Democrazia (in crisi) tra individualismo e comunitarismo

1. Introduzione

Negli ultimi tempi la democrazia ha celebrato la sua affermazione mondiale, tanto che da prerogativa di pochi paesi del blocco atlantico essa è diventata la forma di governo più diffusa al mondo, ovvero l’unica fonte di legittimità politica; e persino gli interventi militari si fregiano della sua retorica. Gli ostacoli economici, culturali, religiosi e geopolitici non sembrano essere più in grado di contenere il cammino espansivo di quella che è stata definita la terza ondata di democratizzazione. Ciò nonostante, mentre si assiste alla vittoria della democrazia nel mondo, si ravvisa anche una crisi nella democrazia in molte società avanzate (Prospero, 2003); soprattutto laddove non soddisfa pienamente la definizione minima di democrazia data qualche anno fa da Huntington (1995): “i governi espressi dalle elezioni possono essere inefficienti, corrotti, irresponsabili, dominati da interessi limitati e incapaci di adottare politiche a favore del bene comune. Per tutte queste caratteristiche governi simili possono diventare odiosi, ma rimangono democratici” (p. 32). Ciò significa che se si guarda alla democrazia come elezione popolare dei vertici dello Stato, essa pare godere di ottima salute; ma se si guarda alla qualità del processo democratico di formazione della volontà popolare si rileva la presenza di due forme di crisi, di differente natura, presenti tanto nelle democrazie consolidate occidentali che nelle democrazie di recente formazione nel resto del mondo. La prima forma di crisi è quella descritta da Zakaria (2003) e che si manifesta in buona parte dei paesi investiti dalla terza ondata di democratizzazione dove sta emergendo un nuovo modello di governo, caratterizzato dalla presenza di libere elezioni ma anche dall’assenza effettiva del costituzionalismo liberale (tutela dei diritti individuali, governo limitato, stampa libera, ecc.). In quei paesi sta nascendo e si sta sviluppando, infatti, una forma democratica che Zakaria stesso definisce “illiberale” perché, malgrado si tengano elezioni, non sono rispettate le garanzie di libertà e legalità delle istituzioni e della società. Il secondo tipo di crisi, che tormenta le democrazie avanzate dei paesi occidentali postindustriali, è quella riguardante il progressivo disfacimento della sfera pubblica. Praticamente la globalizzazione degli scambi economici ha favorito l’offensiva neoliberista che si scaglia contro lo Stato e le sue politiche redistributive e chiede il ritorno al primato del contratto, dell’autoregolamentazione di interessi privati, sulla decisione legislativa e sulla promozione dell’interesse generale. Il mercato, dal canto suo, contesta l’autonomia del politico, la sua pretesa di governo della società, e si pone come regolatore universale della vita sociale. Il potere economico attacca la sovranità della politica occupando la sfera pubblica e penetrando all’interno degli apparati decisionali. Non solo. La crisi dei mediatori sociali tradizionali (partiti, sindacati, chiese) e il conseguente deperimento del tessuto associativo, non sufficientemente rivitalizzato dalle forme non convenzionali di partecipazione, e i media totalmente incorporati dall’organizzazione imprenditoriale e dalla logica del mercato, lasciano la sfera pubblica completamente indifesa di fronte all’invasione degli interessi privati. In concreto: la colonizzazione dei partiti da parte dei soggetti economici, del loro personale di riferimento e dei segmenti organizzativi che vengono immessi in strutture partitiche non più radicate sul territorio, la fragilità delle reti associative della società civile, l’espansione del ruolo dei media nel processo politico e il conseguente rafforzamento delle forme di relazione non mediata tra un pubblico amorfo e gli attori politici, i processi di globalizzazione economica che trasformano il mercato da tecnica settoriale a ideologia pervasiva, rappresentano i principali fattori che hanno compromesso l’autonomia della sfera pubblica, avviando la fase di deconsolidamento della democrazia nelle società contemporanee, caratterizzata dalla “crescente dissociazione tra centri politici e collettività sociali e culturali”(Eisenstadt, 2002, p. 134).

La democrazia agli occhi dei suoi cittadini appare così una rappresentazione vuota in cui i decisori, con l’ossessione della propria visibilità nei media, tentano di nascondere la decrescente capacità della politica di governare i poteri sociali che operano indisturbati sugli ampi spazi del mercato globale. Mentre gli uomini politici danno vita a confronti urlati e confusi nei talk show — come sempre più spesso accade di recente ad esempio in Italia con il governo Berlusconi —, i poteri sociali agiscono come potenze anonime e distanti, imponendo la legalità sostanziale del mercato globale sulla sempre più inconsistente legalità formale della Costituzione e delle leggi nazionali. La democrazia, in effetti, sembra in crisi per una carenza di partecipazione prodotta dalla marcata frammentazione e individualizzazione del paesaggio sociale, ma anche da una generale sfiducia nell’efficacia del voto (Maffesoli, 2004): la disaffezione origina dalla percezione che la democrazia postmoderna non garantisca l’eguale inclusione degli interessi nella città politica. A ben vedere la democrazia contemporanea non promuove egualmente tutti gli interessi perché i cittadini restano eguali nel voto che decide la contesa elettorale, ma non sono uguali come partecipanti alla competizione elettorale a causa dell’enorme disparità di ricchezze che incide sulla capacità di promuovere i propri candidati, convinzioni, interessi. Di qui la revoca di fiducia in una politica che si preoccupa di ridurre i diritti di cittadinanza sociale che, miranti ad egualizzare il valore della libertà di tutti i consociati, tutelano le pari dignità dei cittadini, e preferisce allargare sempre più gli spazi della concorrenza. Così, dopo la cura neoliberista, le veterodemocrazie si sono trasformate in “luoghi privatizzanti”(Ginsborg, 2004, p. 237) dove svaniscono le solidarietà collettive, si impongono gli imperativi del mercato e al pubblico viene assegnata una funzione solo residuale (Veca, 2002).

A fronte di questa situazione, il presente contributo vuole offrire una chiave di lettura della controversia tra liberalismo e comunitarismo che ha animato il dibattito della filosofia politica contemporanea, incidendo in molti modi sui molteplici discorsi di altre discipline intorno alla democrazia negli ultimi anni. All’individualismo liberale, con la sua visione del giusto astratta e neutrale nei confronti delle varie ricerche individuali della vita buona, il comunitarismo contrappone una concezione del bene, sostanziale e situata, da porre a fondamento della convivenza politica. Per il pensiero liberale il consenso politico fondamentale alle istituzioni democratiche è garantito dall’assicurazione di eguali libertà individuali, mentre per il comunitarismo esso si fonda sulla comune appartenenza ad una forma di vita. Nella trattazione, partendo dalla teoria della giustizia e dal liberalismo politico di Rawls, si passa poi ad illustrare la teoria dell’eguaglianza liberale di Dworkin e la replica comunitarista al liberalismo di McIntyre, Sandel e Taylor. Il contributo si chiude presentando la teoria della giustizia relativista e pluralista di Walzer e l’approccio basato sulle capacità di Nussbaum che delinea un liberalismo più attento al bisogno. Infine le riflessioni di Panebianco sulla fragile costituzione della società liberale.

Per facilitare la comprensione del testo si guarda alla crisi della democrazia contemporanea, in relazione al dibattito accennato in queste prime battute, adottando la visione habermasiana della democrazia deliberativa. Alla base della teoria della democrazia che Habermas fonda vi è un principio che definisce, in chiave discorsiva, cosa debba intendersi per norma valida, e che il filosofo tedesco chiama principio del discorso: “sono valide soltanto le norme d’azione che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali”(Habermas, 1996, p. 131). Ovvero, la democrazia deliberativa esige una sfera pubblica abitata dai discorsi, in cui sia ampia la partecipazione dei cittadini, i partiti tornino ad essere catalizzatori dell’opinione pubblica, i media siano autonomi dalle pressioni di attori politici e sociali e si intendano come “mandatari” d’un pubblico illuminato. Sicché Habermas assegna al potere comunicativo il difficile compito di mantenere in vita la sfera pubblica, “lo spazio potenziale dell’apparire fra uomini che agiscono e parlano”(Arendt, 2003, p. 147), impedendo che essa venga occupata dalla potenza delle grandi organizzazioni.

2. Giustizia come equità

La teoria della giustizia di Rawls costituisce un seducente tentativo di riformulazione della tradizione contrattualistica che ha ricondotto l’approccio normativo al centro della discussione filosofico-politica. Interessato al tema specifico della giustizia sociale, il filosofo americano concepisce la società come un’associazione di individui che nelle loro relazioni riconoscono come vincolanti certe norme di comportamento e agiscono in accordo con esse. Per Rawls (1989), infatti, la società è “impresa cooperativa per il reciproco vantaggio” (p. 22) che distribuisce ai suoi membri oneri e benefici della cooperazione sociale. In particolare: la società è caratterizzata sia da conflitto che da identità di interessi, i quali si presentano perché la cooperazione sociale migliora la vita degli individui. Ma c’è anche conflitto perché ogni individuo aspira a massimizzare i benefici e a minimizzare gli oneri del vivere in società. La ricerca di Rawls verte intorno al problema di quali siano i giusti principi in base ai quali devono essere organizzate le istituzioni fondamentali della società, i cui effetti condizionano i piani di vita degli individui. Rawls, riprendendo l’idea sottesa del contrattualismo moderno — per il quale le istituzioni politiche sono il frutto dell’accordo collettivo fra individui liberi e uguali nello stato di natura —, nella sua teoria della giustizia rimpiazza lo stato di natura con una situazione iniziale di scelta definita posizione originaria, la quale va considerata come un artificio espositivo capace di assicurare l’eguaglianza morale fra gli individui. In essa, afferma Rawls (1989), “nessuno conosce il suo posto nella società, la sua posizione di classe o il suo status sociale, la parte che il caso gli assegna nella suddivisione delle doti naturali, la sua intelligenza, forza e simili. […] le parti contraenti non sanno nulla delle proprie concezioni del bene e delle proprie particolari propensioni psicologiche. I principi di giustizia vengono scelti sotto un velo di ignoranza. Questo assicura che nella scelta dei principi nessuno venga avvantaggiato o svantaggiato dal caso naturale o dalla contingenza delle circostanze sociali. Poiché ognuno gode di un’identica condizione, e nessuno è in grado di proporre dei principi di giustizia che favoriscono la sua particolare situazione, i principi di giustizia sono il risultato di un accordo o contrattazione equa” (p. 28). Ciò significa che perché sia possibile pervenire a una scelta unanime dei principi di giustizia è necessario mettere a tacere i nostri interessi, dal canto suo una società giusta corregge le disuguaglianze in modo tale che le contingenze sociali e naturali vengano efficacemente utilizzate come patrimonio comune che migliora la condizione di tutti i consociati. Non solo. Per Rawls i membri di una società bene ordinata (in cui sono riconosciuti pubblicamente i principi di giustizia) sono persone morali libere ed eguali e tali si considerano fra loro. Le persone morali hanno un senso effettivo di giustizia nel senso che desiderano e posseggono la capacità di cooperare con gli altri per il reciproco vantaggio sulla base di termini equi. Esse, inoltre, sono dotate della capacità di decidere, rivedere e perseguire razionalmente una concezione del bene. Mentre i cittadini sono liberi nel senso che essi “non vengono identificati né con i loro piani effettivi, né con quelli possibili, ma sono piuttosto concepiti come esseri dotati della capacità di formarsi, adottare e anche modificare tali piani, se così desiderano, e di conseguenza come intenzionati, riguardo a tali questioni, ad assegnare la priorità alla tutela della loro libertà”(Rawls, 2001, p. 39). Praticamente i cittadini sono eguali nel senso che ciascuno è ugualmente capace di comprendere e rispettare la concezione pubblica di giustizia e, di conseguenza, partecipare alla cooperazione sociale onorandone i suoi principi. In tal modo i principi di giustizia che rendono equa la cooperazione sociale, distribuendo a tutti i membri pari libertà, opportunità e risorse per la promozione dei fini particolari, prevalgono sulle concezioni del bene e sulla contrattazione fra interessi e preferenze.

La teoria della giustizia di Rawls è, perciò, deontologica, basata cioè su una definizione previa del giusto, indipendente dal bene, che vincola le concezioni del bene coerenti con il giusto. Non solo. Essa si distingue nettamente dall’utilitarismo che è una teoria teleologica, e per il quale il giusto è ciò che massimizza il bene. L’utilitarismo, infatti, è centrato sull’idea di estendere il principio di scelta individuale razionale al caso della scelta collettiva, tanto che i desideri individuali sono fusi in un unico sistema di desiderio (sociale) di cui va massimizzato il soddisfacimento. Per Rawls, invece, in una società giusta è richiesto l’accordo collettivo su un insieme di diritti fondamentali che siano sottratti al calcolo degli interessi sociali e mettano ogni individuo nella condizione di perseguire equamente i propri fini. Ciò significa che i cittadini, in quanto persone morali ragionevoli (e non solo razionali), non adottano solo particolari concezioni della vita buona ma si preoccupano anche dell’eguale diritto degli altri cittadini di scegliere e perseguire il proprio modo di vita. Sicché la priorità della giustizia diviene un’esigenza della fondamentale pluralità della specie umana e dell’integrità degli individui che la compongono. Secondo Rawls (1989), infatti,

ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. […] Di conseguenza, in una società giusta sono date per scontate eguali libertà di cittadinanza; i diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica, né del calcolo degli interessi sociali"(pp. 21-22).

Limitare la libertà di un individuo per massimizzare il benessere generale significa ledere il principio della reciprocità che vuole che i cittadini si trattino l’un l’altro come persone pienamente autonome che scelgono i propri fini entro i limiti tracciati dai principi di giustizia.1 Per cui nella società “bene ordinata” (o giusta) del filosofo americano esiste un atteggiamento collettivo (antiproibizionistico) per il quale non spetta alle agenzie pubbliche il compito di stabilire un qualche genere vincolante di gerarchia tra le differenti forme di vita; le concezioni del bene, poi, vanno collocate a livello prepolitico in quanto hanno a che fare con le sfere delle scelte e delle condotte di ciascun individuo.

In tal modo Rawls intende la giustizia come una teoria politica, impegnata esclusivamente nell’individuazione di valori politici neutrali rispetto alle diverse concezioni della vita buona; poi, perché permanga nella durata la condivisione dei valori politici fondamentali, è necessario che si realizzi un consenso per intersezione, in cui “ciascuna delle dottrine comprensive, sia essa filosofica, religiosa o morale, accetta la giustizia come equità nel proprio modo; ossia, ciascuna dottrina comprensiva è portata ad accettare le ragioni pubbliche della giustizia specificate dalla giustizia come equità dal proprio punto di vista”(Rawls, 2001, p. 199). Il consenso per intersezione, però, non è un semplice compromesso frutto dell’equilibrio delle forze sociali che scelgono di condividere valori politici sulla base di un calcolo prudenziale. Il consenso per intersezione è, piuttosto, sottoscritto da cittadini che affermano dall’interno delle proprie dottrine ragionevoli l’idea fondamentale della società come equo sistema di cooperazione fra cittadini liberi e uguali in quanto persone ragionevoli e razionali. Il consenso per intersezione sancisce così la condivisione di una base pubblica per la giustificazione delle istituzioni fondamentali di una società giusta che rende vincolante e, in caso di conflitto, superiore la comune lealtà ai valori politici fondamentali rispetto alle plurali lealtà etiche private. D’altro canto per Rawls (2001) bisogna rinunciare alla speranza di una comunità perché i cittadini possono solo condividere una concezione politica, indipendente da ogni concezione comprensiva; tanto che dichiara espressamente: “conservare questa speranza […] significa opporsi all’idea di eguali libertà fondamentali per tutti i cittadini liberi e eguali”(pp. 295-296). Egli, praticamente, da una parte intuisce che (dato il pluralismo) la stabilità delle democrazie è assicurata dall’unità della cultura politica nella pluralità differenziata delle prospettive etiche particolari, ma dall’altra, nel suo liberalismo politico “i cittadini decidono da sé, individualmente, in che modo la concezione politica pubblica affermata da tutti si correli alle loro opinioni più comprensive”(Rawls, 1994, p. 49). Rawls non rende conto così del fatto che il terreno comune del consenso per intersezione non è qualcosa che è dato è può essere difeso mediante una limitazione della discussione pubblica a certi contenuti, ma è qualcosa che con lo scorrere del tempo e il mutare dei contesti può anche conoscere una riduzione, se non scomparire. In sostanza il suo liberalismo politico non offre strumenti per ricostruire l’adesione attorno a valori politici comuni.

Nella teoria di Rawls l’elemento costituzionale, inoltre, prende il sopravvento sull’elemento democratico; l’autolegislazione democratica viene cioè limitata dai diritti fondamentali liberali che tutelano l’integrità della sfera privata. Così, opponendo al processo democratico i diritti individuali, Rawls non scorge il loro nesso interno, il quale consiste nel fatto che, “per un verso, i cittadini possono esercitare adeguatamente la loro autonomia pubblica solo quando siano sufficientemente indipendenti in virtù di una autonomia privata loro paritariamente concessa; ma che, per altro verso, essi possono godere paritariamente della loro autonomia privata, solo quando facciano uso adeguato della loro autonomia politica”(Habermas, 1998, p. 221). In parole semplici ciò significa, diversamente dalle posizioni di Rawls, che devono essere i cittadini stessi a fissare reciproche demarcazioni tra le libertà soggettive e che è l’uso pubblico della ragione, istituzionalizzato nel processo democratico, ad assicurare la concessione delle libertà eguali.

3. L’eguaglianza liberale di Dworkin

Dworkin non fonda il liberalismo sul concetto di libertà intesa come licenza, come assenza di impedimenti all’arbitrio individuale; semmai l’uguaglianza liberale esige che lo Stato tratti i cittadini sotto la sua tutela come eguali, come aventi cioè diritto alla stessa considerazione e allo stesso rispetto (Dworkin, 1982). La teoria dell’eguaglianza liberale vuole che le decisioni politiche debbano necessariamente essere indipendenti da qualche particolare concezione della vita buona. Compito di una società liberale, infatti, sarebbe quello di facilitare l’eguale proseguimento dei piani di vita individuali ispirati dalle diverse concezioni del bene. Mentre lo Stato liberale rimane neutrale rispetto alle differenti concezioni della vita buona sia per evitare che le convinzioni di alcuni suoi cittadini vengano privilegiate rispetto a quelle degli altri, promuovendo vantaggi e svantaggi sociali in parallelo alle correlative posizioni etiche, sia per fare in modo che la legittimità delle istituzioni pubbliche venga riconosciuta indipendentemente da origine, cultura e convinzioni dei cittadini.

La democrazia, essendo fondata sull’uguaglianza politica, sembra far valere il diritto di ogni persona al rispetto e alla considerazione come individuo; ma nella pratica le decisioni di una maggioranza democratica possono violare tale diritto. Se una decisione collettiva dà effetto a preferenze esterne, infatti, essa viola il diritto all’indipendenza morale e per il quale “le persone hanno diritto a non subire uno svantaggio nella distribuzione di beni e opportunità sociali […] perché secondo funzionari e concittadini le loro opinioni sul modo corretto per loro di condurre le proprie vite sono ignobili o sbagliate”(Dworkin, 1990, p. 336). Per cui se una decisione politica poggiasse sulle preferenze esterne di una maggioranza riguardo a come dovrebbero vivere le minoranze, i cittadini appartenenti alle minoranze non verrebbero trattati come eguali e sarebbero costretti a subire uno svantaggio giuridicamente riconosciuto solo perché la maggioranza non approva i loro orientamenti etici. Mentre l’eguaglianza liberale non riconosce alla maggioranza il diritto di proibire una condotta di vita di un individuo perché se ne ritengono errate le convinzioni etiche. Il liberalismo chiede allo Stato di essere tollerante o, al massimo, neutrale; esso “non deve proibire o premiare alcuna attività privata perché un insieme di valori etici sostantivi, un insieme di opinioni sul modo migliore di condurre una vita, è superiore o inferiore ad altri”(Dworkin, 1996 p. 44). Il liberalismo così, impedendo alla maggioranza di applicare la propria coscienza etica attraverso il diritto, fa si che i gruppi subordinati non debbano adattarsi al modo di vita definito dalla maggioranza. Per il liberalismo “il governo non deve assolutamente imporre alcun sacrificio o vincolo a qualsiasi cittadino in forza di un argomento che il cittadino stesso non potrebbe accettare senza rinunciare al senso del suo eguale valore”(Dworkin, 1990, p. 251). Per cui il rispetto per la dignità e l’uguaglianza delle minoranze esige l’istituzione di uno schema di diritti, il cui effetto sarà di determinare quelle decisioni politiche che a priori è probabile riflettano forti preferenze esterne e di sottrarle completamente alle istituzioni politiche maggioritarie. A ben vedere per Dworkin l’istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta “la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità e uguaglianza saranno rispettate”(Dworkin, 1982, p. 292). La forma dell’ambiente etico di una comunità, in sostanza, non può essere determinata dal volere della maggioranza ma deve essere il prodotto delle scelte liberamente compiute dai singoli individui. Ciò significa che una vita è buona se si accorda alla definizione individuale di che cosa significhi vivere bene (Dworkin, 1996; 2002).

Non solo. Per Dworkin la posizione comunitarista, per la quale le pratiche e i significati comunitari sono costitutivi dell’identità dei membri, poggia su una fenomenologia morale dubbia. Se da un lato è ragionevole assumere che la cultura morale di sfondo non possa essere oggetto di esame critico nella sua totalità, dall’altro lato aspetti parziali di questo sfondo, isolatamente considerati, possono essere messi in questione di volta in volta. E poi non sembra nemmeno giustificata l’ipotesi che esistano speciali aree di significati tanto fondamentali per l’identità di tutti i cittadini da non poter mai essere esaminate con distacco critico, tenendo ferme le altre credenze condivise. Per Dworkin, di più, le comunità occidentali sono critiche, hanno rinunciato all’oggettività radicata nelle convinzioni, i loro giudizi etici e morali non sono creature della comunità ma suoi seguaci, le consuetudini e convinzioni comunitarie sono sottoposte a verifiche e revisioni svolte facendo riferimento a criteri etici e morali più elevati e indipendenti. E, per quanto Dworkin (2002) ritenga corretta la premessa fondamentale dell’argomento dell’integrazione per il quale “le comunità politiche hanno una vita collettiva, e il successo o il fallimento della vita collettiva di una comunità è parte di ciò che determina se la vita dei suoi membri è buona o cattiva” (p. 244), l’argomento complessivo distorce il carattere della vita collettiva di una comunità politica soccombendo all’antropomorfismo. Presuppone cioè che “la vita collettiva sia la vita di una persona ”in grande“: che abbia la stessa forma, che debba affrontare le stesse scelte e gli stessi dilemmi etici e morali, che sia soggetta agli stessi criteri di successo e fallimento di tutte le vite dei cittadini che concorrono a formarla” (ibidem). Per cui Dworkin restringe l’ambito della vita comune alla sola sfera dell’agire politico, intensa in senso istituzionale, e lascia aperte alla neutralità liberale tutte le altre sfere dell’agire sociale in cui si intrecciano liberi atti individuali.

Nelle sue opere, insomma, Dworkin promuove un liberalismo integrato per il quale l’integrazione politica riveste una grande importanza etica. Il successo o il fallimento della comunità rispetto ad atti politici formali influiscono sul valore critico della vita di ogni cittadino; tanto che il cittadino liberale integrato fonde moralità politica e interesse personale critico al punto da sostenere che “il valore della propria vita dipende dalla capacità della propria comunità di trattare tutti con uguale considerazione”(ibidem, p. 255). Nel liberalismo di Dworkin uguaglianza, libertà e comunità si rivelano essere aspetti complementari di un’unica visione politica, per cui nessuno di questi ideali politici può essere compreso, né tanto meno realizzato, indipendentemente dagli altri. In relazione al pluralismo, per di più, una comunità politica che adottasse una particolare concezione della vita buona non riuscirebbe a garantirsi la lealtà di quegli individui che dispongono di orizzonti di valore alternativi che si percepirebbero come ingiustamente penalizzati nell’affrontare la sfida del vivere. Ma se la giustizia è un “parametro” della vita buona, una comunità etica danneggia anche gli interessi critici dei privilegiati, che subiscono l’oltraggio di un sistema politico che non mostra eguale rispetto per tutti i cittadini perché non distribuisce equamente le libertà e le risorse necessarie per progettare i piani di vita individuali. Sostanzialmente per Dworkin non è la conservazione di una forma di vita, ma la realizzazione della giustizia, che soddisfa il nostro interesse personale critico, che dovrebbe motivare la nostra partecipazione alla comunità politica. Infatti, considerare la comunità liberale come la “nuda cornice all’interno della quale possano essere compiute scelte autonome”(Selznick, 1999, p. 55), in cui vige l’indifferentismo morale e ogni comportamento è lecito, significa non aver compreso la lezione di Dworkin e del migliore liberalismo. Nella comunità liberale le scelte non sono senza limiti, esse avvengono entro lo spazio concesso dal rispetto delle libertà altrui e godendo di risorse paritariamente concesse a tutti. Ad ogni cittadino è richiesta la partecipazione alla vita della comunità politica per tracciare i giusti confini dell’autonomia individuale. Dalle considerazioni fatte sin qui emerge che limitare la propria autonomia per consentire all’altro di godere di pari autonomia non è certo un esempio di indifferentismo morale, ma di rispetto della dignità dell’altro. Certo la cornice liberale non è buona, ma non per questo è nuda. Essa è giusta e chiede a tutti maggior attenzione per l’altro, più di quanto che ne chieda la cornice buona: far godere tutti di pari libertà e opportunità richiede molto più impegno, partecipazione e sacrificio di quanto ne richieda il perseguimento di un bene comune — del quale, in verità, ad oggi mi pare se ne siano perse le tracce.

4. La critica comunitarista al liberalismo

I teorici comunitaristi si allontanano dalla neutralità procedurale dello Stato liberale, che postula la eguale libertà degli individui nell’elaborazione dei propri piani di vita, a favore di una politica del bene comune nella quale si realizza una concezione sostantiva della vita buona. Così facendo hanno nuovamente proposto nel dibattito filosofico contemporaneo il problema della vita buona sia in nome di una concezione dell’integrità che dell’interezza dell’uomo, concepito come individuo dotato di fini, aspettative e progetti solo perché parte di una comunità che gli consente di realizzare i propri piani di vita. Per i comunitaristi, precisamente, la neutralità dello Stato, che attribuisce priorità alla giustizia quale virtù pubblica di una società liberaldemocratica, è data da una concezione astratta dell’individuo.

Per i liberali gli individui sono liberi di mettere in discussione la loro partecipazione alle pratiche sociali e di respingere ogni relazione particolare non più meritevole di essere sostenuta. Tanto che Rawls (1989) sintetizza questa posizione affermando: “l’io viene prima dei fini che persegue” (p. 455). Ovvero l’io viene prima dei ruoli assegnategli dalla società e delle sue relazioni ed è libero solo se è capace di prendere le distanze dalla propria situazione sociale, giudicandola attraverso i principi della ragione. Questa concezione dell’io, però, viene contestata da MacIntyre per il quale l’io è situato in una rete di pratiche sociali da cui non è possibile prendere le distanze e dissociarsi. Per MacIntyre, cioè, nella comunità non ci sono piani di vita individuali perché i ruoli non sono scelti autonomamente ma sono iscritti nella storia della comunità stessa, nella quale gli individui sono immersi e solo rispetto alla quale hanno un significato morale e una razionalità. Laddove, nota ancora MacIntyre (1984), per il pensiero moderno, erede del progetto illuminista,

essere un soggetto morale significa precisamente essere in grado di retrocedere da qualunque situazione in cui si sia coinvolti, […] e di giudicare da un punto di vista universale e astratto che sia totalmente distaccato da ogni particolarità sociale. […] Questo io democratizzato che non ha alcun contenuto sociale necessario e alcuna identità sociale necessaria può dunque essere qualsiasi cosa, assumere qualsiasi ruolo o punto di vista, perché in sé e per sé non è nulla" (p. 47).

In sostanza l’io emotivista è nulla perché senza il riferimento alla tradizione comunitaria è privo di qualsiasi criterio razionale con cui valutare le proprie scelte. Il liberalismo non si avvede che “la causa principale dell’obbligo morale è il nostro senso di identità e relazione”(Selznick, 1998, p. 85), che i nostri doveri si rivolgono a persone, gruppi e situazioni definite, concrete e particolari. Senza la comunità che ci fornisce le sue regole della moralità, senza la giustificazione di queste regole in termini di beni particolari goduti nella vita in comunità e senza il sostegno morale fornito dalla comunità stessa, non possiamo realizzarci come attori morali (MacIntyre, 1992). Tanto che se i diversi valori vengono astratti dai contesti sociali in cui sono stati creati, non esiste alcun metodo razionale per risolvere i conflitti tra di essi. Non rimane che la scelta soggettiva priva di alcuna giustificazione razionale.

L’Illuminismo non ha compreso che rispetto alle diverse visioni del bene promosse dalle particolari comunità storiche non si dà alcun punto di vista superiore o imparziale dal quale esse possono essere giudicate, poiché esse non sono l’oggetto da giudicare, ma piuttosto l’unico strumento grazie al quale possiamo formare dei giudizi morali fondati. Le scelte degli individui sono orientate da un quadro di riferimento, fornito proprio dalle appartenenze, e che definisce i criteri con cui gli individui giudicano la propria vita e ne misurano il grado di pienezza. Un quadro di riferimento è, praticamente, un orizzonte di significati che indica quali siano i beni e i fini meritevoli, indipendenti dalle scelte o inclinazioni personal. Anzi sono proprio i criteri con cui giudicare le scelte individuali. L’Illuminismo, però, che ha visto nei quadri di riferimento dei limiti all’autonomia individuale ha trascurato che “il fatto di vivere all’interno di questi orizzonti fortemente qualificati è essenziale all’azione umana, e che sottrarsi a questi limiti vorrebbe dire cessare di apparire persone umane integrali, cioè complete”(Taylor, 1993, p. 43). L’io moderno è stato così separato dall’identità sociale e dalla visione della vita umana come processo orientato verso il perseguimento di beni particolari comuni. Tanto che MacIntyre rimpiange il patriota che si appropria in maniera acritica del passato del proprio paese e intende la nazione come progetto; il patriota cioè che si impegna a salvaguardare l’integrità della forma di vita ricevuta in eredità dal passato (MacIntyre, 1992). Mentre oggi l’integrazione sociale è astratta, mediata dal diritto, e si realizza mediante l’inclusione di tutti gli individui nello statuto della cittadinanza. Così l’unica forma di patriottismo possibile diviene quello costituzionale di cittadini che, con il processo democratico, realizzano una comunità che assicura la coesistenza giuridicamente equiparata delle diverse subculture (Habermas, 1998).

Pure Sandel attacca con vigore l’individualismo liberale. Al soggetto del possesso di Rawls egli oppone un soggetto che non sceglie i propri fini ma li scopre, indagando sulla propria identità e arrivando a identificare impegni e affetti costitutivi che lo legano alla comunità. Sandel (1994), in pratica, propone una concezione costitutiva di comunità secondo cui:

dire che i membri di una società sono legati da un senso della comunità non significa semplicemente dire che la grande maggioranza di essi professa sentimenti comunitari o persegue obiettivi comunitari, ma piuttosto che essi concepiscono la loro identità […] come definita in una certa misura dalla comunità di cui sono parte. Per loro, la comunità indica non solo ciò che essi hanno come concittadini ma anche ciò che essi sono, […] un elemento costituente della loro identità" (pp. 165-166).

Nella comunità non c’è distanza tra estranei, ma vicinanza tra persone che non valutano, ma riconoscono gli impegni contestuali. L’io sandeliano è costituito dai fini che non sceglie ma scopre in virtù del suo inserimento in un dato contesto sociale. Così, mentre il liberalismo rifiuta un ordinamento basato su una concezione del bene perché esso non sarebbe in grado di rispettare le persone in quanto esseri capaci di scelta, le tratterebbe come oggetti anziché come soggetti autonomi, l’io sandeliano è capace di autocomprensione espansiva, scorge nella sua identità la concezione del bene comune che fonde il suo io nel noi comunitario. Al giusto, astratto e neutrale Sandel oppone una visione del bene sostanziale radicata nell’imprendiscibilità del legame comunitario grazie al quale esistiamo come soggetti. Alla scelta collettiva dei principi di giustizia Sandel preferisce la scoperta dei criteri condivisi presenti in un contesto di pratiche consolidate.

Ma la visione liberale non intende privarci dei nostri fini, delle nostre lealtà particolari, essa sostiene solo che non c’è nessun fine che non possa essere messo in discussione. La tesi liberale ci riserva la facoltà di valutare se le pratiche nelle quali ci scopriamo implicati siano o meno apprezzabili. Come nota Kymlicka (1996), infatti, “i liberali non dicono che noi dobbiamo avere la libertà di scegliere i nostri fini perché tale libertà, come fine a sé, costituisce la cosa più importante al mondo. […] La libertà di scelta non va perseguita come fine a sé, ma come precondizione in vista dei progetti che apprezziamo per il loro valore intrinseco” (p. 234). Lo stesso Sandel (1994) riconosce che il profilo dell’io, per quanto costituito dai suoi fini comunitari, rimane sempre flessibile, tale da poter essere ridisegnato, includendo nuovi fini ed escludendone altri. I contorni dell’io sandeliano, infatti, sono pure “in qualche modo aperti e soggetti a revisione” (p. 196). Dunque, ammettendo che i confini tra l’io e i fini sono fluidi e non rigidi, Sandel non può criticare il liberalismo e non può opporre la politica del bene comune all’autodeterminazione individuale. Il liberalismo, infatti, dà la possibilità agli individui che scoprono i legami comunitari e li ritengono insignificanti o addirittura degradanti di rifiutare tali legami e di costruire autonomamente nuove pratiche che si accordino ai nuovi confini dell’io. Sandel dovrebbe sostenere la tesi liberale della neutralità statale rispetto alle concorrenti concezioni della vita buona al fine di rispettare la capacità degli individui di scegliere i propri valori e le proprie relazioni autonomamente. Invece egli si ostina a sostenere una visione sostantiva secondo la quale i diritti dovrebbero proteggere solo le pratiche che la comunità politica ritiene moralmente ammissibili. Per Sandel (1992), ad esempio, la privacy omosessuale va protetta non perché gli omosessuali dovrebbero essere liberi di scegliere autonomamente la natura delle proprie relazioni intime, ma perché “molto di quanto ha valore nel matrimonio convenzionale è presente anche nelle unioni omosessuali. … La connessione tra relazioni eterosessuali e omosessuali non è data dal fatto che entrambe risultano dalla scelta individuale, bensì dal fatto che entrambe realizzano beni umani importanti” (p. 268). Così facendo, però, Sandel — sostenendo la tesi sostantiva — costringe i membri dei gruppi marginali a regolare la propria personalità e le proprie pratiche in maniera inoffensiva per i valori della comunità, egli nega loro il potere di respingere l’identità che altri hanno definito per loro. La politica fa il suo dovere quando, assicurando l’esercizio delle eguali libertà, assicura “una libera vita interna delle varie comunità di interessi per mezzo delle quali persone e gruppi cercano di raggiungere, secondo modalità di unione sociale compatibili con l’eguale libertà, i fini e l’eccellenza da cui sono attratti”(Rawls, 1989, p. 442). Il comunitarismo se inteso come teoria politica normativa rischia solo di sostenere un maggioritarismo odioso oppure di costruire un concetto di comunità omogenea che, dato il pluralismo delle società complesse, è molto più astratto del tanto disprezzato io disincarnato di Rawls. Sembra invece più plausibile guardare alla critica comunitarista come teoria sociale che constata il deficit di integrazione, appartenenza e vincolo sociale, l’incertezza dell’identità collettiva di cittadinanza nelle società contemporanee. Taylor (1994), ad esempio, teme una società frammentata, vista dai suoi membri in termini puramente strumentali: “il rischio è di trovarsi di fronte ad una popolazione sempre meno capace di darsi una finalità comune e realizzarla” (p. 131).

La preoccupazione comunitarista per la perdita di vigore della sfera pubblica è senz’altro legittima, ma la causa di tale fenomeno non va rintracciata nei diritti individuali che, tutelando l’autonoma formazione del giudizio, sono la base su cui poggia una solida libertà politica, ma nella scarsa disponibilità dialogica dei cittadini, nel loro mancato esercizio dei diritti di comunicazione e partecipazione politica per realizzare non una forma di vita comune, ma il progetto di una comunità politica in cui le libertà siano mutuamente compatibili e abbiano pari valore. La comunità democratica poi accoglie le differenze e ne scioglie le tensioni mediante il dialogo pubblico tra estranei che, però, sono disposti ad accogliere l’altrui verità. Gli individui democratici non sono sciolti da ogni impegno ma sentono solo i vincoli costruiti mediante l’agire comunicativo e la sua universalità, che include tutti gli interessi, la completa reversibilità delle prospettive dalle quali gli interlocutori producono i loro argomenti e la reciprocità dell’eguale riconoscimento delle richieste dei singoli da parte di tutti gli altri. Ciò significa che nella comunità democratica non può esserci un’etica pubblica dell’adattamento reciproco scissa dall’etica privata della creazione di sé, ma i cittadini nella sfera pubblica si impegnano a tradurre criteri e termini dai loro vocabolari per mettere a punto un vocabolario pubblico dei diritti (Rorty 2001) fondato sul principio del mutuo rispetto, che assegna agli individui spazi equi entro cui ridescriversi senza umiliare gli altri.

5. La giustizia relativista di Walzer

Il filosofo americano Walzer contesta alle teorie della giustizia l’adozione di un punto di vista esterno rispetto alla società di cui, razionalmente, occorre giustificare istituzioni e pratiche sociali. I principi di giustizia sociale non possono cioè valere indipendentemente da contesti dati, ma devono essere rispondenti alla varietà dei beni sociali che caratterizza una qualsiasi comunità politica. Così, piuttosto che suggerire astratti principi universalistici, il filosofo politico per Walzer dovrebbe essere un osservatore partecipante entro forme di vita collettive, cercando di interpretare gli orientamenti localmente condivisi. Solo così all’osservatore è evidente che una società non distribuisce semplicemente beni, ma beni sociali. Laddove per bene sociale si intende un bene il cui significato è condiviso dai membri di una particolare comunità che acquistano un’identità concreta per la loro partecipazione ai processi sociali di concepimento e creazione dei beni. Il significato dei beni sociali, poi, ne determina la distribuzione, nel senso che ogni bene va distribuito in maniera rispondente e coerente con il suo significato stabilmente condiviso. Anche se, data la pluralità dei beni, è necessaria una pluralità di criteri corrispondenti ai differenti beni sociali. Ciò significa che “ogni bene sociale, o insieme di beni sociali, costituisce per così dire, una sfera distributiva nella quale sono appropriati certi criteri e assetti”(Walzer, 1987, p. 21). Dacché una società è giusta se in ciascuna sfera viene rispettato il criterio distributivo pertinente e l’eguaglianza si realizza non quando uno stesso pacchetto globale di risorse è distribuito in mano a tutti gli individui (uguaglianza semplice), ma quando vengono rispettate i confini tra le sfere di giustizia e viene evitata la conversione di beni che appartengono a differenti arene sociali. Praticamente l’uguaglianza complessa traccia quei confini evitando l’uso improprio delle risorse sociali; ad esempio essa vieta la conversione del potere economico o del carisma religioso in potere politico o viceversa.

L’insistenza di Walzer sulla separazione fra le sfere sociali (e di giustizia) lo avvicina al liberalismo, anche se egli se ne allontana per il suo relativismo: l’uguaglianza complessa presuppone una mappa stabile di pratiche sociali di costruzione e condivisione dei significati. Ogni comunità, infatti, costruendo i suoi significati e distinguendo le diverse sfere dell’agire sociale, costruisce la propria uguaglianza complessa. Non solo. Per Walzer la giustizia è strettamente connessa alla cultura e nelle forme politiche si esprimono le tradizioni culturali di una comunità storica. In quest’ottica, però, Walzer propone un’immagine edulcorata della cultura comunitaria che è sinonimo di accordo, di condivisione: nella sua comunità, in breve, si realizza un consenso unanime, non c’è conflitto distributivo, è assente la critica sociale interna. Egli trascura che i significati sociali possono essere imposti più che condivisi, cosicché criteri di giustificazione dipendenti dalle pratiche sociali concrete finiscono solo per essere retorica dell’esistente o criteri di legittimazione di pratiche che i gruppi dominanti impongono ai gruppi subordinati. Come nota Dworkin (1990), infatti, la teoria di Walzer che lega la giustizia alle convenzioni “ignora il ‘significato sociale’ di una tradizione sociale molto più fondamentale delle tradizioni distinte che pure ci chiede di rispettare” (p. 267). La riflessione critica, che fa parte della coscienza morale moderna, impone di pensare criticamente e astrattamente per cercare criteri di giustizia che possano ricomporre il dissenso sugli orientamenti da condividere quando crollano le immagini del mondo condivise. Pure Waldron (1992) sostiene che “dal momento che la nostra tradizione comunitaria è differenziata e volatile, poiché incarna in sé il porre in discussione e la controversia, i valori comunitari non vengono traditi dal prendere sul serio la riflessione critica” (p. 324). Il liberalismo, insomma, non astrae dal mondo sociale, anzi proprio perché lo osserva con attenzione riesce a constatare che le nostre sono comunità del conflitto, caratterizzate dall’assenza di una dimensione etica comune su cui fondare la convivenza politica e pertanto avverte la necessità di cercare principi che possano godere del consenso delle oramai molteplici concezioni della vita buona.

Nel corso degli anni, comunque, Walzer (1998) rivede le proprie posizioni e prende atto del fatto che la comunità politica non si fonda su un’identità culturale ma è piuttosto una comunità di comunicazione, che ha bisogno di un ricco tessuto associativo e in cui “il linguaggio dei diritti individuali è semplicemente inevitabile” (p. 55). Non la condivisione di valori implicita nelle forme di vita comuni, dunque, ma la comunicazione rivolta all’intesa, che concretizza i diritti “principi insaturi”(Habermas, 1996), assicura l’integrazione sociale. La fondazione discorsiva del Diritto richiede ai cittadini di condurre nella sfera pubblica una riflessione critica liberale che vada alla ricerca di principi universali, tali che possano regolare imparzialmente le condizioni di vita collettiva.

6. L’approccio basato sulle capacità di Nussbaum

Un interessante approccio filosofico, che va alla ricerca di principi universali fondamentali che dovrebbero essere rispettati da tutte le comunità politiche per garantire il rispetto della dignità umana al di là delle differenze culturali, è quello basato sulle capacità sviluppato da Nussbaum. L’intuizione di fondo è che alcune facoltà umane impongono l’esigenza morale di essere sviluppate, per quanto gli esseri umani non dispongono automaticamente delle opportunità di realizzare le funzioni umane. Essi hanno bisogno di un adeguato sostegno materiale per essere pienamente in grado di assolvere queste funzioni; così la filosofa americana, adottando una concezione politica di ascendenza aristotelico-marxiana della persona, intende l’individuo come “essere dotato tanto di capacità quanto di bisogni”(Nussbaum, 2002, p. 120). Ciò significa che l’essere umano è caratterizzato tanto dalla capacità razionale di compiere scelte autonome quanto da una condizione naturale e sociale di bisogno; insomma, oltre ad essere dotato del possesso della ragione, esso è innanzitutto animale con bisogni. E proprio sulla dignità del bisogno umano si fonda il diritto al sostegno necessario per convertire i bisogni in funzioni. Il limite del liberalismo di ascendenza kantiana è quello di trascurare le condizioni di bisognosità e dipendenza che caratterizzano alcune fasi di ogni vita umana e che, per i meno fortunati, sono presenti in tutto l’arco dell’esistenza. Nussbaum delinea così un liberalismo più sensibile al bisogno, che mira a mettere tutti gli individui nelle condizioni di ricevere il sostegno materiale di cui necessitano per esercitare le funzioni essenziali per la vita umana e assolvere queste ultime in un modo specificamente umano, pervaso dal ragionamento pratico e dalla socievolezza. Idea centrale del suo liberalismo, infatti, è quella dell’essere umano “concepito come un essere dignitosamente libero che sceglie la sua vita in cooperazione o mutua collaborazione con gli altri, piuttosto che essere passivamente scelto e comandato da altri come si comandano animali in greggi e mandrie”(Nussbaum, 2001, p. 92). Non solo. Le capacità necessarie ad un autentico funzionamento umano vanno perseguite per ciascuna persona individualmente, in quanto l’approccio, riflettendo il riconoscimento empirico della separatezza dei corpi, tratta “ogni persona come fine, come fonte di iniziative, valida in se stessa, con progetti propri e con una vita propria da vivere, degna di tutto il sostegno necessario per ottenere pari opportunità e agire a sua volta”(Ibidem, p. 78). Quest’approccio, sostanzialmente, persegue una società in cui ognuno è degno di rispetto, in cui ognuno è messo nelle condizioni di vivere in modo veramente umano.

L’approccio si avvale dell’idea della soglia di livello per ogni società, livello al di sotto del quale si ritiene che un vero funzionamento umano non sia possibile all’individuo. Il principio di ogni persona come fine viene riformulato secondo il principio delle capacità individuali, il quale esige che ogni società assicuri a ciascuno un livello di soglia di beni vitali fondamentali, considerando la vita di ogni singolo individuo degna di sostegno materiale e di fondamentali libertà. A tal fine Nussbaum redige una lista di capacità che fornisce la struttura portante dei principi politici fondamentali che possono essere incorporati nelle garanzie costituzionali fondamentali. Isola, inoltre, quelle capacità di importanza centrale per ogni vita autenticamente umana, qualunque cosa un individuo persegua o scelga. La lista dei beni principali funge così da piattaforma su cui possono convergere le diverse concezioni della vita buona realizzando un consenso per intersezione. I beni fondamentali sono: vita; salute fisica; integrità fisica; sensi, immaginazione, pensiero; sentimenti; ragion pratica; appartenenza; altre specie; gioco; controllo del proprio ambiente. Un elenco caratterizzato da realizzabilità multipla, cioè le sue voci possono essere specificate con maggiore concretezza secondo le circostanze locali. Esso è quindi concepito per lasciare spazio ad un ragionevole pluralismo di specificazioni. E, sebbene la lista presenta componenti separate o indipendenti, tutte importanti e tutte di qualità diversa, non è possibile soddisfare il bisogno di una di esse concedendo una maggiore quantità di un’altra. Nussbaum distingue, infatti, tra tre diversi tipi di capacità. Le capacità fondamentali, ovvero la dotazione innata degli individui che rappresenta la base necessaria allo sviluppo di capacità più avanzate. Le capacità interne, vale a dire stadi di sviluppo della persona che sono condizioni sufficienti per l’esercizio delle funzioni. E poi le capacità combinate, che possono definirsi come capacità interne combinate con condizioni esterne in grado di permettere l’esercizio delle funzioni richieste. In particolare Nussbaum considera le capacità della sua lista come combinate per sottolineare la duplice importanza delle circostanze materiali e sociali sia nella formazione delle capacità interne sia nella loro espressione una volta formate. Non solo. Meta politica appropriata deve essere la capacità e non il funzionamento, cioè l’esercizio pratico della capacità.

L’approccio delle capacità mira solo ad offrire opportunità di funzionamento, poi saranno i singoli individui, in base alle diverse concezioni del bene, a scegliere quali capacità tradurre in funzionamenti. A ben vedere la lista si presenta come una concezione parziale del bene che lascia liberi gli individui di trascurare altri funzionamenti non presenti nella lista stessa fintantoché essi non ostacolano gli altri individui che desiderano perseguire tutti i funzionamenti fondamentali. Vi sono certo delle obiezioni all’approccio delle capacità della Nussbaum, in particolare quella sollevata dall’argomento derivato dal bene della diversità, che difende la varietà dei diversi linguaggi sui valori e non vuole che essi si estinguano per far posto ad un singolo sistema di valori. Eppure i sostenitori della differenza culturale in sé trascurano che spesso le pratiche culturali danneggiano le persone che, invece, hanno bisogno di valori universali per valutare se le pratiche culturali vadano conservate perché rispettose della dignità umana oppure se vadano criticate in quanto oppressive. L’approccio basato sulle capacità, infatti, fornisce “un’insieme di valori capaci di darci un’acquisizione critica delle particolarità culturali”(Nussbaum, 2001, p. 70), che non elimina la diversità, ma preserva solo le diversità compatibili con la dignità umana. D’altra parte proprio l’argomento che difende la differenza culturale richiede una impostazione universale della valutazione critica perché essa invita a chiedersi se i valori culturali vanno conservati, e tale interrogativo necessita di un’impostazione universale e generalizzata della valutazione critica, senza la quale è impossibile stabilire se una pratica sia degna oppure no di essere conservata. A parere della Nussbaum un approccio universalista è necessario pure per contestare la validità di molti sistemi di valori altamente paternalistici che minacciano e rendono difficile l’espressione di forme legittime di pluralismo.

L’approccio delle capacità non si accontenta della concessione di libertà formali, ma chiede un’efficace garanzia delle libertà mediante distribuzione della ricchezza, accesso all’impiego, alla sanità e all’educazione. Concentrando la propria attenzione sull’abitazione e sulle opportunità, lasciando alle persone piena libertà di perseguire i propri piani di vita una volta che queste opportunità siano loro assicurate, l’approccio basato sulle capacità, lungi dall’essere paternalista, mira a garantire ad ogni individuo le risorse materiali e istituzionali necessarie ad una conduzione autonoma della propria vita. In realtà l’approccio è paternalistico solo nei confronti di colore che, perseguendo il proprio bene, interferiscono con il legittimo diritto altrui alla libertà di scelta su questioni fondamentali della vita. In definitiva l’approccio delle capacità si distingue dagli approcci basati sulla distribuzione delle risorse fondamentali che trascurano la notevole differenziazione degli individui nei loro bisogni di risorse e nella loro concreta possibilità di convertire le risorse disponibili in effettive condizioni di vita. Infatti tra gli individui esistono notevoli differenze di efficienza fisica e di natura sociale, collegate con gerarchie consolidate; dacché gli individui che partono da una posizione di svantaggio hanno bisogno di attenzioni e aiuti speciali perché possano raggiungere un livello fondamentale di capacità che i cittadini avvantaggiati riescono a raggiungere più facilmente. Come sostiene Nussbaum (2001), gli approcci basati sulle risorse non rispettano sufficientemente “la lotta di ogni singolo individuo per la crescita e affermazione. Trattare A e B come ugualmente benestanti perché dispongono della stessa quantità di risorse significa trascurare, in modo cruciale, la vita separata e distinta di A, come se le circostanze della vita di A fossero intercambiabili con quelle di B, cosa che potrebbe anche non verificarsi. Per rendere giustizia alle lotte di A dobbiamo vederle nel loro contesto sociale, consapevoli degli ostacoli che il contesto offre alla lotta per la libertà, l’opportunità e il benessere materiale” (p. 89). Non bisogna badare solo alle risorse, insomma, ma anche al modo in cui esse, nella concretezza dei contesti particolari, entrano in azione e permettono agli individui di agire in modo pienamente autonomo. Anche gli approcci basati sulle preferenze mostrano disattenzione al contesto materiale e sociale; nel senso che essi valutano le risorse in base alla loro capacità di soddisfare le preferenze correnti. Ma le preferenze non sono indipendenti rispetto alle condizioni economico-sociali, anzi ne sono plasmate e spesso riflettono tradizioni sociali di privilegio e subordinazione. Per Nussbaum (2002) un approccio basato sulle preferenze “finisce solitamente per rafforzare le disuguaglianze, soprattutto quelle che sono radicate quanto basta per insinuarsi negli stessi desideri affettivi delle persone” (p. 71). Ciò significa che l’approccio alle preferenze presta insufficiente attenzione al carattere adattivo delle preferenze, alla trasformazione delle privazioni in realtà psicologica che riduce la percezione individuale alla propria uguale dignità che dà diritto a libertà, opportunità e benessere materiale.

Nella sua riflessione, definendo i diritti come capacità, Nussbaum intende sottolineare quanto peso abbia la messa in atto di politiche sociali per ampliare l’ambito della libertà positiva; tanto che la complementarietà tra diritti e capacità suggerisce di usare il linguaggio dei diritti mettendo in evidenza la connessione concettuale tra promozione dei diritti e promozione delle capacità di ogni singolo cittadino. Le capacità contrastano con un concetto negativo di libertà come assenza di impedimenti formali, in quanto implicano la possibilità che un essere umano fiorisca e conduca una vita piena, libera da bisogno e oppressione, attiva e realizzata nei propri obiettivi. Adottando una concezione positiva di libertà come libertà sostanziale di fare qualcosa ed essere qualcuno, l’approccio basato sulle capacità richiede l’intervento pubblico per eliminare gli ostacoli che impediscono lo sviluppo delle capacità individuali e offrire a ciascun essere umano risorse e opportunità per funzionare efficacemente come cittadino e come attore sociale. In tal senso mi sembrano davvero interessanti le considerazioni della Nussbaum sul rapporto tra Stato e famiglia, riallacciate a quelle di Rawls (2001) che vede nella famiglia un’istituzione che fa parte della struttura di base della società e pertanto va regolata secondo i principi di giustizia. Nussbaum concorda con Rawls riguardo ai limiti che il rispetto dei diritti pone all’autonomia regolativi della famiglia, tanto che per la filosofa lo Stato non deve tutelare la famiglia come unità organica ma considerarla come un’associazione che sviluppa le capacità emotive ed affettive individuali dei suoi componenti. Qualora i membri della famiglia limitassero lo sviluppo delle capacità emotive o delle altre capacità fondamentali degli altri membri, lo Stato ha l’interesse vincolante, fornito dalla protezione delle capacità, ad intervenire; non solo, le politiche pubbliche devono promuovere una serie di servizi capaci di allargare il raggio delle libertà per ciascun membro della famiglia. Eppure, mentre Rawls guarda alla famiglia come entità prepolitica su cui le leggi agiscono come elementi di coercizione esterna, la Nussbaum vede le leggi come contributi costitutivi dell’istituto familiare. Ciò significa che lo Stato non deve attribuire privilegi alla forma tradizionale di famiglia, ma chiedersi quali capacità la famiglia tradizionale serva e poi estendere i privilegi alle altre relazioni che promuovono le stesse capacità: l’approccio basato sulle capacità si concentra sulle capacità di ogni individuo senza presumere che qualche gruppo associato particolare abbia la precedenza nel promuovere tali capacità. Del resto recenti indagini sulle famiglie formate da omosessuali (M. Bottino e D. Danna, 2005) hanno evidenziato che limitare il riconoscimento sociale come ambito di cura e affetto alla sola famiglia tradizionale soffoca altre relazioni produttive di benessere, sia interne che esterne a queste relazioni. Uno Stato che protegge solo i gruppi tradizionali, invero, depaupera gli individui di quelle capacità emotive ed affettive promosse da forme non tradizionali di appartenenza e solidarietà. Per la Nussbaum lo Stato non deve proteggere la tradizione, ma le capacità individuali che fioriscono in una molteplicità di comunità affettive (come le famiglie omosessuali ad esempio), le quali pertanto meritano il giusto riconoscimento pubblico.

7. La libertà fragile

Recentemente Panebianco (2004) ha messo a nudo l’incapacità del pensiero liberale classico e contemporaneo (da Locke a Rawls) di comprendere la “vera” natura della politica, affermando che in tutte le sue versioni, il liberalismo propone “una visione impolitica, o apolitica, della società liberale” (p. 8), in cui la politica si risolve, praticamente, in regola. Il liberalismo dimentica che la politica non è solo convivenza, ma anche conflitto tra identità collettive, dove conquista ed esercizio del potere pubblico sono la posta in gioco; la politica per Panebianco non è solo ordine e stabilizzazione dei rapporti sociali, ma anche lotta per il potere. La politica è lotta per il controllo dello Stato che suscita la formazione di identità collettive, fra loro in competizione, che al potere politico chiedono protezione dall’insicurezza, tutela e valorizzazione degli interessi del gruppo di appartenenza. Del resto i conflitti di identità e le lotte di potere destabilizzano incessantemente l’ordine creato dalla politica che assicura la prevedibilità delle relazioni sociali da cui dipende una stabile cooperazione sociale. Ad esempio il mercato è stato sempre considerato una potente diga a difesa della libertà, ma i teorici dello Stato minimo, rileva Panebianco (2004), ignorano che il mercato ha avuto un’origine spontanea ma poi ha sempre necessitato, e ancora necessita, di essere sostenuto e garantito dalla politica, poiché senza le regole poste in essere da essa il mercato non funziona. Praticamente senza meccanismi politici che pongano in essere condizioni legali di protezione dei diritti individuali, non esiste la possibilità di sviluppare il mercato: non c’è contrapposizione tra mercato e politica ma interpenetrazione. A ben vedere quello tra liberalismo economico e democrazia è uno scontro tra interessi sociali opposti: da una parte l’impresa che chiede libertà di innovare, dall’altra il mondo del lavoro che non accetta di essere mero costo da ridurre e chiede diritti a difesa della propria libertà positiva. Dacché Panebianco invita i liberisti a seguire l’esempio della destra neo-conservatrice che ha imparato ad investire le sue imponenti risorse economiche nel controllo delle risorse simboliche necessarie per vincere la competizione fra identità collettive e quindi conquistare lo Stato e farlo astenere dall’essere intrusivo nei confronti del mercato. La proposta di Panebianco è di disperdere il potere sociale nei rapporti di scambio, piuttosto che concentrarlo nelle mani dello Stato, così che la possibilità di entry e di exit limiti e freni il potere sociale che l’impresa esercita sul lavoratore.

Però Panebianco dimentica che uguali competenze giuridiche concedono libertà d’azione il cui uso differenziale non promuove l’uguaglianza fattuale delle situazioni di vita e delle posizioni di potere. Riaffiora nelle riflessioni di Panebianco, in un certo senso, la classica cecità del liberalismo nei confronti del contratto di lavoro che viene dipinto come scambio volontario, dimenticando che tale scambio è motivato da condizioni esistenziali involontarie. Come osserva Rodotà (1990), infatti, “la connessione tra proprietà e libertà […] finisce con il presentarsi oggi non tanto come un punto di forza, ma come il vero punto critico del liberalismo. Se la libertà è funzione dei beni in proprietà, il problema chiave, ineludibile, rimane quello distributivo” (p. 16), resta centrale la questione della distribuzione della ricchezza e della proprietà come presupposto dell’eguaglianza delle opportunità e delle libertà. L’apologia del mercato di Panebianco è miope perché non tiene conto che, a causa della diseguale distribuzione di redditi e ricchezze, alla libertà di alcuni si accompagna quasi necessariamente la mancanza di libertà di altri. Come nota Prospero (2004b), infatti, “senza le piccole libertà solidali o positive che proteggono dal mercato, la società aperta per chi lavora si rivela un vero inferno” (p. 24). Con la nascita dello Stato sociale non ci troviamo di fronte a restrizioni normative del principio di libertà giuridica, ma al tentativo di eliminare le asimmetrie di potere economico, generate dal mercato, che sono incompatibili con l’eguale ripartizione di libertà soggettive richiesta da questo principio. Non solo. Per quanto il potere dello Stato venga dipinto come il potere sociale più pericoloso, in quanto dotato di strumenti di coercizione fisica, Panebianco trascura che, a differenza degli altri poteri sociali, il potere politico si fonda sul consenso e viene addomesticato mediante l’esercizio delle libertà politica.

Panebianco, preferendo al cittadino il privato, crede sia necessario il ritorno dei meccanismi di autoregolamentazione degli interessi privati che hanno il pregio di cancellare quelle “anomalie” che sono state le democrazia e la crescita della spesa pubblica, le quali a loro volta hanno limitato l’innovazione per garantire diritti di cittadinanza democratica. Tanto che Panebianco (2004) affida il mantenimento del legame sociale all’individualismo molecolare, diverso dall’individualismo atomistico delle teorie contrattualistiche, e per il quale “gli individui sono necessariamente immersi in reti di legami (familiari, amicali, associativi, ecc.) da cui ricavano socializzazione, identità, interessi” (p. 12). Paradossale è, però, sostenere la logica proprietaria, che porta inevitabilmente con sé effetti di separazione tra gli individui, di complessiva atomizzazione della società, e poi immergere l’individuo in legami che proprio il dinamismo del mercato dissolve. I bisogni della famiglia entrano particolarmente in contrasto con quelli del neoliberalismo, dal momento che essa esige un reddito stabile, difficilmente garantito dalla precarietà dei mercati del lavoro neoliberalisti, e il sostegno dello Stato con i suoi servizi di assistenza sanitaria e istruzione che costano e necessitano di copertura fiscale.

Ad ogni modo bisogna riconoscere a Panebianco il merito di svelare progressivamente la fragilità del tentativo liberale di imbrigliare la politica; del resto il fallimento liberale insegna che la garanzia delle uguali libertà risiede nell’eticità democratica e nella cultura politica liberale dei consociati giuridici. La legge, infatti, garantisce le uguali libertà se si fonda sull’uguale concorso dei cittadini alla sua costruzione e sulla loro motivazione a non far prevalere i propri interessi e valori, ma a creare spazi uguali per l’autonomo e pieno sviluppo della persona. Come osservava Habermas (1996), infatti, la dispersione dei centri di potere sociale, culturale, economico deve essere accompagnata dalle motivazioni dei cittadini a fare uso delle loro libertà comunicative “non soltanto come libertà individuali per interessi particolari, bensì come libertà comunicative in senso proprio, finalizzate a ”uso pubblico della ragione“” (p. 545). E il liberalismo, prestando attenzione soprattutto alla molteplicità dei centri di potere, ha spesso dimenticato o trascurato che è la qualità dell’interazione comunicativa fra di essi a ridurre il particolarismo e a far emergere l’interesse generale. Dacché la società libera può essere tutelata solo dallo spirito della democrazia che, osserva Cerroni (2002), “alimenta la responsabilità civica, il rispetto dei propri confini e dei diritti altrui, il dovere dell’empatia sociale” (p. 69). Ciò significa che una democrazia in salute, mediante il circuito pubblico del libero confronto, accelera la trasformazione della coscienza privata in coscienza pubblica e stimola la crescita di un’etica civile, della responsabilità individuale e di quella collettiva. In sintesi credo che se il pensiero liberale oggi vuole proteggere le uguali libertà degli individui non deve difendere l’autonomia dell’individuo contro lo Stato, ma contro l’impresa che si fa Stato ed invade con il denaro la sfera pubblica (Dworkin, 1996b). L’effettiva garanzia dei diritti posti a tutela dell’eguale libertà, insomma, ha bisogno di un processo democratico da tono deliberativo ed egualitario nell’accesso e l’uguale partecipazione dei cittadini ad una sfera pubblica in cui si confrontano ragioni è certamente l’argine più solido a difesa della libertà. Purtroppo la minaccia neoconservatrice recente, il cui slogan è mercato aperto e società chiusa (Veca, 2002), che tenta di renderci diseguali nella distribuzione delle risorse materiali e ridurre la sfera delle scelte bioetiche e affettive, rischia di travolgere i deboli argini a tutela della libertà di una democrazia del denaro rimasta senza cittadini.

8. Riferimenti bibliografici

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  • Zakaria, F. (2003) Democrazia senza libertà, Rizzoli, Milano.

  1. Rawls (1989) si oppone anche alla teoria teleologica del perfezionismo in quanto, mancando un criterio di perfezione condiviso, l’eguale libertà non può cedere il passo all’obiettivo sociale di massimizzare la perfezione; sicché “la perfezione umana va perseguita all’interno dei limiti del principio di libera associazione” (p. 275). O, più semplicemente, l’eccellenza va perseguita all’interno dell’associazionismo privato e non per mezzo dell’azione statale. ↩︎