anche «attività trasformante»: è acqua e fuoco insieme, è tanto yin quanto yang, è ossimorico come ogni essere realmente Reale.
2. La sfida della metanoia deontologizzante: la filosofia come libertà
Partendo dall’indagine sulla società occidentale, Raimon Panikkar scopre che essa attraversa un momento di crisi caratterizzata da una perdita di senso, di vitalità esistenziale. La causa di questa devitalizzazione è essenzialmente individuata nell’armamento razionalistico. Per recuperare vitalità, è necessario dunque eliminare la causa della crisi operando il disarmo della Ragione, che può avvenire esclusivamente costringendo questa ai propri limiti. Tale compito può essere portato a termine soltanto dal suo opposto ontonomico costitutivo, l’unico in grado di opporle resistenza. È così che al logos si fa presente il mythos; all’astrattezza generalizzante e asettica della Ragione, la concretezza personalizzante e coinvolgente della Realtà; al monismo, il pluralismo; all’Occidente, l’Oriente. Ciò che conduce dinnanzi al logos il proprio mythos è l’interculturalità: il dialogo con la differenza culturale. Attraverso la resistenza della differenza, la coscienza occidentale ha la possibilità di scoprire la propria identità reale, e questo la condurrà verso quella ri-generazione definita nuova innocenza. Raimon Panikkar sembra attuare una trasfigurazione del logos nel mythos capace di condurre alla possibilità del dialogo dialogale, ovvero alla possibilità dell’incontro reale con l’Essere: alla possibilità di svelarne il volto. In pieno stile orientale l’Autore avverte che per rispondere alla domanda originaria, per sapere cos’è l’Essere, bisogna avere il coraggio di «lasciarlo andare», di lasciarlo appunto «essere», esprimere, e dunque bisogna acquisire la capacità di saperlo ascoltare. Ciò non è cosa facile, soprattutto per l’uomo occidentale abituato a costruire attivamente la propria identità attraverso fortificazioni concentriche attorno al proprio Ego, che in tal modo si è assolutizzato. Lasciar essere l’Essere, lasciarlo libero di scorrere, implica la paura della perdita dell’identità, che in fin dei conti è la paura del proprio annientamento, della propria nullificazione. È per questo cedere o indugiare nel terrore del nulla, del vuoto, che la cultura occidentale ha costretto l’Essere (fin dalla filosofia di Parmenide), attraverso il pensiero razionale, ad essere sempre «qualcosa». L’Essere è stato continuamente «riempito», mascherato: è stato ontologizzato. Più l’uomo indugia nella paura, più ricerca sicurezze; più ricerca sicurezze, più si isola dando sfogo all’illusione dell’indipendenza: all’illusione dell’individualismo. L’uomo si «arrocca» creando ideologie totalitarie per cercare di negare e rimuovere la diversità che è il memento costante della propria nullificazione. In questo modo l’apertura alla pienezza del Reale diventa impossibile, e la libertà è negata. Ma poiché l’Essere è anche diversità, poiché la Realtà è plurale e questo pluralismo è un fatto che s’impone, negare, aver paura dell’incontro con la differenza non è, allora, in ultima analisi, temere la propria morte, ma è restare pietrificati dinnanzi alla Vita stessa. Il compito della filosofia per Raimon Panikkar consiste nel restituire all’uomo la pienezza delle proprie possibilità di Vita; nel restituire all’Essere il coraggio di essere, nel rinvigorirlo, nel donargli nuova forza vitale indicandogli la via verso la propria libertà. Il pensiero occidentale avendo fatto della Ragione il giudice supremo, reggendosi sulla logica calcolante, inscatola, impacchetta, sigilla, sterilizza, applica continuamente etichette attraverso un linguaggio ridotto a nominalismo. Il nominalismo incèlofana, sigilla e poi surgela le «cose» riducendole a concetti, a simulacri, ad evanescenze prive di corporalità, di esistenza, di ambiguità, per poterne poi usufruirne a piacimento evitandosi sorprese, colpi di scena, esplosioni vitali. Ma l’Essere, la Vita, è continuo scorrere, è movimento, imprevedibilità, novità continuamente inattesa; per questo il linguaggio nominalistico non potrà mai veicolarne l’espressività. Il nominalismo, utilizzato dalla scienza e dalla tecnocrazia, non è in grado di dare voce alla Vita, ma anzi ne soffoca anche il più debole sussurro.
Il procedere di Raimon Panikkar è un continuo costringere alla prossimità identità e differenza, Io e Tu, per far in modo che l’Io diventi consapevole dell’imprescindibile relazionalità inter-in-dipendente del tutto. Questo avvicinamento della differenza, del pluralismo all’identità, è realizzato attraverso l’interculturalità che gioca così un ruolo fondamentale e insostituibile. La stessa filosofia, per l’Autore, può assolvere il proprio compito soltanto realizzandosi interculturale, ovvero diventando mediatrice avvicinante, modulatrice catalizzante. L’avvicinamento interculturale è ciò che permette lo spaesamento necessario per la possibilità della ristrutturazione dell’identità, che solo così capisce di trovarsi di fronte alla sfida di una metanoia, di fronte alla sfida cioè di un’inversione a 180° gradi del nous del momento attuale. Il nous del momento attuale è precisamente il pensiero occidentale: il pensiero della cultura attualmente dominante. Ma se il pensiero dominante si è costruito attraverso un’espansione sempre maggiore della ragione, del logos in quanto razionalità, la metanoia deve costituire il ribaltamento capovolgente in grado di far confluire questo nous nel suo esatto opposto, costituendo così un passaggio trasformate dal logos al mythos, ovvero dal pensiero ontologizzante alla relazione deontologizzante. Detto più semplicemente, l’Essere, per avere la possibilità di spiegarsi in tutto ciò che è in piena libertà, deve venire per così dire «svuotato», scrostato dai posticci del pensiero logico-razionale che ne ha consentito l’oblio, favorendo la perdita di senso e l’incapacità dell’incontro dialogante.
Per riuscire a mostrare in pochi passaggi ciò in cui appare impegnato Raimon Panikkar, si potrebbe paragonare la pienezza della Realtà, ovvero l’Essere inteso come tutto ciò che è, ad una piccola moneta. L’Autore sembra allora interessato a:
- Mostrare l’esistenza reale, concreta del lato «opposto» a quello della «testa» (logos), ossia quello della «croce» (mythos).
- Riabilitare la dimensione della congiunzione relazionante — la filettatura della moneta che rappresenta la fede o trascendenza o relazione — che appare imprescindibile per l’esistenza della moneta in quanto moneta.
- Evidenziare che la moneta è tridimensionale, e che queste tre dimensioni (testa, croce e filettatura, ovvero logos, mythos e relazione) sono parimenti essenziali alla natura della moneta stessa.
- Stabilito il valore della congiunzione (filettatura, unione) relazionante, indagare le modalità comunicative di essa.
È in quest’ultimo punto che appare il dialogo dialogale come modalità espressiva propria della Realtà (moneta) in quanto Relazione costitutiva di tutto ciò che è. Attraverso questi passaggi, la consapevolezza dell’uomo cresce su se stessa, si espande partendo dalla fissazione sul proprio Ego (logos, lato della testa), che si destabilizza attraverso l’incontro con l’alterità (mythos, lato della croce) e che ritrova l’armonia una volta spostata l’attenzione sulla costituente relazionalità reale che costringe al dialogo Io — Tu, e finendo con lo scoprire la Realtà. L’Ego diventa così se stesso perdendo se stesso, perdendo cioè l’ostinazione all’egocentrismo. Ciò però non deve indurre a credere che in tale perdita sia compresa la propria unicità. Al contrario, la relazionalità è ciò che permette una piena espressione dell’unicità che si trasforma da individualità isolata, alienata, schiavizzata, in persona consapevole del volto dell’Essere, consapevole di essere un nodo di relazioni alle quali è impossibile sfuggire se non riducendo se stessi. La personalità ha scelto di guardare in faccia la Realtà e di accettare la Vita comprensiva del rischio che le è insito a causa della sua stessa libertà. La personalità nuovamente innocente, innocente in quanto liberata dal pensiero ri-flessivo e riducente e per questo immersa in un contatto spontaneo, originario e concreto con l’Essere, è in grado di sostenere la responsabilità della propria esistenza poiché ri-generata attraverso la comunione cosmoteandrica che ne manifesta il potere collegandola direttamente alla propria origine. L’uomo libero, nel pensiero di Raimon Panikkar, è quello che, risalendo all’origine dell’Essere, si scopre microcosmo tridimensionale. Allora, tutto ciò che appartiene all’uomo è tutto ciò che appartiene alla Realtà, ovvero all’Essere deontologizzato e scoperto per ciò che è: relazione. È in questo senso che Raimon Panikkar intende la radicale religiosità della Vita: religiosità come ciò che religa, che unisce e connette.
Tutto quello che avviene nel micro a livello personale e intra-personale, a causa di questa corrispondenza reale del tutto, risuona ritmicamente anche nel macro a livello culturale e inter-culturale. Raimon Panikkar sostiene che ogni cultura è un Kosmos, un universo formato dal Cielo del logos e dalla Terra del mythos che insieme formano l’orizzonte di situazione proprio di quella determinata cultura; un orizzonte che però è sempre relativo ad uno specifico spazio/tempo. Tale relatività radicale è però inconsapevole alla cultura che si concentra in se stessa. È l’interculturalità a palesare all’orizzonte la propria relatività rendendogli prossima la diversità culturale, ovvero avvicinandogli un Kosmos differente. L’orizzonte «toccato» dall’interculturalità diventa contemporaneamente consapevole:
- della propria irriducibile ed indiscutibile unicità (scopre cioè la propria identità);
- dell’esistenza reale, concreta, e anch’essa indiscutibile, di altri orizzonti;
- della radicale relazionalità dell’Essere, ossia dell’impossibilità di sfuggire alla relazione in quanto si «è», in quanto si partecipa all’Essere.
La consapevolezza relazionale permette all’orizzonte culturale di trasformarsi in orizzonte aperto, in un orizzonte disposto all’incontro fecondante poiché realizzatosi relazionale e relativo.
La domanda che s’impone a questo punto è la seguente: è possibile per tutti questi diversi Kosmoi trovare uno spazio relazionale al di fuori del concetto omologante? E quale sarà allora il linguaggio capace di veicolare la relazione costituente e costitutiva? La risposta è già implicita nella domanda: lo spazio al di fuori del concetto è esattamente lo «spazio», lo «spazio concreto», la realtà, la con-tingenza, la situazione del momento richiedente che s’impone. Il linguaggio in grado di veicolare la relazione sarà il linguaggio della relazione stessa; ed essendo l’Essere relazione reale, il linguaggio capace dell’incontro sarà lo stesso linguaggio dell’Essere. Se il linguaggio che falsifica, incrosta e riduce l’Essere è quello logico-concettuale, il linguaggio della sua espressione non potrà che essere un linguaggio ad esso contrario: non potrà che essere il linguaggio mitico-simbolico. L’uomo, nel pensiero di Raimon Panikkar, si trasforma così da oratore in ascoltatore; da centralina di trasmissione in antenna captante e rispondente, capace di veicolare i messaggi stessi dell’Essere che viaggiano nella condivisione di un unico mythos inglobante, che è quello di essere uomini, quello di essere vivi: quello «semplicemente», spontaneamente, di essere.
3. Tra logos e mythos: il dialogo dialogale
Riguardo al logos e al mythos è necessario dire qualcosa in più, poiché è soprattutto attraverso il loro dinamismo che Raimon Panikkar riesce a compiere quell’opera di smascheramento e d’inversione in gradocapace di risvegliare nell’uomo la consapevolezza del proprio orizzonte di situazione. Si è detto che Raimon Panikkar unisce in sé, sin dentro il proprio DNA, due tradizioni diverse e discordanti: l’occidentale e l’orientale. L’Oriente è presente nell’Autore soprattutto attraverso il «proprio» Oriente, ossia attraverso l’India che non coincide però, come si potrebbe essere portati a pensare, esclusivamente con la tradizione induista, ma racchiude in sé molte altre tradizioni, tra le quali la buddhista e la taoista. Se dalla tradizione induista l’Autore trae, fra l’altro, l’immagine della Realtà come purusha, come corpo primordiale o come coincidenza tra atman e brahman, e il concetto di karma, e da quella buddista il richiamo alla vacuità e alla rinuncia, è dalla tradizione taoista che sembra derivare quel dinamismo dell’argomentare capace di svelare la tridimensionalità della Realtà. È lo stesso Autore ad avvicinare il mythos al Tao. È possibile mostrare il rapporto che intercorre tra mythos e logos attraverso il simbolo taoista del T’ai Chi. Riguardo al mythos e al logos Raimon Panikkar dice: «Vorrei affrontare in maniera sintetica un punto nodale della mia prospettiva filosofica: quello della relazione fra mito e logos. […] Quando si de-mitizza una cosa la si razionalizza, però nel passare dal mythos al logos «qualcosa» che prima era logos, o che forse si trovava fuori dall’orizzonte, si converte in mythos. Quando io illumino qualcosa con la luce della ragione, per questo stesso fatto lascio all’oscuro quello che prima stavo illuminando; ho demitizzato ma simultaneamente ho anche transmitizzato, ho cambiato il mito; c’è stato un passaggio da mythos a logos e da logos a mythos. Non c’è dunque logos puro, come nemmeno c’è mythos puro; c’è sempre una relazione vitale e costitutiva fra logos e mythos. L’uomo può ampliare il logos, può svalutarlo, ma non può ridurlo a zero. Lo stesso avviene per il mito. Il mito è ciò in cui crediamo senza credere che crediamo in esso […]. Si tratta dunque dell’orizzonte ultimo di intelligibilità di una cosa […]. Non si può trattare il mito come si tratta la ragione».1 L’Autore, innanzitutto puntualizza che demitizzare equivale a razionalizzare, ossia a rendere razionale, «leggibile» dalla ragione. Con ciò stabilisce che dove c’è mito non può esserci razionalità, ovvero logos, e viceversa: i due sarebbero inversamente proporzionali. Continuando, viene chiarito che nel passaggio dall’uno all’altro, qualcosa dell’uno rimane nell’altro e viceversa, tanto che sarebbe impossibile trovarsi in una condizione di logos o di mythos assoluto, puro. Questo passaggio attraverso il quale avviene un lascito trasformante è definito transmitizzazione. La metafora luce/oscurità viene utilizzata per mostrare la relazione che intercorre tra i due. Senza entrare nello specifico della tradizione taoista, si vuole qui utilizzarne soltanto un simbolo, quello del T’ai Chi, molto noto anche in Occidente a causa dell’uso e dell’abuso commerciale che ne è stato fatto. Il T’ai Chi, che letteralmente significa «la trave maestra»^[2] mostra in concreto, attraverso un’immagine grafica, «cosa sia» mythos, «cosa sia» logos e «cosa sia» relazione costitutiva. Si vuole suggerire una lettura dell’immagine che inizi da destra e prosegua verso sinistra, poiché questo consentirà di soffermarsi innanzitutto sul logos.
La zona bianca è detta yang: «[…] che significa propriamente «vessilli che sventolano al sole», dunque cose illuminate, chiare»,2 mentre la zona nera è detta yin, che è: « […] nel suo significato originario il nuvoloso, l’oscuro».3 Questo simbolismo iniziale di luce/oscurità è ampliabile, ed attira sé tutti i significati che in qualche modo hanno a che fare con la differenziazione iniziale. Si ha così, per esempio, dalla parte dello yang, la luce, il Sole, il principio attivo o mascolino, il padre, il Cielo, l’Occidente; dalla parte dello yin, l’oscurità, la Luna, il principio passivo o femmineo, la madre, la Terra, l’Oriente. Raimon Panikkar parla di logos come di luce della ragione, e di mythos come di ciò che viene lasciato all’oscuro. È possibile dunque, come primo passo, annoverare il logos tra i significati della zona bianca, o yang, e il mythos tra i significati della zona scura, o yin. Si ha così effettivamente visibile il logos (a destra) e il mythos (a sinistra) . Continuando a leggere la figura, si deve porre attenzione sul fatto che il logos non è «completamente» logos, non è cioè logos puro; infatti ha, per così dire, un «buco», che lascia manifestare la parte scura, che «ricorda» cioè alla percezione (visiva in questo caso) l’esistenza del mythos anche nel momento in cui si sia completamente concentrati sulla zona bianca, sul logos. Anche mentre la concentrazione visiva è rivolta al logos, il mythos non scompare del tutto: è presente come «buco», o se si vuole, come assenza. Probabilmente, se questo «buco» non fosse stato presente, la concentrazione visiva, ovvero l’attenzione dell’osservatore, sarebbe stata completamente assorbita dalla zona luminosa, bianca, totalmente incurante dello sfondo che ne permette l’emersione, e dunque la visione stessa. Ma il «buco» è presente, e questo è un fatto. Quel «buco» di mythos attiva la consapevolezza dell’esistenza del mythos stesso, mentre si è concentrati ancora sul logos. Il mythos non può scomparire del tutto: attraverso questo «buco», il vuoto (di luce, di logos) s’impone come esistente. Proseguendo la lettura del simbolo verso sinistra, si può vedere come nel mythos, nella zona nera, sia presente un punto di luce, un piccolo «pieno» di luce per il quale è valido lo stesso discorso fatto per il «buco». Si deve pensare che la lettura che si sta facendo, è la lettura di un’immagine statica; ma il T’ai Chi è un cerchio, un disco, una ruota, e come tutte le ruote, «ruota» appunto, gira. Questo lascito di vuoto nel pieno e di pieno nel vuoto, è stato possibile soltanto perché yin e yang, mythos e logos, «girando», ovvero rapportandosi, entrando in relazione, si sono per così dire influenzati. Potrebbe essere paragonato a ciò che Raimon Panikkar definisce come transmitizzazione. È soltanto a causa di questa appartenenza ad un «comune dinamismo» che è possibile definire il mythos come l’orizzonte ultimo di intelligibilità, ovvero come ciò che permette all’intelligibilità di essere intelligibile, al logos di manifestarsi. Il mythos consente l’evidenza, la ri-levanza; è la possibilità stessa del rilievo, ma soltanto perché interagisce con ciò che può essere rilevato (e dunque interpretato), ossia con il logos. Senza uno sfondo scuro, la luce non appare, ed anche se si è del tutto inconsapevoli di questo sfondo scuro perché completamente concentrati (o centrati) sull’immagine luminosa, non per questo esso cessa di essere esistente. Ma è anche vero il contrario, e cioè che l’oscurità non avrebbe senso, o semplicemente non sarebbe, senza il suo opposto costitutivo. È necessario porsi in una situazione di reciprocità capovolgente. È tutta questione di consapevolezza, percezione e spostamento dell’attenzione, per consentire il «de-centramento». Mentre la luce, e dunque il logos, illuminando rende le cose «chiare e distinte», l’oscurità, e dunque il mythos, favorisce la loro ambiguità, rendendole confuse: «L’ideale della ragione raziocinante […] è l’univocità. […] Non ci deve essere confusione perché ci sia intelligibilità […]. L’ideale del mito è tutto il contrario. Un mito è tanto più mito quanto più è polisemico e polivalente».4 Le regole del logos, della ragione, non valgono per il mythos, che può dirsi a questo punto prassi, in quanto «non pensato», ma creduto, praticato, partecipato inconsciamente, senza l’intervento del pensiero riflessivo. Il simbolo del T’ai Chi mostra tangibilmente tutto questo, ma svela «anche» qualcos’altro. È sempre questione d’attenzione, di spostamento della percezione. Molti occidentali, trovandosi di fronte a questo simbolo, tendono a spiegarlo come la lotta tra il bene e il male. Lasciando da parte l’associazione morale, ciò presuppone innanzitutto che nel T’ai Chi siano presenti soltanto due elementi, e poi che questi si diano battaglia. Questo è spesso il modo occidentale di intenderlo, ma non è solo questo che si può trovare nel simbolo. Esso fa emergere un terzo elemento, anche se in un modo particolare che lo rende invisibile alla percezione visiva, che lo nasconde allo sguardo. La consapevolezza di questo «terzo» affiora esclusivamente nel momento in cui yin e yang si pongono in movimento. Si sta parlando di ciò che rende il T’ai Chi propriamente T’ai Chi, ovvero una «trave maestra», di ciò che fa del simbolo ciò che è, ossia della relazione che unisce yin e yang, del confine impercettibile, invisibile, che appartiene ad entrambi, una comune origine, che ad entrambi svela sia la propria identità che il proprio limite, la propria dif-ferenza. È impossibile separare il logos dal mythos, ed entrambi dalla loro relazione costitutiva che ne rileva il senso. Logos e mythos si sfidano continuamente relazionandosi, scoprendo ora l’identità ora la differenza attraverso questa terza dimensione che ne consente in tal modo la realizzazione piena e la vita stessa. Tutto ciò è concretizzato nel simbolo del T’ai Chi, che così, mostrando l’esistenza di questa terza dimensione, riesce a svelare che la Realtà non è solo sostanza: «L’Essere non è primordialmente sostanza: l’Occidente l’ha sentito dire da Eraclito in poi, ma non vi ha creduto […]».5 Raimon Panikkar fa coincidere il problema del pluralismo con il problema dell’incontro con la dif-ferenza, con l’Altro, ed identifica il pluralismo proprio con questo Altro dall’identità. È possibile, in pochi passaggi, riassumere cosa significhi nel pensiero dell’Autore pluralismo:
- Il pluralismo coincide con il reale;
- Il pluralismo = realtà si impone e imponendosi propone una sfida;
- Tale sfida consiste nell’acquistare tolleranza;
- Il problema pluralismo è un problema esistenziale, ed in quanto tale scaturisce dalla prassi;
- In quanto prassi il pluralismo fa vacillare la mente (o il mentale, il razionale);
- Il pluralismo si «avverte», ossia diventa problema, solo quando si sente e si soffre la relazionalità, ovvero il dinamismo attuato dalla prassi che si impone;
- Il problema pluralismo è diventato oggi acuto perché questo dinamismo (che si concretizza nella situazione attuale nella mobilità e nel mescolamento di culture diverse) ci getta gli uni nelle braccia degli altri;
- In quanto problema di relazione, il pluralismo è il problema dell’altro (da sé), e dunque della dif-ferenza;
- Il pluralismo, non essendo riducibile al logos, è dunque mythos.
Per Raimon Panikkar, solo nel momento in cui la Realtà s’impone costringendo all’evidenza di se stessa attraverso una richiesta di tolleranza per la sua molteplicità, per la sua instabilità, cioè soltanto nel momento in cui ha inizio la relazione, il pensiero, la mente, con la sua univocità, con la sua stabilità, vacilla, comincia a diventare consapevole di non essere assoluta e onnipotente: inizia ad uscire «fuori da sé», dal proprio Ego. La richiesta di tolleranza, fatta dalla Realtà attraverso il pluralismo, è una sfida che da una parte mette in crisi la razionalità, ma che dall’altra si rivela la possibilità stessa che la razionalità ha di uscire dal proprio riduzionismo per scoprirsi «non solo» razionalità. Il pluralismo è la possibilità del pensiero logico di «gettare la maschera» e guardarsi sinceramente allo specchio, scoprendosi tanto più se stesso quanto meno assoluto. Il pluralismo è dunque una grande possibilità di liberazione, di realizzazione piena di sé, di Vita. Esso è un mito nel senso più rigoroso del termine, e in quanto mito è destinato a porre in evidenza l’alterità, l’altro da sé, la differenza. Ma soprattutto il pluralismo, in quanto mito, in quanto prassi, costringe al limite il logos, ristabilendo la relazione ontonomica distrutta dall’assolutismo prevaricante della razionalità.
Volendo riassume schematicamente si ha:
Yang | Yin |
---|---|
Luce | Oscurità |
Logos | Mythos |
Concetto | Simbolo |
Univocità | Ambiguità |
Ermeneutica | Fede |
Teoria | Prassi |
Monismo | Pluralismo |
Intolleranza | Tolleranza |
Armamento | Disarmo |
senza dimenticare il movimento dinamico che esiste tra le due parti, quella sfida costituzionale, quell’appartenersi reciproco, quella relazione che fa in modo che, nel momento in cui l’uno si «riempie» troppo, arrivando per così dire «all’orlo» di sé, l’altro lo fa fallire costringendolo al limite, alla vicinanza, per svuotarlo, per «sgonfiarlo». Nella situazione contemporanea, che è frutto di secoli e secoli di «concentramento» della civiltà occidentale sulla zona bianca, yang, del logos, l’»ego» della razionalità è divenuto troppo tronfio, troppo «pieno di sé» e sta per esplodere, per collassare. Tocca allora al pluralismo, suo compagno indissolubile, aiutarlo a «rientrare in se», aiutarlo a ridimensionarsi. Sarà allora il pluralismo, costringendola nel suo abbraccio tollerante, a mostrare alla ragione una nuova via per essere in pienezza, liberamente, senza paura e senza più armi. Questo è possibile solo perché entrambi partecipano della stessa origine invisibile, quella «trave maestra» che li unisce donando a entrambi significato. La Realtà ha risposto alla richiesta d’aiuto implicita nell’arroganza della mente: il pluralismo disarma la ragione armata.
Purtroppo però, come Raimon Panikkar stesso sostiene, il disarmo della Ragione è semplice da esporre, ma difficile da concretizzare. L’attività è differente dalla teoria, implica difficoltà e rischi. Ecco perché la filosofia non può e non deve essere soltanto teoria: non assolverebbe adeguatamente il proprio compito. L’Autore indica in cosa dovrebbe consistere l’attività filosofica: «Infine potrei indicare quello che dovrebbe essere l’attività filosofica — e mi rendo perfettamente conto dell’ambizione e del rischio che quest’affermazione comporta -: si tratterebbe di porre in questione gli ultimi seimila anni di esperienza umana, di domandare criticamente se il progetto che l’homo historicus ha realizzato in questi seimila anni di storia sia l’unico progetto umano possibile e, d’altra parte, di vedere se oggi non bisognerebbe fare qualcosa di diverso. Ho detto disarmare la ragione armata, non armare la prassi. La lotta non è dialettica. Si tratta di una eris dialogale. Riassumendo, l’invariante funzionale di filosofia è l’atto di salvare o liberare l’uomo».6 Questa eris dialogale è appunto il dialogo che si trasforma da dialettico in dialogale. Dal momento che non si accetta più nessun riduzionismo, anche la comunicazione acquista qualità, spessore umano, amplificando i caratteri esclusivamente quantitativi che l’avevano ridotta a misera informazione, e si trasforma in comunione e solidarietà. Così, mentre il dialogo perde le caratteristiche della dialettica, figlia della «resistenza» del pensiero, diventando se stesso nella concretezza del dialogale, l’ermeneutica aggiunge alla dimensione temporale quella spaziale, recuperando «corporalità», e si tramuta in diatopica. Tutto, nella metanoia radicale, si espande, diventa tridimensionale: non è più scontato, non può più essere superficiale. L’esclusiva mentale lentamente viene superata, e la Realtà diventa accessibile poiché anche l’incontro non avviene più tra pensieri astratti, o ideologie, ma tra persone che testimoniano se stesse. Il punto di partenza è divenuto l’esistenziale. La presenza, e insieme la necessità del mythos, è divenuta consapevole. Il proprio mythos, come si è detto, è invisibile, essendo ciò in cui si crede senza sapere che vi si crede: il mythos è vissuto, non pensato o conosciuto. Poiché si è immersi in esso, non lo si può vedere; è l’altro, portatore di «differenza», a scoprire, a rivelare il mythos a se stesso. Ciò significa che ogni uomo è precisamente testimone del proprio mythos, ovvero delle credenze che forgiano il suo kosmos. Ogni uomo è testimone della propria vita. Essere testimone ha un significato particolare. Quando ogni cosa viene identificata attraverso uno stesso e identico codice accettato e condiviso da tutti, la verità è una e avvalorata universalmente: non c’è bisogno di nessuna testimonianza. Ma quando le cose «stanno diversamente» e qualcuno «assiste» a questa diversità, ed anzi la partecipa con tutto il proprio essere, sensoriale ed intellettuale, allora la testimonianza si fa avanti come portatrice di un’altra verità, che fino ad allora era rimasta inaccessibile: «Si testimonia solo ciò che è inaccessibile all’ascoltatore esterno alla testimonianza . […] C’è un elemento che sfugge alla dialettica, un elemento che non appartiene alla categoria del logos, al regno della logica. Non c’è bisogno di testimoniare quando l’altro può sperimentare o confermare la testimonianza da se stesso».7 L’uomo è testimone, dunque, nella misura in cui è portatore di «qualcosa» che rimarrebbe inaccessibile se egli non si facesse «presente», ossia nella misura in cui è portatore del proprio mythos: «Noi vogliamo dimostrare che la natura della testimonianza è quella di rivelare il mito. Il mito si rivela nel dialogo, così come il logos si estrinseca nella dialettica».8 Con ciò è stabilito che l’»espressione» del mythos può avvenire esclusivamente attraverso un dialogo che abbandoni l’esclusività razionale per far «spazio» all’esistenza: « […] La testimonianza assume sempre la forma di un’affermazione (o di una negazione) apodittica: «Questo è quanto è successo», «Questi sono i fatti», «Dichiaro o giuro questo», «Attesto questo», non possumus, ecc. Il testimone pone fine al dialogo dialettico, lo manda in frantumi, collocandosi su quello che ritiene essere un altro livello. La sua testimonianza porta alla luce delle profondità che di fatto la pura dialettica o il semplice dialogo dialettico non raggiungono. A ogni argomento dialettico egli risponde dicendo che le cose stanno in un certo modo perché le ha udite, viste, sperimentate o credute».9 La Realtà, ancora una volta, s’impone. Raimon Panikkar definisce dialogo dialogale la relazione comunicativa che accoglie l’esistenza nella sua concretezza e poliedricità, trovando un punto di contatto nella comunione pratica, nel vivere, nel mythos. Essere accoglienti nei confronti dell’esistenza, significa accettare realmente l’imprevisto e il rischio che essa comporta, e dunque accettare realmente la soggettività come portatrice di questo imprevisto e di questo rischio; significa, cioè, accettare l’altro in quanto altro. Questo è il compito dell’uomo dialogale: «Il dialogo […] non esiste per convertire un altro, per evangelizzare; non è solamente un metodo per conoscere l’altro e il suo punto di vista, e non è neppure un test per misurare meglio la sua abilità dialettica. Il dialogo è fondamentalmente l’apertura di me stesso ad un altro, così che egli possa parlare e rivelare il mio mito che non sono in grado di conoscere da solo perché per me è trasparente, evidente. Il dialogo è un modo di conoscermi e di districare la mia opinione personale dalle opinioni altrui e anche da me stesso, poiché si trova incagliata così profondamente nelle mie radici che mi riesce del tutto impossibile scorgerla. È l’altro che attraverso il nostro incontro, risveglia questa profondità umana latente in me in uno sforzo che oltrepassa entrambi. In un dialogo autentico questo processo è reciproco. Il dialogo vede l’altro non come un aiuto estrinseco e accidentale, ma come l’elemento indispensabile e personale nella nostra comune ricerca della verità, perché io non sono un individuo autonomo e autosufficiente. In questo senso, il dialogo è atto religioso per eccellenza, in quanto riconosce la mia religatio a un altro, la mia povertà individuale, il bisogno di uscire da me stesso, di autotrascendermi per potermi salvare. Il dialogo cerca la verità confidando nell’altro […] ».10 È il dialogo che consente alla coscienza di crescere su se stessa, in un gioco altalenante fra dentro e fuori, fra intra e inter-personale, o intra e inter-religioso, scoprendosi parte indissolubile di un tutto, e scoprendo questo «tutto» fondamentalmente relazione. Per riassumere, il dialogo dialogale supera il riduzionismo razionale del logos e si radica nell’esistenziale diversità: è dunque incontro nel mythos. Ciò significa che esso porta con sé le caratteristiche del mythos, pur non potendo prescindere dal logos che lo veicola e gli impedisce la degenerazione della propria credenza in fanatismo, ovvero in credenza «cieca». A questo punto è possibile proporre un prospetto che sintetizzi i punti salienti del dialogo dialogale:
- Innanzitutto, ogni dialogo dialogale è dialogo religioso, intendendo la parola religione nel senso più ampio del significato (dal latino religare) come ciò che unisce attraverso la fede, la relazione. Il dialogo dialogale ha dunque una caratteristica di trascendenza che occupa due livelli: l’intra-personale, a cui si lega l’intra-culturale, e l’inter-personale, a cui si lega l’inter-culturale. A livello intra-personale, il dialogo dialogale diventa dialogo intra-religioso, mettendo l’uomo in comunicazione con la parte più profonda di sé e con le proprie credenze. A livello inter-personale, il dialogo dialogale diventa dialogo inter-religioso, mettendo in comunione persone e tradizioni diverse, testimoni di differenti credenze, attraverso la condivisione di un universo mitico. È per questa sua dimensione religiosa, che esso viene detto dall’Autore rito o atto liturgico: «Le moderne lingue occidentali desacralizzate non hanno una parola adatta per questo. Se mi esprimessi dicendo che il dialogo dovrebbe essere un rito o rappresentare un atto di culto, mi resterebbe da spiegareche cosa intenda per «rito» o «culto». Preferisco parlare di atto liturgico […]. Liturgia, propriamente compresa, significa opera (ergon) del popolo (laos), dove quest’opera è ispirata dallo Spirito. È una sinergia che riunisce tutti i «tre mondi» — cosmico, umano, divino. […] Il dialogo non è una nuova religione. È liturgia alla quale ogni persona, e direi ogni cosa, è invitata, finalizzata a trasformare tutte le cose mentre mantiene l’identità di tutte le parti e di tutti i partecipanti. Ogni liturgia è un processo di trasformazione, una trasfigurazione. […] Accade qualcosa nel dialogo che non è controllabile da nessuna delle due parti. Il rischio è affrontato perché c’è fiducia. Molte calunnie e sospetti vengonomeno da soli. […] Ogni dialogo è una comunicatio in sacris, una santa comunione, senza la quale non può veramente sussistere alcuna comunità umana».11
- Per questa sua dimensione, mitico-religiosa, il dialogo dialogale va intrapreso con fiducia nell’altro; il che significa credere in ciò che l’altro è e dice. Questo credere è partecipare alla credenza dell’altro senza lasciare (o perdere) la propria, a meno che non si scelga di farlo successivamente.
- Presupponendo il superamento dell’epistemologia del cacciatore, il dialogo dialogale non è rivolto alla caccia d’informazioni, ma il
- suo presupposto è l’aspirazione comune all’armonia o concordia.
- Il dialogo dialogale non è arena logica della lotta fra ideologie, ma agorà spirituale dell’incontro di due persone consapevoli di essere più che res cogitans, più che individui.
- Essendo agorà spirituale, il dialogo dialogale non supporta l’esistenza di una verità oggettiva preventivamente accettata a cui paragonare ogni credenza, poiché sa che la verità intesa oggettivamente è solo un velo dell’Essere, e che la Realtà è relazione.
- Il dialogo dialogale non cerca di con-vincere l’altro, perché lo rispetta in quanto altro: «L’altra «parte» non è né muro né una proiezione di me stesso. È un reale «Io» — cioè un’autonoma sorgente di autoconsapevolezza, che reagisce simultaneamente a me in una mutua relazione Io-Tu e Tu-Io. Ma per riconoscere l’altro come un Tu, ben altro deve passare fra noi».12 Con questo fra, s’intende la relazione, la dimensione della fede, della trascendenza che permette, in quanto spinta verso l’Oltre, l’incontro.
- Il dialogo dialogale, per sua natura, per il fatto di aprirsi all’altro e di rispettarlo, non può prescindere dall’Amore, che, come si è detto, è donazione di sé, di uno «spazio» accogliente per l’alterità.
- Poiché il dialogo avviene sempre tra due persone o fra due culture, ogni dialogo dialogale è in realtà duologo dialogale.
- Avvenendo sempre fra persone reali e non tra individui ideali, il dialogo dialogale non può prescindere dai presupposti soggettivi: «Ogni dialogo è impossibile se ci si aspetta che sia puramente oggettivo e che escluda la soggettività da ogni partecipazione. […] Il dialogo dialogale coinvolge quindi tutto il nostro essere e richiede tanto un cuore puro quanto una mente aperta. Ho già detto che considero la pratica del dialogo dialogale atto religioso per eccellenza».13
- Inoltre, per la stessa motivazione personale, il dialogo dialogale non può avere regole strutturali preconfezionate, ma è aperto al rischio, alla possibilità, alla libertà, e per questo può anche interrompersi o non darsi affatto.
- Essendo aperto alla libertà, il dialogo dialogale non è mai concluso, è un processo continuo: «La vita vuole vivere e non vuole scivolare nella morte. Essere è un verbo. La realtà è polare, dinamica — trinitaria, aggiungerei. L’armonia più forte, come afferma Eraclito, è quella nascosta […] Il dialogo non solo non finisce mai, ma non è neppure mai esaurito».14
In sostanza, il dialogo dialogale sostituisce al circulus vitiosus del pensiero, il circulus vitalis dell’esperienza. A questo punto si avvicina la problematica ermeneutica, ossia il problema dell’interpretazione, o della conoscenza: «Al famoso circolo ermeneutico si sostituisce il circolo vitale, che è il presupposto esistenziale necessario a quella che mi sono permesso di chiamare ermeneutica diatopica — a differenza delle altre ermeneutiche, diacronica e morfologica. Questo circolo vitale non può esserecreato a piacimento, non è un dato previo né una conclusione; è qualcosa che sorge quando sorge, che si dà o non si dà».15 Poiché l’uomo è cosciente, egli sa, conosce, e non può in nessun modo prescindere da questo. Questa conoscenza, si esplica attraverso un’interpretazione che pone in «gioco» i presupposti del conoscente che si confrontano costantemente con ciò che si conosce, e poi tornano su loro stessi modificati oppure riconfermati. Questo «gioco» costituisce il cosiddetto «circolo ermeneutico», che può assumere diverse modalità, fino anche a rinchiudersi essenzialmente nella razionalità e degenerare in circulus vitiosus. Non è il caso questo del dialogo dialogale, che fa uso della modalità conoscitiva esperienziale, ponendosi così dalla parte dell’esistenziale. Ma qui insorge un’ulteriore problematica. Nel momento in cui si voglia veramente accogliere l’altro per se stesso, per ciò che è, come appunto avviene nel dialogo dialogale attraverso l’esperienza che è più un lasciarsi penetrare che un penetrare, si deve compiere una sorta di immedesimazione nell’altro, che poi è la caratteristica propria di ogni esperienza. I propri presupposti non vengono abbandonati, ma, si potrebbe dire, rischiati. Il fatto è che, quando c’è «di mezzo» il mythos, più che di conoscenza si deve parlare di consapevolezza, di partecipazione e di comunione. Raimon Panikkar introduce così una nuova ermeneutica che è rivolta all’esperienza piena della vita, e che perciò deve prendere in considerazione non soltanto il contesto ed il testo, ma anche il pretesto, che non è però l’intenzione del testo, ma il «terreno», l’humus, in sostanza il mythos che fonda il testo ed il contesto; ma, si faccia attenzione, lo fonda «nel presente», poiché la diversità non è soltanto diacronica, ma anche diatopica. L’ermeneutica diatopica, detentrice di questo rendersi conto del mythos come presupposto d’ogni logos, consapevole della diversità reale dell’alterità, consapevole di non poter applicare le proprie categorie nell’interpretazione a meno di non ridurre l’altro al medesimo, si fa forte di questa sua consapevolezza e accetta il gioco rischioso dell’immedesimazione esperenziale, poiché solo in questo modo rispetterà l’incontro interculturale, riuscendo a stabilire il dialogo dialogale. L’ermeneutica diatopica affronta le difficoltà d’interpretazione interculturali, non attraverso la sovrapposizione di un contesto logico universale, non attraverso la paura che nasconde la Realtà e ne getta via le parti che non capisce, non attraverso l’esclusiva del logos, ma attraverso la condivisione di un mythos comune, quello della relatività radicale, che non significa in nessun modo relativismo, ma consapevolezza relazionale. Accetta l’incontro pur sapendo che la validità di questo mythos è provvisoria, ed anzi, considerando questa provvisorietà come la possibilità stessa dell’incontro reale. Così l’uomo dialogale entra nel gioco dell’incontro con la consapevolezza di essere certamente unico, ma esclusivamente all’interno dell’imprescindibile relazione inter-in-dipendente della Realtà nella quale è immerso, e dalla quale non può uscire in quanto essere umano. Egli porta il proprio contributo all’interno di questa relazione ed accetta il contributo dell’altro, pur sapendo che questo potrebbe comportare una revisione di se stesso, ed affronta questa possibilità non con timore, ma con gioia, poiché è consapevole che il rinnovamento, la rigenerazione è «naturale», fa parte della vita: è lo stesso Essere. Accettare l’Essere, accoglierlo, significa essere pienamente, in libertà, aderendo a se stessi. L’uomo, dunque, accettando il dialogo dialogale, accetta di essere se stesso, accetta la sua libertà: dice «si» alla Vita. Ed è questo il mythos da condividere: «Parliamo fra noi con sincerità e amicizia e spesso riusciamo a trovare un mythos comune che permette di trovare un punto di partenza. […] Non avrei difficoltà (poiché ci credo) ad ammettere che quello che io chiamo il Mistero possa mainifestarsi anche al mio amico benché in forma diversa. Non diciamo la stessa «cosa», non utilizziamo lo stesso linguaggio, ma partecipiamo nel mythos della nostra autoinsufficienza e contingenza della necessità di un’apertura all’Assoluto […] Questo non risolve tutte le divergenze, ma permette di identificare un punto comune da cui hanno origine le divergenze. […] In altre parole, la comunione nel mythos è comunione nella nostra umanità, al di là di quali possano essere i limiti dell’humanum ».16 La proposta di Raimon Panikkar è di incontrarsi nella Vita.
4. Incontrarsi nella vita: lo spazio mistico
Raimon Panikkar propone l’incontro dialogante nel mythos, nello spazio mistico del taciuto, del non-detto ma dell’ascoltato, del Silenzio originario ed originante, poiché il detto, il dire del linguaggio logico, ha mostrato la propria insufficienza nell’inter, nell’oltrepassante: ha mostrato la propria incompetenza relazionale. La presenza è altro e più della rappresentazione. Il dialogo dialogale non-dicendo ritorna al partecipato, al condiviso. Lo spazio della mistica, che significa per Raimon Panikkar tutt’altro che ritirata ascetica, è lo spazio aperto del simbolo, dove il «nuovo» è sempre emergente e la Vita scorre in libertà. Non si tratta più di interpretazione imbrigliante, ma di condivisione; non si tratta più di violentare e ridurre le cose, ma di incontrarle, ascoltarle e parteciparle scoprendole, allo stesso tempo, identiche e differenti. Identiche, in quanto partecipabili poiché prodotte dalla stessa origine; e differenti, poiché uniche all’interno della medesima relazione vitale. «Vi è una dimensione di libertà e di infinità che permea tanto la materia che lo spirito, tanto i sensi che l’intelletto, la aisthesis e la noêsis. La tradizione greca la chiamò mystika, lo «spazio» in cui noi ci muoviamo, percepiamo e pensiamo, nel quale viviamo e siamo».17 La mistica, per Raimon Panikkar, è lo spazio «vuoto» della Possibilità, e dunque è possibilità vitale: è «aria pura» o «pura aria». Essendo possibilità di vita, la mistica non è spazio privato, riservato, ma appartiene all’uomo in quanto uomo: « […] La mistica non è un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. L’uomo è essenzialmente un mistico […] ».18 In quanto spazio vuoto, ed in quanto appartenente a tutti gli uomini, la mistica è il luogo che permette il dialogo dialogale e l’incontro interculturale. Incontrarsi significa coinvolgere la propria presenza in una partecipazione, che in questo caso è la partecipazione alla Vita. La mistica, dunque, è definibile più semplicemente come esperienza della vita. Fare esperienza significa partecipare con tutto il proprio essere, significa condividere. Il linguaggio della condivisione non può chiudersi nel concetto: proprio perché deve con-dividere, ha necessità di rimanere aperto. Il linguaggio della mistica è il linguaggio dell’Essere, che è allo stesso tempo la «possibilità del linguaggio» e il «linguaggio della possibilità»: è l’Essere stesso che parla, è la Vita che si esprime. In quanto parola dell’Essere, il linguaggio mistico non può né essere compreso totalmente, né venire modificato o manipolato.
Raimon Panikkar distingue tre tipi di linguaggi possibili: il linguaggio scientifico, il linguaggio filosofico e il linguaggio mistico.
Il linguaggio scientifico si autogiustifica. Aspira all’univocità di concetti falsificabili e quantificabili, non usa parole, ma soltanto segni, e non vuole essere salvifico: «Il linguaggio scientifico osserva la realtà attraverso il prisma della luce scientifica — che si pretende essere bianca (avendo così eliminato altre lunghezze d’onda). La sua categoria è l’esattezza, il suo metodo il rigore, il suo criterio la dimostrazione e il suo strumento il concetto. Tutti mezzi di non poco valore- ma, alla fine, intermediari».19
Il linguaggio filosofico fa un uso improprio dei postulati scientifici che, se pur validi nel loro contesto, risultano insufficienti e riduzionisti nel venire applicati alla complessità del Reale che pretendono di cogliere universalmente. Allora si ha una situazione falsificante, che stabilisce chiaramente la convinzione di Raimon Panikkar che la filosofia non può essere considerata conoscenza scientifica: «La realtà vista con le lenti della scienza soffre già una deformazione della quale lo scienziato autentico è, in genere, cosciente […] Può darsi però, che anche le lenti della Filosofia deformino la realtà. Il caso è più grave perché, mentre le lenti scientifiche non pretendono di abbracciare tutta la realtà, la Filosofia aspira alla conoscenza del tutto. […] La Filosofia ha preteso inizialmente di essere un linguaggio salvifico, ma a causa degli avatara della storia soccombette alla tentazione di essere un sapere specialistico e restrinse il suo linguaggio lasciando un vuoto».20
Il linguaggio mistico è ciò che colma il vuoto salvifico, o esistenziale, lasciato dalla filosofia. La mistica è consapevole del fatto che l’Essere trascende il pensiero razionale, e che dunque il linguaggio logico appare inadeguato alla sua espressione. Il linguaggio proprio dell’Essere, si è detto, è quello simbolico. Poiché il simbolo è relazione, riesce a mantenere nell’unità integrale i due aspetti antinomici dell’Essere. Così, permettendo la contemporaneità logos/mythos, che è realtà costitutiva dell’Essere, diventa il veicolo appropriato per la sua piena libertà espressiva: « […] Il potere simbolizzante del simbolo consiste nel catapultarci (sõìâáëëåéí, symballein) dalla conoscenza oggettiva, concettuale, alla conoscenza partecipativa: il salto dall’oggetto (il simbolo9 al soggetto (per cui il simbolo è tale). Una volta però arrivati al soggetto, come possiamo tornare a trascenderlo affinché la nostra intuizione abbia anche un valore oggettivo? È questo il ruolo fondamentale del simbolo: farci giungere alla «intuizione immediata» che unisce a-dualisticamente il soggetto all’oggetto. Dire che l’uomo è un essere simbolico equivale ad affermare che l’uomo è aperto al mistero che lo trascende e lo avvolge».21
Mentre nel nominalismo il soggetto del linguaggio è l’individuo, che diventa l’arbitro ultimo del significato dei termini, nel linguaggio mistico le parole e le cose, seppur nella differenza, sono unite, non presentano separazione. Per questo: «Il linguaggio mistico è ontologico e non solo epistemologico».22 Parola e cosa s’incontrano abbracciandosi nel paradosso, il quale pone due diverse istante l’una di fronte all’altra; ma ancor di più nell’ossimoro, nel quale, non soltanto due dimensioni diverse ed opposte s’incontrano restando sul confine, ma si compenetrano influenzandosi. Il linguaggio mistico è dunque un linguaggio liberatorio, salvifico, poiché pone la realtà integrale davanti agli occhi, evidente, spronando l’uomo all’accettazione di quest’evidenza.
5. Epilogo
La questione di Raimon Panikkar è la questione esistenziale della tensione tra finito ed infinito, rivisitata alla luce dei termini logos/mythos, a cui l’essere umano ha risposta in differenti maniere. La cultura occidentale secolare essendosi incagliata nel razionalismo, di fronte all’incommensurabilità dell’infinito ha tentato con tutte le proprie forze di rimuoverlo. Di contro, molte religioni, soprattutto quelle monoteistiche, facendosi forti dello stesso principio intelligibile, hanno attuato un’ontologgizzazione di Dio, Essere, Assoluto facendolo coincidere con lo stesso principio d’intelligibilità, di cui l’uomo è l’immagine imperfetta. Il rapporto con la trascendenza è rimasto comunque inattuabile, e la questione archiviata addirittura come non competente al presente. L’escatologia, attraverso l’illusione di un premio futuro, ha alimentato una falsa speranza per alleviare l’angoscia che scaturisce necessariamente dalla tensione fra i due termini. Inoltre, in questo gioco del tutto mentale del «ciò che conta è la mente», se lo Spirito (e la spiritualità) è stato del tutto assorbito in essa, il Mondo (materialità-corporalità) è stato invece assoggettato, manipolato, torturato, degradato.
Raimon Panikkar sconvolge la mente razionalistica attraverso la metanoia mitica che ritorna sull’esistenziale, sull’unicità del particolare, sull’impossibilità della riduzione vitale, sulla qualità, e che, riavvicinandosi al logos attraverso il proprio linguaggio simbolico, gli manifesta per dif-ferenza, per dislivello rilevante, l’impossibilità della loro separazione e l’esistenza di un terzo elemento mediatore: quello della relazione. A questo punto, nel movimento dialogante mythos/logos che avviene nel presente, ovvero nella situazione di relazione, è colto il carattere trascendente, o auto-trascendente, che spinge l’uno verso l’altro, e dunque oltre se stesso: l’infinito entra nel finito, l’eternità nel tempo, e la relazione diviene dimensione costitutiva del Reale. La tempiternità, perichoresis, compenetrazione simultanea di tre elementi qualitativamente differenti ma condividenti una stessa origine, è la risposta dell’Autore alla questione esistenziale.
Il «sistema» di Raimon Panikkar dunque, il «sistema» di un autore a-sistematico che ha bisogno di opporsi al «sistema» per la propria a-sistematicità, consiste in questa stessa opposizione, ovvero nella relazione vitale, nella stessa legge dell’Essere: il «sistema» panikkariano è l’incontro reale nella Vita; e la Vita è presente e fluisce, ma è anche eterna, e porta quest’eternità, attraverso il suo movimento trascendente, nel qui e nell’ora. La Vita è allora eterna possibilità, ri-generazione continua.
Raimon Panikkar lancia la sfida del quesito esistenziale ma ad esso aggiunge una risposta: la Vita è continuo fluire, trasformazione continua, ri-generazione interminabile. Allora, lo stesso quesito sul senso dell’Essere fa in modo che l’Essere perda di senso, poiché pretende di bloccarne lo scorrere. Qual è il senso dell’Essere? Semplicemente, spontaneamente essere.
A un certo punto il monaco legge l’imbarazzo negli occhi del suo interlocutore e chiede: «Mi capisce?». «Si, ti capisco, ma mostrami la tua resurrezione, allora capirò meglio!». Se mi fossi trovato là, avrei detto: «Te la mostrerò. Eccomi qua, io sono risorto, anche se non sono imperfetto». Pensare che la resurrezione verrà alla fine, tra milioni di anni, quando gli angeli suoneranno le trombe, significa travisare un simbolo e intenderlo soltanto come un concetto. D’altra parte capisco anche l’angoscia, il dubbio di tante persone […]: «Che ne sarà di me?» […] «Che accade all’uomo quando muore?» […] Utilizzo la metafora della goccia. Noi siamo gocce che quando muoiono cadono nell’universo immenso del mare. Che cosa sono io? La goccia , d’acqua, cioè la mia individualità che mi differenzia da tutte le altre gocce, o l’acqua della goccia? Se durante il mio pellegrinaggio terreno mi scopro come acqua, allora all’acqua che sono io, all’acqua della goccia non succede niente quando cade nel mare. Anzi, tutta quella tensione superficiale che mi rendeva difficile comunicare sparisce. […] La resurrezione è scoprirsi acqua […].23
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Raimon Panikkar,La Torre di Babele.Pace e pluralismo, Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (FI), 1990, p. 59. ↩︎
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Ibidem, p. 46. ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Raimon Panikkar, La Torre di Babele.Pace e pluralismo, Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (FI), 1990, p. 60. ↩︎
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Raimon Panikkar, La porta stretta della conoscenza. Sensi,Ragione e Fede, Rizzoli, Milano, 2005, p. 164. ↩︎
-
Raimon Panikkar, La Torre di Babele. Pace e pluralismo, Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (FI), 1990, pp. 49-50. ↩︎
-
Raimon Panikkar, Mito, Fede ed Ermeneutica. Il triplice velo della Realtà, Jaca Book, Milano, 2000, pp. 240-241. ↩︎
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Ibidem, p. 239. ↩︎
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Ibidem, p. 242. ↩︎
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Ibidem, p. 243. ↩︎
-
Raimon Panikkar, L’Incontro indispensabile:dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano, 2001, pp. 66-67. ↩︎
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Ibidem, p. 41. ↩︎
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Raimon Panikkar, Pace e Interculturalità. Una riflessione filosofica, Jaca Book, Milanao, 2002, p. 48. ↩︎
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Raimon Panikkar, L’Incontro indispensabile:dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano, 2001, pp. 71-72. ↩︎
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Raimon Panikkar, La Torre di Babele. Pace e pluralismo, Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (FI), 1990, p. 56. ↩︎
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Raimon Panikkar, Pace e Interculturalità. Una riflessione filosofica, Jaca Book, Milanao, 2002, pp. 68-69. ↩︎
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Raimon Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra, Cittadella, Assisi, 1993, pp. 154-155. ↩︎
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Raimon Panikkar, L’Esperienza della Vita. La Mistica, Jaca Book, Milano, 2005, p. 15. ↩︎
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Ibidem, p. 40. ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Ibidem, p. 42. ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Raimon Panikkar, Emanciparsi dalla scienza. In: Pensare la scienza, AA.VV, L’altrapagina, Città di Castello (PG), 2004, pp. 44-45. ↩︎