1. Premessa
Se qualcuno avesse avuto questa sera il gusto di uscire per le strade della sua città vestito con elmo, lancia ed armatura, quasi certamente avrebbe dormito in un manicomio o al Commissariato di Polizia. Perché? Perché non si usa, non va. Se invece fa la stessa cosa in un giorno di Carnevale, è possibile che gli diano il primo premio in palio per le maschere. Perché? Perché si usa, perché è abitudine mascherarsi in queste feste. Ne discende che un’azione così umana, come è quella di vestirsi, non la compiamo per nostra propria ispirazione, ma ci vestiamo in una maniera o in un’altra semplicemente perché si usa. Quindi, ciò che è usuale, ciò che è abitudine, lo facciamo perché si fa. Ma chi fa quel che si fa? Ah! Ebbene, la gente. Già, ma chi è la gente? Ah! Tutti, nessuno in particolare.1
Il passo soprariportato proviene da un corso accademico molto significativo del filosofo madrileno José Ortega y Gasset (1883-1955) il quale, nel 1939, presso l’Università di Buenos Aires, tiene un ciclo di lezioni su L’uomo e la gente. Lo studio di Ortega fornisce non solo un’occasione rilevante di analisi riguardo all’argomentazione più rappresentativa del pensiero orteghiano, ovverosia, l’interdipendenza fra l’io e la propria circostanza, ma anche un ritratto ermeneutico che delucida che cosa sia il fenomeno dell’intersoggettività nei suoi caratteri più tipici e salienti. Poiché la circostanza è compresenza di uomo e mondo, un mondo interindividuale, essa è espressione dello spazio umano intersoggettivo. In linea con una tesi di matrice fenomenologico-husserliana, in base alla quale la spazialità vivente e comune è fondata sulla spazialità che dapprima è soggettiva, Ortega sostiene che la nostra vita, la vita di ogni singolo soggetto vivente, sia la realtà fondamentale entro la quale la vita di grado successivo, e vale a dire, la vita socievole o sociale, viene a manifestarsi.
Quella che Ortega svolge ne L’uomo e la gente è una fenomenologia dei fatti sociali, e pertanto, una descrizione degli strumenti comportamentali e comunicativi che il soggetto adotta per poter consentire il proprio adattamento circostanziale ma senza un’autonoma possibilità di scelta dato che, provenendo dalla gente, quelle forme impiegate sono essenzialmente impersonali. Nei termini che seguiranno, per poter cogliere in maniera cristallina un contenuto complesso e articolato della circostanza qual è il mondo umano interpersonale, l’intenzione del filosofo madrileno punta a: chiarificare il significato della convivenza sociale; precisare i caratteri del fenomeno Stato; rilevare il problema dell’anonimia della gente, nonché puntualizzare le questioni del collettivismo e dell’individualismo.
2. Lo Stato, la gente e la massa: il problema dell’impersonale
Anzitutto, la posizione orteghiana individua che la dimensione della società non debba venire confusa con l’associazione contrattuale perché ogni concordato presuppone che un insieme di persone preesista collettivamente. Dunque, l’accordo definirà con precisione la forma di quella che è già una convivenza sociale di uomini sottoposti all’influenza di un sistema generale di usi pubblici e culturali. Uno dei problemi maggiori inerenti alla convivenza collettiva consiste nel regolare i rapporti con coloro che sono gli «sconosciuti», e quindi, con i soggetti a noi estranei: per farlo, parallelamente allo scorrere del tempo storico e, con esso, all’evoluzione sociale, «è stato necessario introdurre nella società un uso più perentorio, energico e preciso: molto semplicemente, l’uso della polizia, degli agenti di sicurezza, dei gendarmi. Di tale uso non possiamo tuttavia parlare, se prima non ne esaminiamo un altro ancora più ampio, che sta alla sua base: il potere pubblico o Stato».2
Lo Stato è quella dimensione che difende l’integrità degli individui nel momento in cui essi, fra loro ignoti, si incontrano: il suo potere garantisce il mantenimento dei rapporti pacifici e rispettosi fra i soggetti. Fondando la propria autorità sia sull’«opinione pubblica» sia sui «costumi» di un popolo, lo Stato costituisce un complesso di regole indispensabili ai fini del governo della vita umana collettiva. Le tecniche «personali» di avvicinamento quali il «saluto» e la «parola» sono del tutto inefficaci affinché l’alter, lo sconosciuto, non si dimostri pericoloso e non minacci la stessa esistenza dell’ego: per soddisfare quest’esigenza sono indispensabili lo Stato e i suoi apparati istituzionali. Tuttavia, oggi, come evidenzia il pensatore, lo Stato risulta manchevole nel disciplinare i rapporti sociali e nell’assicurare la mediazione inderogabile degli interessi dei componenti della società civile. Quella attraversata dallo Stato è una crisi d’autorità perché il suo comando tende a non venire più riconosciuto universalmente. Già nella Ribellione delle masse (1930) il pensatore ha decretato quanto fondamentale sia stabilire chi deve comandare e chi deve obbedire: se le funzioni di comando non ricevono il consenso da coloro che devono rispettarle la crisi di uno Stato, di una civiltà, è inevitabile. Ecco perché Ortega, nella Meditazione sull’Europa (1950), riconosce l’importanza e la responsabilità del livello sovranazionale: affinché i compiti di unitarietà e di conciliazione vengano preservati e riaffermati non è più sufficiente, e men che meno idonea, la base territoriale, nazionale. Poiché lo Stato è come la «pelle», osserva Ortega, la quale difende il corpo, esso deve tutelare le esigenze degli individui che formano la società sulla quale lo Stato esercita il proprio potere pubblico.
Ortega si discosta dalla visione del giurista e filosofo austriaco Hans Kelsen (1881-1973). Il positivismo giuridico di Kelsen riduce il diritto, una tecnica sociale volta a ottenere dai consociati un determinato comportamento attraverso la minaccia di una sanzione, alla legge, e non ammette ordinamenti giuridici al di fuori di quest’ultima. Quello di Kelsen è un formalismo giuridico che non garantisce l’accordo fra l’individuo e la società politica: la dimensione del giuridico-politico è del tutto esterna alla coscienza individuale.3 Punto, questo, che il pensatore madrileno commenta nei termini che seguono:
Il diritto non si fonda ultimamente su qualcosa di giuridico, come pretendeva la stravaganza di Kelsen […] pretendere di definire la legittimità grazie a formule giuridiche vuol dire non voler capire la sua realtà. Né questa, né il diritto tutto, di per sé, sono più che astrazioni e, quindi, non sono veramente né realmente legittimità né diritto effettivo. Il diritto è funzione della vita intera di un popolo e va capito da questo punto di vista, tanto nel suo insieme, quanto in ciascuna delle sue istituzioni.4
Come Ortega mette in luce ancora nella Ribellione, il sentiero da percorrere è quello di un equilibrio fra il liberalismo, che riconosce la centralità del singolo, e l’influenza moderata da parte dello Stato che, in base a un processo di adattamento storico e sociale, funge da principio circa l’ordinamento delle volontà degli individui. Certo, «l’uomo non è libero di eludere quella coazione permanente della collettività sulla sua persona che designiamo con l’inespressivo nome di “Stato”, ma certi popoli, in certe epoche, hanno dato liberamente a una tale coazione la figura istituzionale che preferivano: hanno adattato lo Stato alle loro preferenze vitali […]5», per esempio la plebe di Roma, la quale è stata in grado di far adattare lo Stato ai propri movimenti e quindi alle rispettive esigenze contribuendo così alla stessa crescita dell’Urbe: «questo e non altro è la “vita come libertà”6» o, detto altrimenti, più «plasticamente», lo «Stato come pelle». Ancora nella sua lezione Sull’impero romano, Ortega definisce in modo molto preciso che cosa sia lo Stato: «l’attività sociale di ciò che è necessario, di ciò che è imprescindibile».7 Ma questo “Stato”, questa «cosa sociale», dove sarebbe collocato?
Guardo intorno, ma in nessun luogo scopro lo Stato. Intorno a me vedo soltanto uomini che si consegnano l’uno all’altro: il gendarme al commissario di polizia, questi al ministro degli interni, questi al Capo dello Stato e questi – infine ed ormai senza rimedio – un’altra volta allo Stato. […] Che ce lo mostrino! Che ce lo facciano vedere! Vana pretesa la nostra: lo Stato non ci appare così, in fretta e furia! Sta sempre nascosto, non si sa come né dove. Quando ci sembra che stiamo per afferrarlo, ciò che la nostra mano palpa o contro cui urta è uno o diversi o molti uomini, i quali governano in nome di questa latente entità.8
Non è possibile osservare lo Stato, ma esso è presente in ogni attimo della nostra vita. Quello dello Stato è un potere invisibile di cui il Panopticon ideato dal filosofo e giurista Jeremy Bentham (1748-1832) può divenire la metafora. Lo Stato è un’entità condizionante le nostre scelte e ci induce a compiere delle azioni che, allora, nonostante siano effettuate concretamente da noi, non sono mai davvero nostre, e vale a dire, liberamente nostre. La libertà è successiva a delle costrizioni, irrinunciabili affinché il quadro sociale non imploda, che derivano dallo Stato: la libertà dell’individuo permane nel silenzio della legge ma appena questa parla la prima viene limitata. Dunque, lo Stato assume dei tratti analoghi a quelli della gente: impercettibile, imperativa, celata dietro agli uomini, attori temporanei della vita storica, «al pari dello Stato, la gente ci costringe ad azioni umane che provengono da essa e non da noi»9 riconosce Ortega. Che ne siamo consapevoli o meno, una parte immensa della nostra vita è composta da azioni che eseguiamo «non per il gusto di farle», «né per ispirazione», «né per nostro conto» ma perché a porle in essere è proprio la gente. Pertanto, circa la maggior parte delle azioni, delle opinioni e delle idee «non abbiamo avuto piena e responsabile percezione della loro verità»: quelle azioni sono state compiute e quelle idee e opinioni sono state formulate perché si compiono e si formulano. Il si è una «strana entità impersonale» che fa parte di noi: indice di conformismo, anonimia, livellamento, il si coincide con l’inautenticità.
In Essere e tempo (1927), Heidegger affronta la questione dell’impersonale: «Il si, che non è un Esserci determinato ma tutti (non però come somma), decreta il modo d’essere della quotidianità».10 Il si partecipa della nostra esistenza ordinaria e ci consente di sopravvivere all’interno dello spazio umano. Il si è un «esistenziale» che appartiene, essendo «fenomeno originario», alla «costituzione positiva» del Dasein. Ma il si-stesso inautentico viene a contrapporsi all’essere-se-stesso autentico. Il pericolo sopraggiunge quando questo «modo d’essere» prende il sopravvento divenendo una vera e propria forma di condotta diffusa. Il si esautora il soggetto dalla ricerca della verità, quella di sé e della sua circostanza, che deve venire condotta attraverso delle interrogazioni incessanti. L’uomo, quello autentico, è un progetto esistenziale o un programma vitale che, nonostante la drammaticità a lui essenzialmente propria, cerca di far coincidere ciò che egli è con ciò che egli vuole essere. All’interno di un conflitto inarrestabile di vita fra finitezza costitutiva e apertura trascendente, l’uomo tenta di realizzarsi. Ma se a dominare sarà il si, assieme alle tre distorsioni gravissime dell’autenticità quali la «chiacchiera», la «curiosità» e «l’equivoco», affermandosi alla stregua di un modus vivendi, a venire eclissata sarà quell’unica possibilità, perché contenuta solo nell’uomo, di interpretare proficuamente la circostanza e il suo orizzonte. Il si elimina la componente soggettiva da ogni decisione dell’esistente e lo deresponsabilizza. Il si anticipa ogni scelta ma non la accompagna. Continua Heidegger: «il Si sgrava quindi ogni singolo Esserci nella sua quotidianità. Non solo. In questo sgravamento di essere, il Si si rende accetto all’Esserci perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili».11 «Il carattere esistenziale del Si», e vale a dire, la medietà, di cui l’uomo-massa, un «modo d’essere che si ritrova oggi in tutte le classi»,12 è la rappresentazione più incisiva, riguarda un soggetto che ha perduto, o che non ha ancora trovato, la coincidenza con la sua inclinazione primigenia.
Per poter comprendere meglio il problema dell’impersonale, effettuiamo una digressione che delucidi il senso filosofico del concetto ʿuomo-massaʾ così come il pensatore viene a esporlo nella Ribellione. Dato che l’apparsa del fenomeno dell’omologazione coincide con la formazione della rivoluzione industriale e delle condizioni di industrializzazione, è possibile ravvisare una genesi mobile della massificazione nel XIX secolo. Ortega, sin dal primo capoverso dell’opera, mostra una realtà di crisi profonda perché le masse sono ascese a un livello tale da permettere loro di avere potere. La ribellione delle masse è un atto di acquisizione effettuato dalla coscienza collettiva uniformata e che si verifica a causa dell’insipienza governativa dell’élite, la minoranza, la sola parte che può, perché sa, dirigere.
«La moltitudine, improvvisamente, s’è fatta visibile, si è installata nei luoghi minori della società. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale»,13 annuncia il pensatore spagnolo. L’omologazione di massa annienta la caratteristica della qualità, che consiste nell’ossatura fondamentale dell’essenza umana, trasformando l’uomo, e le sue stesse operazioni, in un contesto meramente quantitativo, e allora, dequalificato. Appiattimento, uniformazione del giudizio e chiusura a ogni istanza esterna si pongono in parallelo allo smarrimento della memoria storica impedendo la continuità fra le epoche e le generazioni. L’uomo-massa ha una visione distorta del suo rapporto con la storia: accompagnato da un senso di ingratitudine, «quel bambino viziato», ritenendo che le condizioni offerte dallo sviluppo del tempo storico siano bastevoli a se stesse, manca di rispetto nei confronti dell’autorità delle generazioni, dell’autorevolezza della tradizione e di quel prestigio fattuale che ha prodotto l’ambiente circostante in cui «il signorino soddisfatto» vive.
L’infrangimento della prosecuzione storica, una china insidiosa di cui può essere indizio l’affacciarsi del totalitarismo che emerge corrispondentemente alla non coscienza della massa, viene determinato dalla divulgazione di una volgarità intellettuale che si tramuta ben presto in volgarità di spirito. Una società livellata, qual è quella moderna, che ha abdicato la spinta all’obiettivo superiore, proposito non solo trascendente ma anche selettivo, è uno spazio sociale che rischia di implodere perchè uccide proprio ciò che lo orienta. Ecco il motivo per cui è necessario trovare un fondamento di positività grazie a cui sia possibile sovvertire quella, altrimenti inesorabile, tendenza alla involuzione. Siccome nella massa la dimensione attivo-individuale, l’impulso vitale autenticamente umano, non è scomparsa del tutto ma è uniformata, si può riporre in essa una certa fiducia di cambiamento in quanto unico motore propulsivo ancora acceso che nemmeno la più esosa e ferrea massificazione può annichilire; secondariamente, è necessario riequilibrare e risanare il rapporto fra la massa e l’élite. Se le masse non portano più rispetto alla minoranza intellettuale, la quale è espressione di pensiero critico e di individualità conservata, significa che lo schema di orientamento storico, politico, culturale e sociale si è corroso. E tale corrosione danneggia entrambe le parti, massa e minoranza: quest’ultima viene snaturata della funzione che le è propria, quella arcontica, sottratta e acquisita illegittimamente dalla prima che non può assolutamente, perché non sa, guidare la realtà collettiva. E poiché la relazione fra massa ed élite è trasversale, la restaurazione della classe dirigente deve avvenire trasversalmente. Allora, essendoci della trasversalità, c’è anche della transitorietà. In forza della persistenza di quell’attivo conatus vitalistico, casi individuali possono attraversare il fenomeno dell’agglomeramento ma, da questo, anche uscirne: secondo la posizione orteghiana, è esattamente su queste eccezioni che bisogna concentrarsi per la ricostruzione corretta dell’élite dirigente.
Tuttavia, anche se lo schema sociale di trasversalità-transitorietà è concettualmente accettabile, esso è incerto nel suo epilogo concreto. Casi individuali, come indicato pocanzi, grazie a quella preservata spinta teleologica connaturata nell’umano, possono assumere certamente un atteggiamento critico, e dunque consapevole, nei confronti della loro penosa condizione esistenziale e circostanziale; però, così facendo, essi verranno esiliati automaticamente dallo spazio comune di cui fanno parte e inficiati nella loro azione produttiva proprio perché, riportando le parole dell’autore, «la massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia come «tutto il mondo», chi non pensi come «tutto il mondo», corre il rischio di essere eliminato. Ed è chiaro che questo «tutto il mondo» non è «tutto il mondo». «Tutto il mondo» era normalmente l’unità complessa di massa e minoranze discrepanti, speciali. Adesso «tutto il mondo» è soltanto la massa».14
Pertanto, e concordemente a quanto riporta Heidegger, il concetto di ʿimpersonaleʾ rimanda al fatto che «ognuno è gli altri nessuno è se stesso».15 Il livellamento medio delle possibilità di vita occulta ciascuna individualità. Così, a ergersi nel mondo sociale non è alcun protagonista ma solo un coro. Ora, nello spazio sociale esiste un «mondo-ambiente pubblico»: «questo essere-assieme dissolve completamente il singolo Esserci nel modo di essere “degli altri”, sicché gli altri dileguano ancora di più nella loro particolarità e determinatezza. In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si esercita la sua tipica dittatura».16 Il si, il «neutro», considera Heidegger, «non è questo o quello, non è se stesso, non è qualcuno».17 Il si è tutti: ma «tutti», come spiega Ortega, significa «l’umano disumanizzato», e dunque l’umano senza spirito, senz’anima. «Chi dice quel che si dice? Senza dubbio, ciascuno di noi, ma diciamo “quel che diciamo” come il vigile che ci impedisce di passare. Lo diciamo non per conto nostro, bensì per conto di quel soggetto impossibile da catturare, indeterminato ed irresponsabile che è la gente, la società, la collettività»,18 scrive il filosofo spagnolo.
Nonostante la collettività sia «qualcosa di umano», quando l’uomo si conforma al si che deriva dalla gente tradisce la propria singolarità personale: «nella misura in cui io penso e parlo, non per mia propria ed individuale evidenza, ma ripetendo quel che si dice e si discute, la mia vita cessa di essere mia, cesso di essere il personaggio individualissimo che sono, agisco per conto della società: sono un automa sociale».19 Se le nostre impressioni, i nostri pensieri, le nostre operazioni vengono privati del carattere originariamente umano che consiste nell’impronta vitalistica individuale, la quale è evidente, unica e irripetibile, essi smarriscono il loro senso autentico al punto da tramutarsi in forme del tutto irrazionali: «Mi muovo come il grammofono cui è imposto un disco che esso non comprende, come l’astro che compie cieco la sua orbita, come l’atomo che vibra, la pianta che germina, l’uccello che nidifica. Ecco un fare umano irrazionale e privo di anima. Strana realtà quella che appare ora davanti a noi! Sembra qualcosa di umano, ma disumanizzato, meccanizzato, materializzato».20 Ciò che è abituale, ciò che è corrente, «lo facciamo perché si fa». La situazione è paradossale: gli «usi sociali», definiti da Ortega in qualità di «norme di comportamento» di carattere intellettuale, sentimentale o fisico, vengono da noi praticati senza che noi ne siamo gli autori effettivi. A deciderli, a risolverli e a compierli propriamente «sono tutti» e, al contempo, «nessun individuo determinato»: un esistente impersonale, inumano quindi. Questo è il si: un simulacro di individualità ormai dispersa.
Nonostante sia distante dalla dimensione dell’autenticità, il si intrattiene un rapporto celato con la possibilità veridica di essere se stessi presente in ognuno di noi, e dunque, in ciascun progetto esistenziale. Attraversando il si verrà invertita la tendenza alla dispersione che è tipica della medietà e ci si potrà avvicinare all’unità fondamentale dell’esistere. Heidegger è molto chiaro: «Il se stesso autentico non consiste in uno stato eccezionale del soggetto separato dal Si, ma è una modificazione esistentiva del Si in quanto esistenziale essenziale».21 Quindi, un ritorno alla genuinità è possibile. Fino ad allora però, il pericolo del fallimento è costante. Manipolato dalle inclinazioni e dagli appetiti della gente, quando l’uomo autentico tenta di realizzare la sua progettualità non può non fare i conti con il fenomeno della medietà quotidiana. Il si può svilire l’uomo nell’investigazione del suo più intimo io sono, il dàimon, la virtù che lo connota. All’interno di uno scenario socialmente omologato sembra essere piuttosto difficile far fiorire quella che deve essere una ricercata coscienza di sé. Ma per poter raggiungere una condizione di felicità, l’eudaimonia, è necessario provarci: incuriosendosi di se stessi giorno dopo giorno, scrutando la propria interiorità e immedesimandosi in quest’ultima. Seppur sia un vero e proprio lato problematico offerto dalla stessa società umana, il si viene a delinearsi simultaneamente come uno dei caratteri propri dello spazio di vita interindividuale, e vale a dire, della circostanza intersoggettiva, che inerisce all’esistenza dell’individuo operante in esso. Allora, la società, la convivenza umana, non è altro che un giano bifronte: essa risulta coincidere con la compresenza di due termini, ovvero, il collettivismo da una parte e l’individualismo dall’altra. Ortega, criticando la teorizzazione sociologica di Émile Durkheim (1858-1917) che enuncia un’ipersocializzazione del soggetto integrato ferreamente nella sua società e cultura, e quella di Max Weber (1864-1920) secondo cui nello scenario socievole i soggetti si influenzano a vicenda solo attraverso dei significati individualmente interpretati che essi conferiscono alle proprie azioni, evidenzia che fra la gente e l’uomo viga una dialettica articolata, dagli esiti anche nefasti, che li porta a presupporsi mutuamente. Solo la dimensione individuale può millantarsi di una creatività effettiva: quella sociale, invece, è una realtà intrisa di spersonalizzazione, di senso comune e di stereotipia ma allo stesso tempo è una realtà necessaria affinché l’individuo possa far proseguire la sua vita nella storia. Senza gli usi, le idee, le tecniche, sociali e istituzionalizzate, e pertanto, senza gli apporti collettivi del passato, l’uomo non potrebbe diventare uomo, e dunque, affrontare la circostanza nelle sue problematiche, inclusa quella della convivenza controversa con l’estraneo, nonché consapevolizzarsi del fenomeno di automatizzazione di gran parte degli atteggiamenti. Ed è proprio tale consapevolezza a consentirgli di occuparsi della sua intimità, della sua inclinazione originaria: ecco perché il «meccanismo» della società può essere definito come «una formidabile macchina per fare uomini».22
3. La critica di Ortega dell’intersoggettività husserliana
La convivenza, interpretata in quanto piano di realtà della circostanza interindividuale, è uno mondo di vita comunicativa fra, in primis, due poli interagenti. E negli stessi termini può venire considerato lo spazio intermonadico indagato dalla filosofia fenomenologica di Edmund Husserl (1859-1938) la cui chiave interpretativa, però, non è di natura sociologica bensì di interpersonalità fra l’ego e l’alter ego, ovverosia, fra i due io monadici o, detto più semplicemente, fra le due presenze viventi. Quello dell’intersoggettività, il banco di prova in forza del quale la fenomenologia viene sottratta da ogni equivoco interpretativo che la valuta come una filosofia promotrice di contenuti solipsistici e idealistici, è un problema su cui Husserl riflette fra gli anni ’10 e ’30. Tre sono le differenti modalità con cui la fenomenologia husserliana ha cercato di comprovare l’esistenza dell’alterità: l’empatia (Einfühlung); l’analogia sulla base del corpo vivo (Leib) e, infine, la temporalità, l’argomentazione che sembrerebbe essere la più convincente. L’ego e l’alter ego sono due presenze viventi fra loro relazionate in senso storico e il campo di esperienza massimamente concreto che i due poli egologici hanno più in comune è quello del tempo. La temporalità è un’esperienza di per sé plurale, poiché contemporanea per tutti, che rapporta e coordina ogni singola presenza vivente. Il flusso immanente della coscienza del tempo è un orizzonte d’esperienza sia per l’io trascendentale sia per una molteplicità di io fra loro relazionati anche empaticamente: il fatto che la riduzione non porti a un cogito individuale bensì a un flusso universale rende plausibile l’idea che quest’ultimo, e non un flusso individuale allora, possa essere il fondamento dell’intersoggettività trascendentale in tutta la concretezza eidetica che le è propria. Quindi, se il caposaldo del legame fra i soggetti viventi è il tempo, e per estensione la storia, si può asserire che il soggetto venga considerato tale in virtù della sua collocazione all’interno della propria circostanza: quel preciso tratto di congiunzione concettuale fra la ricerca filosofica di Husserl e quella di Ortega.23
A detta del pensatore madrileno, «bisogna capovolgere la teoria tradizionale (nella sua forma più recente e raffinata è quella di Husserl e dei suoi discepoli, Schütz per esempio), che vede il tu come un alter ego. L’ego concreto nasce invece come alter tu, posteriore ai tu […]: non nella vita come realtà radicale e radicale solitudine, ma su quel piano di realtà secondaria che è la convivenza».24 La riflessione di Ortega sull’intersoggettività ribalta lo schema husserliano: a darsi nella circostanza non sono più un ego e un alter ego ma un alter tu e un tu. L’ego «sono solo io»: di conseguenza, l’espressione alter ego è contradittoria, è un «paradosso», poiché se riferisco l’ego a un altro occorre modificarne il senso. L’alter ego viene interpretato dal punto di vista analogico: nell’altro è presente qualcosa alla stregua dell’ego che è collocato in me. Ma ad accumunare il mio ego e quello affine sono delle «componenti astratte», e pertanto, idealistiche, dunque, irreali: per converso, il «reale» coincide soltanto con ciò che è «concreto» ovvero il fatto che il soggetto vivente si scopra come «uno dei tanti tu». Ciò che «credeva di essere tutto» sia pure in astratto, ovvero, il mio io, quest’ultimo accompagnato da ogni suo pregio e difetto ma anche dal proprio carattere e dalla rispettiva condotta, viene a delinearsi dopo che ha incontrato i numerosi tu che sono compresenti nel mondo sociale: «Il tuo talento matematico mi rivela qualcosa che io non ho. Il tuo garbo nel parlare mi fa rendere conto di una mia carenza. La tua forte volontà mi dimostra che io sono debole. È chiaro che, viceversa, i tuoi difetti evidenziano ai miei occhi le mie doti».25 Grazie alla conoscenza dei tu si profila chi io sono veracemente, si modella la mia poliedricità con cui dovrò sempre fare i conti. Tuttavia, poiché il rapporto con la propria circostanza è conflittuale, la relazione fra l’alter tu e il tu, essendo uno dei contenuti che si stagliano nella circostanza stessa, non potrebbe non essere di «lotta», di «urto»: ma questa condizione, se da un lato è spinosa, dall’altro lato è agevole perché ci consente «di scoprire, in tale lotta ed urto con i tu, i nostri limiti e la nostra figura concreta di uomini».26 Allora, «l’io concreto e unico» che ognuno di noi avverte di essere non è affatto qualcosa di nostro immediato possesso, al contrario: la coscienza di essere se stessi sopraggiunge gradualmente, tramite una serie di numerose esperienze che sono tipiche della «lotta», ossia della relazione sociale, con i tu.
Va da sé, che l’interazione non deve portare il mio io a emulare l’altro qualora questi dimostrasse di avere un’individualità più mordace rispetto alla mia: l’omologazione va ripudiata in ogni frangente. Piuttosto, la scambievolezza con l’altro consente di far esercitare la propria dinamicità progettuale, di implementare la rispettiva libertà di essere, di continuare ad aprirsi alle innumerevoli possibilità. L’io e il tu sono sempre discernibili: tu, che non sono io, «hai […] un modo di essere tuo proprio e particolare che non coincide con il mio».27 Ed è proprio da quel tu, così differente dal mio io, che emergono quelle che Ortega chiama «negazioni», le quali producono un connotato di antagonismo che fa parte della nostra relazione vivente con l’alter. «A volte la negazione consiste precisamente nel fatto che tu ed io vogliamo la stessa cosa e ciò implica che dobbiamo lottare per averla».28 Le cosiddette «negazioni attive», attributi dell’«urto» interindividuale, specificano quelle che sono le frontiere del mio e del suo spazio di vita. Se ci si limitasse soltanto ad aprirsi all’alter consapevoli che quest’ultimo stia lì, «col suo io, la sua vita e il suo mondo», non si realizzerebbe nulla con esso.
A occorrere è un certo attivismo: «è necessario che io agisca o compia un’azione su di lui, che provochi in lui una risposta»29 concordemente a un piano predeterminato in un «pensiero precedente». L’agire deve tener conto della reciprocità delle reazioni intrattenute fra i due poli: il mio passare all’azione deve considerare in anticipo la reazione dell’altro il quale farà lo stesso con me. Rispettata la sua natura, in quanto «ab initio reciprocante», l’uomo effettuerà un’azione veramente sociale: compiuta un’azione autentica su chi ci circonda può originarsi la forma prima della relazione sociale, il «noi» che, se coltivato con frequenza e costanza, permette di raggiungere una sempre maggiore vicinanza all’alter. Da sconosciuto, questi può divenire «più conosciuto, umanamente più prossimo» il cui grado estremo è quello dell’«intimità»: «quando con l’altro ho uno “scambio” intenso, egli è per me un individuo inconfondibile fra tutti gli altri, insostituibile. È un individuo unico».30
Perciò, all’interno della convivenza, la «realtà vitale» che è il Noi, l’alter si è convertito in Tu, e vale a dire, in quella figura esistenziale che il mio io percepisce come contraddistinta e impareggiabile. Il Tu non è riferito soltanto alla persona che amiamo e che ci ama: il Tu è rivolto anche alla figura genitoriale che non può fare a meno di sostenerci e di proteggerci; all’amico che ci ascolta e che ci consiglia; al maestro in grado di motivarci e di ispirarci. Allora, siccome il mutamento nel Tu «mi succede non solamente con uno, ma con diversi altri uomini, trovo che il mondo umano mi appare come un orizzonte di uomini, il cui cerchio a me più vicino è costellato di Tu, cioè di individui per me unici».31 Al di fuori dello spazio il più umanamente vicino al mio io, in cui gli elementi per me unici sono collocati, è presente un altro scenario umano, quello degli «uomini dei quali so di meno», e uno ulteriore ancora ove presenziano «individui indeterminati, inter-cambiabili». Quindi, prosegue Ortega: «il mondo umano si apre davanti a me come una prospettiva di maggior o minore intimità, di maggiore o minore individualità o unità; insomma, una prospettiva di prossima o lontana umanità».32
Quindi, a darsi sono molteplici soggetti viventi: con questi si coabita, si comunica, molto spesso problematicamente, alle volte si corrisponde e altre volte no. Quando appaiono, gli altri permettono al mio io di trascendere la propria condizione primordiale, e vale a dire, dal punto di vista fenomenologico husserliano, la rispettiva «solitudine» caratterizzante la «prima evidenza», la vita. E «come avviene che il mio ego, la mia vita, nell’intimo di ciò che essa propriamente è, possa in qualche modo costituire o far sì che in essa appaia l’“Altro”, proprio come essere estraneo ad essa, alla mia vita o al mio ego; voglio dire, come è possibile che gli conferisca un senso di realtà, che lo colloca al di fuori del contenuto concreto “me” stesso, della mia vita, che è la realtà in cui appare?33». La comparsa dell’altro uomo può avere origine non tanto nella sua «forma del corpo» quanto nei suoi «gesti»: quelle espressioni di «pianto», di «irritazione», di «tristezza» vengono da me scoperte dapprincipio nell’altro. Secondo Ortega, l’errore di fondo che Husserl ha compiuto quando ha formulato le sue argomentazioni atte a comprovare l’esistenza dell’altro consiste nell’aver considerato che «nel corpo dell’Altro» debba trovarsi un «altro io»:
[…] Egli [Husserl] si è visto obbligato ad usare continue contraddizioni: l’Altro è io, posto che sia un io, però un io che non sono io; pertanto una cosa diversa dal mio io, ben conosciuta da me stesso. In vista di ciò, tenta di sopprimere quella strana realtà che è l’altro, dicendo che non è “io” ma qualcosa di analogo al mio io; e neppure di analogo, perché alla fine ha molte componenti identiche alle mie, cioè all’io.34
Non c’è nessuna affinità fra l’io e l’altro, tantomeno se ci si basa su una semplice testimonianza qual è quella del Leib che, allora, analogo a quello dell’altro non è:
[…] quel che chiamo “mio corpo” assomiglia pochissimo al corpo dell’altro. La ragione è questa: il mio corpo non è mio esclusivamente perché è per me la cosa più prossima, tanto che io mi confondo con esso e mi trovo in esso, cioè qui. Questa sarebbe soltanto una ragione spaziale. È mio, perché è lo strumento immediato del quale mi servo per avere rapporti con il resto delle cose […].35
Quella dell’altro è una irriducibilità all’io. Ma la tesi secondo la quale l’altro non coincide con me, pur se tematizzata attraverso dei termini inevitabilmente diversi, è vigente anche nella stessa riflessione husserliana sull’intersoggettività. L’indeclinabilità personale dell’ego, rivelatrice della sua identità e trascendentalità, è posta «qui», in una sfera essenziale e inaccessibile, e lo stesso vale per l’alter ego il quale è collocato, sin dal principio, «là»: è proprio questa condizione di inesorabilità a impedire un’«esperienza originale» dell’altro. Quello del traslare gli Erlebnisse dell’ego nel corpo vivo dell’altro come se l’io “fosse là”, ovvero, nello spazio primordiale dell’alter, è un’esigenza metodico-trascendentale che non inficia l’argomento husserliano secondo il quale l’identificazione con l’altro non può in nessun modo farsi completa ma che, piuttosto, punta a palesare la concretezza eidetica della conoscenza fenomenologica e della monadologia teorizzata:
Io esperisco, conosco in me l’altro, esso si costituisce in me, ma solo rispecchiandovi appresentativamente e non come essere originale. Per tanto si può dire, in senso molto ampliato, che l’ego, io come soggetto della meditazione e dell’esposizione, mediante la mia auto esposizione, ossia mediante l’esposizione di ciò che trovo in me stesso, ottengo ogni trascendenza, come costituzione trascendentale e non già assunta in positività ingenua.36
La monadologia fenomenologica, che procede sul terreno dell’intuizione pura ossia quella sola intuizione in grado di disvelare la medesimezza concreta del fenomeno, in questo caso quello dell’interpersonalità, restringe l’intento della sua indagine a «esporre il senso che questo mondo ha per noi prima di ogni considerazione filosofica, senso ch’esso riceve in base alla nostra esperienza e che la filosofia può solo rivelare ma mai mutare; questo senso per sua necessità essenziale […] porta con sé ogni esperienza attuale vari orizzonti che vogliono essere spiegati per principio».37
4. Quando l’alter non è Lui ma Lei
Dal canto suo, Ortega è fermamente convinto della critica che egli muove alla teoria di Husserl la quale spiegherebbe «la presenza dell’Altro attraverso la proiezione sul suo corpo della nostra stessa persona»,38 e la rafforza esplicando come stanno le cose quando l’alter è una Lei: «[…] Nel caso della donna, risalta particolarmente l’eterogeneità tra il mio ego ed il suo, perché la risposta di Lei non è la risposta di un ego astratto; l’Ego astratto non risponde, perché è un’astrazione. La risposta di Lei è già di per sé, subito e completamente femminile; ed io l’avverto come tale»,39 afferma il pensatore. Non sono le «forme corporali specificatamente femminili» a segnalare l’apparizione di Lei ma la sua «femminilità interna» che traspare attraverso il corpo, femminilizzandolo: quindi, è l’anima femminile che rende femminile il corpo il quale com-presenta a Lui quella che è l’intimità di Lei. A contrassegnare la femminilità di Lei, affinché sia possibile distinguerla da Lui, è anzitutto l’«essere essenzialmente confusa» della donna. Ortega precisa subito che questa confusione «non è un difetto della donna» bensì è il principale dei «caratteri primari» che partecipano della sua stessa natura. La «segretezza» è in Lei essenziale e ciò la rende un universo imperscrutabile. Non c’è chiarezza nella donna: la sua sensibilità amplifica la propria capacità di tribolazione, il suo cuore, seppur ferito, non la fa mai smettere di amare, i pensieri della sua mente la tormentano senza sosta. E, forse, ciò non basta. Nella donna c’è di più: sentimenti della sua anima che nemmeno lei stessa comprende.
Nell’intimità maschile tutto suole avere linee rigorose e precise. Il che equivale a dire che tale caratteristica fa di lui un essere addirittura spigoloso. La donna, in cambio, vive in perpetuo crepuscolo; non sa bene se vuole o non vuole, se farà o non farà, se si pente o non si pente. Dentro la donna non c’è né mezzogiorno né mezzanotte: è un soggetto crepuscolare. Perciò è costitutivamente segreta. Non perché non dichiari quel che sente o che le succede, ma perché normalmente non può dire quel che sente e che le succede. Anche per lei è un segreto.40
Questa confusione, e pertanto tale complicazione, precederebbe il secondo carattere: la «debolezza». Con buona pace delle sostenitrici di una versione tradizionale del femminismo che si ispira a Il secondo sesso (1949) della filosofa Simone de Beauvoir (1908-1986), Ortega scrive:
La signora Beauvoir pensa che l’esistere in “riferimento ad un altro” sia incompatibile con l’idea della persona, la quale si fonda sulla «libertà verso se stessi». Ma non è chiaro perché l’essere liberi o l’esistere in riferimento ad altri esseri umani siano cose incompatibili. D’altronde, non è poca la quantità di riferimenti alla donna che fanno parte del maschio umano. Ma questi, l’uomo, esiste eminentemente in rapporto alla propria professione […] Il libro della signora Beauvoir, tanto ubertoso di pagine, ci dà l’impressione che l’autrice confonda fortunatamente le cose. In tal modo, ci assicura dell’autenticità del suo essere femminile. In cambio, credere – come si ricava dal suo scritto – che una donna sia più persona quando non è subordinata all’uomo ma occupata nello scrivere un libro su «le deuxième sexe» ci sembra già qualcosa di più di una semplice confusione.41
L’essere persona della donna non si misura per mezzo della sua estraneazione dall’uomo ma attraverso la coscienza, la consapevolezza più intima e individuale di ciò che lei è stata ed è: non un frutto di negazioni né un effetto della sorte biologica bensì un vero e proprio tema al singolare. Il fatto che la donna appaia debole non significa che ella, rispetto all’uomo, sia «vitalmente meno forte»: «nulla è mai una comparazione», precisa Ortega. Non si tratta affatto di rilevare «un di più né un di meno». Sia l’uomo sia la donna sono capaci di affermare radicalmente la propria essenzialità, ma in modo differente: l’uomo, attraverso la sua «professione», i propri «talenti» e «trionfi», le sue «conquiste»; la donna, poiché interiormente confusa, tramite la debolezza che è la «condizione elementare della sua persona». E questa modalità di autodeterminazione è un «valore specifico» di cui la donna è dotata «rispetto all’uomo». Ortega sottende che anche la debolezza non sia un difetto di Lei ma soltanto il segnale di una eterogeneità tangibile fra Lei e Lui: a differenza di Lui, Lei afferma il suo essere sé dando voce alla propria inclinazione naturale e, nel fare questo, «è felice lei stessa». La debolezza femminile permette la presenza del terzo e ultimo carattere di Lei: la relazione con il proprio «corpo». Rispetto all’uomo, la donna percepisce maggiormente la posizione del suo Leib fra lo spazio del mondo e il proprio essere:
Tra il nostro io puramente psichico ed il mondo esteriore non sembra interporsi nulla. Nella donna, al contrario, l’attenzione è sollecitata costantemente dalla vivacità delle sue sensazioni intracorporali: sente in ogni momento il suo corpo come interposto tra il mondo ed il suo io, lo ha sempre presente davanti a sé, come uno scudo che protegge […] Le conseguenze sono chiare: tutta la vita psichica della donna è più fusa con il suo corpo di quanto non lo sia nell’uomo […] la sua anima e più corporale e […] il suo corpo è più impregnato di anima.42
Quell’«impressione di debolezza» avvertita in Lui deriva proprio dall’«attenzione costante» che la donna rivolge a se stessa quando il suo corpo viene sottoposto ad «abbellimento» e a «ornamento». Queste due forme di attenzione provengono dalla sua stessa anima la quale, allora, viene intrisa dal corpo: ma «in contrasto con la solida e ferma apparenza del corpo, l’anima è qualcosa di tremulo, qualcosa di debole».43 Se di primo acchito potesse sembrare che quello compiuto da Ortega sia stato uno scivolone intellettuale poco elegante, la confutazione di una tale frivolezza interpretativa si fa definitivamente più desta nelle battute conclusive della sua riflessione sulla donna quando il filosofo spagnolo scrive: «Pertanto, l’attrazione erotica che nasce nell’uomo non è suscitata […] dal corpo femminile in quanto tale. Piuttosto, desideriamo la donna perché il corpo di Lei è un’anima».44 Che si tratti di Lui o di Lei vale questo fatto: «all’orizzonte della mia vita, che consiste esclusivamente in ciò che è mio e solo mio ed è – proprio per questo – solitudine radicale, appare un’altra solitudine, un’altra vita […] che ha il suo mondo, un mondo alienato dal mio, un altro mondo»,45 scrive Ortega.
5. Io sono io e la mia circostanza
La nostra circostanza ha un «centro», ovvero, il «quid» in cui il mio Leib «si trova», e una «periferia» demarcata da quell’orizzonte della vita includente tutto ciò che può essere visionato. Attraverso la meditazione, il «navigare tra problemi e cercare di risolverli», si può via via palesare ciò che partecipa dell’orizzonte: come è stato individuato finora, lo Stato, la gente, il Noi e l’altro ovvero «l’altro uomo […] Di lui non c’è presente che un corpo, però un corpo che è carne; e la carne […] possiede l’enigmatico dono di segnalarci un intus, un dentro o intimità».46 Nella sua irriducibilità, il «puro Non-io», dunque l’altro uomo «con il suo ego» e «con il suo mondo», sorge, e questo è un fenomeno che «resta sempre alle spalle della nostra vita». Il soggetto individuale nasce fra gli uomini e sono questi, i non-io appunto, a incontrare immediatamente. All’interno del mondo-ambiente interpersonale, gli altri esseri umani sono soliti a «parlare gli uni con gli altri e con me». Siccome la condizione costitutiva dell’uomo è la sua apertura all’altro, ossia alla monade presente nell’orizzonte della propria circostanza, la conseguenza è piuttosto ineludibile: «con il loro parlare mi inculcano ciò che loro pensano delle cose circostanti. E naturalmente io vedo il mondo attraverso le idee ricevute».47
Se non ci fossero gli altri uomini attorno a sé, l’individuo non potrebbe né comprendersi né venire compreso sicché essere il non-io non è un accidente ma equivale a un «attributo originario»: «Io, nella mia solitudine, non potrei chiamarmi col nome generico di “uomo” […] lo dice molto bene Husserl: “Il significato del termine uomo implica un’esistenza reciproca dell’uno per l’altro”48», pertanto, aggiunge Ortega, disquisire dell’uomo «fuori o staccato dalla società» è soltanto illogico. L’uomo, definisce il pensatore madrileno, è «a nativitate»: egli è dischiuso neutralmente all’altro distinto da sé e questa condizione è la sorgente della relazione sociale la cui prima realtà coincide col «nostrismo» o «nostridad», e perciò, con l’assunto in base al quale Noi ci siamo l’uno per l’altro. Perciò, a essere evidente nella mia circostanza risulta la «notizia» che ci siano ulteriori vite umane: ma questo è un «segno» secondario. Il connotato di primarietà, e dunque di originarietà, è riservato solo alla vita dalla quale deriva ciò che è successivo: «La vita dell’altro infatti non è per me una realtà evidente come lo è la mia: la vita dell’altro, diciamolo pure senza eufemismi, è solo una presunzione o una realtà presunta o pretesa – infinitamente verosimile, probabile, plausibile quanto si vuole – ma non radicalmente, indiscutibilmente, primordialmente “realtà”49». Ortega, parimenti a quanto individuato da Husserl, riscontra nella dimensione dell’altro un connotato di trascendenza rispetto all’esperienza conoscitiva: l’altro uomo non si definisce in forma completa nel mio spazio immanente ma, a questo, egli sfugge. La conseguenza è la seguente:
Mi rendo in tal modo conto che è tipico di quella realtà radicale che è la mia vita contenere dentro di sé molte realtà di secondo ordine o presunte. Ciò apre ad essa un campo enorme di realtà distinte da se stessa. Chiamandole grosso modo presunte, avremmo potuto dire anche “verosimili”, senza peraltro togliere loro il carattere ed il valore di realtà. L’unica cosa che faccio è negare la qualificazione di radicali ed indiscutibili.50
La mia vita non è certamente l’unica, né la più significativa, ma è la mia «realtà primaria e primordiale», la «radice» dalla quale quelle che sono le altre realtà per me possano apparire. Ciò che io sono, ciò che il mio mondo è, la modalità in cui vivo in quest’ultimo sono a me radicali, primari, evidenti. Ma «nel momento in cui appare nel mio mondo qualcosa che – a prescindere dalla mia – chiamiamo “vita umana”, essa è tale in un altro significato, non più radicale, né primario, né evidente»51 ma «derivato», «più o mento latente» e «supposto»: se la mia vita e tutto ciò che le concerne hanno un carattere immanente, non perché solipsistici ma perché nella loro datità sono a me inconfutabili, «la presentazione indiretta o compresenza della vita umana di altri mi conduce e mi pone davanti a qualcosa che trascende la mia vita; ossia, è in essa, senza esserci propriamente».52 L’altro è compresente nella mia vita: le nostre esistenze, dall’intimità distinta e impenetrabile, co-esistono, si intrecciano, possono avere a che fare l’una con l’altra, ma l’alter non è presente dal punto di vista originario: solo io posso esserlo perché io, e non l’altro quindi, sono io e la mia circostanza.
Il baricentro della circostanza in cui sono collocato risulta essere il mio Leib . L’uomo, nella sua interiorità, si trova per tutta la vita «rinchiuso» in quest’ultimo: «il corpo, in cui vivo infuso e circoscritto, fa di me inesorabilmente un personaggio spaziale. Mi mette in un posto e mi esclude da altri. Non mi permette alcuna ubiquità. In ogni istante mi fissa come un chiodo in un certo posto, mi esilia dal resto. Il resto, cioè le altre cose del mondo, stanno in altri luoghi ed io posso solo vederle, udirle e toccarle da dove mi trovo […] qui».53 L’individuo è situato in un corpo, che è soltanto suo, e ciò che egli pensa, vuole, sente ed esegue con il proprio corpo è quanto viene definito «propriamente umano» perché quello che pensiamo, vogliamo, sentiamo ed eseguiamo ha un senso che solo noi, «soggetti creatori», siamo in grado di comprendere. Per mezzo del mio Leib io posso spostarmi incessantemente dentro la mia circostanza costituita da pragmata, e dunque, da quelle componenti dello spazio vitale che non dispongono di un valore in sé e per sé ma solo per la vita umana affinché io posso essere nell’ambiente in cui sono destinato a vivere. L’ambiente è la «porzione del mondo» sperimentato dal soggetto vivente. Il mondo ha una struttura tripartita: ciò che è oggettivamente presente in quanto percepibile; l’orizzonte presso il quale la presenza appare e, infine, l’aldilà latente. Lo spazio del mondo racchiude un’«immensità» dai contenuti presenti e compresenti, attuali e abituali. L’«orizzonte» distingue il lato evidente del mondo da quello che, fenomenologicamente, potremmo considerare adombrato: «le cose presenti mostrano solo la loro faccia; le loro spalle rimangono solo compresenti. Vediamo solo il dritto, ma non il rovescio […] il nostro mondo contiene anche, al di là dell’orizzonte e dell’ambiente, un’immensità che […] rimane recondita, occulta, coperta dal nostro ambiente che a sua volta ne è avviluppato».54
Il mondo è una selva misteriosa di problematiche e faccende in cui io mi imbatto e di cui mi devo occupare e questo perché, in quanto soggetto umano, non consisto solo nell’essere ma anche nel fare, ovvero, nel farmi carico, nell’avere cura, attivamente, della mia realtà: la mia circostanza, la mia vita. E la mia vita è la solitudine prima. La vita umana è sempre «personale», «circostanziale», «intrasferibile» e «responsabile»: la vita è una realtà propria ed esclusiva; è un permanere sempre in circostanza; è un esercizio di libertà e pertanto una perplessità costante; è un senso di responsabilità intrasferibile perché può venire assunto solo da se stessi.
La vita dell’altro è uno «spettacolo», «la vedo ma non la sono, non la vivo»: ciò che vivo è solo la mia vita. E il vivere non equivale all’esistere: esisto quando mi immedesimo nella mia interiorità; vivo nel momento in cui il raccoglimento dentro me stesso lo estrinseco e dunque lo rapporto alla mia situazione circostanziale. Esistere e vivere sono le due sfumature che colorano il ritratto dell’uomo. Il tratto distintivo dell’essere umano è di certo quello di perdersi dentro se stesso ma è pure sua capacità fondamentale quella di, proprio attraverso una sensazione di tracollo interiore, reagire dinamicamente giacché «il destino dell’uomo è prima di tutto azione»: ma questa deve venire sempre coordinata da una contemplazione che la anticipi perché progettante quella che sarà la prassi. «Non viviamo per pensare ma pensiamo per riuscire a sopravvivere: questo è il punto fondamentale, sul quale a mio giudizio urge opporsi radicalmente a tutta la tradizione filosofica»,55 afferma Ortega.
«La vita umana avrebbe dovuto porsi al servizio della cultura».56 Quello fra vita e cultura, fra azione e contemplazione, non è un nesso scomponibile ma, nella sua completezza, unitario: aver dissestato gli elementi di questo rapporto ha comportato, già al tempo di Ortega secondo quanto egli ravvisa, un’«inflazione culturale», ovverosia, un surplus di «idee», «libri» e «opere d’arte» prodotti solo per il gusto di produrli, a prescindere dalla qualità intellettuale, e più di quanto l’uomo ne abbia bisogno. Non è errato affermare che l’azione sia un passaggio fondamentale e tipico dell’individualità umana: ciò che è sbagliato, però, consiste nell’esonerarsi dall’immedesimazione e nel glorificare l’azione. Questo «bigottismo culturale» è uno scenario classico della vanitosa società di massa contemporanea. Gli uomini livellati sono abituati ormai a non esercitare il proprio atteggiamento critico, a non immedesimarsi dentro se stessi perché ciò che loro ascoltano è solo la voce della gente e ciò che essi ammirano è solo l’atto in sé e per sé; gli uomini-massa non assaporano la bellezza del percorso, che richiede profonda contemplazione e straordinario impegno, non sanno farlo, perché l’unico loro interesse è la destinazione che dev’essere la più vantaggiosa e magnifica possibile; gli uomini uniformati ostracizzano la tradizione del passato, senza comprendere che proprio quest’ultima abbia consentito quello che è il tempo presente e, con essa, ripudiano le anime originali che la sostengono.
E l’uomo medio è certo della propria condizione individuale e circostanziale. Ma essere uomo non significa essere certi, anzi: l’uomo è «res dramatica», e pertanto, un problema vivente fatto di sostanziale incertezza e inquietudine. Ciò che noi chiamiamo “civiltà”, tutte queste certezze sono insicure, tanto che in batter d’occhio – alla più piccola disattenzione – scappano dalle mani dell’uomo e svaniscono come fantasmi. La storia ci parla di innumerevoli regressi, di decadenze e di degenerazioni. Ma non è detto che non siano possibili regressi assai più radicali di quelli che conosciamo, ivi incluso il più radicale di tutti: la totale volatilizzazione dell’uomo come uomo e il suo malinconico ritorno alla scala animale, nella completa e definitiva alterazione.57 La sorte della cultura e dell’uomo richiedono che la coscienza di quella che è la drammatica insicurezza umana, «un contrappunto mormorante nelle nostre viscere», sia vigente. Solo quando quest’elementarità viene annoverata, una volta che è stata riferita alla propria individualità, si può asserire che l’uomo conosca un fondo di certezza perché egli ha mostrato ciò che è veridicamente: essere uomo significa «essere sempre sul punto di non esserlo», affrontare un’«utopia stimolante», sforzarsi di nuotare, per salvaguardarsi dal naufragio quindi, in quel mare tempestoso che è la vita.
L’io e la circostanza si toccano, si integrano scambievolmente e si assegnano a vicenda del senso. E se si vuole vivere con autenticità occorre ritornare alla situazione che circoscrive ciascuno di noi. Di più: essendo essenti drammatici, per poter tentare di far guadagnare alla nostra vita anche solo una piccola dose di sicurezza o di certezza, dobbiamo sottoporla alla fruttuosità della cultura, della ragione: questo è il tema del nostro tempo e la vocazione che tutti i soggetti viventi sono chiamati a ottemperare. Parimenti a Nietzsche il quale, in Così parlò Zarathustra (1885), ammette che «bisogna avere ancora un caos in sé per poter generare una stella danzante»,58 Ortega ricorda che l’individuo, risiedendo nel mare più dubbioso, debba sentirsi sempre spronato ad agire, con una dinamicità coordinata razionalmente, curando la propria realtà circostanziale e, pertanto, la propria vita, la cui forma può venire scelta solo e soltanto dall’uomo stesso in quanto presenza originaria. In fondo, la vita andrebbe concepita alla stregua della filosofia: non un circolo chiuso ma una ricerca aperta perché priva di conclusioni e problematizzante ogni esito raggiunto. Il pensiero della ragione vitale, la ricerca filosofica elaborata da Ortega che pretende la declinazione dell’idea di ragione su quelle che sono le dinamiche storiche della vita, descrive che cosa quest’ultima sia veridicamente. E come scrive il pensatore spagnolo, poiché «l’uomo è romanziere di se stesso», inventore del proprio personaggio inserito nello spazio e nel tempo del mondo, la vita umana deve essere concepita, anzitutto, come un «lavoro poetico», un eclettico e innovativo «genere letterario!».
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J. Ortega y Gasset, All’improvviso appare la gente, in L’uomo e la gente, trad. it. di L. Pellicani, Armando, Roma 2005 p. 150. ↩︎
-
Ivi, p. 185. ↩︎
-
A. Bisignani, Ortega y Gasset tra Europa e Mediterraneo, Edizioni Graphis, Bari 2004, p. 112. ↩︎
-
J. Ortega y Gasset, Una interpretazione della storia universale, trad. it. di L. Pajetta, SugarCo, Milano 1978, p. 159. ↩︎
-
J. Ortega y Gasset, Sull’impero romano, in Scritti politici, trad. it. di L. Pellicani, A. Cavicchia Scalamonti, UTET, Torino 1979, pp. 1011-1012. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, pp. 1017-1018. ↩︎
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J. Ortega y Gasset, All’improvviso appare la gente, in L’uomo e la gente, cit., p. 156. ↩︎
-
Ivi, p. 150. ↩︎
-
M. Heidegger, Essere e tempo, trad. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 163. ↩︎
-
Ivi, p. 164. ↩︎
-
J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, trad. it. di S. Battaglia, Il Mulino, Bologna 1962, p. 102. ↩︎
-
Ivi, p. 13. ↩︎
-
Ivi, p. 17. ↩︎
-
M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 164. ↩︎
-
Ivi, p. 163. ↩︎
-
Ibidem ↩︎
-
J. Ortega y Gasset, All’improvviso appare la gente, in L’uomo e la gente, cit., p. 151. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 152. ↩︎
-
M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 167. ↩︎
-
J. Ortega y Gasset, «Premessa», L’uomo e la gente, cit., p. 27. ↩︎
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Il passo contenuto in Idee I, riguardante il riconoscimento del «mondo nel quale mi trovo e che è insieme al mio “mondo circostante” (Umwelt)» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, trad. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, vol. 1, p. 59) è stato prodromico all’elaborazione del ʿfatto assolutoʾ orteghiano: l’essere sempre in circostanza o l’essere sempre in situazione, quale condizione costitutiva dell’essere umano. ↩︎
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J. Ortega y Gasset, Il pericolo che è l’altro e la sorpresa che è l’io, in L’uomo e la gente, cit., p. 147. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 146. ↩︎
-
Ivi, p. 141. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 130. ↩︎
-
Ibidem ↩︎
-
Ivi, p. 131. ↩︎
-
Ibidem ↩︎
-
J. Ortega y Gasset, Ancora sugli altri e sull’io, in L’uomo e la gente, cit., p. 112. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 114. ↩︎
-
E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Con l’aggiunta dei Discorsi parigini, trad. di F. Costa, Bompiani, Milano 1989, p. 201. ↩︎
-
Ivi, p. 203. ↩︎
-
J. Ortega y Gasset, Ancora sugli altri e sull’io, in L’uomo e la gente, cit., p. 116. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 118. ↩︎
-
Ivi, pp. 119-120. ↩︎
-
Ivi, p. 123. ↩︎
-
Ivi, p. 124. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 110. ↩︎
-
Ivi, p. 106. ↩︎
-
Ivi, p. 99. ↩︎
-
Ivi, p. 98. ↩︎
-
Ivi, p. 92. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 91. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 76. ↩︎
-
Ivi, p. 70. ↩︎
-
Ivi, p. 38. ↩︎
-
Ivi, p. 37. ↩︎
-
Ivi, p. 40. ↩︎
-
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. di A. Carpi, Newton Compton, Roma 2018, p. 49. ↩︎